Buongiorno, oggi è il 7 luglio.
Il 7 luglio 1881 comincia la pubblicazione a puntate, sul "Giornale per i bambini", della versione definitiva di Pinocchio, scritto da Carlo Lorenzini, in arte Carlo Collodi.
Successivamente, le Avventure di Pinocchio venne pubblicato in forma completa e definitiva nel 1893, con le illustrazioni di Enrico Mazzanti. Il lungo lavoro di composizione copre anni cruciali per l’Italia, che da poco aveva conquistato l’indipendenza e sentiva fortissimo il problema di creare dal nulla un’identità nazionale, con un sistema ideologico comune. Non a caso, in questo stesso periodo (1886) vide la luce un romanzo destinato a diventare il «manuale del perfetto cittadino» ad uso dei fanciulli: stiamo ovviamente parlando di Cuore, di Edmondo De Amicis. Anche il libro di Collodi può a buon diritto essere inserito in questo filone «nazional-pedagogico»: non bisogna però dimenticare che in Pinocchio confluì un ben più vasto patrimonio di esperienze e culture, dalla tradizione orale al teatro popolare, dalla fiaba al romanzo picaresco.
La storia è arcinota, segno inoppugnabile di una duratura popolarità, che ha fatto di quest’opera un classico della letteratura, e non solo per l’infanzia. Nelle vivaci peripezie del celebre burattino è possibile riconoscere il ripetersi di uno schema fisso, che richiama uno dei movimenti tipici del romanzo di formazione: messo alla prova, vuoi dal Gatto e la Volpe, vuoi dall’amico tentatore Lucignolo, Pinocchio cede, trasgredisce le regole e di conseguenza subisce una degradazione, il cui punto più basso sarà la trasformazione in asino, di apuleiana memoria; segue quindi il pentimento e la riabilitazione fisica e morale del personaggio, fino all’esito finale, che vede il burattino di legno trasformarsi definitivamente in un ragazzo in carne ed ossa. È un modello di racconto elementare, facile da mandare a memoria e ripetibile come una filastrocca, tanto semplice e lineare da permettere di spostare i diversi blocchi narrativi all’interno della favola senza che l’economia generale ne venga disturbata più di tanto, senza stravolgere o perdere il senso: l’importante, il "succo" della storia lo si afferra comunque, ed è che per diventare veri uomini, per abbandonare il nimbo dell’infanzia dove l’individuo è come un burattino in balìa degli eventi, occorre comportarsi bene, ossia rispettare le norme della morale comune. Osserva Paul Hazard: «Se si dovessero riassumere i precetti del libro, ecco ciò che si avrebbe: vi è una giustizia immanente che ricompensa il bene e punisce il male; e poiché il bene è vantaggioso, bisogna preferirlo». Una sorta di opportunismo morale, insomma, che ben rispecchia la temperie politica e sociale dell’Italia post-unitaria, preoccupata di fondare uno statuto etico e ideologico buono per tutti i cittadini, quei neo-italiani che ancora non avevano un’idea di patria o di società in cui potersi riconoscere.
Ma Pinocchio è uno di quei casi in cui la vitalità dell’opera supera di gran lunga il progetto narrativo che la sottende: nessuno ricorda il simpatico pupazzo di legno come «latore di valori morali» o come simbolo del bene che trionfa sul male. In realtà, se questa favola continua ad essere letta in tutto il mondo, dopo centotrenta anni, è per la simpatia senza riserve suscitata dal suo protagonista, così vicino, nelle sue debolezze e incoerenze, ai lettori piccoli e grandi: diciamo la verità, la trasformazione in ragazzino vero lascia un po’ l’amaro in bocca... Ci immaginiamo il suo futuro di figlio e scolaro modello, così grigio e monotono se paragonato alle mirabolanti peripezie della sua precedente vita burattinesca. Un cambiamento che diventa l’emblema malinconico del passaggio dalla magica libertà infantile ai doveri e alle responsabilità della vita adulta: il principio di realtà che prevale sul principio di piacere, potremmo dire con Freud.
L'accoglienza riservata all'opera non fu immediatamente cordiale: l'allora imperante perbenismo, rappresentato dalla moderata critica letteraria allora avvezza a testi più borghesi, ne sconsigliò, addirittura, la lettura ai ragazzi "di buona famiglia" (per i quali, taluno soggiunse, poteva trattarsi di una perniciosa potenziale fonte d'ispirazione).
Su tutt'altro versante, le istituzioni rabbrividirono nel vedere, per la prima volta, dei carabinieri coinvolti in un'opera di fantasia, e reagirono ricercando eventuali motivazioni per il sequestro del libro, scoprendo però che non ve ne era alcuna.
Come evidente, il libro incontrò invece un successo popolare di difficile paragone.
Il calcolo delle copie vendute di Pinocchio in Italia e nel resto del mondo è praticamente impossibile, anche perché i diritti d'autore sono scaduti nel 1940, e quindi a partire da quella data chiunque ha potuto riprodurre liberamente l'opera di Collodi. Una ricerca degli anni settanta condotta da Luigi Santucci annoverava 220 traduzioni in altrettante lingue. Ciò significa che, all'epoca, si trattava del libro più tradotto e venduto della storia della letteratura italiana. Una stima più recente fornita dalla Fondazione Nazionale Carlo Collodi alla fine degli anni novanta, e basata su fonti UNESCO, parla di oltre 240 traduzioni.
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