Buongiorno, oggi è il 13 gennaio.
Il 13 gennaio 1943 ha inizio la drammatica ritirata degli Alpini in Russia.
Il 9 luglio 1942 venne ufficialmente attivata l'8ª Armata italiana in Russia (ARMIR), affidata al comando del generale Italo Gariboldi. Previsto fin dal gennaio 1942, il potenziamento del CSIR (il corpo di spedizione già presente sul fronte orientale), pur avversato da molti generali del Comando Supremo, corrispondeva alle esigenze di prestigio di Mussolini ed anche alle richieste precise di Hitler che, dopo il fallimento dell'operazione Barbarossa, aveva richiesto un accresciuto impegno dei contingenti degli alleati del Terzo Reich. Le forze italiane, equipaggiate ed armate con le dotazioni migliori a disposizione del Regio Esercito, tuttavia non vennero impegnate accanto alle formazioni mobili tedesche nella grande avanzata dell'estate 1942 verso il Volga e il Caucaso ma dovettero schierarsi sul fiume Don a protezione difensiva del fianco sinistro del Gruppo d'armate.
A partire dal 31 luglio la 3ª Divisione Celere "Principe Amedeo Duca d'Aosta" entrò in combattimento per respingere una pericolosa penetrazione sovietica a Serafimovič, e nei giorni seguenti tutta l'8ª Armata, compreso il corpo d'armata alpino di cui era stato inizialmente previsto l'impiego nel Caucaso, si schierò lungo il Don tra Pavlovsk e la confluenza del Khoper. Dal 20 agosto al 1º settembre l'ARMIR dovette combattere la cosiddetta Prima battaglia difensiva del Don che mise in evidenza la vulnerabilità delle posizioni italiane di fronte agli attacchi nemici; inoltre sorsero i primi dissidi tra i comandi italiani e tedeschi sulle capacità di combattimento dell'8ª Armata. Nonostante l'entrata in linea della 3ª Armata rumena sul fianco destro dell'ARMIR, il fronte italiano rimase molto esteso e venne quindi rafforzato, su ordine diretto di Hitler, con una serie di reparti tedeschi.
L'andamento disastroso per l'Asse dell'operazione Urano che provocò il crollo del fronte rumeno e l'accerchiamento della 6ª Armata tedesca a Stalingrado, ebbe conseguenze negative anche per l'8ª Armata che perse gran parte dei reparti di rinforzo tedeschi (trasferiti più a sud) e quindi divenne ancor più esposta alle possibili offensive sovietiche. Schierata su 230 km di linea lungo il Don, con modeste riserve mobili a disposizione, l'8ª Armata italiana venne attaccata dall'Armata Rossa a partire dall'11 dicembre 1942 nel quadro della operazione Piccolo Saturno, la seconda fase dell'offensiva generale sovietica nel settore meridionale del fronte orientale.
Quando ingenti forze sovietiche attaccarono le nove divisioni dell'ARMIR schierate lungo il Don e rinforzate da qualche reparto tedesco, l'intero fronte meridionale era già in crisi da parecchi giorni. La « 6a Armata » tedesca era stata accerchiata a Stalingrado e si avviava al suo tragico destino. La « 4' Armata » tedesca stava ripiegando in disordine verso Rostov. Le truppe che nella estate s'erano spinte verso il Caucaso si ritiravano rapidamente verso Kersc per cercare una via di scampo in Crimea. Infine, quel che più conta, agli effetti di quanto accadde alle nostre truppe, la « 3a Armata » romena che si trovava sul fianco destro dell'ARMIR, era stata scompaginata da una violenta offensiva ed aveva praticamente cessato di essere una unità combattente. La situazione dell'ARMIR, quindi, era già prima dell'attacco tutt'altro che rosea. Quanto era accaduto sul suo fianco destro, ove erano schierate la « Sforzesca », la « Celere » e la « Torino », lo minacciava di avvolgimento da est, mentre sarebbe bastata una penetrazione nel settore tenuto dalla « Ravenna » e dalla « Cosseria » perché una grande tenaglia chiudesse le divisioni che abbiamo nominato e la «Pasubio » (che con la «298° » divisione germanica costituiva il «2° Corpo d'Armata») in una morsa senza scampo. Data la situazione strategica e la conformazione del terreno, era proprio la mossa naturale, per i sovietici: suggerita loro prima che dalla