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domenica 30 giugno 2019

#Almanacco quotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 30 giugno.
Il 30 giugno 1971 l'intero equipaggio della Soyuz 11 muore durante il viaggio di rientro sulla Terra.
Nelle steppe del Kazakhistan i tecnici dell’Agenzia Spaziale russa sono in trepidante attesa per l'arrivo della Soyuz 11. La navicella dovrebbe atterrare a momenti e la sua missione, nonostante vari problemi, è stata un successo: la navicella si era agganciata alla stazione spaziale Saljut e il suo equipaggio aveva "abitato" per la prima volta un avamposto umano nello spazio.
 Le fasi di discesa si svolgono come da programma, i paracadute si aprono e la Soyuz 11 atterra nella steppa. Ma quando i tecnici aprono lo sportello della navicella per chiedere ai tre astronauti come mai non avessero risposto alle chiamate da Terra durante l’attraversamento dell’atmosfera, trovano una terribile sorpresa: i tre uomini sono immobili nei loro seggiolini. Le cinture ancora allacciate. Sembra che dormano, ma non dormono.
 I tre cosmonauti vengono velocemente estratti dai loro posti. I medici praticano i primi soccorsi, respirazione bocca a bocca e massaggio cardiaco. Tutto inutile, non c'è nulla da fare: Georgij Timofeevič Dobrovol'skij comandante della missione, Viktor Ivanovič Pacaev ingegnere di bordo e Vladislav Nikolaevič Volkov ingegnere collaudatore, sono morti.  Accanto all'acciaio che li ha portati in orbita e sull'erba secca che li ha accolti dopo il loro primo viaggio nello spazio. Che cosa era successo?
 La Saljut 1 è stata la prima stazione Spaziale in assoluto. Dopo la visita della Soyuz 11 non fu più visitata da nessun equipaggio e rimase in orbita fino al rientro distruttivo in atmosfera, avvenuto l'11 ottobre 1971.
Facciamo un passo indietro. La Soyuz 11 era una missione molto importante soprattutto perché la precedente, la Soyuz 10,  non era riuscita ad agganciarsi alla stazione spaziale Saljut 1 e quindi gli astronauti erano tornati a Terra senza risultati scientifici. Soyuz 11, invece, riuscì nell’attracco dopo essere partita il 6 giugno 1971.
 I tre cosmonauti facevano parte dell’equipaggio di riserva del volo. Una tosse insistente che affliggeva il comandante dell’equipaggio originale aveva fatto pensare che fosse affetto da tubercolosi e che l’avesse potuta trasmettere agli altri due membri dell’equipaggio. In seguito la diagnosi si rivelò errata, ma fu così che Dobrovol'skij, Pacaev  e Volkov si ritrovarono in volo per quella missione.
 Una missione non priva di problemi. Grave fu un principio d’incendio che mise fuori uso il telescopio di bordo della Saljut e che fece anticipare il rientro di una settimana.
Dopo 23 giorni e 18 ore di missione iniziò la fase di discesa a Terra. Senza particolari sorprese e incidenti.  Che cosa aveva dunque causato la morte dei 3 cosmonauti?
 Inizialmente si pensò all’impossibilità dell’uomo di poter vivere a lungo nello spazio. Durante la missione della Nasa di Gemini 7, durata 13 giorni, il cuore degli astronauti aveva dato segni di impigrimento. Nel luglio 1969, la scimmia Bonny a bordo del Biosatellite 3 era morta per insufficienza cardiaca dopo il recupero di un volo durato 9 giorni. E dunque si pensò che anche i tre cosmonauti fossero deceduti per problemi cardiaci.
 Ma le cose andarono molto diversamente. La colpa fu di una valvola della Soyuz che avrebbe dovuto equiparare la pressione dell’aria interna con quella esterna. Doveva entrare in azione poco prima dell’atterraggio e invece scattò subito dopo il distacco della Soyuz dalla Saljut, facendo uscire tutta l'aria all'interno dell'abitacolo.
La causa prima, in realtà, fu un distacco dalla Saljut non da manuale: i bulloni che tenevano unite navicella e stazione spaziale si staccarono simultaneamente attraverso delle microcariche esplosive, mentre dovevano separarsi uno dopo l’altro. Il fatto fece allontanare violentemente la navicella e al contempo fece aprire la valvola.
 Sembra che uno dei tre astronauti si accorse del fatto e tentò di chiuderla a mano, ma perse i sensi prima di riuscirci. La perdita d’aria della capsula causò la morte dei tre astronauti per decompressione.
 A quel tempo i sovietici facevano grande affidamento sulla Soyuz al punto che il rientro non prevedeva che i cosmonauti indossassero le tute. Se le avessero avute, l’ossigeno sarebbe arrivato direttamente dai serbatoi e non dall’interno della capsula.
 Si sarebbero salvati. Da allora tutti i cosmonauti e gli astronauti le indossano.

sabato 29 giugno 2019

#Almanacco quotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 29 giugno.
Il 29 giugno 1950, nel corso dei campionati mondiali di calcio, gli Stati Uniti battono l'Inghilterra, nella partita che verrà ricordata come "il miracolo di Belo Horizonte".
È il 1950. Siamo alla metà esatta del secolo. La guerra è finita da qualche anno e l’Europa è un cantiere a cielo aperto. In Asia scoppia la guerra di Corea, l’America, invece, dopo la crisi del 29’ e la fine della guerra si trova in un periodo florido dal punto di vista economico. È il periodo delle migrazioni negli Stati Uniti alla ricerca di maggiori fortune. Ma è anche il periodo in cui la musica cambia, nasce infatti il rock’n’roll, quello che poi si evolverà in rock puro. Insomma, il mondo è in piena rivoluzione.
È sempre il 1950 quando, dopo 12 anni di inattività, ritorna il campionato mondiale di calcio. L’Europa, come detto, è in totale ricostruzione e il solo Brasile si propone di organizzare la massima competizione, durante la conferenza avvenuta a Lussemburgo nel 1946. La FIFA sceglie di escludere in partenza Germania e Giappone, ritenute le massime responsabili della guerra. L’Italia tentenna, i costi sarebbero troppo elevati e buona parte dei componenti della nazionale sono scomparsi l’anno precedente nella tragedia di Superga che aveva coinvolto il grande Torino. In seguito la FIFA riesce a convincere gli azzurri, gli ultimi ad essersi aggiudicati la coppa nel 1938, che proprio dal 1950 assumerà per la prima volta la denominazione di ‘’Coppa del mondo Jules Rimet’’, a partecipare.
L’inizio della competizione è alle porte, è estate e i pronostici non lasciano dubbi. Hanno già individuato chi si contenderà la vittoria finale. Dovrebbero essere infatti i campioni del mondo in carica dell’Italia al fianco dei padroni di casa del Brasile i favoriti, ma regna l’ombra della selezione inglese, ritenuta dallo stesso popolo brasiliano la più temuta. Gli inglesi dal punto di vista calcistico vivono una situazione particolare, si tratta infatti della loro prima presenza in ambito mondiale a causa di vari diverbi con la FIFA e la conseguente uscita da essa, ma nel 1946 avviene la riammissione che li porta dunque a partecipare alla competizione che si sarebbe svolta quattro anni dopo.
Tra le sorprese della competizione vi è anche l’umile selezione statunitense, già alla terza partecipazione e che addirittura è riuscita a conquistare un terzo posto nel 1930 in Uruguay. Caso curioso: gli statunitensi giocano la loro prima partita dopo 10 anni di inattività nel 1947, l’ultima era stata giocata nel 37’ e per tale motivo, da aggiungersi al fatto che la nazionale era composta per lo più da dilettanti e da gente che praticava il ‘’soccer’’ come hobby, quando il sorteggio decreta Stati Uniti ed Inghilterra nello stesso girone, gli inglesi sorridono. Irrisoriamente.
Gli inglesi, dal canto loro invece, sono forti, molto forti, possono annoverare campioni del calibro di Stanley Matthews, che passerà alla storia come uno dei calciatori più longevi di sempre ma soprattutto per essere stato nominato in seguito, nel 56’, il primo pallone d’oro della storia. Gli inglesi non sono solo forti, sono spavaldi, molto spavaldi ed è su questo che si sviluppa la nostra storia, costituita da protagonisti contrapposti.
È il 24 giugno quando la competizione, dopo una lunghissima attesa, ha finalmente inizio. I padroni di casa del Brasile affrontano il modesto Messico. 4-0, una partita senza storia e che nessuno mai ricorderà. Eppure, l’edizione del 1950 passerà alla storia, sarà infatti l’edizione delle sorprese, l’edizione dove la presunzione e l’arroganza non troveranno spazio, ma saranno punite amaramente dal destino. E’ il 24 giugno, il mondiale è già iniziato, ma nessuno sa ancora cosa riserverà.
Gruppo 2, il sorteggio decreta che Spagna, Cile, Inghilterra e Stati Uniti si affronteranno per decidere chi andrà al secondo turno eliminatorio della fase finale. Come sempre i pronostici, spesso crudeli e spietati, non lasciano dubbi. E non hanno dubbi neanche gli inglesi, forse neanche gli statunitensi che già partono sconfitti in cuor loro. È il 25 giugno quando gli inglesi esordiscono sbarazzandosi del Cile con un secco 2-0, contemporaneamente la Spagna ne rifila tre proprio agli Stati Uniti. Tutto come previsto insomma. Nel secondo turno toccherà proprio alle compagini inglesi e statunitensi affrontarsi.
La partita si gioca il 29 giugno, la vigilia viene vissuta in modo opposto. In modo arrogante e spavaldo dagli inglesi, gli inventori del calcio. In modo quasi rassegnato dagli americani. Gli inglesi, dall’alto della loro superiorità, riconoscono come sola imitazione il calcio praticato fuori dai confini nazionali; non era lo sport praticato da loro. Il calcio, quello vero, si giocava in Inghilterra e per questo, dopo anni di soli tornei giocati tra le loro ‘’mura’’, era venuta l’ora di dimostrarlo anche nella massima competizione: il Mondiale. Gli inglesi però non avevano ancora fatto i conti col destino, beffardo e punitivo talvolta.
Il 29 giugno è arrivato, dopo 24 ore di bombardamento mediatico ai danni delle vittime sacrificali americane da parte dei media inglesi, si scende in campo. Gli Stati Uniti schierano la loro migliore formazione, composta non solo da calciatori non professionisti, ma anche da calciatori di nazionalità non americana. E’ il caso del capitano Ed McIlvenny, scozzese di nascita ma che aveva chiesto la cittadinanza americana e ciò era già sufficiente per essere convocato secondo le regole di allora. Ma è soprattutto il caso di Joe Gaetjens, haitiano di nascita. A proposito, segnatevi questo nome. Gli inglesi invece lasciano a riposo la loro stella, Matthews, e la leggenda narra che prima della partita i calciatori consumarono birra e sigari a volontà. Non sappiamo se sia vero, ma a noi piace crederci.
Belo Horizonte è la sede designata, gli spalti sono pieni soprattutto di sostenitori brasiliani per sostenere la causa americana al fine di evitare gli inglesi nel secondo girone eliminatorio. Sono le 15 quando l’arbitro italiano Dattilo fischia il calcio d’inizio e la partita prende subito la piega immaginata con gli inglesi che attaccano e i dilettanti americani alla ricerca del miracolo. Gli inglesi hanno già concluso in porta diverse volte, si pensa sia solo questione di tempo, solo sfortuna sotto porta, solo la giornata positiva del portiere, ma prima o poi quel pallone entrerà, come da pronostico, come da copione. Ma il destino sa essere crudele e beffardo, sa punire gli stolti e premiare gli audaci, come la fortuna. E’ la stessa fortuna mista al destino che al minuto 38’ decreta il passaggio chiave di questa vicenda, una frazione di secondo che darà un senso a quella competizione data per scontata dai pronostici. Un minuto per cambiare il corso degli eventi. Un tiro parte dalla distanza, è pronto ad andare fuori o tra le braccia comode del portiere inglese, ma il destino si materializza nella figura di quel Joe Gaetjens, che si tuffa di testa avverando l’impossibile. Gli Stati Uniti sono clamorosamente in vantaggio!
Sembra scontato il ribaltone. Nel secondo tempo iniziano meglio gli Stati Uniti, ma gli inglesi prendono il sopravvento col passare dei minuti. Attaccano come se non ci fosse un domani e la partita prende la stessa piega del primo tempo con gli statunitensi che soffrono e si rintanano. Ma non accade nulla, poi una punizione ravvicinata per gli inglesi che viene battuta male, palla respinta e sulla ribattuta un colpo di testa sembra stia per insaccarsi e consegnare agli inglesi quel pareggio che avrebbe almeno attutito l’umiliazione. Il tragitto del pallone verso la rete viene però interrotto sulla linea dalle mani di Borghi, portiere statunitense, con gli inglesi che reclamano il gol a gran voce. Non è gol, l’arbitro non convalida, il pallone non ha attraversato la linea, gli Stati Uniti sono ancora in vantaggio.
I ritmi calano, gli inglesi sembrano quasi arrendersi, addirittura gli Stati Uniti sciupano il clamoroso raddoppio. Ma non ce ne sarà bisogno, non servirà alcun secondo gol per evitare la beffa ed anche gli inglesi iniziano ad arrendersi a ciò che nessuno immaginava potesse accadere. Sembrava scontato il ribaltone ed invece non erano bastati neanche gli ulteriori 45’ agli inglesi per recuperare ciò che dall’alto qualcuno aveva in serbo per loro. L’arbitro Dattilo fischia tre volte, è finita. Gli Stati Uniti hanno compiuto il miracolo, Davide ha battuto Golia. Il pubblico invade il campo, sono per lo più brasiliani felici per la sconfitta di quella che sarebbe dovuta essere la più temuta tra le rivali. Tutti vanno ad abbracciare l’eroe, quel Joe Gaetjens che vivrà quel lampo di popolarità. Viene portato in trionfo come mezzo mediante cui Davide compì la sua impresa contro Golia, quel colosso inglese che sembrava insuperabile fino alla vigilia.
I media inglesi non credettero quasi a quanto successo e ritardarono l’uscita dei giornali, credevano ad un errore di dicitura, ma anche loro dovettero arrendersi all’umiliazione e alla dura realtà di quanto accaduto a chilometri e chilometri di distanza. Per la cronaca, l’Inghilterra perse anche contro la Spagna e fu eliminata, un’umiliazione totale per coloro che si erano limitati ad osservare da lontano uno sport che non reputavano altro che una copia di quello da loro inventato.
Era il 29 giugno 1950, quando Joe Gaetjens e gli Stati Uniti fecero capire agli inglesi che i miracoli esistono e a Belo Horizonte se lo ricordano ancora bene.

