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mercoledì 31 luglio 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 31 luglio.
Il 31 luglio 1917 ha inizio la battaglia di Passchendaele.
La mattina del 31 luglio 1917, alle 3:50, nove divisioni britanniche balzarono fuori dalle trincee e investirono le alture di Plickem: era iniziata la battaglia di Passchendaele. Lo scontro - più che una battaglia vera e propria - può essere considerato una campagna militare che si frantumò in una serie di operazioni apparentemente indipendenti tra loro. Malgrado la battaglia porti il nome del villaggio di Passchendaele, esso occupava solamente un crinale ad est di Ypres. L’obbiettivo finale dell’operazione era invece il controllo dei crinali orientali e meridionali di Ypres, che nei piani britannici avrebbe condotto alla conquista delle Fiandre.
Alle origini di Passchendaele vi sono una serie di variabili di natura politica, sociale e militare che andarono poi ad influire sugli esiti finali della battaglia. La prima di queste variabili può essere riscontrata nella visione tattico-strategica di Douglas Haig, il comandante in capo delle forze britanniche. Egli da un lato era persuaso che lo scontro che avrebbe deciso le sorti della Grande guerra si sarebbe svolto sul fronte occidentale – nelle Fiandre – dall’altro lato, riteneva che ciò sarebbe avvenuto solo attraverso l’impiego di nuovi mezzi e strategie innovative, mantenendo alta la pressione sul nemico e in stretta collaborazione con le forze francesi.
La buona riuscita dei piani strategici elaborati da Haig fu minata fin da subito dalla profonda crisi attraversata dall’esercito francese dopo la fallimentare e sanguinosa offensiva di Nivelle. Il 27 maggio 1917 quelli che erano cominciati come fenomeni di diserzione si tramutarono in un vero e proprio ammutinamento generale. Le autorità francesi intervennero facendo affluire unità fedeli e bloccando la rivolta sul nascere. Il generale Petain fu nominato comandante dell’esercito, adoperandosi per individuare e punire i colpevoli degli ammutinamenti e al contempo promettendo e attuando miglioramenti nella qualità della vita dei soldati. Petain era altresì conscio di come gli ammutinamenti avessero colpito il 43% delle 113 divisioni di fanteria dell'esercito francese. Il fatto che la crisi morale colpisse principalmente la fanteria (l’arma più sacrificata che aveva subito enormi perdite dall'inizio della guerra) e che i soldati si rifiutassero di tornare all’attacco ma non di difendere le trincee e il suolo nazionale, convinsero Petain a non impiegare più le unità francesi in grandi operazioni per un periodo medio-lungo, mantenendosi sulla difensiva. Il compito di logorare i tedeschi sul campo di battaglia passava perciò agli inglesi, compito che Haig decise di assumersi fino alle estreme conseguenze.
Nonostante il mancato supporto francese Haig, in collaborazione con Reginald Bacon, ammiraglio della Royal Navy, elaborò un piano che prevedeva lo sbarco ad Ostenda di 9000 Royal Marines – supportati da tre divisioni di fanteria – che avrebbero dovuto annientare il fianco destro tedesco nelle Fiandre. L’occupazione delle Fiandre, oltre ad essere considerata come il trampolino di lancio per lo sfondamento delle linee tedesche, era di vitale importanza per il controllo dei porti belgi dai quali (secondo gli inglesi) partivano gli U-Boot tedeschi per le loro micidiali incursioni contro il traffico mercantile alleato.
A seguito del coinvolgimento del colonnello Aymler Hunter-Weston – un veterano di Gallipoli – i piani di sbarco divennero più ambiziosi, con la costruzioni di enormi pontoni galleggianti in grado di trasportare tre divisioni, carri armati e artiglieria. Zona dello sbarco: Middelkerke, nei pressi di Niuwpoort. Per garantire il successo delle operazioni occorreva però occupare i crinali a sud e ad est di Ypres e le linee ferroviarie controllate dai tedeschi. La prima di queste operazioni preparatorie fu la battaglia di Messines, la cui altura era considerata di vitale importanza per congiungere le aree di sbarco di Middelkerke con il fulcro dell’attacco su Ypres. Il comando delle operazioni fu affidato al generale Erbert Plumer. Molto popolare e rigoroso pianificatore, Plumer era un ufficiale estremamente attento a risparmiare la vita dei propri uomini, prediligendo un approccio più cauto volto a indebolire l’avversario cingendolo in una sorta di assedio. La battaglia di Messines si svolse nel giugno 1917, tuttavia la sua panificazione era iniziata già nel 1916, con l’arrivo dei Royal Engineers Tunnelling Companies, i quali scavarono una fitta rete di gallerie e camere di scoppio sotto il crinale di Messines, stipandovi quasi 500 tonnellate di Ammonal – un esplosivo ad alto potenziale – suddiviso in 24 cariche. Le mine furono fatte brillare la mattina del 7 giugno alle 3:10 del mattino - dopo un bombardamento di due settimane da parte dell’artiglieria inglese - creando 19 enormi crateri. La mina di Spanbroekmolen, caricata con oltre 41 tonnellate di esplosivo, creò un cratere di 120 metri di diametro. L’esplosione fu udita fin nei sobborghi di Londra.
A Messines morirono circa 10.000 tedeschi, a cui vanno aggiunti circa 15.000 feriti, dispersi e prigionieri. Cospicuo anche il bottino di armi e materiali tra i quali 65 cannoni, 94 mortai da trincea e circa 300 mitragliatrici. A rendere ancora più devastante l'effetto, giunse il fuoco di oltre 2000 cannoni inglesi che devastarono ulteriormente le posizioni tedesche. Già il 10 giugno i tedeschi si ritirarono dalle posizioni ormai indifendibili, attestandosi 4 chilometri più a est. Quella di Messines può essere considerata come l’azione di maggior successo dell’esercito britannico sul fronte occidentale. Attentamente pianificata e eseguita con cura, l’operazione fu celebrata come una schiacciante vittoria inglese, convincendo molti alti ufficiali britannici della possibilità di ottenere ulteriori successi su larga scala contro le forze tedesche, dimenticandosi come, tuttavia, la battaglia di Messines si prefiggesse obiettivi tattici limitati e non mirasse alla sfondamento strategico del fronte. Un ottimismo che si rivelò fatale due mesi dopo nella più ampia e ambiziosa battaglia di Passchendaele.
In seguito al vittorioso combattimento di Messines, Douglas Haig nominò come comandante della V armata (che avrebbe sopportato il peso dell’imminente offensiva) il generale Hubert Gough, sostituendo Plumer, che tanto bene aveva saputo gestire lo scontro. Ebbe così inizio la seconda fase preparatoria, che in seguito avrebbe generato quell’inferno di fango che caratterizzò la battaglia di Passchendaele. Il 22 luglio, 2300 cannoni di medio e grosso calibro iniziarono un bombardamento delle posizioni tedesche che si sarebbe protratto fino al 31 luglio. Tuttavia, tale massiccio bombardamento non fece altro che sconvolgere il terreno, distruggendo l’antico sistema di drenaggio delle acque che in questa parte delle Fiandre garantiva da secoli il consolidamento dei terreni ed evitava l’impaludamento del territorio. Questo, unito alle forti piogge, trasformò in breve il campo di battaglia in un enorme acquitrino che rallentava i progressi delle truppe. Subito dopo la fine dei bombardamenti, alle 3:50, la fanteria inglese balzò fuori dalle trincee e iniziò ad avanzare su un fronte di 25 chilometri, cogliendo qualche successo iniziale e raggiungendo la linea del fiume Steenbeck. Ciononostante, tutti gli attacchi alla strada di Menin, obbiettivo principale della battaglia, furono respinti dai tedeschi che inflissero agli inglesi dure perdite.
Nei due mesi trascorsi dall’attacco di Messines i tedeschi avevano avuto il tempo di rafforzare le proprie difese in vista della probabile offensiva. Non trincee lineari, bensì bunker e casematte isolate, costruiti in cemento armato e ben forniti di mitragliatrici. Contro tale sistema - che ben si adattava al terreno acquitrinoso e permetteva ai tedeschi di difendere ampie porzioni di terreno con relativamente pochi uomini - si dissanguarono le truppe britanniche. Da parte inglese l’impiego massiccio di artiglieria e carri si rivelò inutile: i Tanks affondavano nel fango mentre l’effetto delle granate era ridotto e attutito dal fango. Tuttavia, era l’ostinata resistenza tedesca a limitare i progressi britannici: nella sola battaglia di Quota 70 – ingaggiata per liberare Lens – le truppe canadesi persero quasi 10.000 uomini tra morti, feriti e dispersi. Nella battaglia di Langemarck, tra il 16 e il 18 agosto, le 8 divisioni britanniche impiegate subirono oltre 36.000 perdite. Entrambi gli scontri fallirono nel conseguire i propri obbiettivi. Nella pur vittoriosa battaglia di Pilckem le truppe inglesi pagarono il successo con quasi 32.000 morti e feriti.
Nonostante il grande spiegamento di mezzi e il consumo elevato di munizioni, per oltre un mese gli attacchi settoriali concepiti da Gough su un fronte molto ampio erano stati un fallimento, conseguendo solo successi limitati al costo di perdite elevatissime. Il tempo infame, il terreno impraticabile e lo sfinimento dei soldati spinsero Haig ad un cambio di strategia: il 20 settembre il compito di conquistare l’importante strada di Menin fu affidato a Plumer, il vincitore di Messines, prendendo di fatto il comando delle operazioni. Il peso dell’offensiva fu trasferito dalla martoriata V armata di Gough alla II di Plumer. La tattica utilizzata era però diversa: attacchi di minore entità contro obbiettivi ben precisi - definiti “bite and hold” (letteralmente “mordi e mantieni”) - rimanendo sempre entro il raggio d’azione delle artiglierie britanniche. Tale impiego dell’artiglieria - chiamato “Sbarramento mobile” (Creeping Barrage) - consisteva nel far avanzare i fanti sotto la copertura dei cannoni. Le truppe, una volta conquistato il loro obiettivo, attendevano che l'artiglieria si muovesse in avanti per dare supporto ad ulteriori avanzate e stroncare i micidiali contrattacchi tedeschi. Aiutati da un intenso bombardamento, il 26 settembre, inglesi e australiani riuscirono infine a prendere la strada di Menin con perdite relativamente contenute. Il 3 ottobre occuparono anche il Bosco del Poligono, contro il quale, precedentemente, erano falliti numerosi attacchi.
In generale, questi piccoli “morsi” ideati da Plumer fruttarono cospicue avanzate e ben 10.000 prigionieri. I tedeschi nei loro rapporti registrarono episodi di collasso psicologico in molte loro unità a causa dell’intensità dei combattimenti e delle dure perdite. Ludendorff temeva il crollo del fronte delle Fiandre. In quei giorni egli annotò: «Giornata di aspri combattimenti in cui tutto è sembrato congiurare contro di noi. Forse riusciremo a contrastare la perdita di terreno, ma la nostra capacità di combattere ha subito un altro duro colpo». Tuttavia, nemmeno un brillante generale come Plumer poteva mutare una situazione già compromessa. L’alto comando britannico, convinto ancora di poter effettuare gli sbarchi e imbaldanzito dai risultati positivi conseguiti nella seconda fase, decise di insistere nell’offensiva. Il 28 settembre Haig annotò sul suo diario: «Il nemico vacilla». Tra il 9 e il 26 ottobre furono lanciate tre ondate di attacchi britannici che andarono incontro ad un insuccesso. Il fronte ripiombò nell’inerzia. I tedeschi pur subendo un tremendo attrito di perdite – per la prima volta superiori a quelle britanniche – abbandonarono la difesa rigida e tornarono ad una più elastica. Fu impiegata nuovamente anche l’iprite per respingere gli ostinati attacchi delle truppe britanniche.
In un panorama reso lunare dai bombardamenti, la battaglia si avviava al suo epilogo. Il terreno impraticabile – sul quale la morte giungeva non solo dalle armi ma anche dai crateri colmi di fango nei quali venivano letteralmente risucchiati i soldati – e il progressivo esaurimento delle truppe posero fine alla battaglia. È indicativa la frase pronunciata da un anonimo ufficiale del quartier generale britannico in visita sullo scenario infernale del campo di battaglia di Passchendaele: «Buon Dio, davvero abbiamo mandato degli uomini a combattere qui?». Frase che denota la distanza non solo psicologica ma anche fisica degli alti ufficiali - fautori dell’offensiva ad oltranza - dai propri sottoposti. Il 4 novembre i fanti canadesi conquistarono infine Passchendaele, concludendo la battaglia. Negli ultimi cinque giorni di scontri gli inglesi persero 130 ufficiali, oltre 2000 soldati mentre i feriti furono 8000. Le perdite tedesche furono ancora maggiori. Ad oggi le statistiche riguardanti il “costo umano” di Passchendaele sono dibattute. Le stime più equilibrate parlano di oltre 260.000 morti feriti, dispersi e prigionieri per parte, per un totale compreso tra le 500/600.000 perdite complessive. Tuttavia, statistiche più alte che tengono conto dei numerosi avvicendamenti dei reparti al fronte, dei decessi in ospedale e dei feriti lievi fanno salire il conteggio a oltre 400.000 perdite per contendente.
Per concludere, caso piuttosto raro, entrambe le parti in campo considerarono fin da subito Passchendaele come un fallimento e una pagina nera delle rispettive storie militari. La battaglia fu un indubbio successo tattico inglese, tuttavia, sul piano strategico si risolse in un nulla di fatto molto simile ad una débâcle, soprattutto in ragione delle grandi speranze risposte dagli inglesi nell’offensiva. Esse furono infatti esaudite solo in minima parte e non diedero seguito ad alcun sfondamento in profondità, riconfermando il carattere di logoramento della guerra sul fronte occidentale. Anche l’intento secondario di assorbire le riserve tedesche per dare respiro ai francesi si rivelò altrettanto fallimentare, in quanto Passchendaele finì per logorare e consumare principalmente le truppe britanniche, per di più su un tratto di fronte che i comandi tedeschi non consideravano importante. Infine gli inglesi non colsero lo stato di grave logoramento e crisi in cui andò a trovarsi l’esercito del Kaiser dopo la battaglia. Lo stato maggiore tedesco – malgrado le sue truppe avessero arginato l’attacco – affermò che «La Germania era prossima alla distruzione certa dopo la battaglia delle Fiandre nel 1917» e non più in grado di sostenere un assalto di quelle dimensioni ad occidente.
In ogni caso, l’inattività delle truppe francesi, la rotta italiana a Caporetto e il crollo dell’esercito russo avrebbero dato ai tedeschi l’opportunità di riorganizzarsi e preparare la Kaiserschlacht per la primavera del 1918, che secondo i piani avrebbe condotto l’esercito tedesco alla vittoria prima dell’arrivo delle truppe americane.