fantasia operativa, dalla realtà stessa delle cose. E la manovra a tenaglia venne puntualmente non appena i russi, che si erano accuratamente preparati all'offensiva, disposero di quella superiorità schiacciante di effettivi e di mezzi ritenuta indispensabile per ottenere risolutivi e durevoli risultati. Il primo colpo fu portato al «2° Corpo d'Armata», il più debole, il più esposto, quello che risentiva maggiormente della mancanza di riserve e che presidiava, purtroppo, il settore più importante del fronte. Fu una settimana di lotta asperrima sostenuta bravamente dalle nostre divisioni « Ravenna » e « Cometa », le quali sacrificarono gran parte dei loro effettivi per contrastare il passo al nemico e per mantenere, secondo gli ordini ricevuti, le posizioni lungo il corso del fiume. Ma alla fine la superiorità, che era veramente schiacciante (79 battaglioni contro 19), ebbe ragione del disperato valore delle nostre truppe. « Cosseria » e « Ravenna », semidistrutte, dovettero iniziare il ripiegamento, fra il dilagare dei carri armati nemici. Quasi nello stesso momento crollava anche l'ala destra del fronte, ove la « Sforzasca », rimasta senza collegamento con i romeni, doveva sfuggire all'accerchiamento con una rapida ritirata. Il fronte italiano si metteva in movimento. Ma non era ancora una rotta. I reparti mantenevano la loro efficienza bellica, i loro organici, la loro combattività. Ripiegavano combattendo duramente, infliggendo sensibili perdite al nemico, spesso contrattaccando. Solo più tardi, quando lo sfinimento per le interminabili marce, il gelo, le bufere di neve, gli attacchi sui fianchi delle unità carriste nemiche, le incursioni dei partigiani fiaccarono i nostri soldati, venne il disordine, lo scoramento, l'ansia di portarsi in salvo. Bisogna dire peraltro che tutto questo fu conseguenza degli errori di valutazione del comando germanico, dal quale l'ARMIR dipendeva, che invece di affidare le sorti dell'armata ad una difesa manovrata aveva deciso la resistenza ad oltranza sulle posizioni di partenza. Così le nostre truppe s'erano esaurite senza speranza sul Don ed avevano incominciato a ripiegare, in base ad ordini tardivi e spesso contradditori, quando era troppo tardi. Quando cioè nelle retrovie c'era già il nemico a creare sacche, a lanciare attacchi sui fianchi, a tormentare e distruggere. La ritirata fu quindi un dramma inenarrabile che costò migliaia di morti e la distruzione di tutta l'armata la quale, se riuscì a portare in salvò circa il cinquanta per cento degli effettivi, perse lungo la via del ripiegamento quasi tutto il suo materiale pesante, migliaia di autocarri, di quadrupedi, di cannoni e pressoché, al completo i propri magazzini. L'errore di ordinare la resistenza ad oltranza fu purtroppo ripetuto anche nei confronti del Corpo d'Armata Alpino che, al contrario del « 2° », del « 35° e del « 29° », aveva retto agli attacchi sferrati dai sovietici fra il 10 e il 18 dicembre ed era rimasto sulla linea del Don, in collegamento a nord con l'Armata ungherese e a sud con alcune unità germaniche che erano corse a tamponare la falla aperta dalla distruzione della divisione « Cosseria ». Queste magnifiche truppe da montagna, erano ancora sulle proprie posizioni alla metà di gennaio, quando tutto il fronte era un caos di reparti in ritirata. Solo quando gli ungheresi, vedendo la malasorte, cominciarono a ritirarsi su linee arretrate e quando da sud videro irrompere sulle loro retrovie i carri armati sovietici, gli alpini iniziarono il ripiegamento. Ma era, anche qui, troppo tardi. La manovra di sganciamento che ancora qualche giorno prima sarebbe stata possibile senza eccessive perdite, divenne una tragedia collettiva, resa ancor più fatale dalle continue bufere di neve che imperversavano nella steppa. Della « Julia », della « Cuneense », della « Tridentin » e della divisione di fanteria « Vicenza» che a effettivi ridotti era giunta in linea a dare manforte agli alpini, dopo un mese di ripiegamento