venerdì 28 giugno 2019

#Almanacco quotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 28 giugno.
Il 28 giugno 1946 Enrico de Nicola viene nominato come capo provvisorio della Repubblica Italiana.
Enrico De Nicola nasce a Napoli il 9 novembre 1877. È passato alla storia nazionale per essere diventato il primo Presidente della Repubblica Italiana, eletto il 1° gennaio del 1948. Ma durante la sua lunga vita ha ricoperto più incarichi, da quello di giornalista a quello di avvocato.
La laurea in giurisprudenza infatti, conseguita presso l'Università di Napoli, gli apre subito le porte della professione. Sceglie l'ambito penalista e ben presto si fa conoscere a livello nazionale per le sue capacità forensi. Tuttavia, il suo primo impegno di rilievo è nel campo giornalistico. Nel 1895 infatti, diventa redattore per il "Don Marzio", curando la rubrica quotidiana di vita giudiziaria.
Nel 1909 invece, ha inizio la sua brillante carriera politica, con l'elezione a Deputato del Parlamento, all'interno delle liste cosiddette liberal-conservatrici. Da laico, Enrico De Nicola si riconosce nell'area che ha come punto di riferimento Giovanni Giolitti, all'epoca uno dei politici di spicco del panorama italiano. La legislatura cui prende parte per la prima volta è la XXIII, il collegio quello di Afragola.
Alle successive elezioni del 1913, De Nicola viene rieletto e nominato Sottosegretario di Stato per le Colonie, carica che ricopre anche l'anno dopo, il 1914, all'interno del IV Governo presieduto da Giolitti. Sono anni problematici per l'Italia e per i suoi governi, i quali devono subire le spinte delle fazioni politiche appartenenti alle correnti più estreme, oltre che fronteggiare l'emergenza bellica, e l'avvocato e politico napoletano si ritrova ad appoggiare l'area degli interventisti.
Anche nel 1919, al termine della Prima Guerra Mondiale, Enrico De Nicola viene rieletto in Parlamento. Dopo aver ricoperto l'incarico di Sottosegretario di Stato per il Tesoro, sempre durante il 1919 del Governo Orlando, De Nicola viene eletto Presidente della Camera dei Deputati, esattamente il 26 giugno del 1920. Questa importante carica di governo la mantiene anche durante le successive elezioni, in cui viene riconfermato, ossia nel 1921 e nel 1924, pur non prestando giuramento a queste ultime e non partecipando, quindi, alle funzioni parlamentari.
Nel frattempo, Mussolini compie la marcia su Roma, il 1922, e De Nicola si ritrova a ricoprire il difficile ruolo di garante del patto nazionale di pacificazione tra fascisti e socialisti, poi abortito. Anche lui, come molti politici dell'area liberale e conservatrice, appoggia la fiducia all'esecutivo del Duce. In ogni caso, a salvare la sua condotta ideologica, per così dire, soprattutto in chiave post-regime, almeno in apparenza, è la decisione che sembra aver preso una volta lasciato l'incarico di presidente della Camera, nel 1924. È bastato un breve confronto con il regime, al futuro Presidente della Repubblica, a dargli un'idea chiara del momento storico vissuto dalla politica nazionale. De Nicola ha a che fare, infatti, con l'esperienza fascista, prendendo parte anche ad alcune commissioni, per quanto solo in virtù della sua esperienza e perizia giuridica.
E nel 1929 viene nominato senatore del Regno, senza mai prendere parte ai lavori parlamentari veri e propri. Da questo momento, parte il suo progressivo allontanamento dalla politica nazionale, in favore della sua attività di avvocato. L'immagine che lascia De Nicola in questi anni, è quella di una figura autorevole della politica pre-fascista. Così nel 1943, con la caduta di Mussolini, viene direttamente richiamato in causa a ricoprire il ruolo di mediatore fra gli Alleati e la Corona con il fine di consentire un agevole passaggio dei poteri. Si deve a lui, secondo le fonti dell'epoca, la soluzione di evitare l'abdicazione di Vittorio Emanuele III in virtù dell'istituzione della figura del Luogotenente, affidata all'erede al trono Umberto.
È, De Nicola, a conti fatti, uno degli artefici del Compromesso, insieme con altre figure di spicco che faranno parte della Prima Repubblica, come Bonomi, Nitti e Orlando. In questo stesso periodo, viene anche nominato componente della Consulta Nazionale.
Dopo il voto a favore della Repubblica del 2 giugno 1946 i partiti di massa (Dc, Psi e Pci) sono alla ricerca di un accordo per eleggere un Capo dello Stato provvisorio. Secondo molti, un uomo meridionale era quello giusto, meglio se appartenente alla schiera dei moderati, persino simpatizzante con la Monarchia la quale, com'è noto, perde con uno scarto minimo il referendum postbellico, vinto dalla Repubblica.
A decidere sono De Gasperi, Nenni e Togliatti, i quali si accordano sul nome di De Nicola. Così, nella seduta del 28 giugno del 1946, l'Assemblea nomina Enrico De Nicola come Capo provvisorio dello Stato a norma dell'articolo 2 del decreto legislativo luogotenenziale del 16 marzo 1946, n. 98. De Nicola ha la meglio sin dal primo scrutinio, con 396 voti a favore su 501.
Qualche giorno dopo, esattamente il 1° luglio del 1946, De Nicola viene insediato.
Sono gli anni difficili in cui l'Italia "tenta" di trasformarsi in una Repubblica, ma non senza conflitti interni. Il politico napoletano svolge il suo incarico dal Quirinale, come previsto, rifiutandosi però di risiedervi, in omaggio, come disse egli stesso, a quella che ritiene la "sua monarchia". Preferisce dunque la sede di Palazzo Giustiniani.
A conferma di questo periodo turbolento, c'è la dichiarazione da parte di Enrico De Nicola, il 25 giugno del 1947, di rassegnare le proprie dimissioni dall'incarico di Presidente, apparentemente in polemica con le forze governative impegnate durante l'assemblea costituente. Ma il giorno dopo, il 26 giugno del 1947, De Nicola viene rieletto Capo provvisorio dello Stato. Da qui alla presidenza vera e propria il passo è breve. E in osservanza della prima disposizione transitoria della Costituzione, dal 1° gennaio del 1948 Enrico De Nicola assume il titolo di Presidente della Repubblica Italiana.
Sempre in questo stesso anno, firma con Alcide De Gasperi (Presidente del Consiglio in carica e leader democristiano), Giuseppe Grassi (Pli, Guardasigilli in Carica) e Umberto Terracini (Pci, Presidente dell'Assemblea Costituente) la nuova Costituzione dell'Italia repubblicana.
Il suo mandato da Capo dello Stato è il più breve di tutti. Il 18 aprile del 1948 avvengono le elezioni e i "centristi", guidati sempre da De Gasperi, propendono per il liberale Luigi Einaudi, il quale succede a De Nicola alla Presidenza della Repubblica . In base alle leggi costituzionali poi, De Nicola viene nominato senatore a vita in qualità di ex Presidente della Repubblica.
Passano pochi anni e l'avvocato napoletano viene nominato Presidente del Senato, il 28 aprile del 1951. È e resta l'unica volta in cui un politico italiano è stato sia Capo dello Stato che Presidente dei senatori. In ogni caso, De Nicola si dimette dalla carica un anno dopo, esattamente il 24 giugno del 1952.
Nasce la Corte Costituzionale e forte della sua esperienza leguleia, Enrico De Nicola assume la nomina di giudice di questo nuovo organo nazionale, il 3 dicembre del 1955, con nomina del Presidente della Repubblica. L'anno dopo poi, il 23 gennaio del 1956, il Collegio alla sua prima riunione lo nomina Presidente della Corte. Anche in questo mandato istituzionale De Nicola rivela la propria indipendenza ideologica e lo fa tramite l'ennesimo atto di rassegnare le dimissioni.
L'anno dopo infatti, abbandona la carica di presidente, in aperto contrasto con il governo italiano accusato, a suo dire, di intralciare l'opera di democratizzazione delle istituzioni giudiziarie e delle norme giuridiche, impregnate com'erano ancora delle precedenti disposizioni di marca fascista. Alcuni mesi prima però, De Nicola riceve l'onorificenza di Cavaliere di gran croce decorato di gran cordone dell'ordine al merito della Repubblica Italiana, esattamente il 5 giugno del 1956.
Il primo Presidente della Repubblica italiana allora, ormai anziano, si ritira a vita privata, lasciando la città di Roma. Il 1° ottobre del 1959, nella sua casa di Torre del Greco, Enrico De Nicola muore, all'età di ottantuno anni.