martedì 30 luglio 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 30 luglio.
Il 30 luglio 1419 ebbe luogo la prima "defenestrazione di Praga".
La prima defenestrazione di Praga, avvenuta il 30 luglio 1419, consistette nell’uccisione di sette membri dell’ostile consiglio cittadino da parte di una folla di radicali cechi hussiti. La prolungata guerra hussita scoppiò subito dopo, e durò fino al 1436.
Jan Hus (Husinec, 1371 circa – Costanza, 6 luglio 1415) è stato un teologo e un riformatore religioso boemo, nonché rettore all’Università Carolina di Praga. Promosse un movimento religioso basato sulle idee di John Wycliffe e i suoi seguaci divennero noti come Hussiti. Scomunicato nel 1411 dalla Chiesa cattolica e condannato dal Concilio di Costanza, fu bruciato sul rogo.
Jan Želivský, un prete hussita della chiesa della Vergine della neve, organizzò una processione dei propri fedeli lungo le strade di Praga sino al palazzo del municipio della Città Nuova (Novoměstská radnice), nella piazza Carlo (Karlovo náměstí); tale atto doveva rappresentare un segno di protesta contro il rifiuto da parte dei membri del consiglio della città ad uno scambio di prigionieri, inteso a liberare alcuni hussiti rinchiusi nelle carceri.
Inoltre, la processione era il risultato del crescente malcontento causato dall’ineguaglianza tra le posizioni nobiliari e la Chiesa; questo malcontento, combinato con un crescente nazionalismo e un aumento di influenza delle correnti radicali, come quella guidata dallo stesso Jan Želivský, si accanì contro la corruzione della Chiesa cattolica.
Durante la processione una pietra lanciata da una finestra colpì Želivský; in seguito a questo attacco la folla, guidata da Jan Troznowski, detto Žižka, il leggendario condottiero cieco da un occhio, irruppe nel palazzo. Qui presero prigionieri un giudice, il borgomastro e altri membri del consiglio per un totale di sette persone, gettandole poi da una finestra sulla strada, dove vennero finite dalla folla. Secondo alcuni, re Venceslao IV, venuto a conoscenza della notizia, ne fu talmente impressionato da subire un ictus e morirne poco tempo dopo.
Il 23 maggio 1618, la seconda defenestrazione di Praga segnava l’inizio della guerra dei Trent’anni. I rappresentanti del re di Boemia Jaroslav Borsita, conte di Martinitz, e Wilhelm Slavata, oltre che il loro segretario Philippe Fabricus erano precipitati nel vuoto da una finestra del castello di Praga.
L’incidente si è prodotto nel l’ambito della rivolta degli Stati di Boemia, in maggioranza protestanti. Essi tentavano di difendersi contro il fatto che l’arciduca Ferdinando, futuro imperatore Ferdinando II, avesse nettamente ristretto i loro diritti a partire dal 1617. La defenestrazione fu una dichiarazione di guerra dei protestanti di Boemia nei confronti dell’imperatore cattolico.
In seguito alla defenestrazione di Praga, la fase Palatinato Boemia (1618-1623), che oppose gli Stati di Boemia sostenuti dall’unione dei protestanti agli Asburgo cattolici, segnò il vero punto di partenza della guerra dei Trent’Anni.
Per molto tempo, il flagello europeo è stato attribuito alle guerre ideologiche e di religione. Ma a ben vedere, è incontestabile che la frontiera tra religione, confessione, nazionalità ed interessi economici e politici fosse molto sottile.
La Francia cattolica, per esempio, si è alleata ai protestanti tedeschi, svedesi o olandesi contro gli Asburgo cattolici. La Francia e la Spagna cattoliche sono infatti state a lungo al centro di una guerra fredda che è scoppiata intorno al 1630.
Gli storici dividono generalmente la guerra di Trent’Anni in quattro fasi: la guerra tra il Palatinato e la Boemia dal 1618 al 1624, la guerra tra la Danimarca e la Bassa Sassonia dal 1625 al 1630, la guerra di Svezia dal 1630 al 1635 e la guerra franco svedese dal 1636 al 1648.
Questo confronto senza fine ha radicalmente cambiato la cartina politica e religiosa dell’Europa, con conseguenze che perdurano ancora oggi. Le conseguenze economiche e sociali sono state immense. Si stima che la popolazione del Sacro romano impero germanico sia diminuita di un terzo durante gli anni di guerra.
Secondo le stime, 6 milioni di persone in totale avrebbero perso la vita e la popolazione del Sacro Romano Impero sarebbe precipitata dai 18 milioni ai 12 milioni di persone tra il 1618 e il 1648.
Le bande di mercenari saccheggiatori costituivano uno dei maggiori flagelli per la popolazione. Poiché non ricevevano più stipendio dopo la fine di una campagna o per altre ragioni intervenute, riscuotevano soldi dalla popolazione nella maniera più crudele possibile.
Il 24 ottobre 1648, i trattati di Westphalia, firmati a Münster e Osnabrück, hanno messo fine alla Guerra dei Trent’anni. L’accordo di pace ha indebolito la posizione dell’imperatore, mentre la Francia e la Svezia sono uscite dalla guerra più forti. La Confederazione elvetica e i Paesi Bassi hanno ottenuto la loro indipendenza al termine della guerra dei Trent’Anni.
La cosiddetta quarta defenestrazione di Praga, è il nome che viene dato alla morte di Jan Masaryk, ministro degli esteri cecoslovacco, avvenuta il 10 marzo 1948 a Praga.
Jan Masaryk, ministro degli esteri cecoslovacco dal 1945, il 10 marzo 1948 venne trovato morto sotto la finestra del bagno del Palazzo Černín sede del ministero degli esteri a Praga.
Masaryk era l’unico ministro socialista nel governo, dominato dai comunisti, costituito un mese prima. Il dibattito sulla causa della sua morte continua a tutt’oggi, anche se nessuna prova è stata trovata che scagioni o incolpi il regime; ufficialmente il caso venne archiviato come suicidio.
Quando la dominazione comunista cessò, un rapporto di polizia di Praga del 2004 concluse, alla luce di un esame necroscopico, che Masaryk era stato lanciato fuori dalla finestra; si trattava di conclusioni apparentemente corroborate nel 2006 dalle rivelazioni di un giornalista russo e da dichiarazioni che avrebbe reso Nicolae Ceaușescu in privato.