rimanevano poche migliaia di uomini esausti. Tutti gli altri erano caduti combattendo per ritirarsi un varco o, rimasti senza munizioni e senza viveri, avevano dovuto arrendersi ai sovietici. Questo, è, in sintesi, il dramma della nostra « 8' Armata », vittima di errori non suoi e una inferiorità numerica e di armamento che s'era andata aggravando sempre di più con la crisi alleata e per l'aumentare delle forze sovietiche. Quella della ritirata di Russia non è dunque una pagina ingloriosa. Nell'ora sfortunata rifulsero infatti, ancora una volta, le virtù eroiche della nostra stirpe. Cento e cento episodi dimostrano che anche nelle situazioni più avverse il nostro soldato sa tenere fede al giuramento e sacrificarsi e morire per l'onore della bandiera. Interi reparti, come il. Raggruppamento CONN « gennaio » si fecero annientare piuttosto che cedere la posizione. Altri, come il « 5° » e il « 8° reggimento alpini, rimasti senza munizioni, andarono all'attacco alla baionetta. E tutti, comandanti e gregari, furono pari al compito. Dal generale Reverberi, che a Nikolajewska, dall'alto al carro armato guidò i suoi alpini contro il cerchio nemico, al bersagliere Berardino Leoni che, rimasto senza proiettili per la propria mitragliatrice, si gettò sul nemico a colpi di pietra, fino a quando una raffica non lo stroncò nel gesto sublime.
Rotto il fronte del Don fra il 10 e 17 dicembre 1942, le, truppe dello ARMIR dovettero, come abbiamo visto, aprirsi le vie della ritirata in mezzo al dilagare delle formazioni corazzate nemiche mobilissime e onnipresenti, che ormai avevano il controllo di tutte le retrovie. Le nostre unità, che già prima della battaglia scarseggiavano di mezzi motorizzati e di artiglierie avevano perso anche quel poco che possedevano nella prima fase della ritirata. A questo si aggiunse la scarsità di carburante e l'atteggiamento non sempre cameratesco degli alleati tedeschi, i quali spesso sottraevano ai nostri autocarri, viveri e rifornimenti, ignorando sempre i bisogni delle truppe italiane che pure avevano duramente combattuto per proteggere il loro ripiegamento. Ma più di tutto quel che contribuì a trasformare in un penoso dramma la marcia delle nostre unità superstiti fu il gelido inverno russo. A temperature proibitive, su strade quasi sempre impraticabili e più spesso ancora in mezzo alla campagna, per sfuggire alla caccia dei carri armati sovietici, i nostri soldati, con un equipaggiamento inadeguato, dovettero compiere marce di trenta, quaranta chilometri al giorno, sostando la notte nelle case dei contadini, in rifugi improvvisati o, più spesso all'addiaccio.
La ritirata italiana continuò per giorni e giorni dal Don al Donetz, in una atmosfera di tragedia. Man mano i reparti s'andavano assottigliando, mietuti dallo sfinimento, dai congelamenti, dagli attacchi dei carri armati, dagli agguati dei partigiani. La confusione aumentava. In molti casi non esistevano più reparti organici; non esistevano più comandi, non esistevano nemmeno più divisioni di nazionalità. Alpini marciavano frammisti a soldati ungheresi, bersaglieri spalla a spalla con « panzer grenadieren » tedeschi. E tutti erano ridotti alla situazione del fante, tranne i pochi fortunati che disponevano di una slitta, di un cavallo, di un autocarro con una scorta di benzina. Tuttavia la ritirata non fu ingloriosa. Pur nel caotico disordine di quei tragici giorni, il valore italiano rifulse in mille e mille episodi, individuali e collettivi. Così ad esempio, ad Arbusow, in quello che fu definito il vallone della morte, ove dopo due giorni di tenace resistenza, martellati senza posa dalle artigliere nemiche, alcune migliaia di italiani infransero alla fine il ferreo cerchio nemico seguendo un semplice carabiniere della « Torino » che, come un eroe antico, era montato su un cavallo e, agitando una bandiera tricolore, s'era avventato verso il nemico. Così a Millerowo, così a Cercovo, ove caddero quasi diecimila uomini della divisione « Torino ».