giovedì 27 giugno 2019

#Almanacco quotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 27 giugno.
Il 27 giugno 1991, 2 giorni dopo la dichiarazione d'Indipendenza, la Slovenia viene invasa dalle truppe federali jugoslave. Ha inizio la guerra dei dieci giorni.
Quando si entra, oggi, in territorio sloveno si ha quasi l’impressione che questa giovane repubblica sia sempre stata europea.
 Superati i valichi con l’Italia, si vede sventolare sopra i vecchi edifici delle dogane la bandiera a dodici stella dell’Unione Europea. E ci si sente a casa. Gli stessi iugoslavi, al tempo della repubblica socialista, sostenevano che gli sloveni erano «un popolo germanofilo, impregnato di militarismo e indottrinato di spirito antijugoslavo».
 La Slovenia, però, non è stata sempre un territorio così tranquillo e pacifico. Fu questa, infatti, - una delle sei repubbliche socialiste costituenti la ex- Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia – a dare il via al sgretolamento dello stato voluto e creato da Tito nel 1945.
 Già dal gennaio 1990, i dirigenti della repubblica slovena predisposero il nuovo assetto per il futuro stato. Lo strappo con la Lega comunista jugoslava, causato dall’abbandono della delegazione slovena dei lavori, capeggiata da Milan Kučan, dell’ultimo congresso della Lega a Belgrado, fu l’inizio della nuova stagione politica. D’ora in poi, la Lega comunista slovena avrebbe cambiato nome: si sarebbe chiamata “Partito della riforme”. Il nuovo slogan sarebbe stato “Europa adesso”.
 Trascorsero solo tre mesi, e si tennero in Slovenia le prime elezioni libere dal dopoguerra. La vittoria, già annunciata da giorni dai sondaggi, andò al nuovo partito di Kučan. Egli divenne anche il nuovo presidente della piccola repubblica balcanica. A breve si sarebbe formato il primo governo non comunista della storia.
 Nelle settimane successive, la Croazia, al fianco della Slovenia nel processo da lungo tempo avviato di indipendenza dal centralismo di Belgrado, elesse presidente Franjo Tudjman, ex generale dell’esercito e politicamente di destra. Anch’egli era pronto a formare un governo senza comunisti e che rilanciasse l’idea di una Croazia libera ed indipendente da Belgrado.
 A dicembre, si svolsero le elezioni in Serbia: nuovo presidente divenne Slobodan Milošević, che formò un governo assieme ad altre formazioni nazionalistiche e cetniche. Nei piani del vozd serbo non c’era l’indipendenza né della Slovenia né della Croazia.
 Con queste due repubbliche secessioniste che guardavano ad occidente e alla propria indipendenza da Belgrado, e la Serbia che si avviava verso un cammino di rivendicazioni nazionalistiche ed etniche, al progetto della «Grande Serbia» lontano dalle politiche di Tito, la Jugoslavia sembrò avere un destino già tristemente segnato.
 Il 23 dicembre del 1990, con un referendum che ottenne l’88% dei “si”, la Slovenia si dichiarò indipendente dalla Federazione Socialista di Jugoslavia. Fu l’inizio della fine, dello smembramento di uno stato e del ritorno della guerra in Europa, quasi quarant’anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale.
 L’indipendenza, tuttavia, avvenne concretamente solo il 25 giugno del 1991: nella piazza principale di Lubiana, la capitale, si svolse la solenne cerimonia che proclamò quanto già deciso con il referendum sei mesi prima. La bandiera tricolore, con la stella rossa, venne ammainata e sostituita con la nuova bandiera con al centro lo stemma araldico dei conti di Celje, con il monte tricorno. Questa fu la fine della Repubblica Socialista di Slovenia che lasciò il posto alla nuova repubblica, libera, autonoma ed europea.
 Il clima di festa e gioia della popolazione in piazza, si contrappose al nervosismo e alla tensione che invece si aggirava nei palazzi della politica dei vertici militari belgradesi.
 In poche ore, Lubiana venne sorvolata dai Mig dell’aviazione jugoslava e nelle strade intorno comparvero i primi carri armati dell’esercito federale. Il conflitto che iniziò il 25 giugno 1991 e che portò all’indipendenza della repubblica durò solo dieci giorni, tanto che gli storici lo chiamano “Guerra dei dieci giorni”.
 Gli ordini arrivati da Belgrado per mettere fine a questo oltraggio erano chiari: unità meccanizzate e brigate corazzate dell’Armata Popolare Jugoslava di stanza in Croazia, a Jastrebarsko, Zagabria e Varaždin avrebbero dovuto prendere il controllo dei posti di frontiera tra le due repubbliche secessioniste, bloccare il porto di Capodistria con l’aiuto della marina e occupare l’aeroporto di Brnik, a Lubiana.
 In questo modo, la Slovenia sarebbe stata isolata dal resto del mondo. L’intera operazione sarebbe dovuta durare 24 ore o poco più: la linea di repressione alla quale si guardava era quella attuata in Lituania dall’URSS di quarant’anni prima. Questa tattica, però, presupponeva la completa incapacità di un corpo paramilitare che in Slovenia, negli ultimi trent’anni, si era rafforzato e divenuto un vero esercito: la Difesa Territoriale.
 Questa era una sorta di corpo militare parallelo voluto dallo stesso Tito nel 1968, dopo l’invasione delle truppe del Patto di Varsavia in Cecoslovacchia. Avrebbe dovuto affiancare le attività dell’esercito federale in caso di attacco esterno alla Jugoslavia, per assicurare il controllo del territorio seguendo la tradizione dei miliziani partigiani di cui Tito fu comandante ai tempi della Seconda Guerra Mondiale.
 Dagli anni Settanta, le autorità slovene avevano iniziato ad organizzare ed armare seriamente questo loro esercito con l’afflusso di armi provenienti dall’estero, da paesi come Singapore e Israele, con l’assenso di Tito. Gli stessi appartenenti alla territoriale vennero istruiti e formati, nel corso degli anni, dai militari dell’esercito federale. Nei giorni dell’indipendenza slovena, la Difesa Territoriale poté contare su quasi 50 000 uomini, tra militari e poliziotti.
 Già nei giorni seguenti al 25 giugno, gli uomini della territoriale predisposero posti di blocco con cavalli di frisia, ma anche con camion, autobus e trattori per bloccare l’avanzata dei mezzi blindati dell’Armata Popolare provenienti dalla Croazia. Si impadronirono soprattutto di molti valichi di frontiera internazionali con l’Italia, l’Austria e l’Ungheria.
 I soldati dell’esercito federale venivano inviati in Slovenia con la motivazione che la Jugoslavia era stata attaccata dall’Italia e dall’Austria, affinché in loro crescesse l’orgoglio per la difesa del sacro suolo jugoslavo. Ben presto, però, ci si rese conto che la questione non si sarebbe risolta in breve tempo: i mezzi e gli uomini dell’Armata Popolare erano mal equipaggiati e quasi privi di munizioni di scorta, proprio perché i gerarchi e i comandanti di Belgrado credevano di poter sbarazzarsi dei territoriali sloveni in poche ore.
 Nonostante l’esercito federale impiegò 115 carri armati, 32 cannoni semoventi, 82 veicoli blindati, 24 elicotteri ed effettuò 15 attacchi aerei, il morale degli sloveni non venne assolutamente scalfito. In tutto il paese ci furono scontri armati tra i due eserciti: Maribor, Lubiana, Nova Gorica, furono solo alcuni delle città coinvolte. Soprattutto per quest’ultima, situata a ridosso del confine, ci furono serie preoccupazioni per l’Italia: infatti alcuni colpi di mitragliatrice arrivarono sui palazzi limitrofi al valico confinario della Casa Rossa, provocando il panico tra la popolazione di Gorizia.
 Non solo guerra reale, però: ci fu anche una guerra televisiva, mediatica. Il ministro dell’informazione, il giovane Jelko Kacin, organizzò ogni conferenza stampa come fosse uno spettacolo di teatro drammatico: si appellava alla comunità internazionale, affinché intervenisse, portando le immagini e le testimonianze degli eccidi compiuti dai soldati dell’Armata Popolare.
 Come si aveva già avuto modo di vedere con la prima guerra del Golfo, la guerra in Slovenia fece molto leva sull’effetto televisivo: sfruttò al massimo le immagini, le riprese della televisioni per far si che la comunità internazionale, la Comunità Europea in primis, si interessasse del loro conflitto e intervenisse presso Belgrado.
 Le conseguenze prodotte dalla internazionalizzazione del conflitto attraverso gli organi d’informazione furono principalmente due: i centralisti di Belgrado videro l’inefficienza del proprio esercito, incapace di reprimere gli attacchi della Difesa Territoriale; gli sloveni, invece, si sentirono “aggrediti” dal loro stesso esercito che vedevano come occupante e usurpatore.
 Il 27 giugno il governo federale, guidato da Ante Markovič, propose l’immediata cessazione delle ostilità e il congelamento dell’indipendenza della Slovenia e della Croazia per tre mesi.
 Così facendo, data la già riconosciuta debolezza di Markovič, il governo prendeva le distanze dalle azioni dell’Armata Popolare e si metteva al riparo da possibili accuse. Il 28 giugno alcuni Mig federali bombardarono l’aeroporto di Brnik e alcuni reparti cercarono di conquistare alcuni valichi confinari controllati dagli sloveni: l’effetto fu praticamente nullo.
 Con il passare delle ore aumentavano sempre di più le diserzioni dei soldati federali, dei quali alcuni passarono alla territoriale, altri cercarono di tornare a casa propria. Tutte queste condizioni negative fecero emergere la paralisi strategica dell’esercito federale e la sua incapacità nel gestire la situazione in Slovenia.
 Era ormai chiaro agli occhi di tutti che con le basi slovene circondati dalla Difesa Territoriale, che praticamente tenevano in ostaggio i soldati e i mezzi nelle caserme, con gli attacchi aerei e terrestri che portavano alcun risultato, la partita era ormai persa. Bisognava solo pensare ad una strategia d’uscita dal pantano sloveno.
 Con la disfatta dell’Armata Popolare, la comunità internazionale si vide costretta ad intervenire. Le sue precedenti previsioni erano fallite: il governo di Markovič non era riuscito a tenere sotto controllo una situazione incandescente e c’era il concreto rischio che un gli scontri armati dilagassero anche nelle altre repubbliche jugoslave.
 Una nuova guerra in Europa faceva paura a tutte le cancellerie. I primi che si sarebbero dovuti interessare alla faccenda jugoslava sarebbero dovuti essere gli europei, poiché il problema avveniva in casa loro: questo era infatti la linea diplomatica sostenuta dagli Stati Uniti, che non volevano impegnarsi in un altro conflitto bellico, dopo la guerra del Golfo, e desideravano mettere alla prova la comunità europea in politica estera.
 Tuttavia, molti al Dipartimento di Stato erano convinti che l’Europa non avrebbe, anche questa volta, superato il test senza gli Stati Uniti.
 Così, nei primi giorni di violenze in Slovenia, la Comunità Europea decise di costituire e inviare a Belgrado una «troika» diplomatica composta dal ministro degli Esteri del paese che aveva la presidenza della Comunità, dal suo predecessore e dal suo successore: andarono così in Jugoslavia il lussemburghese Jacques Poos, l’italiano Gianni De Michelis e l’olandese Hans Van den Broek.
 Tutti e tre erano convinti che il momento fosse decisivo per la Comunità, per creare una politica estera indipendente da Washington. «Questa è l’ora dell’Europa. Non è l’ora degli americani» affermavano.
 Giunti a Belgrado, la troika fu accolta dal presidente Markovič che comunicò loro di aver raggiunto una tregua con gli sloveni: un cessate il fuoco immediato e un congelamento dell’indipendenza per tre mesi di Slovenia e Croazia.
 L’Europa, però, seguiva la linea del presidente francese Mitterand: non sarebbero dovuti nascere nuovi stati nel continente. Così, la troika ebbe come compito principale salvare l’integrità jugoslava.
 Nei giorni seguenti, le trattative con i diplomatici sloveni, serbi e croati dimostrarono ben presto che era impossibile seguire questa linea. Inoltre, la Comunità Europea credeva che una nazione non avrebbe mai potuto provocarsi dei danni economici come quelli che un conflitto del genere comporta: si limitava a supporre che appena si fosse superata una soglia limite, oltre la quale non si sarebbe potuti andare, le acque si sarebbero calmate.
 Gli europei, però, non fecero i conti con il nazionalismo serbo e la voglia di indipendenza e di libertà delle Slovenia e della Croazia, disposte a tutto pur di ottenere le loro richieste. E questa linea di pensiero rappresenterà il fallimento della diplomazia non solo europea, ma mondiale, nel fermare i combattimenti durante le guerre d’indipendenza della ex-Jugoslavia.
 L’unico che fece un’analisi esatta del conflitto jugoslavo fu il ministro degli esteri tedesco Genscher, il 2 luglio a Klagenfurt, incontrandosi con il presidente sloveno Kučan e il ministro degli esteri Rupel: l’Armata Popolare e il governo di Belgrado avrebbero usato tutti i mezzi a disposizione per raggiungere i propri scopi in Slovenia.
 Mentre questi si riunivano in Austria, a Belgrado cresceva la consapevolezza della crisi in atto: Miloševič, che ormai guardava «ad altre frontiere da controllare», quelle croate, prese in considerazione l’idea di abbandonare la Slovenia e ritirare l’esercito verso la Croazia, dato che la repubblica meno jugoslava era ormai persa.
 Il presidente federale Mesič, in qualità anche di capo supremo delle forze armate, aveva ormai proclamato il blocco della ostilità da parte dell’Armata Popolare.
 Il 3 luglio iniziò la ritirata dell’esercito federale dalla Slovenia verso Varaždin e Fiume, mentre altre unità corazzate partite dalla Serbia si fermarono nella Croazia orientale. Nelle ore successive, gli sloveni si ripresero i valichi di frontiera occupati dai federali e rafforzarono le loro posizioni nei territori sud-orientali.
 Il 4 luglio la troika, i capi di governo della Slovenia, della Croazia e il capo di governo federale Markovič siglarono a Vienna un documento in otto punti dove si prevedeva la cessazione di ogni ostilità, la liberazione dei prigionieri, circa 5 000, la smobilitazione dei gruppi armati e il ritorno alla normalità delle comunicazioni.
 L’ultima fase delle trattative di pace dell’indipendenza slovena si tenne il 6 luglio sull’arcipelago di Brioni, davanti a Pola, luogo di soggiorno preferito del maresciallo Tito, che qui trascorreva sei mesi all’anno.
 Vi presero parte tutti i protagonisti di questo conflitto: la troika europea, il presidente del governo federale Markovič, il ministro degli esteri federale Lončar, i rappresentanti dello stato maggiore jugoslavo e i capi delle delegazioni slovena e croata, Kučan e Tudjman.
 Le trattative durarono due giorni: alla fine, la Slovenia e la Croazia si proposero di partecipare a futuri colloqui sull’assetto della Jugoslavia, la Presidenza collettiva della Federazione venne reintegrata nella sua autorità, persa durante il conflitto, e tutte le parti in causa condannarono future ostilità reciproche.
 La Slovenia, in particolare, con il memorandum di Brioni promise di ripristinare la situazione precedente al 25 giugno, giorno dell’indipendenza, per tre mesi, durante i quali si sarebbero decise le competenze dell’Armata Popolare sul territorio.
 Nei giorni a seguire, il parlamento di Lubiana approvò il documento di Brioni, ma con molte riserve: infatti il presidente Kučan venne accusato in patria di aver gettato via il lavoro svolto nei dieci giorni del conflitto contro l’Armata Popolare, congelando l’indipendenza per tre mesi e non facendo espellere subito gli uomini e i mezzi dell’esercito federale dal territorio sloveno.
 Ma il suo governo, con il fatto di essersi seduto ad un tavolo di trattative con la Comunità Europea, aveva già ricevuto un primo riconoscimento internazionale come soggetto autonomo. Inoltre, il 18 luglio, la Presidenza collettiva della Federazione si riunì a Belgrado e propose di ritirare completamente l’esercito dell’Armata Popolare dalla Slovenia nei successivi tre mesi.
 Così di fatto, la Slovenia si ritrovò indipendente dalla Jugoslavia e dal centralismo dei socialisti di Belgrado, che ormai non consideravano più un problema l’indipendenza della piccola repubblica più europea che socialista.
 Il ritiro iniziò ufficialmente il 29 luglio, e provocò una forte scosse tra i vertici militari: molti di loro videro andare in frantumi lo stato socialista che per decenni avevano servito e la decostruzione del sogno jugoslavo. I soldati serbi, per l’ennesima volta, avrebbero abbandonato la terra in cui vivevano per migrare verso un futuro incerto.
 Alcuni scelsero di restare in Slovenia, subendo però la diffidenza del nuovo governo. Alcuni ufficiali sloveni abbandonarono la loro repubblica e si stabilirono a Belgrado: qui si ritrovarono ad essere uomini senza patria, senza onore, senza futuro e con una pensione da fame che il governo federale riconosceva loro come misero riconoscimento per il loro servizio svolto.
 La “Guerra dei dieci giorni” costò la vita a 74 soldati e causò 280 feriti. La Difesa Territoriale fece 4782 prigionieri, catturò 31 carri armati, 4 elicotteri e 230 veicoli vari. Dei 25 000 soldati federali di stanza in Slovenia, quasi 8 000 disertarono o si arresero.
 La perdita economica per la Slovenia fu di 3 miliardi di dollari. Nonostante questo buco di bilancio, il governo di Lubiana si preoccupò di rifocillare i soldati federali rimasti, fornirgli di biglietto ferroviario e rispedirli a casa loro.
 Nei giorni del conflitto, alcuni autobus provenienti da Belgrado, pieni di madri di soldati, giunsero nelle caserme federali circondate dalla territoriale per poter visitare i propri figli e cercare anche di riportarli a casa. Quando arrivarono, trovarono un comitato di accoglienza di madri slovene che le accolse con fiori e generi di prima necessità.
 La Comunità Europea si illuse, dopo la pace fredda di Brioni, che la bizzarra questione jugoslava, con alcune delle sue repubbliche riconosciutesi indipendenti in così breve tempo, si fosse chiuse. Ma si sbagliava: sarebbero trascorsi solo poche settimane prima che il conflitto si spostasse in Croazia e poi ancora in Bosnia. La guerra in Europa era davvero tornata.