lunedì 29 luglio 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 29 luglio.
Il 29 luglio 1976 David Berkowitz, conosciuto come "il figlio di Sam", compie il primo dei suoi omicidi.
Il 10 agosto del 1977 la polizia di New York arrestò David Berkowitz, che fino a quel giorno era conosciuto come “Son of Sam” (“figlio di Sam”): un serial killer che tra il 1976 e il 1977 uccise sei persone e ne ferì altre otto. Per più di un anno Berkowitz era riuscito a evitare di essere trovato e arrestato, benché scrivesse lettere ai giornali e abbandonasse sui luoghi degli omicidi messaggi in cui si prendeva gioco della polizia e minacciava nuovi attacchi. In quegli anni era una delle persone più ricercate d’America e divenne molto famoso: alla fine fu arrestato per via di una multa, e la sua fama spinse lo stato di New York ad approvare una serie di leggi per impedire che potesse approfittarne per diventare ricco.
Berkowitz nacque nel 1953 e a tre anni fu dato in adozione. Chi lo conosceva quando era piccolo, raccontò dopo il suo arresto che era stato un ragazzo difficile. Fin dall’adolescenza aveva compiuto diversi furti e causato piccoli incendi. A 18 anni entrò nell’esercito, prestò servizio in Corea del Sud e nel 1974 tornò a New York. Poco dopo la madre gli rivelò di essere stato adottato e questo, secondo diversi psicologi che lo esaminarono durante il processo, diede inizio alla più grave crisi della sua vita. Pochi mesi dopo, il giorno della vigilia di Natale del 1975, ferì due ragazze con un coltello. Non venne identificato. Nel luglio dell’anno successivo iniziò a uccidere.
La prima persona che uccise si chiamava Donna Lauria, aveva 18 anni e la sera del 29 luglio si trovava in macchina con una sua amica in un parcheggio del Bronx. Berkowitz si trovava poco lontano dall’auto con una pistola calibro 44 nascosta in un sacchetto di carta. Quando Lauria uscì dall’auto, Berkowitz si mise in ginocchio e sparò, colpendola alla testa e uccidendola. Sparò altri due colpi e ferì l’amica di Lauria, ma non gravemente.
Nei sei mesi successivi Berkowitz ferì altre sei persone con modalità simili: colpiva coppie di ragazze che si trovavano da sole in quartieri come il Bronx o Queens, trovate e scelte per caso, e poi si allontanava senza dire nulla. Soltanto nel gennaio del 1977 la polizia disse in una conferenza stampa che alcuni di quegli attacchi erano collegati e che c’era un assassino armato di una pistola calibro 44 che girava per le strade di New York. L’8 marzo del 1977 Berkowitz uccise una seconda ragazza, Virginia Voskerichian.
Nei cinque mesi successivi Berkowitz uccise altre quattro persone, in quella che i giornali di New York soprannominarono “l’estate di Sam”. Il nomignolo arrivava da una lettera che Berkowitz aveva lasciato sul luogo di uno dei suoi omicidi. Nel testo, scritto in lettere maiuscole e con una grafia infantile, Berkowitz alternava minacce e frasi sconclusionate, preghiere, onomatopee e altri riferimenti incomprensibili. Nelle prime righe scriveva di essere offeso per essere stato definito “uno che odia le donne” (i giornali lo avevano identificato così visto che aggrediva solo donne) e poi aggiungeva: «Io sono un mostro. Io sono il figlio di Sam».
Si racconta che in quei mesi centinaia di ragazze in tutta la città si tagliarono i capelli o se li tinsero di colori chiari, perché a quanto sembrava “Son of Sam” colpiva solo ragazze con capelli lunghi e scuri. Sempre secondo alcuni resoconti dell’epoca, era diventato impossibile trovare una parrucca in tutta la città. Il 31 luglio del 1977 Berkowitz compì il suo ultimo omicidio: uccise Stacy Moskowitz, una ragazza di 20 anni, mentre si stava baciando con il suo fidanzato, Robert Violante, all’interno della loro macchina. Berkowitz sparò quattro colpi e ferì entrambi alla testa. Moskowitz morì poco dopo mentre Violante riuscì a sopravvivere, anche se perse la vista da un occhio.
Pochi giorni dopo una donna che poco prima dell’omicidio stava portando a spasso il cane raccontò alla polizia di aver visto un uomo che esaminava una multa poggiata sulla sua automobile, non lontano dal luogo dell’omicidio. La donna disse di essersi spaventata perché aveva visto che l’uomo stringeva un oggetto scuro in mano: si affrettò verso casa e poco dopo senti l’esplosione di alcuni colpi (quelli che avevano ucciso Moskowitz e ferito Violante). Esaminando tutte le automobili multate in quella zona, la polizia risalì all’auto di Berkowitz. Rintracciarono la sua residenza, trovarono l’auto parcheggiata davanti e sbirciando dai finestrini videro un fucile posato sul sedile posteriore. Forzarono la serratura e trovarono munizioni calibro .44 e una mappa con tutti i luoghi degli omicidi. Quando Berkowitz uscì di casa, gli agenti lo arrestarono. «Perché ci avete messo così tanto?», disse lui.
Durante il processo Berkowitz ammise di essere colpevole, fu giudicato in grado di intendere e di volere e venne condannato a sei ergastoli. Per evitare che potesse sfruttare la sua popolarità scrivendo un libro, lo stato di New York approvò una serie di leggi che impedivano ai criminali di guadagnare dai racconti dei loro crimini, una legge che oggi è stata adottata a livello federale e in 41 stati diversi. Dalla sua storia il regista Spike Lee ha tratto nel 1999 il film Summer of Sam, in cui gli omicidi di Berkowitz fanno da sfondo e simboleggiano la violenza e la decadenza della New York degli anni Settanta.

domenica 28 luglio 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 28 luglio.
Il 28 luglio 1794 Louis Antoine de Saint Just viene ghigliottinato insieme a Robespierre.
Louis-Antoine-Léon Saint-Just (1767-1794), figlio di un capitano di cavalleria, studiò dapprima al collegio degli oratoriani a Soissons e poi, dopo un breve periodo in un istituto di correzione per essere scappato di casa con l’argenteria della madre, si iscrisse alla facoltà di legge a Reims, dove si laureò nel 1788.
Nel 1790, cominciò a dedicarsi attivamente alla vita politica, e venne nominato colonnello della guardia nazionale di Blérancourt. Nell’agosto di quell’anno entrò anche in contatto epistolare con Robespierre.
Fino al novembre 1792 non si sa quasi nulla di lui, tranne che nel settembre 1792 venne eletto dal suo dipartimento nella Convenzione. Fra novembre e dicembre apparve appunto come oratore e nei suoi primi discorsi chiese la condanna di Luigi XVI. Nei mesi seguenti si pronunciò sulla riorganizzazione dell’esercito, che auspicava fosse democratico e subordinato all’assemblea, e contro il nuovo progetto di Costituzione di Condorcet, in cui non vedeva assicurata una stretta dipendenza del potere esecutivo da quello legislativo e di cui, inoltre, condannava il federalismo. Nel breve periodo (poco più di un anno) nel quale esercitò funzioni di governo, si dimostrò tutto preso da un unico, predominante problema, quello di garantire l’unità nazionale nel quadro della repubblica democratica.
Da allora aveva assunto una posizione di primo piano, apparendo il più stretto collaboratore di Robespierre, e a lui infatti furono affidati i compiti più difficili e più delicati, come la proposta alla Convenzione, in nome del comitato di salute pubblica, di un decreto sui mezzi per indennizzare la povera gente, che sosteneva la Rivoluzione, con i beni dei nemici della Francia.
Saint-Just ebbe ancora un ruolo importante nella difesa del territorio nazionale dallo straniero, con le sue missioni alle armate del Reno e del nord (gennaio-febbraio e aprile-maggio 1794) e infine alle frontiere del nord e dell’est (giugno 1794). Riuscì a risollevare il morale delle truppe e a condurle alla vittoria, tra cui la più importante fu quella di Fleurus (26 giugno 1794). Anche lui fu travolto nel crollo della “Montagna” e il 28 luglio 1794, dopo che aveva tentato, il giorno prima, di parlare alla Convenzione in difesa di Robespierre, fu ghigliottinato insieme a lui.

sabato 27 luglio 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 27 luglio.
Il 27 luglio 1992 la mafia uccide il commissario Giovanni Lizzio.
Giovanni Lizzio, ispettore capo della Squadra mobile di Catania, da un anno a capo della sezione anti-racket, uscendo dalla questura la sera del 27 luglio 1992 fu seguito da due killer in moto, che affiancarono la sua auto ad un semaforo e gli spararono due colpi a bruciapelo con una calibro 38, al corpo e alla testa. Trasportato in ambulanza all’ospedale Cannizzaro, morì prima di essere ricoverato. Aveva 47 anni, era sposato e padre di due figli. Il delitto fece molto scalpore, perché era la prima volta che a Catania avveniva l’esecuzione di un uomo delle istituzioni da parte della mafia.
Il 90% dei commercianti catanesi pagava il pizzo e i proventi del racket erano essenziali per la sopravvivenza delle cosche. Lizzio era riuscito ad arrestare numerosi estorsori collegati alle famiglie mafiose catanesi, grazie anche alla collaborazione con un’associazione di commercianti taglieggiati e alle rivelazioni di un pentito. Una decina di giorni prima dell’agguato, il 18 luglio aveva guidato un’operazione che aveva portato all’arresto di 14 uomini del clan Cappello.
L’esecuzione di Giovanni Lizzio fu decisa dalla mafia per sfidare le istituzioni, in una logica da strategia della tensione
Il 23 maggio c’era stata la strage di Capaci. Due mesi dopo, il 19 luglio, quella di via D’Amelio. Le morti di Giovanni Falcone e della moglie Francesca Morvillo, poi di Paolo Borsellino, insieme alle loro scorte, avevano fortemente scosso il Paese. Il Governo presieduto da Giuliano Amato aveva deciso il 24 luglio di fare intervenire le Forze Armate in quella che fu chiamata operazione “Vespri Siciliani”, che si concluse l’8 luglio 1998. I primi militari furono utilizzati a Palermo sin dal giorno successivo. Fu il primo grande intervento delle Forze Armate Italiane per motivi di ordine pubblico nel dopoguerra. Ai militari impegnati vennero attribuite le funzioni di agenti di pubblica sicurezza. Entro il 14 agosto sarebbero stati impiegati ottomila militari.
Un delitto come quello di Giovanni Lizzio era di tale livello che fu sicuramente autorizzato dalla Cupola di Cosa Nostra, in un clima da strategia della tensione. Le cosche catanesi dimostrarono aperta sfida nei confronti delle istituzioni così come i corleonesi nella Sicilia occidentale, nonostante i battaglioni di militari che ogni giorno raggiungevano la Sicilia.
Per l’omicidio dell’ispettore fu condannato all’ergastolo, con sentenza passata in giudicato, il capomafia Benedetto “Nitto” Santapaola.

venerdì 26 luglio 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 26 luglio.
Il 26 luglio 1983 fu un'altra torrida giornata di quell'estate terribile, la più rovente registrata nell'Europa meridionale.
L'estate di quest'anno si sta rivelando finora molto dinamica e poco estrema per le ondate di caldo dal Sahara, che a tratti puntano l'Italia senza eccessi. Siamo però appena a metà del cammino dell'estate e per un bilancio definitivo bisognerà attendere il resto di luglio e tutto agosto.
Negli ultimi anni è aumentata la frequenza di ondate di calore dal Sahara che si susseguono in serie. A proposito di singole ondate di calore di forza estrema, quella del luglio 1983 fu di proporzioni davvero bibliche ed è forse la più intensa che abbia mai colpito l'Italia e parte dell'Europa Centrale e meridionale nel periodo coperto dalle misurazioni meteoclimatiche.
L'evento si verifico dopo un forte El Niño. Ci trovavamo all'incirca in questi stessi giorni di 35 anni fa ed era la fine della seconda decade del mese di luglio del 1983 quando una massa d'aria terribilmente calda, schiacciata dall'alta pressione di matrice nord-africana, investì l'Italia ad iniziare dalla Sardegna.
A quest'epoca le ondate di calore non erano frequenti come avviene ora, ma potevano tuttavia essere d'intensità estrema. Il caldo assunse connotati di assoluta eccezionalità in Sardegna, dove si raggiunsero valori termici davvero da capogiro.
A Capo San Lorenzo, sulla costa est, la temperatura subì un'impennata da +30°C del primissimo pomeriggio a +47°C in un paio d'ore. Nel Campidano (Sardara) si ebbero picchi di +47°C, così nelle zone più calde del sassarese (Chilivani) e nuorese (Ottana) fino a +48°C.
Il 22 luglio ad Alghero Fertilia furono misurati +41,8°C, a Cagliari Elmas +43,7°C e su Carloforte +39,2°C, tutti record assoluti. Sempre in Sardegna, nella stessa giornata le stazioni idrologiche di Sanluri e di Perdasdefogu raggiungevano ben +47,0 °C.
La calura durò due settimane, anche se si smorzò da inizio agosto: una persistenza davvero straordinaria con temperature mediamente sui +43/45°C nelle zone interne per le massime, e spesso non sotto i +30°C per le minime.
Nell'Isola vi furono i più disastrosi incendi con numerose vittime: proprio i +49°C di Tempio Pausania non furono omologati per la notevole vicinanza di un rogo. Oltre alla Sardegna, i maggiori effetti dell'ondata di calore si verificarono sulle regioni centro-settentrionali d'Italia, meno invece per quanto riguarda il Sud.
La calura afflisse molte regioni d'Italia, uno dei giorni più roventi fu il 26 luglio quando vennero misurati i seguenti record di temperatura massima assoluta: Firenze Peretola +42,6 °C, l'Osservatorio Ximeniano di Firenze +41,6°C, Arezzo San Fabiano +41,5 °C e Paganella +25,0°C.
Sarzana Luni con +36,4°C e Passo della Cisa con +31,8°C stabilivano invece i propri record mensili di luglio. A Roma Urbe si toccarono 40°C, così come a Pescara ed Ancona Falconara +40,5°C. Bologna il termometro si fermò a +39,6°C il 29 luglio.
Tra gli altri picchi, una citazione d'obbligo per gli oltre +38°C ad Udine, +37°C a Tarvisio, +32,4°C a Dobbiaco. A Bergamo Orio al Serio +39°C, a Milano Malpensa +37,0°C (neppure tanti, considerati i record del 2003), a Genova +35°C e a Torino Caselle +36.2°C.