Uno dei momenti più tragici della ritirata dal Don fu la marcia su Nikitowka delle divisioni alpine. Quei magnifici reparti dovettero aprirsi la via combattendo quasi di continuo contro grosse formazioni sovietiche appoggiate da numerosi carri armati e contro insidiosi nuclei di partigiani. Però solo la « Tridentina » ebbe fortuna e riuscì a raggiungere la nuova linea, portandosi dietro quasi quarantamila ungheresi e tedeschi che ad essa s'erano aggregati. Le altre divisioni, uno dopo l'altra, furono accerchiate , dopo durissimi combattimenti, e pressoché annientate. Dopo il combattimento prima ancora di iniziare le terribili, spesso mortali marce verso i campi di prigionia, le brutalità delle truppe sovietiche si accanì contro uomini inermi. Un solo esempio vale per i numerosi casi identici. Il 21 gennaio 1943, circa 400 alpini, tutti feriti, del «9° Rgt. », Divisione «Julia », furono passati per le armi nel « Kolkoz Stanno », un gruppo di fattorie nelle quali i nostri eroici soldati avevano opposto una leggendaria resistenza ai sovietici. I superstiti, salvo rarissime eccezioni, finirono nei famigerati campi di concentramento sovietici. Le battaglie più sanguinose furono combattute a Nikolajewska, fortemente tenuta dai russi, ove il « 5° » e il « 6° » reggimento alpini si aprirono un varco con le sole bombe a mano e con incessanti assalti alla baionetta, poiché le munizioni erano finite.
Le perdite delle divisioni italiane durante la ritirata furono durissime e raggiunsero in qualche caso il sessanta per cento degli effettivi. Ancora più gravi le perdite materiali, poiché quasi tutto il materiale e l'armamento pesante dovette essere abbandonato. Tuttavia, per le condizioni in cui fu compiuta e soprattutto per l'errore tedesco di aver ordinato il ripiegamento quando già le nostre truppe erano accerchiate, è già un miracolo che l'ARMIR non sia stato completamente annientato da un nemico tanto superiore. Il miracolo è dovuto in gran parte all'eroismo di alcuni reparti che si sacrificarono quasi al completo per rendere possibile il salvataggio dell'Armata e al valore, alla tenacia, allo spirito combattivo di tutte le unità che in situazioni pressoché disperate, non si persero mai d'animo e lottarono contro il nemico anche quando sarebbe stato follia sperare salvezza.
L'odissea dell'ARMIR finì ai primi di febbraio quando i superstiti della ritirata raggiunsero le nuove linee costituite dai tedeschi davanti a Charkov e di qui, riordinati e rifocillati, furono avviati, con diecine e diecine di tradotte, verso la Patria. Ma migliaia e migliaia di bravi soldati, centinaia di ufficiali, diecine di ufficiali superiori e quattro generali erano caduti in mano al nemico. Per loro l'odissea continuò feroce, più spietata, più amara della guerra. Sono morti certamente per gli stenti, per le malattie, per le inenarrabili brutalità dei carcerieri sovietici, nei campi di concentramento o addirittura prima dì arrivarvi. Per gli altri rimane il tragico dubbio che siano ancora, pochi o molti, in qualche angolo della Russia o della Siberia. Ma neanche ai morti è stata data pace, in terra sovietica. Dei cimiteri di guerra amorevolmente, pietosamente composti dai cappellani militari non esiste più nulla. Già nei primi giorni dopo la riconquista, come hanno raccontato testimoni oculari, i carri armati con la stella rossa sono passati sulle tombe a stroncare le croci e le lapidi del ricordo.
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