mercoledì 26 giugno 2019

#Almanacco quotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 26 giugno.
Il 26 giugno 1924 ebbe luogo la cosiddetta "Secessione dell'Aventino".
L’episodio storico della secessione dell’Aventino prende il nome dal colle dove di solito i plebei trovavano rifugio dopo i conflitti con la classe opposta, i patrizi. La secessione dell’Aventino consiste nell’astensione dai lavori parlamentari attuata da deputati e senatori come segno di protesta a causa della scomparsa di Giacomo Matteotti, avvenuta l’11 Giugno 1924.
Si tratta di un vero e proprio atto di opposizione nei confronti del governo fascista. I parlamentari si riuniscono in una sala di Montecitorio (oggi appunto denominata “sala dell’Aventino”) e decidono di abbandonare i lavori fino a quando i fascisti (e quindi Benito Mussolini) non chiariscono la propria posizione riguardo alla vicenda “Matteotti”. Il cadavere di Matteotti viene poi ritrovato il 16 Agosto dello stesso anno, e questo esaspera ancora di più la crisi di Governo in atto.
Il 3 Gennaio 1925 Mussolini tiene un discorso alla Camera dei Deputati, durante il quale, dopo essersi assunto in pieno la responsabilità dei fatti accaduti, chiede al Parlamento di formulare un atto di accusa nei suoi confronti (in base a ciò che stabiliva l’art. 47 dello Statuto della Camera).
Ma questo atto di accusa non viene mai richiesto formalmente, forse per paura di ritorsioni, e così di fatto l’opposizione non riesce a reagire e ad imporsi sul regime, anche a causa di divisioni interne tra gli stessi parlamentari. In realtà la secessione dell’Aventino viene repressa dal regime con una serie di perquisizioni, arresti e sequestri, in particolare vengono colpiti i giornali e i partiti opposti al regime fascista.
Più che per le conseguenze politiche, la secessione dell’Aventino viene ricordata per la pregnanza morale del gesto dei parlamentari, che sospendono i lavori per riportare l’attenzione sulle illegalità compiute dal regime fascista sotto gli occhi di tutti.