giovedì 25 luglio 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 25 luglio.
Il 25 luglio 2000 il Concorde appena decollato da Parigi si schianta contro la facciata di un hotel.
Sono le 14:40 circa del 25 luglio del 2000 quando il volo 4590 dell'Air France, diretto a New York, imbocca la pista dell'aeroporto Charles de Gaulle. A bordo ci sono cento passeggeri, in gran parte turisti tedeschi, tre piloti e sei assistenti di volo, che sarebbero «arrivati prima di partire» nella Grande Mela. Così recitava la pubblicità di quel volo, il Concorde. E così era sempre successo, fino ad allora.
Non quel giorno, però. I testimoni, diversi dei quali muniti di videocamera, videro una fiammata provenire da due dei quattro motori dell'aereo. Lo videro alzarsi in volo, più lento e pesante del solito. E poi lo videro schiantarsi, in una nuvola di fumo nero, sulla facciata dell'albergo Hotellissimo di Gonesse, mentre cercava di dirigersi verso l'aeroporto di Le Burget, a nord di Parigi, per un atterraggio d'emergenza. Morirono in 113, comprese quattro persone a terra. Non fu l'ultimo volo del Concorde, ma quell'incidente - il primo e unico in trentun anni - fu l'inizio della fine. Il Concorde fu ritirato nel 2003 e non volò mai più.
Un fulmine a ciel sereno? No, in realtà. Da tempo il sogno di cambiare volto al trasporto aereo con voli supersonici aveva imboccato un binario morto. Negli anni ’50, però, ci credevano tutti: gli Stati Uniti, la Russia, la Francia e la Gran Bretagna. La Russia, soprattutto, che arrivò per prima con il Tupolev Tu-144. Concordski, lo chiamavano i media occidentali, quasi a voler rimarcare il fatto che furono i russi a copiare l'aereo supersonico europeo. Tuttavia, il Tu-144 fece il suo primo volo il 31 dicembre del 1968, tre mesi prima del Concorde.
Entrambi, peraltro, presero la forma da un altro aereo russo, il Sukhoi T-4 - Sotka, per gli amici - un prototipo di bombardiere militare sviluppato dall'Unione Sovietica nel 1961 e rimasto tale. Sotka era un aereo con un'ala a delta ogivale, un grande triangolo con la base vicina alla coda del velivolo, che si protendeva fin quasi a lambire la cabina dell’equipaggio, come una specie di grande aereo di carta.  Altra caratteristica iconica di questo tipo di aerei, il lungo muso a punta, in grado di inclinarsi verso il basso per consentire sufficiente visibilità ai piloti durante i decolli e gli atterraggi, per poi riallinearsi con la fusoliera durante la fase di crociera.
Si chiamava Concorde, il modello europeo, perché sviluppato assieme da Gran Bretagna e Francia. O meglio, da Bristol Aviation Company e Sud Aviation. Furono i francesi a imporre la "e" alla fine del nome, rendendolo francofono. Alla faccia della concordia, l'allora primo ministro britannico Harold MacMillan si impuntò per cambiare il nome dell'aereo in Concord, all'inglese. Fu tuttavia il suo ministro della tecnologia Tony Benn a cambiare di nuovo il nome. La “e” finale, disse, era sinonimo di eccellenza ed eleganza.
Erano solo due le compagnie che usavano il Concorde, la Air France e la British Airways. Iniziarono nel 1976 e volavano sulle rotte tra Londra e il Bahrein e tra Parigi e Rio de Janeiro. La tratte più note nell'immaginario collettivo rimangono tuttavia quelle dalle due capitali europee a New York. In realtà, all'inizio, la città americana proibì, causa rumore, il volo dei Concorde sopra i suoi cieli. Il superamento del muro del suono produceva infatti quello che viene definito un “sonic boom”, un rumore simile a un’esplosione. Il divieto venne tuttavia abolito l'anno dopo e cominciò la leggenda dell'aereo che "arriva prima di partire"
Era vero. Se oggi servono circa sette ore per andare da Londra a New York, con il Concorde ce ne volevano solo tre e mezza (il record, due ore e cinquantotto minuti, fu stabilito il 1 gennaio del 1983). Partendo alle otto del mattino dalla capitale inglese, poniamo, si poteva arrivare attorno alle sei e mezza. Non era solo una questione di velocità, peraltro. Certo, il Concorde, al pari di un'automobile sportiva, non era un aereo comodo: i sedili erano molto stretti, l'altezza del corridoio di soli un metro e ottanta, non c'erano prima e seconda classe. E se biasimate Ryanair per le cappelliere troppo piccole, non avete idea di quanto lo fossero quelle dell'aereo super veloce.
 Detto questo, chi l'ha vissuta racconta l'esperienza di volare con il Concorde come meritevole di essere vissuta e non solo per lo champagne servito a bordo. Niente turbolenze o quasi, ad esempio, perché il Concorde volava a una quota di crociera pari a 17mila metri, circa il doppio di quella di un normale volo. A quella quota, inoltre, era possibile, guardando l'orizzonte dal finestrino, vedere chiaramente la curvatura terrestre, un panorama da viaggio nello spazio. Per i piloti stessi, il Concorde era un bel giocattolo, molto più semplice da portare rispetto a un Boeing 747.
Lussi costosi, tuttavia. Il programma dello sviluppo del velivolo arrivò a costare circa 1,3 miliardi di sterline e le cose non migliorarono granché quando cominciano i voli commerciali del Concorde. La British Airways dovette alzare di molto i prezzi per portare in attivo il servizio. La manutenzione, soprattutto, era molto costosa e per farlo volare serviva molto più carburante che per un normale jet. Volare col Concorde, insomma, era e rimaneva un lusso, sia per i passeggeri, sia per le compagnie aeree. Le strategie di queste ultime, inoltre, erano orientate a competere sul servizio e sulla capienza degli aerei, non sulla velocità. Particolare non irrilevante, la guerra fredda e la competizione tecnologico-politica con i Tupolev dell'Aeroflot era finita da un pezzo.
L'incidente di Parigi, insomma, fu la goccia che fece traboccare il vaso. Inizialmente si pensò che l'incidente fosse stato causato da una striscia metallica in titanio persa da un aereo della Continental Airlines decollato dalla medesima pista pochi istanti prima. Da lì, la reazione a catena. La placca fora la gomma, i frammenti della ruota rompono i cavi elettrici del carrello e impattano col serbatoio, l'aereo perde combustibile e il secondo motore prende fuoco. I piloti spengono il secondo motore e non riescono a rialzare il carrello, compromettendo il decollo. L'aereo si schianta.
In base a questa ricostruzione, la Continental Airlines, il 6 dicembre 2010, fu condannata a pagare un milione di euro di risarcimento ad Air France, in quanto ritenuta parte in causa del disastro e un suo dipendente condannato a 15 anni di reclusione per avere fabbricato e installato male la placca di titanio. Tale versione, tuttavia, ha lasciato spazio a numerosi dubbi: secondo l'ex pilota Kevin Smith, sul suo blog Ask The Pilot (”Chiedi al pilota”) il volo 4590 si è schiantato perché volava troppo piano, perché era sovrappeso di diverse tonnellate e perché due motori su quattro sono stati erroneamente spenti, rendendo impossibile il decollo del velivolo. In appello, nel 2012, la Continental Airlines fu assolta sulla base di queste motivazioni.
Mentre si spengono le luci sulla tragedia di Parigi, tuttavia, si riaccende il sogno del Concorde e del volo supersonico. Nel 2014, la francese Airbus e l'americana Aerion hanno presentato il prototipo di un nuovo Concorde, l'Aerion AS2. Più lento del suo predecessore, sarà prodotto a Reno, in Nevada e sarà composto interamente con un materiale composito in fibra di carbonio. Secondo il presidente della Aerion Robert Bass il primo volo commerciale avverrà nel 2021. Collegherà Londra, New York, Tokyo e Los Angeles, ma ogni volo potrà ospitare solamente 12 passeggeri. Nel ventesimo secolo, arrivare prima di partire non era un privilegio per tutti. Nel ventunesimo, lo è ancora meno.

