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venerdì 4 maggio 2012

Sono i desideri su vasta scala a fare la storia #Don De Lillo #Underworld #citazione #adolescenza #stadio #Cotter Martin #coraggio #assalto #ragazzo di #strada #baseball #Giants #Dodgers #New York




Parla la tua lingua, l’americano, e c’è una luce nel suo sguardo che è una mezza speranza.
E’ un giorno di scuola, naturalmente, ma lui non c’è proprio, in classe. Preferisce star qui, invece, all’ombra di questa specie di vecchia carcassa arrugginita, e non si può dargli torto – questa metropoli di acciaio, cemento e vernice scrostata, di erba tosata ed enormi pacchetti di Chesterfield di sghimbescio sui tabelloni segnapunti, con un paio di sigarette che sbucano da ciascuno.
Sono i desideri su vasta scala a fare la storia. Lui è solo un ragazzo con una passione precisa, ma fa parte di una folla che si sta radunando, anonime migliaia scese da autobus e treni, gente che in strette colonne attraversa marciando il ponte girevole sul fiume, e sebbene non siano una migrazione o una rivoluzione, un vasto scossone dell’anima, si portano dietro il calore pulsante della grande città e i loro piccoli sogni e delusioni, quell’invisibile nonsoché che incombe sul giorno – uomini in cappello di feltro e marinai in franchigia, il ruzzolio distratto dei loro pensieri, mentre vanno alla partita.
Il cielo è basso e grigio, il grigio torbido della risacca.

E’ sul bordo del marciapiede insieme agli altri. A quattordici anni è il più giovane, e si capisce che è in bolletta sparata dall’ansiosa inclinazione del suo corpo, come se fosse sulle spine. Non l’ha mai fatta prima questa cosa, e non conosce nessuno degli altri, che a loro volta hanno l’aria di non conoscersi, ma questo non è il tipo di impresa in cui possono lanciarsi da soli o a due a due, così si sono trovati a furia di occhiate furtive per individuare il compagno spericolato, ed eccoli qui, ragazzi bianchi e ragazzi neri, sbucati dalla metropolitana o dalle vicine strade di Harlem, ombre smilze, bandidos, quindici in tutto, e secondo la leggenda corrente, per uno che verrà beccato forse quattro ce la faranno.
Aspettano nervosamente che le persone in attesa del biglietto passino oltre i tornelli, l’ultimo drappello di tifosi, di tiratardi e bighelloni. Guardano i taxi che stanno arrivando all’ultimo minuto da downtown e gli uomini imbrillantinati che si incamminano svelti verso i botteghini, finanzieri, nottambuli d’alto bordo e celebrità di Broadway, pieni di arie, togliendosi i boccoli dalle maniche di mohair. Loro stanno sul bordo del marciapiede e osservano senza dare nell’occhio, assumendo vagamente l’aria scocciata del perdigiorno. Tutta l’agitazione si è placata, il chiacchiericcio e il trambusto prepartita, gl ambulanti che si lavorano i marciapiedi intasati di gente sventolando ruolini segnapunti e bandierine che cercano di smerciare distintivi e berretti, tutti scomparsi ormai, tornati alle loro stanze d’affitto nelle strade desolate.

I ragazzi sono sul bordo del marciapiede, in attesa. I loro occhi si stanno incupendo, emanano meno luce. Qualcuno si toglie le mani di tasca. Sono in attesa, poi scattano, uno di loro scatta, un irlandese, al grido di Geronimo.
Ci sono quattro tornelli appena oltre i botteghini. Il ragazzo più giovane è anche il più smilzo, si chiama Cotter Martin, smilzo e allampanato, in maglietta e tuta, e cerca di non sentirsi condannato in partenza – si è piazzato in coda all’assalto, e corre e grida insieme agli altri. Gridano perché così si sentono coraggiosi, o perché vogliono annunciare la loro temerarietà. I volti dei ragazzi sono maschere urlanti, occhi stretti e bocche di gomma, mentre corrono alla disperata, cercando di infilarsi nelle corsie tra i botteghini, urtando fianchi e gomiti senza smettere di urlare, le facce dei cassieri sembrano cipolle appese a un filo.
Cotter vede i primi saltatori scavalcare le sbarre. Due di loro si scontrano a mezz’aria e atterrano in un groviglio scomposto. L’uomo che controlla i biglietti ne blocca uno con una presa di testa, e in quella il berretto gli scivola sulla schiena e allora cerca di afferrarlo con un colpo ala cieca e allo stesso tempo tiene d’occhio gli altri corridori a ostacoli per evitare di essere calpestato. Stanno ancora correndo e saltando, ed è una forma di volo dissennata, la loro, quei corpi ammassati, mentre sfondare i cancelli diventa una realtà. Saltano troppo presto o troppo tardi e vanno a sbattere contro i pali e le sbarre radiali, si arrampicano l’uno sulla schiena dell’altro come in un cartone animato, e che razza di imbecilli devono sembrare alla fila di gente davanti al baracchino degli hot dog al di là dei tornelli, che razza di svitati – una fila quasi tutta di uomini che si sono girati a guardare, con le mascelle al lavoro sulla carne sugosa e le bolle di grasso che turbinano sulla lingua, e il venditore in fondo che rimane come pietrificato a eccezione di una mano che si produce in un movimento automatico, continuando a spennellare la senape con una spatola.
L’urlo dei ragazzi multicolori rimbalza sonoro sul cemento spesso.