martedì 25 giugno 2019

#Almanacco quotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 25 giugno.
Finalmente, il 25 giugno 1917 cessa la battaglia del Monte Ortigara, costata all'Italia migliaia di morti.
Il 10 giugno del 1917, l’esercito italiano attacca le truppe austro-ungariche che, dopo la Strafexpedition (spedizione punitiva o battaglia degli Altopiani), si erano ritirate su posizioni più facilmente difendibili e da cui minacciano il Cadore, la Carnia e l’Isonzo.
 La linea difensiva italiana era stata costretta a retrocedere fino ai margini dell'altopiano dei Sette Comuni, abbandonando posizioni che il comando riteneva di capitale importanza per il mantenimento dei  confini.
 Obiettivo dell’attacco è quello di sfondare il fronte austriaco tra i monti Ortigara e Forno, sull’altipiano di Asiago. L’ impresa non è facile perché le difese nemiche, disposte ad arco, controllano dall’alto il territorio e possono agevolmente difendersi con l’artiglieria.
 Questa loro collocazione non consente un attacco di sorpresa perché ogni concentramento di forze è subito individuabile; inoltre lo scontro si sarebbe svolto su un terreno impervio, tra i 1.000 e i 2.000 metri di altitudine.
 Il compito di compiere questa offensiva è affidato al XX e al XXII corpo d'armata, agli ordini del generale Ettore Mambretti : il primo deve sfondare le linee austriache tra i monti Ortigara e Fondo, il secondo deve attaccare fra i monti Zebio e Mosciagh.
Per fare questo, le truppe sono costrette a scendere in una zona molto esposta al tiro del nemico, nel Vallone dell’Agnelizza, per poi risalire alle quote 2003, 2101, 2105.
 Il 10 giugno inizia la battaglia dell’Ortigara, che verrà ricordata come il “Calvario degli alpini”, per il massacro inutile e sconsiderato di migliaia di uomini appartenenti alla 52ª divisione.
Concordato col Capo di Stato Maggiore generale Luigi Cadorna , l’attacco viene ordinato dal generale Mambretti, mentre il tempo si fa sempre più brutto e la pioggia battente si trasforma in nebbia e nevischio che rendono ancor più difficile avanzare.
L’offensiva italiana, preceduta da un fortissimo attacco dell’artiglieria, mostra subito la sua inadeguatezza: a una simile altitudine è inutile sferrare un attacco in massa, serve un tiro preciso e mirato. Anche sulle balze del monte Zebio viene fatto un tragico errore: il tiro troppo corto delle artiglierie si abbatte sulla brigata “Sassari”, in attesa di sferrare l’attacco.
 Verso le 11 l’azione viene sospesa, per riprendere alle 13.30, con un fuoco d’artiglieria ancor più intenso. Tuttavia gli effetti di questa prolungata azione sono deludenti.
Alle 15 inizia l’attacco della fanteria, bersagliata da ogni parte dal tiro nemico. Alcuni successi iniziali sono frutto degli sforzi disperati degli alpini della 52ª divisione, composta da 18 battaglioni, divisi in due colonne: la “Cornaro” e la “Di Giorgio”. A quota 2101 il battaglione “Bassano”, terribilmente e tragicamente decimato, viene salvato dall’arrivo dei compagni del “Val Ellero” e del "Monte Clapier”, che consentono di mantenere per breve tempo la posizione conquistata. Nonostante gli strenui sforzi e le ingenti perdite non si ottiene alcun risultato positivo. Per gli alpini il bilancio delle vittime di questa prima giornata è tragico: la 52ª divisione perde circa 3000 uomini tra morti, feriti e dispersi.
Il giorno successivo si riprende l’offensiva, con la stessa tattica e gli stessi piani falliti il giorno precedente. Gli assalti si rivelano inutili, nonostante gli sforzi dell’artiglieria che, ostacolata dalla nebbia, non riesce a rendere precisi i propri tiri. Si assiste a un nuovo bagno di sangue.
Sotto una pioggia battente, nel tardo pomeriggio, l’esercito italiano è costretto a indietreggiare.
Il generale Mambretti dirama l’ordine di sospendere le operazioni per tre giorni.
 Dopo inutili riprese delle ostilità e nuove sospensioni, che aumentano solamente il già tragico numero delle vittime,  il 19 giugno arriva nuovamente l’ordine di attaccare l’Ortigara.
Alle 6 parte l’attacco e dopo vari tentativi, la cima del monte, che sembrava imprendibile, è conquistata dagli alpini e dai fanti della decimata “Brigata Regina”.
La gioia per la conquista dura poco: le posizioni conquistate (quote 2101 e 2105) si dimostrano subito insicure.
 Dopo giorni di stallo, il 25 giugno alle 2.30, si scatena la controffensiva nemica, con un tremendo tiro d’artiglieria. Alle 3.10 l’Ortigara è di nuovo in mano austriaca.
 Incredibilmente, il Comando italiano ordina un nuovo attacco verso sera; non sarà altro che un ultimo grande massacro per i soldati italiani. Il battaglione “Cuneo”, appena arrivato, conquista quota 2003 che riesce a mantenere per qualche giorno, fino a quando, il 29 giugno, viene catturato dal nemico insieme al battaglione “Marmolada”.
 La battaglia dell’Ortigara è perduta; si è trattato di una tragica e inutile carneficina. Il generale Ettore Mambretti, ritenuto responsabile del disastro, viene sollevato dal suo incarico e le sue truppe distribuite in altre armate (nella I e nella IV).
 La battaglia dell’Ortigara è costata agli italiani la perdita di 25.199 uomini di cui 8.465 fra morti (2.865) e dispersi (5.600) e 16.734 feriti.
Le perdite austro-ungariche ammontano a 8.828 uomini, di cui 992 morti, 6.321 feriti e 1.515 dispersi.

lunedì 24 giugno 2019

#Almanacco quotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 24 giugno.
Il 24 giugno 1441 viene fondato il College di Eton.
Eton è un collegio prestigiosissimo con una storia antica e gloriosa, ha formato ben più di un paio di leader class, oltre qualche re, naturalmente nobili in gran quantità e moltissimi borghesi, senza contare artisti, celebrità e scrittori di sorta.
Eton, bisogna sottolinearlo, è un college esclusivamente maschile, in barba alle recenti rivoluzioni di parità dei sessi: a differenza di molti altri istituti, che nel corso della storia si sono pian piano adeguati alle modificazioni dei ruoli nella casa, nella famiglia e nella società, Eton ha mantenuto la sua "linea di coerenza" in maniera esemplare e alquanto maschilista.
La fondazione di Eton risale al 1441 per ordine del Re Enrico VI con il preciso compito di istruire e formare personaggi di rilievo che fossero poi in grado di proseguire la loro istruzione in altri prestigiosi istituti come Oxford e Cambridge, le due università inglesi più famose.
Il nome originale della scuola, che mantiene tutt'ora sebbene ci si riferisca informalmente ad essa come "Eton" è King's College Of Our Lady Of Eton beside Windsor che può essere tradotto come Reale Collegio di Nostra Signora di Eton vicino Windsor, con la solita mania inglese (e anche un po' francese) di dare i nomi delle città dicendo vicino-questo o vicino-quello.
Enrico VI rese Eton grande e potente e la investì anche di grande autorità religiosa, tanto che fece costruire un'importante cappella all'interno degli edifici e si fece dare dal Papa Eugenio IV il privilegio dell'Indulgenza per coloro i quali compivano un pellegrinaggio fino alla Cappella della Scuola nella Festa dell'Assunzione, 15 Agosto (ricordiamo che all'epoca l'Inghilterra era ancora cattolica).
Quando Enrico venne deposto da Edoardo IV, questi revocò tutti i privilegi che il suo predecessore aveva assegnato alla scuola, spostando le reliquie che aveva fatto arrivare dalla Terra Santa (frammenti della Croce di Cristo e alcune parti della Corona di Spine) nella Cappella di San Giorgio a Windsor, posta sull'altra sponda del Tamigi.
La leggenda vuole, a questo punto, che ad intervenire per il benessere della scuola sia stata Jane Shore, la favorita di Edoardo; nonostante questo, sia il personale che i lavoratori (la scuola era ancora in costruzione) sia i fondi furono drasticamente ridotti e il completamento dell'istituto avvenne in prevalenza grazie alle generose donazioni e ai lasciti di benefattori.
Durante la sua storia Eton subì diversi aggiustamenti, in particolare per adeguare le strutture ad un numero sempre crescente di studenti e per rispettare le nuove norme igieniche, sanitarie e di organizzazione degli spazi che cominciarono a regolamentare l'istruzione sia pubblica che privata. Nessun intervento significativo venne però fatto alla struttura originaria, ancora nello stile voluto da Enrico VI e, quindi, molto suggestiva, per questo scelta in molti film come ambientazione per le scene più romantiche, ma di questo parleremo approfonditamente più avanti.
Gli studenti di Eton sono universalmente conosciuti come Etonian(s), saltuariamente tradotto in italiano come "gli Etoniani".
In origine erano ammessi alla scuola solamente 70 studenti, che risiedevano nel dormitorio vero e proprio del collegio. Di loro rimane ancora uno dei "collegi", quello interno all'istituto, i cui membri vengono chiamati King's Scholars ed accedono all'istituto attraverso borse di studio annuali.
La divisa di questi allievi differisce parzialmente dagli altri, ma questa distinzione viene fatta principalmente per ricordare agli studenti in genere che i King's Scholars sono lì per i loro meriti e non perché pagano la retta (parte, infatti, è sovvenzionata dallo stato).
Oltre al dormitorio originale esistono poi studenti che risiedono nella cittadina costruita tutt'intorno all'istituto, a questi studenti ci si riferisce come Oppidans, da una parola latina, oppidium, che significa città.
Ogni "Casa" della cittadina ha un proprio nome riconoscibile e univoco, un insegnante responsabile, un capo-dormitorio e un capitano di squadra sportiva.
Gli studenti possono essere King's Scholars, studenti paganti, oppure fag, cioè dei "servitori": questi ultimi frequentavano la scuola pagata da uno studente pagante e in cambio svolgevano per lui le operazioni di pulizia, vigilanza e cucina.
Generalmente questo rapporto si instaura anche tra studenti di anni diversi: come nella gerarchia scolastica giapponese, anche in Inghilterra, ed in particolare nella tadizionalista Eton, studenti più piccoli rispettano e "seguono" gli studenti più grandi in un rapporto di sempai-kohai.
Gli studenti frequentano Eton dai 13 ai 18 anni in un ambiente fortemente religioso, studiando materie di stampo sia umanistico che scientifico: matematica, biologia, chimica, fisica, informatica, latino, greco, storia, geografia, storia dell'arte, economia, lingue straniere moderne; gli studenti sono inoltre incoraggiati in molte attività extrascolastiche comprendenti moltissimi sport (cricket, equitazione, calcio, rugby, tennis, pallavolo e molti altri) e club come quelli di teatro, musica, canto, cinema, letteratura.
Gli studenti diplomati ad Eton vengono conosciuti come Old Etonians. La scuola è popolare tra i membri della famiglia reale e sia il Principe William che Harry hanno frequentato il collegio.
L'anno scolastico è diviso in tre parti (dette half), regolate secondo diverse festività: Michaelmas Half, Lent Half e Summer Half
La divisa della scuola prevede un completo giacca-pantalone nero con giacca a code, panciotto e collare rigido (una forma di colletto molto in voga a fine '800), è inoltre previsto che gli alunni portino una cravatta bianca annodata con sobrietà.
Fanno eccezione per questo abbigliamento i Prefetti, cioè gli studenti responsabili di un corso o di una classe, i capo-dormitori e i King's Scholars, che sulla divisa originale hanno il permesso di portare una mantellina aggiuntiva sulle spalle.
Eton ha formato gran parte della classe dirigente fin dai tempi di Enrico VII. Così in epoca Vittoriana poteva vantare una fama e una tradizione secolare, consolidata e approvata, regolamentata in ogni sua parte.
Molti personaggi autorevoli come il Duca di Wellington o il poeta Shelley sono usciti dai banchi di questa scuola. Era considerata l'apoteosi per molti nobili del tempo, sebbene, trattandosi di un organismo privato, accogliesse tra i suoi pupilli anche i figli dell'odiata e arricchita borghesia. Eton era considerata la "continuità spirituale" che permetteva di passare senza traumi dalle superiori all'università, naturalmente delle più prestigiose (Oxford piuttosto che Cambridge).
Eton ha accolto molti borghesi e nobili provenienti dall'India, annessa come parte dell'Impero Britannico dopo la metà dell'Ottocento e questa caratteristica ha rappresentato uno dei pochi cambiamenti in fatto di regolamentazione approvati nel corso della secolare storia della scuola. Molti giovani rampolli venivano appositamente mandati dall'India in Inghilterra per studiare presso le prestigiose scuole e università del Regno Unito, potendo poi ricoprire cariche di prestigio come ambasciatori, diplomatici ecc.
Oggi Eton continua, dopo quasi 570 anni, ad essere l'istituto superiore più importante d'Inghilterra.
Frequentato da molte persone benestanti, per non dire i ricchi del Regno Unito, rappresenta un istituto elitario e tradizionalista dove si forma la nuova classe dirigente del Paese.
A causa di ciò Eton è stato aspramente criticato per la sua natura conservatrice, per la sua formazione rigida e disciplinata e per essere un collegio elitario, simbolo del capitalismo britannico. Si può dire che la struttura e la formazione impartite dalla scuola non sono cambiate poi così tanto rispetto ai secoli passati: molte nuove materie sono state introdotte nel programma di offerta formativa, ma è la struttura stessa dell'istituto e della regolamentazione della vita sociale interna a non aver subito le modifiche necessarie per un mondo che cambia, prima fra tutte l'ammissione femminile.
Questo punto, nello specifico, è stato ampiamente dibattuto. Trattandosi l'Inghilterra di un Paese fortemente conservatore a livello sociologico, esso non ha destato grande scandalo, ma considerando che la donne reggono il potere da sole dai tempi di Elisabetta I, sembra quantomeno un controsenso che non siano ammesse in certe scuole. D'altra parte, sebbene meno famosi, esistono istituti di educazione esclusivamente femminili.
L'Inghilterra così rivoluzionaria in campo economico è vittima di una forma di staticità sociologica, evidente sul piano istituzionale, della quale non sente il bisogno di liberarsi.
È quindi normale, per gli inglesi, pensare di avere sia scuole miste, che scuole maschili e scuole femminili.
Ma tornando al discorso originario, Eton è spesso giudicato eccessivamente rigido verso determinati comportamenti dei suoi allievi, lasciando correre su altri, a dire di molti, decisamente più gravi.
La scuola è stata anche protagonista di diverse opere di vandalismo ad opera di studenti sia interni che esterni; alcuni allievi, inoltre, sono stati riconosciuti colpevoli di aggressione nei confronti di una tredicenne, scippandola, malmenandola e forzandola a rapporti sessuali, un comportamento che decisamente non si confà ad un futuro amministratore delegato o al capo di un partito politico.
Oltre al sopra citato episodio di aggressione di una ragazza, la scuola di Eton è stata protagonista, durante gli anni 70/80 del Novecento, di un'aspra controversia che vedeva protagoniste le pene corporali che da sempre erano perpetrate come punizione all'interno dell'istituto, assieme ad altri atti di umiliazione pubblica che provenivano dritti dal repertorio vittoriano, ma che ormai non si adattavano più ai tempi che correvano, dove la punizione fisica era (ed è tutt'ora) aborrita.
Le iniziali punizioni di percosse, schiaffi e così via che erano comminate dagli insegnanti per insubordinazione degli allievi o gravi mancanze (e qui era tutta a discrezione del professore), furono sostituite da una forma "privata" di punizione che lo stesso preside eseguiva un giorno a settimana nel suo ufficio.
Il metodo ha "funzionato" per un certo periodo, finché genitori e studenti si sono ribellati alla cosa, portando all'abolizione della punizione corporale, dichiarata, barbara, medievale e una decisa violazione delle libertà degli allievi.
Oltre a questo, Eton è stata protagonista di diverse inchieste per favoreggiamento sotto compenso in denaro di alcuni studenti.
Nelle ricerche è uscito anche il nome del principino Harry, che pare essere stato aiutato in diverse materie a fronte di un discreto pagamento di monete sonanti.