mercoledì 24 luglio 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 24 luglio.
Il 24 luglio 1882 muore Carlo Mayr.
Nacque a Ferrara il 3 ott. 1810 da Giuseppe e da Maddalena Beltramini. Il padre discendeva da una famiglia originaria della Baviera e di condizione piuttosto agiata giunta in Italia all’inizio del XVIII secolo.
Studente molto brillante, Mayr frequentò l’Archiginnasio di Ferrara per poi laurearsi in giurisprudenza con il massimo dei voti e intraprendere, dal 1831, la professione legale con grande successo. Quand’ancora frequentava le scuole superiori, entrò in contatto con alcuni esponenti della carboneria e non molto tempo dopo si affiliò alla Giovine Italia. Sempre nel 1831 partecipò ai moti scoppiati nei Ducati di Parma e Modena e poi estesisi alle limitrofe Legazioni pontificie. Fu proprio in quel periodo che comprese quanto fosse importante l’instaurazione di un regime rispettoso della libertà e dei diritti degli individui. Perciò, da avvocato, fu sempre pronto a difendere in tutti i tribunali dello Stato patrioti e liberali e anche per questo fu presto sottoposto ad attiva sorveglianza da parte della polizia cittadina.
Nel 1848, allo scoppio dei moti, era maggiore della guardia civica, corpo per il cui mantenimento insieme con il cugino Francesco Mayr si era battuto contro il legato pontificio, il cardinale G. Ugolini. In particolare aveva fatto parte di una commissione che aveva trattato con gli Austriaci e condotto in porto la resa delle fortezze di Ferrara e Comacchio.
Non prese parte attiva ai combattimenti, segnalandosi piuttosto come preside della sua città, veste nella quale promosse l’emancipazione degli ebrei dal ghetto; successivamente fu membro della giunta provvisoria costituitasi dopo l’uccisione di Pellegrino Rossi. Inoltre, verso la fine del giugno 1848 aveva assunto la direzione provvisoria della Gazzetta di Ferrara, «foglio politico, scientifico e letterario», di orientamento liberale, fondato qualche settimana prima da F. Mayr, allora a Roma quale membro del Consiglio dei deputati. Tramite la fittissima corrispondenza intrattenuta con lui, Carlo era sempre al corrente di quanto avveniva nella capitale.
Ben lungi dall’apprezzare la svolta moderata di Pio IX, il Mayr mantenne viva l’agitazione a Ferrara come vicepresidente del Circolo nazionale chiedendo tra l’altro nel novembre 1848 un rafforzamento della guarnigione cittadina contro probabili ritorni austriaci. Nel gennaio del 1849 a Ferrara si insediò una commissione di governo formata da tre membri, tra cui il Mayr. Nelle elezioni del 21 gennaio, con una votazione plebiscitaria – in cui risultò il primo eletto – entrò come deputato nell’Assemblea costituente di quella che di lì a poco sarebbe divenuta la Repubblica Romana, nel cui governo, per volere di G. Mazzini, ricoprì la carica di ministro dell’Interno. Quando le truppe francesi invasero il territorio della Repubblica, non esitò a imbracciare le armi e, per il suo valore, venne dichiarato dall’Assemblea romana «benemerito della Patria» e fu insignito di una medaglia d’oro.
Al ritorno del papa Mayr fu costretto all’esilio: dopo essere stato in Grecia, Turchia, Inghilterra, Francia e Toscana, si stabilì in Piemonte, dove – ormai abbandonate le idee repubblicane – fu nominato presidente del Comitato generale di emigrazione. Nel 1859, allo scoppio della guerra con l’Austria, tornò nella sua città e fu nominato intendente di Forlì, dove era necessario contenere le spinte repubblicane. Venne poi chiamato come ministro dell’Interno da L.C. Farini, capo di un governo provvisorio che resse l’Emilia prima che fosse annessa al Regno sabaudo.
Deputato all’Assemblea delle Romagne, il M. fu relatore della proposta di annessione al Piemonte e, ottimo organizzatore, fu il regista della prima visita ufficiale di Vittorio Emanuele II a Napoli, tanto che il re ne lodò pubblicamente l’operato. Alle elezioni per la VII legislatura (1860) – l’ultima del Regno di Sardegna – risultò eletto deputato per il collegio di Ferrara, ma l’elezione fu annullata, essendo egli allora intendente generale di Bologna, posto dove lo aveva voluto C. Cavour. La legislatura, però, durò solo pochi mesi; nella successiva (1861) fu rieletto nello stesso collegio al ballottaggio, con 300 voti su 387 votanti.
La sua attività di parlamentare lo portò a occuparsi in prevalenza di problemi giuridici: per esempio intervenne con decisione nei dibattiti sull’abolizione di quanto ancora restava del sistema feudale. Su tale argomento parlò una prima volta il 14 febbr. 1861, sostenendo l’urgenza dell’approvazione di una legge sulla possibilità di affrancare l’enfiteusi in sostituzione di quella sarda allora applicata nel Regno, che riteneva «improvvida, […] cattiva per giudizio universale». Il 10 maggio 1861, nel dibattito sull’abolizione dei vincoli feudali in Lombardia, sollecitò la rapida approvazione di un’unica disciplina di riforma per tutto il territorio nazionale. Nella seduta del 30 apr. 1861 presentò un’interpellanza al ministro guardasigilli, G.B. Cassinis, riguardo la necessaria riforma dei codici. Secondo il M., infatti, erano molteplici i problemi che accompagnavano l’estensione dei codici sardi a tutto il territorio nazionale: le «mutate condizioni politiche», infatti, non li rendevano più adatti a soddisfare le esigenze della popolazione, che «sopportava questo stato anormale ed ibrido della legislazione con impazienza, […] credendolo provvisorio, e desiderava di sortirne il più presto possibile». Occorreva, a suo dire, una riforma radicale, non essendo più possibile procedere all’approvazione di leggi speciali per le singole province; e, a evitare un lavoro di scarsa qualità, la Camera, dettati i principî fondamentali, avrebbe dovuto nominare commissioni di esperti con il compito di redigere un testo di legge da sottoporre poi all’approvazione del Parlamento. Il M. era anche convinto che fosse urgente abolire qualsiasi vincolo che limitasse la libera circolazione della proprietà.
Nel 1863 motivi di salute lo costrinsero a rassegnare le dimissioni, che la Camera accettò nella seduta del 29 gennaio. In verità era ormai assorbito dalla carica di prefetto (di provenienza politica) che ricoprì ininterrottamente dal 1859 al 1877 e che lo vide destinato a varie sedi. Cominciò come intendente a Forlì nel 1859 e come intendente generale a Bologna (1860-61) nella delicata fase delle annessioni. Come prefetto fu poi destinato a Caserta (1861-64), Alessandria (1864-67), Genova (1867-72), Venezia (1872-76) e infine, su designazione della Sinistra da poco giunta al potere, a Napoli (1876-77). Delle esperienze fatte come suddito pontificio gli era rimasta una fortissima avversione verso il ceto ecclesiastico; tale sentimento, una volta a capo della suddette province, indirizzò molti dei suoi atti amministrativi, inducendolo a curare in particolare il ricambio di funzionari e impiegati pubblici (a Caserta mise uomini di provata fede liberale nei posti chiave della prefettura) e intervenendo – anche attraverso la manipolazione delle liste degli iscritti al voto – nel voto municipale. Non sempre questa azione ebbe successo: a Venezia, per esempio, i clericali vinsero sia nel 1873 sia nel 1874; ma questo non fece che aumentare la sua fedeltà alle istituzioni e il bisogno di difenderle dagli attacchi della reazione.
Meno accanimento sembra ponesse nel contrastare i fenomeni eversivi. Come prefetto di Genova, nel 1870, evitò l’arresto di Mazzini, arrivando anche a domandare all’allora presidente del Consiglio, G. Lanza, quale fosse il titolo giuridico che giustificasse tale provvedimento. Lanza rispose in modo sprezzante, definendo Mazzini il responsabile di tutte le sommosse repubblicane, e ordinò di indagare sul comportamento negligente del Mayr. Quando Mazzini fu poi arrestato e condotto alla fortezza di Gaeta, Mayr continuò, comunque, a interessarsi al suo caso.
Due anni più tardi, al momento della morte di Mazzini, il Mayr, che era ancora prefetto della città ligure, gestì con grande efficienza la non facile emergenza dei funerali. Tuttavia, come osservato da A. Grilli, con gli anni era cambiato: in una lettera al figlio Scipione del 17 marzo 1872 parla della morte di Mazzini limitandosi a deprecarne l’uso strumentale fattone dai partiti estremisti, senza alcuna partecipazione emotiva e lamentando, anzi, i fastidi che aveva dovuto subire.
Commendatore e membro dell’Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro fin dal 1861, il 6 dic. 1868 era stato nominato senatore per la 5ª e la 17ª categoria. La sua attività all’interno della Camera alta fu, però, piuttosto modesta: le sole energie che vi spese furono volte allo snellimento degli impedimenti burocratici che non poco complicavano l’attività del Senato. Quando cessò dall’incarico di prefetto (30 ott. 1877) fu nominato presidente di sezione del Consiglio di Stato.
Carlo Mayr morì a Roma, il 24 luglio 1882.
Sposato con una Bertelli, fu padre di tre figlie e di Scipione, militare di carriera che, dopo aver preso parte alle guerre del Risorgimento, fu anche scudiero onorario di Umberto I.

martedì 23 luglio 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 23 luglio.
Il 23 luglio 1967, a Detroit, ha inizio la "rivolta della dodicesima strada".
Il 23 luglio 1967, alle 3, 37 di mattina, iniziava a Detroit, nel Michigan, una delle più violente rivolte popolari della storia degli Stati Uniti d’America. Ancora oggi è ricordata come “la rivolta della XII strada”, perché iniziò in un bar di quella via, oggi, ribattezzata Rosa Parks boulevard. La sommossa, violentissima, causò 43 morti, 1200 feriti, di cui alcuni gravi, circa 7200 arresti e 2000 edifici distrutti. Incalcolabili i danni. Gli scontri durarono dal 23 al 26 luglio 1967, e furono utilizzati anche carri armati, oltre a paracadutisti e Guardia nazionale. Le cose andarono così: nelle prime ore del mattino vi fu un’irruzione della polizia in un bar, The blind pig, che era privo di licenza, ma era chiaro che la tensione era altissima in quel quartiere, Near West Side, e che il raid fu solo l’evento scatenante. Inizialmente fu uno scontro tra i clienti del bar e gli agenti, ma poi si trasformò in poche ore in una autentica sommossa, per stroncare la quale il governatore George Romney e il presidente Lyndon Johnson fecero ricorso alla Guardia nazionale e poi all’esercito. Nel circolo la polizia trovò un centinaio di afroamericani che stavano festeggiando il ritorno di due di loro dalla guerra del Vietnam, e decisero di arrestarli tutti. Un giovane, Walter Scott, in seguito raccontò di aver scagliato una bottiglia contro la polizia scatenando il tutto.
Dopo che la polizia fu messa in fuga, la gente, alla quale si era unita anche una folla di curiosi, iniziò a saccheggiare i negozi vicini, distruggendo tutto quello che potevano. La rivolta della 12ma strada passa come rivolta afroamericana, ma in realtà anche moltissimi bianchi parteciparono ai disordini. La folla iniziò a gettare gli arredamenti degli edifici per strada e nel primo pomeriggio scoppiò il primo incendio, seguito da molti altri in varie parti della città. Furono uditi numerosissimi colpi di arma da fuoco, anche perché molti negozi di armi furono depredati. La rivolta, dopo un’iniziale esitazione della stampa per evitare emulazioni altrove (che ci furono comunque), ebbe ben presto una copertura mediatica notevole, tanto che il Detroit free press vinse in seguito il Premio Pulitzer proprio  per tale copertura.
Solo dal lunedì si capì la portata della rivolta, seconda solo a quella di Los Angeles del 1992, e reparti dell’esercito iniziarono ad affluire in città mentre si compivano gli arresti, l’80 per cento dei quali in effetti riguardò afroamericani. Non c’era spazio nelle prigioni, così si dovette ricorrere a celle improvvisate. Martedì arrivarono cinquemila parà delle forze speciali, mentre i pompieri tentavano di spegnere gli incendi. In seguito i rivoltosi denunciarono molti abusi e maltrattamenti di prigionieri da parte della polizia. Come accennato, furono utilizzati tank e mitragliatrici, ma mentre la Guardia nazionale, inesperta e violenta, non si dimostrò all’altezza della situazione, uccidendo ben 11 persone, i veterani del Vietnam non uccisero nessuno e riuscirono a riportare l’ordine in 48 ore. Il 28 le truppe iniziarono a ritirarsi e il 29 il ritiro era completato. Emarginazione, povertà, rifiuto dell’integrazione furono tra le cause scatenanti della rivolta, ma va anche detto che la 12ma strada era abitata dagli afroamericani più estremisti. Dei 43 morti, 33 erano neri e 10 bianchi. Ai fatti della XII strada sono stati dedicati articoli, documentari, ballate, film, e recentemente un docufilm su quei giorni, Detroit, diretto da Kathryn Bigelow.