A Cotter pare di intravedere un passaggio vicino al tornello sulla destra. Si spoglia di tutto quello che non gli serve per spiccare il salto. Alcuni stanno ancora scavalcando, altri ci stanno pensando su, alcuni hanno bisogno di un buon taglio di capelli, altri hanno la ragazza con il golfino d’angora, e il resto è atterrato tra la folla e sta cercando di rialzarsi e disperdersi. Un paio di guardie dello stadio sta correndo rumorosamente giù per la rampa. Cotter si disfa di questi elementi man mano che gli si presentano, si disfa di mille ondate d’informazione che lo stanno colpendo a fior di pelle. Ha lo sguardo fisso sule sbarre di ferro che si irradiano dal palo. Acquista velocità e sembra perdere la sua goffaggine da spilungone, la sbracata svogliatezza da ormoni ed estraneità e tutte le incertezze che contrassegnano la sua adolescenza. E’ solo un ragazzo che corre, una figura indistinta di ragazzo di strada, ma come la corsa svela alcune chiavi dell’esistenza, come il corridore si spoglia alla coscienza, così’ il ragazzo dalla pelle scura sembra aprirsi al mondo, così la scarica di adrenalina di una dozzina di falcate lo rende eloquente.
Poi alza i piedi ed è in aria, e si sente elegante, impeccabile, efficiente persino, come un uomo d’affari in volo da Kansas City con una ventiquattrore piena di assegni circolari. Ha la testa incassata, la gamba sinistra sta scavalcando le sbarre. E in un attimo interminabile, distaccato, discontinuo, vede esattamente dove atterrerà e da che parte scapperà, e sebbene sappia che lì avrà alle costole nel preciso istante in cui toccherà terra, e che a partire da quel momento sarà in pericolo per parecchie ore – costretto a guardarsi continuamente le spalle – adesso ha meno paura.
Atterra lieve supera con passo sciolto il controllore che sta cercando a tastoni il berretto caduto a terra, e capisce senza ombra di dubbio – lo capisce fino in fondo, fin nei recessi della coscienza, la sente nel suo cuore di corridore, la martellante certezza – di essere imprendibile.
Ecco che arriva un poliziotto in tenuta municipale con tanto di pistola, manette, torcia e manganello che gli ballonzolano alla cintura e il blocchetto delle multe pigiato in tasca. Cotter gli fa uno sgambetto che per poco non lo mette in ginocchio e mangiatori di hot dog si piegano in due per guardare il ragazzo che sterza e si allontana accelerando con scioltezza, salutando lo sbirro con un’alzata di dito.
Ogni tanto gli capita di sorprendersi così, a fare gesti azzardati che saltano fuori allegramente da un capriccio insospettato.

Corre su per una rampa buia e sbuca in un intrico di travi e di piloni, sotto una cascata di luce. Sente il crescendo degli ultimi accordi dell’inno nazionale e vede grande il grande ferro di cavallo delle tribune e quella distesa d’erba che gli dà sempre la sensazione di essere uscito dalla propria vita – lo splendore strigliato che ondeggia e si inchina dalla zona di terra rastrellata del diamante fino alle alte recinzioni verdi. E’ emozionante come una rivelazione. Corre rallentando la velocità e allunga il collo per controllare le file di posti e trovare un angolino poco in vista dove incunearsi, magari dietro un pilone. Imbocca una corsia nella sezione 35 e si cala nel caldo olezzante della massa di tifosi, si immerge nel fumo che ristagna sotto la pensilina della seconda gradinata, sente il chiacchiericcio, entra nel fitto del brusio, sente i lanci di riscaldamento schioccare nel guantone del ricevitore, una serie di scoppi che si portano dietro uno strascico di rumori di fondo.
Poi si perde tra la folla.

(Don De Lillo, Underworld, traduzione di Delfina Vezzoli,  Torino, Einaudi, 2000, pp. 5-8)

(“La vicenda inizia il 3 ottobre 1951, quando un ragazzino di colore riesce ad entrare di soppiatto nello stadio (il Polo Grounds di New York) in cui si sta giocando la storica partita di baseball tra i New York Giants (oggi San Francisco Giants) e i Brooklyn Dodgers (gli attuali Los Angeles Dodgers). Nel nono inning della partita, il famoso battitore Bobby Thomson effettua un memorabile fuoricampo, dando la vittoria ai Giants (5-4 il punteggio), che conquistano così il campionato. Nella realtà non si sa che fine abbia fatto la pallina colpita da Thomson, ma nel romanzo il ragazzino riesce a impadronirsi di questo cimelio, che gli verrà però sottratto dal padre, il quale venderà la palla per 32 dollari e 45 cents. La palla da baseball inizia così a passare di mano in mano, e viene usata come un filo rosso per la costruzione di un gigantesco affresco dell'America dall'inizio della Guerra Fredda fino agli anni novanta”,
da http://it.wikipedia.org/wiki/Underworld_(romanzo) )



(Un'ottima recensione di Underworld in:
http://ecosidimenticammolerose.blogspot.it/2010/12/si-sa-dunque-che-e-nato-nel-36-che-e-di.html)




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