domenica 23 giugno 2019

#Almanacco quotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 23 giugno.
Il 23 giugno 1858 Edgardo Mortara viene strappato ai suoi genitori.
È una storia terribile e spietata, ma anche carica di una malinconia straziante e persino di una strana, assurda dolcezza. È un incrocio fatale di destino personale e interessi pubblici, un gomitolo di contraddizioni che non c’è modo di sciogliere. È una storia oscena nel senso originario dell’aggettivo: l’assurda implosione di qualcosa che non doveva accadere e invece accade e diventa un pubblico scandalo. È, prima di tutto questo, una storia di dolore insopportabile, detto e taciuto, come ben racconta il quadro di Moritz Oppenheimer che ritrae la scena madre: un bambino smarrito ma al centro di tutto, conteso da mani e abiti talari. E una donna straziata.
Il 23 giugno 1858 il piccolo Edgardo Mortara, neanche sette anni, viene prelevato per sempre dalla sua casa di Bologna. È ebreo, ma un giorno era stato segretamente battezzato dalla giovane domestica di casa, Anna Morisi, poco più che una bambina pure lei, tredici o quattordici anni. Tempo dopo l’Inquisizione di Bologna, città che all’epoca si trovava ancora entro i confini dello Stato Pontificio, avvia le ricerche e ottenuta conferma dell’accaduto invia i gendarmi a prelevare il bambino per portarlo nella casa dei Catecumeni - istituzione creata apposta per neoconvertiti e mantenuta grazie a una tassazione imposta alle comunità ebraiche - così da avviare la sua «ineludibile» educazione cattolica.
 Perché? Per una terribile catena di incongruenze. I Mortara avevano in casa una domestica cattolica anche se agli ebrei ciò era vietato. Anna battezza il bambino (Edgardo aveva un anno soltanto, allora) per il terrore che muoia privo del sacramento, anche se ai cattolici era vietato battezzare ebrei di nascosto. Stando a una ferrea logica della fede, tutto era ormai irreparabile: entrato all’insaputa nella comunità di Cristo, il bambino andava strappato al suo mondo perché non incorresse nel peccato di apostasia. Doveva essere educato cristianamente, lontano da quel mondo di «perfidi» (nel senso di «infedeli») ebrei cui non apparteneva più dal momento in cui aveva ricevuto il battesimo.
 Da quel giorno i suoi genitori non lo videro quasi più, se non per brevi e strazianti sprazzi. Il piccolo Edgardo Mortara fu ordinato prete a ventitré anni, e prese il nome di Pio - lo stesso di quel Papa che lo aveva strappato alle sue radici, a sé stesso. Viaggiò a lungo nei panni di evangelizzatore e missionario. Trascorse gli ultimi anni di vita rinchiuso in un monastero e morì a Liegi nel marzo del 1940, mentre il nazismo imperversava in Europa.
Chissà quale e quanta solitudine attraversarono quel bambino e l’uomo che divenne: prima nel rapimento, poi nella vocazione, infine dentro la cella del monastero. Negli sporadici scambi di sguardi e parole con i genitori e i fratelli. Perché in realtà al piccolo Edgardo la vita fu rubata due volte, non una. La prima quel giorno in cui lo portarono via di casa perché vedesse la luce di quella fede che il battesimo gli aveva donato senza che lui lo sapesse. La seconda, e forse fu ancor più feroce, perché il suo divenne «il caso Mortara»: una battaglia culturale e politica che vedeva schierata da una parte la Chiesa più conservatrice e dall’altra le forze politiche e intellettuali - compresa una parte di clero - che premevano per far respirare al mondo il liberalismo. Quando la notizia del ratto prese a circolare si levarono proteste in tutta Europa. Si disse che al conte di Cavour il fattaccio facesse buon gioco per mettere in cattiva luce papa Pio IX e rinforzare le ragioni del Regno di Sardegna. «Non possumus», rispose puntualmente il Pontefice ogni volta che gli chiedevano di restituire il piccolo alla sua famiglia, al suo mondo. 
E poi c’era lui: il piccolo Edgardo che ben presto incominciò a parlare di illuminazione, di grazia della Provvidenza. Che da quando venne ordinato prete passò la vita e la vocazione a cercare di convertire ebrei. Che ancor prima dell’ordinazione non ne volle più sapere di tornare a casa, anche quando all’indomani del 20 settembre 1870 - presa di Porta Pia e fine dello Stato Pontificio - ne avrebbe avuto facoltà. 
 Lo scontro di civiltà che si combatté intorno alla vita di Edgardo Mortara segna quel delicatissimo momento di passaggio verso il liberalismo, accompagna il processo di Emancipazione degli ebrei d’Europa e più in generale la conquista collettiva dei diritti civili. E spesso, nei lunghi strascichi della storia, nell’eco di dolore e rabbia ch’essa porta con sé, nella contemplazione disarmata di tutta quella assurdità, ci si dimentica che al centro c’è lui, quel bambino e quell’uomo che dal buio del giorno in cui lo portarono via da casa in poi e anche nella lunga stagione di una fede vissuta con dichiarata pienezza, conserva dentro di sé qualcosa di ermetico. Chissà qual era per lui il sapore della nostalgia, chissà quali ricordi di casa serbava nell’animo. Chissà se sapeva chi era. Chissà che cosa la sua fede incrollabile gli rivelava, e che cosa gli teneva nascosto. 

sabato 22 giugno 2019

#Almanacco quotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 22 giugno.
Il 22 giugno 1968 viene dichiarata l'indipendenza della Repubblica Esperantista dell'Isola delle Rose.
Il protagonista di questa vicenda è l’ingegnere bolognese Giorgio Rosa, che dalla fine degli anni Cinquanta avviò una avventura geopolitica nel mare della Romagna, che spesso riaffiora nei racconti estivi dei giornali: Rosa si diede da fare per costruire una micronazione nel mare Adriatico, conosciuta come l’Isola delle Rose.
Giorgio Rosa nel 1958 ebbe l’idea di progettare una sorta di isola artificiale da collocare al largo di Rimini a quasi 12 chilometri dalla costa e ad alcune centinaia di metri dalle acque territoriali italiane. Rosa era interessato alla sperimentazione ingegneristica e insofferente delle burocrazie immobiliari, ma il progetto prese poi dimensioni più estese. Per un paio di anni, Rosa fece numerosi sopralluoghi nella zona, studiando il sistema migliore per ancorare la sua piattaforma al fondale. Superati alcuni problemi tecnici e finanziari, fu avviata la costruzione della struttura che richiese diversi anni, anche perché a causa delle condizioni del mare e del meteo non era possibile lavorare molte ore alla settimana nei pressi della piattaforma.
I lavori di Giorgio Rosa non passarono naturalmente inosservati e verso la fine del 1966 la Capitaneria di porto di Rimini chiese che i lavori fossero fermati, anche perché diverse aree nella zona erano state date in concessione all’ENI. Anche la polizia si interessò alla vicenda, ma Rosa riuscì comunque a proseguire l’opera di costruzione e nell’estate del 1967 aprì al pubblico la sua isola, anche se c’era ancora molto lavoro da fare per ampliarla e migliorarla. La piattaforma aveva una superficie di circa 400 metri quadrati, era una sorta di grande palafitta, e Rosa dispose l’avvio della costruzione di un secondo piano, per raddoppiare lo spazio a disposizione.
Il primo maggio del 1968 Giorgio Rosa dichiarò unilateralmente l’indipendenza della sua isola artificiale, nominandosene presidente. Chiamò la nuova micronazione “Repubblica Esperantista dell’Isola delle Rose” (“Esperanta Respubliko de la Insulo de la Rozoj”) e la dotò di una lingua ufficiale (esperanto), di un governo e di una propria valuta. Il mese seguente tenne una conferenza stampa per comunicare al mondo la costituzione del nuovo stato. Le autorità italiane non la presero bene, anche perché nacquero diversi sospetti sulla possibilità che la trovata di Rosa fosse uno stratagemma per non pagare le tasse sui ricavi ottenuti grazie all’arrivo di numerosi turisti e curiosi. Fu disposta una sorta di blocco navale intorno all’Isola delle Rose, l’ingegnere ottenne un colloquio con uno dei responsabili del Servizio informazioni difesa, i servizi segreti militari italiani, ma non se ne ricavò molto.
Sempre a giugno, una decina di pilotine della polizia con a bordo agenti e militari presero possesso dell’Isola delle Rose, che in quel momento era abitata solamente dal guardiano e dalla sua compagna. Rosa inviò un telegramma di protesta all’allora presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat, senza ottenere risposta. Nelle settimane seguenti ci furono interrogazioni parlamentari e l’invio a Rosa di diverse proposte di acquisto della piattaforma.
Ad agosto il ministero della Marina mercantile inviò alla Capitaneria di porto di Rimini un dispaccio, in cui veniva richiesto a Rosa di demolire la piattaforma costruita al largo di Rimini. L’ingegnere presentò un ricorso che fu respinto e nonostante l’interessamento di alcuni esponenti politici, nel novembre del 1968 a Rimini furono sbarcati a terra tutti i materiali trasportabili trovati sull’Isola delle Rose, in vista della demolizione con esplosivo della piattaforma. Lo smantellamento avvenne nei primi mesi del 1969, la struttura resistette a due diverse esplosioni controllate, ma gravemente danneggiata si inabissò comunque in seguito a una burrasca di fine febbraio.
La vicenda ebbe numerosi strascichi, anche perché non aveva precedenti nella nostra storia giuridica. Le polemiche continuarono anche dopo il pronunciamento del Consiglio di Stato, secondo il quale le pretese di indipendenza e sovranità accampate dai proprietari della piattaforma erano infondate. Anche fuori dall’Italia, si concluse, i cittadini italiani devono sottostare alle leggi statali.
La Repubblica Esperantista dell’Isola delle Rose non fu mai riconosciuta da alcuno stato del mondo nel suo breve periodo di vita. La micronazione aveva come simbolo uno stemma su cui erano rappresentate tre rose rosse, con uno scudo bianco a fare da sfondo. La bandiera era arancione con al centro lo stemma della repubblica. L’inno della micronazione era un brano tratto dalla prima scena del terzo atto dell’Olandese volante, opera di Richard Wagner. La valuta scelta da Rosa e da chi partecipò al governo dell’isola – familiari e conoscenti di Rosa – fu il Mill, con un cambio alla pari rispetto alla lira italiana. La repubblica non produsse mai banconote e monete della propria valuta, ma solamente alcune emissioni di francobolli. Una delle emissioni mostrava la cartina dell’Italia con in evidenza la posizione in cui si trovava la piattaforma.