lunedì 22 luglio 2019

#Almanacco quotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 22 luglio.
Il 22 luglio 1587 coloni inglesi arrivano nell'isola di Roanoke, nella Carolina del Nord, per rifondare la colonia abbandonata. Saranno in seguito protagonisti di un mistero che dura da oltre 400 anni.
È un mistero che affascina gli americani da secoli: che cosa è successo agli abitanti della colonia perduta di Roanoke Island, nel North Carolina?
I coloni, che arrivarono nel 1587, scomparvero nel 1590 lasciando dietro di sé solo due indizi: le parole "Croatoan" e "Cro" incise rispettivamente sul pilastro di un forte e su un albero.
Le ipotesi sulla misteriosa sparizione spaziano da una epidemia agli scontri con tribù di nativi americani locali. Scavi precedenti avevano fornito alcuni dati e qualche manufatto dei coloni, ma nessuna informazione su ciò che era stato di loro.
Ora, grazie ai progressi tecnologici e a una mappa con indizi nascosti, i ricercatori stanno finalmente scoprendo cosa accadde ai coloni di Roanoke.
I coloni furono il terzo gruppo di inglesi ad arrivare su Roanoke Island, in North Carolina, e si stabilirono vicino all'attuale città di Manteo.
Il primo gruppo era giunto nel 1584 per esplorare e mappare il terreno per futuri insediamenti. Un secondo gruppo, arrivato nel 1585, era incaricato di una missione militare e scientifica. Ma l'esito della missione fu tutt'altro che pacifico.
"Fu allora che iniziarono le tensioni [con le tribù dei nativi americani locali]", spiega Argilla Swindell dell'Albemarle Museum di Elizabeth City, North Carolina, uno degli archeologi che studiano la colonia. Questo secondo gruppo, dice Swindell, fu cacciato nel 1586 dalle tribù locali, infuriate perché i coloni si stavano impadronendo delle risorse e delle terre migliori.
Nel 1587 giunse la terza ondata di inglesi. Stavolta sbarcarono intere famiglie: 17 donne e 11 bambini accompagnati da circa 90 uomini, segno inequivocabile che intendevano stabilirsi nel Nuovo Mondo.
È stato un indizio scoperto in un'antica mappa chiamata "La Virginea Pars", tracciata da John White, a mettere in moto le nuove ricerche sul destino dei coloni perduti. White, un artista alle dipendenze dell'esploratore Sir Walter Raleigh, venne nominato governatore delle nuove terre; era anche il nonno del primo bambino inglese nato nel Nuovo Mondo, Virginia Dare.
Due "toppe" scoperte sulla mappa hanno indotto Brent Lane della First Colony Foundation (il gruppo che conduce le recenti ricerche archeologiche, beneficiario di un fondo di ricerca NGS) a chiedersi che cosa potessero celare.
Gli scienziati del British Museum le hanno esaminate scoprendo che nascondevano un piccolo simbolo rosso e blu. Quel simbolo poteva forse indicare un forte o un rifugio segreto?
"L'ipotesi più probabile è che l'esplorazione nel Nord America condotta da Raleigh fosse almeno in parte coperta dal segreto di Stato, e che la mappa 'coperta' rappresentasse il tentativo di nascondere le informazioni raccolte a possibili agenti stranieri", dice lo storico Eric Klingelhofer della Mercer University di Macon, Georgia, responsabile del progetto di ricerca.
Per la maggior parte dei ricercatori, l'ipotesi più probabile è che i coloni abbiano contratto una malattia - causata da qualche microbo del Nuovo Mondo a cui non erano preparati - o che siano stati attaccati. In ogni caso, qualunque sia stata la calamità che li colpì, i coloni probabilmente si divisero in gruppi più piccoli e si dispersero.
"È una buona strategia", commenta Klingelhofer, spiegando che questo era ciò che era stato ordinato di fare al gruppo precedente - quello del 1585 - in caso di disastro. "Non siamo certi che è ciò che fecero, ma di sicuro era l'unico modo in cui avrebbero potuto sopravvivere. Erano troppi, un centinaio di persone, nessuna tribù avrebbe potuto sfamarli".
L'ipotesi più accreditata è che i coloni abbandonarono Roanoke, viaggiando per una settantina di chilometri a sud verso Hatteras Island, in seguito nota come Croatoan Island. E se invece, si è chiesto Klingelhofer, fossero andati in un'altra direzione? Che cosa sarebbe successo se alcuni dei coloni si fossero mossi verso ovest, lungo l'Albemarle Sound, per raggiungere la foce del fiume Chowan, dove viveva una tribù amichevole?
A conferma di questa ipotesi, gli archeologi hanno identificato il sito di un piccolo insediamento di nativi americani di nome Mettaquem, che potrebbe aver "adottato" parte dei coloni.
"È un posto molto strategico, proprio alla fine dell'Albemarle Sound", spiega Klingelhofer. "Da lì si può andare a nord fino al fiume Chowan in Virginia, oppure a ovest, verso le Blue Ridge Mountains. Da questo sito partivano intensi scambi commerciali" con le tribù di nativi americani.
Dopo la scoperta dell'indizio segreto sulla mappa, Klingelhofer, insieme con la First Colony Foundation (che studia i primi tentativi di colonizzazione del Nuovo Mondo), ha proposto di tornare sul sito sul fiume, ma con strumenti del XXI secolo: magnetometri e georadar (GPR, ground penetrating radar), una metodologia non invasiva utilizzata in geofisica nello studio del primo sottosuolo.
Malcolm LeCompte, ricercatore associato presso la Elizabeth City State University in North Carolina, è stato il responsabile delle analisi GPR nella ricerca archeologica sui coloni perduti di Roanoke. Lo studio è iniziato all'inizio del 2013 con un sondaggio satellitare del sito alla foce del fiume.
"Quello che facciamo è prendere le mappe più antiche che possiamo trovare, in modo da avere un riferimento storico, e confrontare ciò che potrebbe essere stato in passato con quello che c'è adesso". I ricercatori insomma cercano somiglianze tra le vecchie mappe e l'attuale geografia della zona; una volta identificate le corrispondenze, si crea una griglia e si iniziano le ricerche con il georadar.
Il GPR emette onde radio nel terreno e misura l'eco del segnale che rimbalza su vari oggetti sepolti nel sottosuolo, indicandone l'eventuale presenza. Gli oggetti in metallo, come i cannoni in ferro trovati presso il sito, funzionano come "antenne giganti", dice LeCompte. Anche le tombe sono individuabili, perché contengono vuoti con differenti densità e minori proprietà conduttive rispetto al suolo circostante.
LeCompte e colleghi hanno rilevato delle anomalie che potrebbero indicare la presenza di una o più strutture, forse in legno, a circa un metro di profondità.
"Non so se si tratta di una o più [strutture]", dice, aggiungendo che "potrebbero essere unite o molto vicine". Forse il legno delle strutture si è disintegrato nel corso del tempo, lasciando però tracce nel terreno circostante, ipotizza LeCompte.
Swindell dell'Albemarle ha proposto anche l'uso di un magnetometro per verificare i dati del georadar. Molto più sensibile di un metal detector, il dispositivo può individuare oggetti sepolti fino a quattro metri nel sottosuolo. Il dispositivo misura distorsioni del campo magnetico causate dalla presenza di oggetti interrati.
Swindell è convinta che vi siano anche resti di palizzate utilizzate dagli agricoltori per tenere lontano dalle colture gli animali selvatici.
La presenza della struttura sepolta e della recinzione indicano l'elevata probabilità che nel sito fossero presenti anche dei coloni. Ciò che complica ulteriormente la vicenda è la presenza di successivi siti coloniali nella zona risalenti al 1700.
Purtroppo, nessuna tecnologia è in grado di rivelare il ruolo giocato nella vicenda dalle popolazioni native americane, che resta un enigma tutto da risolvere.
Al tempo della colonia di Roanoke, le relazioni con i nativi americani erano piuttosto tese. Roanoke era situata geograficamente nel punto dove si incontravano i Secotan - che dominavano Roanoke - e i Chowanoke, che controllavano i corsi d'acqua nelle vicinanze. Ma la tensione era particolarmente alta tra i coloni e i Secotan.
"Non c'è dubbio che ci fosse molta ostilità", dice Klingelhofer. "Non tutte le tribù erano nemiche, ma alcune si. Si sentivano invasi. C'erano scontri sia tra le tribù, e tra alcuni dei popoli nativi e i coloni inglesi.
Il fatto che gli inglesi fossero già venuti più volte a esplorare la zona non fece che complicare le cose. Il secondo gruppo di inglesi - quello giunto prima dei coloni con donne e bambini - era stato respinto in Inghilterra, e l'arrivo dei coloni trovò una situazione già inasprita. "Non mi sorprenderebbe che i Secotan volessero sbarazzarsi in qualunque modo degli inglesi", commenta Swindell.
Le testimonianze archeologiche scoperte nella zona sembrano comunque indicare scambi fra tribù locali e coloni europei nel XVI e XVII secolo. Per saperne di più, bisognerà però armarsi di pala e scavare, dice Swindell.

domenica 21 luglio 2019

#Almanacco quotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 21 luglio.
Il 21 luglio 2018, per motivi di salute, Sergio Marchionne viene sostituito alla guida della Fiat Chrysler Automobiles dal britannico Michael Manley.
Sergio Marchionne nasce a Chieti il 17 giugno 1952, figlio di un maresciallo dei carabinieri emigrato da giovane in Canada. Ha conseguito tre lauree: in Legge alla Osgoode Hall Law School of York University, un Master in Business Administration (MBA) presso la University of Windsor e una laurea in filosofia conseguita presso l'Università di Toronto.
Lasciato il mondo forense, svolge la prima parte della sua attività professionale nel Nord America come dirigente. Dal 1983 al 1985 lavora per Deloitte Touche come commercialista esperto nell'area fiscale; successivamente dal 1985 al 1988 ricopre il ruolo di controllore di gruppo e poi direttore dello sviluppo aziendale presso il Lawson Mardon Group di Toronto. Dal 1989 al 1990 è nominato vice presidente esecutivo della Glenex Industries. Dal 1990 al 1992 ricopre il ruolo di responsabile dell'area finanza della Acklands e, contemporaneamente, la carica di responsabile per lo sviluppo legale e aziendale presso il Lawson Group, acquisito nel frattempo da Alusuisse Lonza (Algroup). Qui ricopre ruoli di crescente responsabilità, presso la sede centrale di Zurigo, fino a diventarne l'amministratore delegato.
Sergio Marchionne guida in seguito il Lonza Group, separatosi da Algroup, fino al 2002, anno in cui viene nominato amministratore delegato del Gruppo SGS di Ginevra, leader mondiale nei servizi di ispezione, verifica e certificazione; il gruppo è forte di 46 mila dipendenti in tutto il mondo. Grazie all'ottima gestione del gruppo svizzero, risanato nel giro di due anni, il nome di Sergio Marchionne acquisisce lustro negli ambienti economici e finanziari internazionali.
A partire dal 2003, su designazione di Umberto Agnelli, Marchionne entra a far parte del Consiglio di Amministrazione del Lingotto Fiat. In seguito alla morte di Umberto Agnelli e alle dimissioni dell'amministratore delegato Giuseppe Morchio, che aveva lasciato l'azienda dopo il rifiuto della famiglia Agnelli di affidargli anche la carica di presidente, Sergio Marchionne viene nominato (1 giugno 2004) Amministratore delegato del Gruppo Fiat. Dopo alcuni contrasti con il dirigente tedesco Herbert Demel, nel 2005 assume anche la guida di Fiat Auto in prima persona.
Il 2 giugno del 2006 viene nominato Cavaliere dell'Ordine al merito del Lavoro dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Marchionne ha ricevuto una laurea honoris causa in Economia Aziendale dall'Università degli studi di Cassino nel 2007, e una laurea magistrale ad Honorem in Ingegneria Gestionale dal Politecnico di Torino nel 2008.
Di doppia nazionalità italiana e canadese, nel 2006 è stato inoltre nominato Presidente della European Automobile Manufacturers Association (ACEA). Insieme a Luca Cordero di Montezemolo, è considerato l'artefice dell'avvenuto risanamento della divisione Fiat.
Durante la sua amministrazione, Fiat deve affrontare progetti che erano stati scartati in precedenza: Fiat 500, Lancia Fulvia Coupé, Fiat Croma e vengono prodotti in soli due anni molti nuovi modelli. In pieno periodo di crisi internazionale globale, nel mese di aprile del 2009 Marchionne effettua lunghe e travagliate trattative legate all'acquisizione della statunitense Chrysler con i sindacati ed il governo americani. Al termine delle trattativa viene raggiunto un accordo che prevede l'acquisizione da parte del Lingotto del 20% delle azioni Chrysler, in cambio del know how e delle tecnologie torinesi, facendo nascere così il sesto gruppo automobilistico del mondo. Tale è l'importanza dell'accordo che è lo stesso Presidente degli Stati Uniti Barack Obama a darne annuncio.
Nei giorni immediatamente successivi all'accordo con la casa automobilistica d'oltreoceano, l'AD di Fiat Group inizia trattative con i sindacati ed il governo tedeschi per una fusione tra la casa automobilistica piemontese e la tedesca Opel (facente parte del gruppo statunitense General Motors): l'obiettivo è quello di dare vita a un colosso del settore automobilistico capace di produrre 6 milioni di vetture all'anno.
Nel settembre 2014 sostituisce Luca di Montezemolo alla presidenza della Ferrari. Il 21 luglio 2018, a causa dell'aggravarsi delle sue condizioni di salute, il consiglio di amministrazione di FCA, convocato d'urgenza, decide di sostituirlo con Michael Manley, in precedenza responsabile del marchio Jeep.
Ricoverato da circa un mese muore all'età di 66 anni presso un ospedale di Zurigo, in Svizzera, a causa di un tumore alla parte apicale del polmone (anche se le notizie ufficiali su questo dettaglio sono vaghe). Sergio Marchionne lascia la moglie Manuela Battezzato e i due figli Alessio Giacomo e Jonathan Tyler.

sabato 20 luglio 2019

#Almanacco quotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 20 luglio.
Il 20 luglio 2001, in piazza Alimonda a Genova, viene ucciso Carlo Giuliani.
Diciotto anni fa, durante una manifestazione contro il G8 in piazza Alimonda, a Genova, il carabiniere Mario Placanica uccise il manifestante 23enne Carlo Giuliani con un colpo sparato dalla sua pistola d’ordinanza. Le scene dell’uccisione di Giuliani furono mostrate da tutte le televisioni del mondo e diventarono per molti un simbolo delle proteste contro il G8 e della violenza della polizia, pochi giorni prima dei tragici fatti della scuola Diaz. I giudici stabilirono poi che Placanica aveva sparato per legittima difesa e il carabiniere fu prosciolto dall’accusa di omicidio colposo. Furono però contestate alcune lacune dell’inchiesta e la mancanza di chiarezza su quello che avvenne esattamente quel giorno a Genova; ci furono anche molte discussioni sulle presunte responsabilità di chi creò la situazione che portò alla morte di Giuliani. Oggi i processi e le commissioni di inchiesta parlamentare sono tutti chiusi ed è difficile che nel prossimo futuro si potranno chiarire ulteriormente altri aspetti di questa vicenda.
Venerdì 20 luglio 2001 iniziò a Genova la riunione dei capi di governo del G8, organizzata dall’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Era un incontro particolarmente atteso da parte del movimento “no-global”, un gruppo molto vasto ed eterogeneo composto soprattutto da ambientalisti, anarchici ed esponenti della sinistra radicale. Il movimento si era rafforzato due anni prima durante il G8 di Seattle, quando migliaia di manifestanti si erano scontrati con la polizia (quel movimento prese il nome di “popolo di Seattle”). Tra il 19 e il 22 luglio erano attesi a Genova decine di migliaia di manifestanti da tutto il mondo e governo e forze di sicurezza italiane decisero di prendere imponenti misure di sicurezza. Prima dell’inizio della manifestazione, il clima era molto teso: c’era il timore di attacchi terroristici e la paura che le manifestazioni diventassero violente. Pochi giorni prima, la questura di Genova aveva diffuso tra le forze dell’ordine un’informativa che parlava di possibili azioni dei manifestanti contro la polizia, come ad esempio l’uso di “catapulte” e il lancio di frutta con all’interno lamette da barba o palloncini pieni di sangue infetto.
La mattina del 20 luglio ci furono i primi cortei della giornata, che cominciarono senza violenze. Poi la situazione cambiò in fretta: iniziarono a verificarsi degli incidenti e gli scontri tra manifestanti e polizia si fecero molto duri. Le immagini riprese in quei momenti, e in generale nei giorni del G8, furono trasmesse da molte televisioni in giro per il mondo, anche perché mostravano episodi di reazioni molto dure della polizia contro i manifestanti. Furono trasmesse scene che mostravano persone sanguinanti allontanarsi dagli scontri e che si curavano le ferite in strada con mezzi di fortuna. Parte dei manifestanti affrontò duramente la polizia, con il lancio di sassi e pietre, e in alcuni casi bottiglie incendiarie. Gruppi ancora più piccoli e organizzati, quelli che i giornali definirono i “black bloc” compirono atti di vandalismo, attaccando banche e supermercati.
Dalle ricostruzioni di quei giorni emerse che le forze di sicurezza si trovarono in grande difficoltà nel gestire la situazione, sia causa della disorganizzazione che della conformazione della città di Genova, intersecata da strade spesso strette e ripide. Poliziotti e carabinieri furono anche accusati di aver lasciato liberi i vandali e di aver attaccato i grossi cortei più pacifici. Nel corso di uno di questi scontri, un gruppo di carabinieri si ritrovò in piazza Alimonda da dove, non è chiaro perché, si mosse attraverso una via laterale verso il fianco di uno dei cortei più grandi, il cui percorso era stato autorizzato dalle autorità.
Dietro ai carabinieri avanzavano anche due fuoristrada non blindati: una mossa sbagliata, come è stato poi confermato dagli stessi carabinieri, perché i due mezzi rischiavano di restare isolati dal resto del reparto e, a causa della mancanza di blindatura, i loro occupanti sarebbero stati in pericolo se fossero stati circondati. Dai filmati di quei minuti non sembra che il reparto fosse direttamente minacciato e infatti non compì una vera e propria carica. I carabinieri si mossero lentamente contro il fianco dei manifestanti, subendo – e poi rispondendo – a un lancio di sassi. Furono costretti prima a indietreggiare e poi scappare per interrompere il contatto: il comandante del reparto disse che i suoi uomini “persero lucidità” e “arretrarono in maniera impetuosa”.
Nella confusione di quegli attimi, il reparto in fuga si lasciò dietro i due fuoristrada che finirono per intralciarsi a vicenda restando bloccati nel mezzo della piazza. Uno dei due mezzi fu circondato da decine di manifestanti che iniziarono ad attaccare il veicolo con sassi e assi di legno, sfondando i finestrini e cercando di lanciare oggetti contro gli occupanti. Placanica si trovava all’interno del mezzo e raccontò che in quel momento fu preso dal panico. Estrasse la sua pistola d’ordinanza e minacciò i manifestanti che lo circondavano. Disse di aver ripetuto il grido più volte: quando si accorso che i manifestanti non si allontanavano, sparò due colpi. Il primo colpì alla testa Carlo Giuliani, che in quel momento si trovava a pochi metri dal fuoristrada e teneva sopra la testa un estintore. Giuliani cadde a terra e pochi istanti dopo l’autista riuscì a liberare il mezzo, che passò sopra il corpo di Giuliani per due volte, una prima in retromarcia, una seconda in direzione anteriore. Pochi minuti dopo, carabinieri e polizia occuparono nuovamente la piazza. Quando l’ambulanza arrivò sul posto, Giuliani era già morto.
Fino a questo punto il resoconto dei fatti sembra chiaro: un’operazione mal pianificata mise alcuni carabinieri in una situazione estremamente complicata e nel panico uno di loro aprì il fuoco causando la morte di Giuliani. È una ricostruzione su cui le parti sembrano essere quasi tutte d’accordo, anche se alcuni membri del movimento no-global sostengono che quella di piazza Alimonda sia stata una “trappola”, cioè un’operazione pianificata dalla polizia. A quasi 20 anni di distanza, rimangono però alcuni dettagli poco chiari, tra cui due particolarmente importanti: gli agenti sul posto tentarono un goffo depistaggio delle indagini? E come venne ferito esattamente Carlo Giuliani?
L’autopsia rivelò una profonda ferita sulla fronte di Giuliani. Secondo la ricostruzione del sito Piazzacarlogiuliani.org, che raccoglie alcune delle molte inchieste indipendenti che sono state realizzate sugli eventi di Piazza Alimonda, quella ferita venne prodotta da un carabiniere che cercò di creare artificialmente una prova che Giuliani era stato ucciso da un sasso lanciato dai manifestanti. Secondo il sito, subito dopo la ripresa del controllo della piazza da parte delle forze dell’ordine, un carabiniere avrebbe sollevato il passamontagna di Giuliani e con un sasso lo avrebbe colpito sulla fronte, causando una grossa ferita irregolare. Dalle fotografie di quei momenti, sembra in effetti che un sasso che si trovava a una certa distanza da Giuliani fosse stato spostato vicino alla sua testa. Inoltre non c’erano tracce di danni sul passamontagna di Giuliani in corrispondenza della ferita, come se prima di essere inflitta qualcuno avesse scoperto la fronte del ragazzo. I medici, però, non hanno escluso che la ferita potesse essere stata causata dalla caduta di Giuliani oppure dall’auto che lo aveva investito. In un’intervista del 2006, Placanica disse che alcuni dei suoi colleghi avevano colpito Giuliani sulla fronte con un sasso (ma al momento in cui sarebbe avvenuto il fatto Placanica non si trovava sul posto).
Diversi degli agenti presenti, che quindi avevano probabilmente sentito gli spari, hanno ipotizzato fin da subito che la morte di Giuliani fosse stata causata proprio da un sasso lanciato dagli stessi manifestanti. Dopo pochi minuti dagli spari, non appena la polizia era tornata a occupare la piazza, un agente iniziò a gridare contro un manifestante, accusandolo di aver lanciato un sasso che aveva ucciso Giuliani. In una telefonata registrata con uno dei suoi comandanti e usata durante il processo sulla morte di Giuliani, uno dei carabinieri sul posto disse che Giuliani era stato investito, che forse era stato colpito da un sasso o forse da un proiettile. Il generale con cui il carabiniere era al telefono si stupì molto per queste contraddizione e gli chiese come potesse avere dei dubbi sulle cause della morte di Giuliani: «Ma non lo hai mai visto un morto ammazzato?». Alle 18, nella prima conferenza stampa tenuta dopo la morte di Giuliani, la polizia parlò di un manifestante spagnolo probabilmente ucciso da un sasso, ma pochi minuti dopo le agenzie cominciarono a diffondere le prime dichiarazioni dei medici che parlavano invece di uno sparo. L’unico fotografò che riuscì ad avvicinarsi al corpo di Giuliani in quei primi istanti venne picchiato e le sue due macchine fotografiche furono distrutte dagli agenti presenti.
L’altro principale punto di contrasto sulle versioni è in quale direzione sparò Placanica. Secondo i PM, Placanica non stava prendendo la mira esplicitamente su Giuliani, anche perché, da una serie di esami autoptici e balistici, sembra che nel cranio di Giuliani sia entrato un oggetto più piccolo di un’ogiva di proiettile, come se il proiettile sparato si fosse frantumato su un ostacolo prima di colpire Giuliani (il frammento di proiettile ha attraversato il cranio di giuliani ed è uscito dall’altra parte, e non è stato mai recuperato). I magistrati hanno lasciato aperte due ipotesi: la prima, che Placanica abbia cercato di sparare in aria; la seconda, che abbia sparato senza prendere di mira nessuno in particolare, accettando il rischio di colpire qualcuno. In entrambe le circostanze Giuliani sarebbe stato colpito per una coincidenza incredibilmente sfortunata: il proiettile sparato dal carabiniere avrebbe colpito un sasso che si trovava in aria (e che si può vedere esplodere nel filmato di quei momenti) e un suo frammento avrebbe colpito poi Giuliani.
Secondo gli esperti di parte della famiglia, invece, il sasso che si vede nel filmato sarebbe esploso dopo aver colpito lo spigolo della camionetta, mentre il colpo sparato da Placanica sarebbe stato esplicitamente mirato contro Giuliani. Per spiegare come mai nel cranio non siano state trovate tracce del passaggio di un’ogiva intera, il sito Piazzagiuliani.org ha formulato una teoria secondo cui Placanica aveva in dotazione una pistola con proiettili di gomma non autorizzati all’utilizzo in Italia. I magistrati hanno ritenuto che, in ogni caso, Placanica si trovava in una situazione di pericolo, chiuso all’interno di un auto bloccata e circondata di manifestanti ostili. Indipendente dalla direzione nella quale ha esploso i colpi, dicono i magistrati, Placanica ha agito per legittima difesa. Nel 2003 il GIP accolse la loro richieste di archiviazione. Nessun ufficiale è stato indagato o processato per la conduzione dell’azione in piazza Alimonda o per il presunto depistaggio delle indagini. Nel 2011 la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha assolto completamente il governo da tutte le accuse di aver contribuito indirettamente alla morte di Giuliani.