venerdì 21 giugno 2019

#Almanacco quotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 21 giugno.
Il 21 giugno 1940 la Francia si arrende alla Germania nazista.
In un primo momento Hitler aveva pensato di attaccare ad occidente nel novembre del 1939, subito dopo la conclusione della campagna di Polonia, ma poi le avverse condizioni meteorologiche e alcune mancanze nell'equipaggiamento delle truppe lo avevano costretto a rinviare l'offensiva.
Il piano di invasione era denominato "Fall Gelb" ("Piano Giallo") e si basava ancora sul vecchio "Piano Schlieffen", l'attacco sferrato attraverso il Belgio che non aveva avuto successo durante la Prima Guerra Mondiale. Il generale Erich Von Manstein però elaborò un piano alternativo (chiamato "Sichelschnitt" o "Movimento a falce") che prevedeva un attacco "secondario" sempre attraverso il Belgio per attirare in quelle zone sia gli inglesi che i francesi; la grande differenza rispetto al piano del 1914 risiedeva però nel fatto che l'offensiva primaria del piano di Von Manstein si doveva svolgere attraverso i territori delle Ardenne, notoriamente collinosi e pieni di fitte foreste. Proprio queste ultime facevano pensare allo stato maggiore francese che i tedeschi non avrebbero mai potuto attraversare quel settore e quindi il numero di forze che dovevano costituire la difesa era molto esiguo.
Il 10 gennaio un aereo tedesco che aveva a bordo dei documenti riguardanti il "Piano Giallo" fu costretto ad atterrare in Belgio e, di conseguenza, Hitler e il suo stato maggiore furono costretti ad apportare delle modifiche al piano di Von Manstein.
A nord il gruppo di armate B, composto da 28 divisioni al comando di Fedor Von Bock, doveva invadere il Belgio e i Paesi Bassi; il gruppo di armate A, invece, composto da 44 divisioni (di cui 7 corazzate) e al comando di Gerd Von Rundstedt, doveva avanzare attraverso le Ardenne ed effettuare uno sfondamento sul fiume Mosa.
Von Rundstedt affidò il ruolo principale dell'attacco al Panzergruppe di Kleist (che comprendeva anche le tre divisioni corazzate di Guderian) che doveva marciare su Sedan. Alla destra di Guderian si trovavano le divisioni di Reinhardt e, ancora più a nord, quelle di Hoth. I carri armati di Rommel invece dovevano attraversare l'estremità meridionale della frontiera belga puntando verso Dinant.
Per quanto riguarda lo schieramento alleato, invece, erano schierate inutilmente 30 divisioni francesi sulla linea Maginot. Solo dieci divisioni erano tenute di riserva, pronte ad essere impiegate in situazioni di emergenza. Il corpo di spedizione britannico consisteva in 33 divisioni che dovevano fronteggiare a nord le truppe di Von Bock.
Gli Alleati potevano contare su più carri armati ma i tedeschi avevano dalla loro la superiorità aerea e il possesso dell'artiglieria semovente, che costituì un vantaggio notevole per la guerra di movimento. I tedeschi inoltre possedevano una grande organizzazione delle loro forze corazzate (le cosiddette "Panzerdivisionen") in cui tutte le componenti erano altamente addestrate e collaudate.
Il 10 maggio 1940 il Panzergruppe di Kleist passò la frontiera; nonostante formasse una lunga colonna protetta dall'alto da un gran numero di aerei, l'aviazione francese non si preoccupò di effettuare ricognizioni accurate e quindi l'alto comando ignorò completamente l'ipotesi che potesse essere quello il settore in cui veniva sferrato l'attacco principale di tutta l'offensiva.
La sera stessa del 10 la 2° divisione di cavalleria leggera francese attaccò le avanguardie della Panzerdivision di Guderian ma fu respinta; quest'ultimo continuò ad avanzare e la mattina del 12 varcò la frontiera francese a nord di Sedan. Le Ardenne erano ormai alle spalle e l'intero attraversamento era stato compiuto in due giorni anziché nei nove o dieci sui quali aveva sperato Gamelin (il comandante in capo dell'esercito francese) per portare in prima linea la sua artiglieria. Nel pomeriggio della stessa giornata i carri armati di Guderian raggiunsero il fiume Mosa su entrambi i lati di Sedan. Secondo gli ordini di Gamelin, questa città doveva essere tenuta ad ogni costo ma, già alle 19 di quella stessa sera, la cavalleria francese, nel timore di essere accerchiata, si ritirò sulla riva sinistra della Mosa e fece saltare i ponti; i nazisti entrarono nell'abitato senza incontrare resistenza.
Alle 16 del giorno successivo i tedeschi iniziarono ad attraversare il fiume mentre i continui attacchi degli stuka e dei bombardieri mettevano a tacere l'artiglieria francese. Verso la fine del pomeriggio attraversarono la Mosa anche le unità corazzate leggere mentre, durante la notte, toccò al resto della 1° Panzerdivision. Grazie al passaggio anche della 10° Panzer, Guderian creò una testa di ponte larga 5 chilometri e lunga 10.
Più a nord si trovava la 7° Pamzerdivision di Rommel che raggiunse la Mosa poco sotto Dinant e riuscì anch'esso a stabilirvi una piccola testa di ponte. Per contrastarla i francesi spostarono, tramite ferrovia, una divisione corazzata a Charleroi, ma questa impiegò moltissimo tempo per raggiungere le posizioni iniziali dato che le strade erano piene di civili in fuga. Questo ritardo consentì a Rommel di far completare l'attraversamento del fiume anche ai suoi carri armati. Il mattino del 15 avanzò e travolse la divisione avversaria a cui, alla fine, rimasero solo pochissimi carri ancora operativi.
Guderian, da parte sua, ebbe la meglio su un'altra divisione corazzata francese e, alla sera del 16 maggio, si trovava già 90 km oltre Sedan.
Intanto a Parigi i pessimi rapporti tra il governo di Reynaud e il comandante in capo Gamelin fecero in modo che i politici non conoscessero la disastrosa situazione in cui si trovavano le truppe alleate; anche Gamelin stesso, a causa della scarsa organizzazione della catena di comando francese, non si fece un'idea precisa di come andavano le cose al fronte. Nella sera del 15 maggio egli ricevette la notizia che i tedeschi avevano raggiunto Montcornet e solo allora si rese conto della gravissima situazione dei suoi uomini; dopo una drammatica telefonata con il ministro Daladier, la mattina del 16 diede l'ordine alle sue truppe di ritirarsi definitivamente dal Belgio.
Lo stesso giorno Rommel avanzò di altri 80 km catturando 10.000 prigionieri ed entrando nell'abitato di Cambrai, mentre il giorno 17 le unità corazzate di Guderian giunsero a 100 km da Parigi; quest'ultimo poi si spinse ancora in avanti occupando S. Quintino ed arrivando fino alla Somme.
Finalmente Gamelin capì che l'obiettivo dei tedeschi non era la città di Parigi, bensì il canale della Manica che, se fosse stato raggiunto, avrebbe spezzato in due tronconi gli eserciti alleati. A Gamelin si presentò la favorevole occasione di attaccare la fanteria motorizzata tedesca dato che questa si trovava in ritardo di 2 o 3 giorni rispetto ai panzer. Questo piano fu però revocato dal generale Weygand, che, la notte del 19, Reynaud nominò al posto di Gamelin.
Weygand andò subito al fronte per rendersi conto personalmente della situazione ma l'avanzata tedesca procedeva inesorabile. Alle 9 del mattino del 20 maggio le Panzerdivisionen di Guderian entrarono ad Amiens e, dieci ore più tardi, occuparono Abbeville. Alle 20 i tedeschi raggiunsero le coste della Manica a Noyelles.
Il raggiungimento di questo obiettivo fu un colpo mortale per gli alleati. Le loro forze ormai erano spezzate in due tronconi dalle divisioni corazzate di Hitler che, in soli dieci giorni, avevano percorso più di 300 chilometri. Ora ai tedeschi non rimaneva che annientare il corpo di spedizione britannico e conquistare il resto della Francia.
Gli inglesi dovevano sottrarsi all'accerchiamento tedesco per poter passare la Manica e ritornare in patria. La decisione di evacuazione fu presa definitivamente il 20 maggio 1940 all'interno di una galleria scavata nella roccia della scogliera di Dover, proprio sotto il castello che domina il Pas de Calais; qui, durante la prima guerra mondiale, vi era installato un impianto per la produzione di energia elettrica e per questo, il comandante dell'operazione, il Viceammiraglio Bertram Ramsay, decise di battezzarla "Dynamo".
Il piano originario dell'operazione Dynamo si basava sul presupposto che sarebbero stati disponibili per l'evacuazione i 3 porti di Boulogne, Calais e Dunkerque; il 25 maggio però le divisioni corazzate del gruppo d'armate B di Von Rundstedt raggiunsero Abbeville e, subito dopo, caddero anche Boulogne e Calais. Rimase quindi solo Dunkerque ed il litorale agibile per imbarcare le truppe ormai si era ridotto a una cinquantina di chilometri.
L'Operazione Dynamo ebbe inizio ufficialmente alle 18:57 del 26 maggio ma i risultati del primo giorno furono molto deludenti: 7.669 uomini furono recuperati da natanti da diporto, traghetti adibiti al trasporto passeggeri e barconi; la costa nella zona di Dunkerque infatti è caratterizzata da bassi fondali ed è praticamente inavvicinabile per le navi di grosso tonnellaggio. Vennero perciò requisiti tutti i tipi di imbarcazioni leggere e perfino delle barche a remi del Tamigi.
Il 28 maggio furono recuperati 17.804 uomini, ma il prezzo che dovette pagare tutta la flottiglia inglese fu alto; le condizioni meteo erano buone e la Luftwaffe di Goring aveva era nelle condizioni ideali per bombardare e mitragliare i soldati alleati ormai sfiniti. Goring aveva insistito personalmente con Hitler perché il compito fosse svolto solo dalle sue forze aeree senza l'intervento dell'Esercito; i carri armati tedeschi, infatti, si arrestarono a meno di 20 chilometri da Dunkerque, sulla linea del Canale Aa.
Il 29 maggio furono messi in salvo 47.310 uomini, ma gli Alleati persero 3 cacciatorpediniere e altre 21 unità minori.
Il giorno 30 il cielo si presentò coperto e, approfittando della ridotta attività della Luftwaffe, furono evacuati 53.823 uomini; questo fu facilitato dal fatto che le operazioni di imbarco dei soldati dalle spiagge alle navi da trasporto si svolsero in maniera più ordinata.
Il 31 maggio furono portati in Inghilterra 68.014 soldati.
Il primo giugno, nonostante le azioni di bombardamento in picchiata della Luftwaffe e le sue azioni di mitragliamento a bassa quota, furono evacuati altri 132.000 uomini seguiti, il giorno seguente, da altri 64.000.
Alle 23:30 del 2 giugno il comandante della base navale di Dunkerque, Capitano di Vascello Tennant, pose fine all'Operazione Dynamo; l'ultima nave caricò le truppe alle 3:30 del giorno seguente.
Subito dopo la città di Dunkerque cadde in mano ai tedeschi e, quando questi arrivarono sulle spiagge, fecero prigionieri 40.000 soldati francesi che avevano, in precedenza, tenuto le postazioni del perimetro difensivo.
In termini numerici l'Operazione Dynamo ebbe risultati veramente soddisfacenti: furono tratti in salvo 338.226 uomini (di cui 139.097 francesi), ben più dei 50.000 che si stimava all'inizio. Furono però uccisi 68.111 soldati inglesi e altri 2.000 uomini andarono perduti in mare; vennero affondate anche 243 navi, di cui 6 erano cacciatorpediniere britannici.
Oltre agli uomini e alle navi, gli Alleati persero anche una grandissima quantità di materiali: dovettero essere abbandonati più di 60.000 veicoli, più di 2.000 motocicli, circa 2.000 cannoni, armi portatili e munizioni.
Resta da spiegare come mai i tedeschi arrestarono i loro carri armati proprio nel momento decisivo e vicino alla loro schiacciante affermazione; è vero che Goring insistette con Hitler perché voleva il merito della vittoria, ma molti storici sostengono che il Fuhrer volesse evitare una umiliazione alla Gran Bretagna e facilitare cosi le trattative di pace.
Per la difesa del territorio nazionale i francesi avevano a disposizione 43 divisioni di fanteria (di cui alcune avevano subito gravi perdite), tre divisioni di cavalleria leggera e tre divisioni corazzate, a cui però erano rimasti pochi carri armati. Diciassette divisioni invece erano schierate per difendere la linea Maginot. Nelle retrovie, infine, si stavano riorganizzando sette divisioni belghe di fanteria leggera. Tutte queste forze dovevano affrontare 130 divisioni tedesche, di cui 10 corazzate.
Hitler, il 29 maggio 1940, aveva informato i suoi comandanti d'armata della sua decisione di riunire le forze corazzate a sua disposizione e di farle avanzare a sud, in modo da sconfiggere definitivamente l'esercito francese.
Von Bock trasferì la 4°, la 6° e la 9° armata sulla Somme mentre la 2°, la 12° e la 16° di Von Rundstedt si schierarono sull'Aisne. Le 10 Panzerdivisionen furono riorganizzate in 5 Panzerkorps; il XV Pannzerkorps di Hoth si posizionò tra la costa e Amiens, il XIV e il XVI furono dislocati lungo il corso medio della Somme (per dirigersi verso Parigi) e, infine, il XXXIX ed il XLI si schierarono sull'Aisne con l'obiettivo di avanzare verso sud-est per giungere alle spalle della linea Maginot.
I francesi non potevano sostenere l'urto perché i tedeschi avevano due teste di ponte sulla sponda meridionale dalla Somme ed in questo modo erano in grado di attaccare in qualsiasi momento. La loro linee di difesa, inoltre, era molto debole e vi era poca concentrazione di truppe.
All'alba del 5 giugno 1940, in contemporanea con un violento attacco della Luftwaffe, i carri armati tedeschi avanzarono a ovest di Amiens ma i francesi opposero una strenua resistenza.
Due giorni dopo però i nazisti erano ormai all'offensiva su tutto il fronte: a ovest il XV Panzerkorps di Hoth aveva isolato le due divisioni dell'ala sinistra alleata (compresa la 51° divisione britannica), a est la 9° armata tedesca conquistò il Chemin des Dames obbligando la 6° armata francese a ritirarsi oltre il fiume Aisne. Inoltre Rommel, con la sua 7° Panzerdivision, continuò ad avanzare giungendo, il giorno 9, sulla Senna.
La Senna venne attraversata dai tedeschi il 10 giugno a ovest di Parigi mentre e est avanzarono verso la Marna: Parigi stava per essere minacciata da una grossa manovra di accerchiamento a tenaglia. La sera stessa il governo decise di lasciare la capitale per trasferirsi a Tours (il 16 poi si spostò a Bordeaux) mentre, quasi in contemporanea, giunse la notizia che anche l'Italia, a mezzanotte, sarebbe entrata in guerra contro la Francia.
Alle ore 11 dell'11 giugno il comandante in capo francese dichiarò Parigi "città aperta" dato che ormai non c'era più nessuna speranza di difenderla; l'esercito francese ebbe l'ordine di ritirarsi e abbandonò la capitale. Alle 19 dello stesso giorno si tenne una riunione (al castello di Le Muguet) alla quale parteciparono il maresciallo Petain, il generale Weygand, De Gaulle, Churchill, Eden, Ismay e Spears: in essa Weygand disse senza mezzi termini che i francesi non avevano più riserve e che non c'era più modo di evitare l'invasione di tutta la Francia.
Il 13 giugno Parigi fu totalmente sgombrata dalle truppe francesi e il 14 i tedeschi fecero il loro ingresso nella città. La popolazione fuggì verso sud, unendosi ai profughi che provenivano dal Belgio e dalla Francia settentrionale.
Il comando supremo tedesco organizzò l'inseguimento dell'esercito francese su tre direttrici: la prima verso sud-ovest per tagliare la strada alle truppe che ripiegavano verso Bordeaux, la seconda verso Digione e Lione per attaccare alle spalle i soldati che stavano combattendo contro gli italiani, la terza verso il confine svizzero per sbarrare la ritirata alla armate che si trovavano sulla linea Maginot; in quest'ultimo settore i carri armati di Guderian arrivarono il 16 a Besancon e il 17 nei pressi del confine con la Svizzera. Qui dovette sconfinare il XLV corpo d'armata francese, dove fu internato.
Ormai i francesi non potevano fare altro che chiedere l'armistizio; nella notte tra il 16 ed il 17 giugno il governo Reynaud cadde e fu sostituito da quello del maresciallo Henri-Philippe Petain.
Le truppe di Hitler infatti arrivarono ad occupare prima Cherbourg e Brest (a ovest), poi Vichy, dove nel frattempo si era trasferito il comando in capo francese, e infine Lione (a sud).
Il giorno dopo il suo insediamento Petain ordinò la cessazione dei combattimenti e intavolò subito le trattative per chiedere l'armistizio.
Alle 15:15 del 21 giugno Hitler, accompagnato dalle massime autorità del Terzo Reich, arrivò nella foresta di Compiègne; poco lontano si trovava lo stesso vagone ferroviario nel quale gli Alleati avevano ottenuto la firma della resa tedesca nel 1918. Dopo discussioni tra le due delegazioni (che durarono una giornata intera), alle 18:45 del 22 giugno 1940 i francesi firmarono il documento di resa. Le ostilità sarebbero cessate del tutto alle ore 1:35 del 25 giugno.
La Germania impose condizioni durissime ai francesi: esercito ridotto a 100.000 uomini, occupazione di buona parte del territorio nazionale, danni di guerra enormi, marina smilitarizzata; inoltre i prigionieri di guerra non furono restituiti.
Per la Francia fu una sconfitta umiliante; ebbe inoltre 120.000 morti contro i 27.000 tedeschi.
Il suo territorio fu diviso in due parti: a nord e a ovest venne definita la zona di occupazione tedesca mentre a sud venne istituito uno stato francese con sovranità limitata ed avente come capitale Vichy. Nelle mani del maresciallo Petain venne concentrato tutto il potere esecutivo e legislativo, i partiti e i sindacati furono sciolti e fu avviata una politica di discriminazione antisemita.