venerdì 19 luglio 2019

#Almanacco quotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 19 luglio.
Il 19 luglio 1620 ebbe inizio il cosiddetto "Sacro Macello della Valtellina".
La tradizione cristiano-cattolica in Italia è un dato di fatto difficile da smentire. Per la particolarità della presenza dello stato Vaticano sul territorio nazionale e la nascita stessa del potere temporale della Chiesa a Roma ancora in epoca romana, è difficile pensare a questa nazione separatamente da questa fede, che di fatto contraddistingue ancora oggi molte scelte e di costume e politiche.
 Tuttavia, all’indomani della riforma protestante, alcune eco della dottrina luterana si hanno anche in Italia, sebbene la maggior parte non abbia modo di radicarsi o creare vere e proprie comunità di fedeli a causa della forte repressione messa in atto dalla macchina della Controriforma e dal proprio braccio armato, la Santa Inquisizione.
 Curiosamente per altro, proprio tra i movimenti pauperistici - quelli più vicini a un ritorno al Vangelo, proprio in linea con il pensiero luterano - si reclutano i principali componenti dell’Inquisizione, e sicuramente la causa è che proprio all’interno di questi movimenti si erano individuati dei predicatori tacciati di eresia, presto fuggiti verso la Svizzera.
 E proprio sul confine con la Svizzera - ove le dottrine di Calvino, Lutero e Zwingli erano ormai praticate dalla maggioranza della popolazione - si scatena all’inizio del 1600 una vera e propria guerra di religione.
 All’epoca la Valtellina, crocevia di commerci tra l’Italia e l’Europa continentale, è territorio della Confederazione Elvetica, facendo parte nello specifico del Canton Grigioni. Questa valle - strategica dal punto di vista geografico - era stata fino al 1512 parte del Ducato di Milano, dominato dagli Sforza, e come conseguenza la popolazione valtellinese si sentiva legata al destino della città padana assai più che a quello dei più vicini svizzeri, visti invece come e veri e propri dominatori stranieri.
 A ciò si aggiunga che nel 1504 si ha un avvenimento che segna inesorabilmente il destino di questo territorio: a Tirano appare la Madonna, per la quale viene edificato un magnifico santuario barocco. Questo evento porta con sé inevitabilmente un rafforzamento della fede cattolica tra la popolazione, proprio pochi anni prima di passare forzatamente sotto il dominio degli svizzeri riformati, e per questo ancora più mal sopportati.
 Nonostante la tolleranza in materia religiosa mostrata dagli Svizzeri, si radicalizzano posizioni di fanatismo religioso cattolico, fomentate anche da predicatori inviati dal Ducato di Milano sia per contrastare la Riforma sia nella speranza di un sollevamento popolare e di una riconquista dello strategico territorio, corridoio verso l’Austria asburgica.
 Con il diffondersi della Controriforma, la Basilica della Madonna di Tirano inizia ad essere vista come l’ultimo baluardo del cattolicesimo tra gli infedeli, visione questa assai sponsorizzata dall’arcivescovo meneghino Carlo Borromeo, che ne diviene un fedele devoto facendo importanti visite pastorali nella cittadina valtellinese.
 Al proselitismo di Borromeo si aggiunge a partire dal 1587 lo zelo del nuovo arciprete di Sondrio, Nicolò Rusca, che contrasta con forza il dilagare nella valle della fede protestante, anche infrangendo la legge.
 La convivenza tra protestanti e cattolici diviene sempre più difficile e sfocia in una vera e propria escalation di violenza. Nel 1569 il pastore della chiesa riformata di Morbegno, l’ex frate minorita Francesco Cellario, viene rapito da alcuni frati domenicani e portato in catene a Roma, dove verrà impiccato e poi bruciato a Ponte Sant’Angelo il 25 maggio dello stesso anno, a seguito di un lungo interrogatorio volto a farlo abiurare.
 Il clima in Valtellina si fa dunque sempre più teso, i cattolici sempre meno disposti a una pacifica tolleranza dei dominatori protestanti e sempre più sprezzanti delle leggi che tentano di mantenere il delicato equilibrio tra le due comunità. Il pastore protestante Scipione Calandrini, tra i maggiori promotori di una politica basata sul reciproco rispetto e tolleranza tra le confessioni, è vittima di un tentato omicidio a cui fa seguito il tentativo, sempre per mano cattolica, di rapirlo per consegnarlo alla Santa Inquisizione, progetto che comunque non va a buon fine.
 In tutta risposta, le autorità grigionesi, ritenendo il Rusca responsabile del tentato omicidio, il 24 luglio 1618 fanno arrestare l’arciprete di Sondrio perché venga processato a Thusis. Il processo inizia il 1° settembre dello stesso anno ma non si conclude poiché l’arciprete muore a seguito delle torture subite il 4 settembre, senza aver confessato nulla. E questo avvenimento è l’inizio di una vera e propria guerra di religione.
 Nel 1619 viene convocato un sinodo protestante a Tirano e nel contempo se ne tiene uno cattolico a Como. Le provocazioni tra le due comunità vanno intensificandosi, fino alla fatale notte tra il 18 e il 19 luglio del 1620 quando un vero e proprio kommando di fanatici cattolici, guidato da Giacomo Robustelli, si abbatte sui protestanti per vendicare la morte del Rusca.
 In successione e con lucida crudeltà vengono uccisi quasi tutti i protestanti della comunità tiranese; viene poi messa a ferro e fuoco Teglio, dove si mette in atto una vera e propria strage all’interno della Chiesa evangelica stessa dove i protestanti avevano cercato rifugio, senza avere pietà per donne e bambini, arsi vivi nel campanile. Ultima tappa Sondrio, da cui solo un esimio gruppo di 70 persone armate riesce a fuggire e trovare rifugio in Engadina. Si calcola che in questo spaventoso pogrom, chiamato dallo storico Cesare Cantù Sacro Macello della Valtellina, siano state trucidate circa 600 persone.
 Un capitolo sanguinoso per la storia di una piccola comunità montana che diviene protagonista della grande storia europea, seppure nel peggiore dei modi: il Sacro Macello valtellinese infatti, assieme alla rivolta anti-asburgica della Boemia, è tra le cause della Guerra dei Trent’anni (1618 – 1648).
 Alla fine del primo periodo della guerra, nel 1639, la Valtellina sarebbe tornata in mano ai Grigioni, dominazione a cui sarebbe rimasta soggiogata fino all’annessione nel 1797 alla Repubblica cisalpina. Il ritorno alla Svizzera avvenne a condizione che nella regione venisse accettata la sola fede cattolica.
 La valle si contraddistingue per tutto il secolo successivo per la forte presenza di fenomeni di stregoneria, prontamente repressi dalla lunga mano della Controriforma, perfettamente in linea con quanto succede negli altri territori di confine tra cattolicesimo e protestantesimo in tutta Europa.

giovedì 18 luglio 2019

#Almanacco quotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 18 luglio.
Il 18 luglio 1969 Ted Kennedy fu protagonista di una terribile vicenda.
Era la notte del 18 luglio 1969 quando l'isoletta di Chappaquiddick, nel Massachusetts, divenne tristemente nota a livello internazionale e Ted Kennedy si macchiò dello scandalo che interruppe le sue aspirazioni presidenziali. Una notte di festa, belle ragazze e morte.
Kennedy ebbe un incidente d'auto in cui perse la vita la ventottenne Mary Jo Kopechne. Mentre attraversava un ponticiattolo di legno privo di guardrail, la sua Oldsmobile Delmont 88 cadde in uno stagno, il Poucha Pond. Lui riuscì a uscire dalla vettura e a mettersi in salvo, la giovane no. Kennedy avvertì le autorità solo 10 ore dopo il fattaccio. La maledizione sulla famiglia Kennedy colpì ancora (JFK era stato ucciso quasi sei anni prima).
Ted Kennedy all'epoca aveva 37 anni ed era senatore in Massachusetts, carica che rinnovò a lungo.
La sera del 18 luglio 1969 ospitò una festa al Lawrence Cottage nell'isola di Chappaquiddick, raggiungibile in un traghetto dalla città di Edgartown: erano presenti sei ragazze che avevano lavorato alla campagna elettorale del fratello Robert F. Kennedy, tra cui Mary Jo Kopechne, e cinque amici e conoscenti di Kennedy. Lui era sposato con Joan, tra l'altro allora incinta (poi abortì e diede la colpa allo scandalo); erano sposati anche gli altri cinque uomini. Le sei ragazze erano single.
A un certo punto della serata Ted, verso le 23.15, si allontanò dalla festa in auto con Mary Jo Kopechne. Imboccò la Dike Road, strada sterrata che portava al Dike Bridge. La vettura, che andava a 30 km orari, andò fuori strada piombando in acqua. Ted riuscì a scappare dell'auto che affondava, la ragazza no. Si allontanò dalla scena dell'incidente e denunciò l'episodio alle autorità solo 10 ore dopo, quando due pescatori avevano già avvistato l'automobile sott'acqua e la polizia aveva già recuperato il corpo della ragazza e diffuso la notizia.
Queste le dinamiche certe. Poi le altre, sono appese alle dichiarazioni di Kennedy.
Kennedy disse che inizialmente si stava allontanando dalla festa da solo, e che Mary Jo Kopechne gli chiese un passaggio per l'hotel (borsa e chiavi d'hotel di lei furono però rinvenuti sul luogo della festa). Disse anche che sbagliò strada, quando entrò nella Dike Road.
Nella testimonianza affermò di aver provato più volte a nuotare verso il luogo dell'affondamento per cercare di salvare Kopechne e di averla chiamata più volte della riva. Dopo essersi riposato sulla riva per circa un quarto d'ora, sarebbe tornato sul luogo della festa per chiamare in soccorso due dei partecipanti, Joseph Gargan e Paul F. Markham (sulla strada, però, cosa che Kennedy non disse, c'erano altre case abitate più vicine a cui avrebbe potuto chiedere aiuto). Anche con loro avrebbero provato a soccorrere Kopechne. I due amici avrebbero spronato Kennedy a denunciare l'episodio, cosa che ancora non fece.
Sarebbe quindi tornato alla sua stanza d'albergo a Edgartown e, toltosi i vestiti bagnati, si sarebbe addormentato di colpo sul letto. Al telefono diversi amici gli consigliarono di denunciare il fatto. Le fece solo la mattina dopo: alle 10 entrò nella stazione di polizia di Edgartown.
Al processo Kennedy si dichiarò colpevole dell'accusa di aver abbandonato la scena dell'incidente. Il giudice James Boyle lo condannò per omissione di soccorso a due mesi di reclusione, la pena minore per quel tipo di reato, che fu sospesa.
Kennedy fece un lungo discorso in tv, rivolto agli elettori del Massachusetts, spiegando la dinamica dell'incidente, il forte shock subìto, e chiedendo se dovesse dimettersi.
Kennedy venne rieletto nel 1970 con il 62% dei voti, mentre il Dike Bridge divenne una macabra attrazione turistica e preda di cacciatori di souvenir.

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