giovedì 20 giugno 2019

#Almanacco quotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 20 giugno.
Il 20 giugno 1859 le truppe papali compiono le cosiddette "stragi di Perugia".
Un episodio poco noto delle vicende risorgimentali, è quello delle “stragi di Perugia”, un orrendo massacro di civili inermi da parte della soldataglia pontificia dell'allora papa Pio IX.
I fatti si svolgono nel 1859 durante la Seconda Guerra di Indipendenza, quando i franco-piemontesi stavano combattendo in Lombardia per cacciare gli austriaci; fino a quel momento la campagna aveva visto gli alleati sempre vincitori: Montebello (20 maggio), Palestro (31 maggio), Magenta (4 giugno), suscitando l'entusiasmo di quanti con trepidazione seguivano gli avvenimenti della guerra, nella speranza che fosse la volta buona per liberare l'Italia dal dominio straniero. La prima città ad insorgere per sposare la causa italiana fu Firenze, seguita poco dopo da Bologna.
Nella città di Perugia (allora nel territorio dello Stato della Chiesa) esisteva un comitato legato alla Società Nazionale, un'associazione che sosteneva la necessità per l'Italia di arrivare all'indipendenza e all'unità appoggiandosi a Casa Savoia.
Fu così che il 14 giugno il comitato si presentò a monsignor Luigi Giordani, rappresentante del pontefice in città, per chiedere allo Stato Pontificio di abbandonare la politica di neutralità e di appoggiare apertamente la causa italiana. Vedendosi opporre un netto rifiuto, il comitato prese possesso del governo cittadino offrendo l'annessione dell'Umbria al Regno di Sardegna di Vittorio Emanuele II.
La reazione non si fece attendere: Pio IX inviò il 1° reggimento estero, duemila mercenari svizzeri al comando del colonnello Schmidt, con l'ordine di riprendere la città ad ogni costo. Ma non bastava: bisognava dare alla cittadinanza una dura lezione, che fosse da monito per chiunque altro avesse in animo di sposare la causa italiana e di ribellarsi all'autorità del papa; in parole povere, la città doveva essere saccheggiata.
Le forze papaline giunsero davanti a Perugia il 20 giugno, e dato che gran parte degli uomini in grado di combattere erano partiti per arruolarsi nell'esercito piemontese (la città umbra fornì per la causa italiana ben ottocento volontari), i pontifici ebbero gioco facile dei difensori, che furono travolti presso Porta San Pietro. A quel punto i soldati del papa entrarono in città.
Le testimonianze su quanto accadde con l'ingresso a Perugia delle forze pontificie sono agghiaccianti. Decine di case furono saccheggiate e chi vi si trovava all'interno fu barbaramente ucciso; furono presi d'assalto persino monasteri, chiese e ospedali, gli stupri non si contarono e parecchi civili inermi furono uccisi a baionettate dai soldati del papa.
In quei giorni a Perugia si trovava una famiglia statunitense, i Perkins, testimoni oculari di quegli avvenimenti, che furono malmenati e derubati dai pontifici; il New York Times riportò la loro testimonianza: “Le truppe infuriate parevano aver ripudiato ogni legge e irrompevano a volontà in tutte le case, commettendo omicidi scioccanti e altre barbarità sugli ospiti indifesi, uomini, donne e bambini”; questa invece la testimonianza dell'ambasciatore statunitense Stockton: “Una soldatesca brutale e mercenaria fu sguinzagliata contro gli abitanti che non facevano resistenza; quando fu finito quel poco di resistenza che era stata fatta, persone inermi e indifese, senza riguardo a età o sesso furono, violando l'uso delle nazioni civili, fucilate a sangue freddo”.
Gli avvenimenti di Perugia ebbero una larga diffusione sui quotidiani di tutto il mondo, e l'immaginario collettivo ne fu fortemente colpito. Giosuè Carducci scrisse il sonetto “Per le stragi di Perugia”, e il poeta statunitense John Whitter scrisse “From Perugia”, per ricordare quanto accaduto.
Pio IX cercò di far passare il messaggio per cui non fu lui ad autorizzare la strage, ma fu iniziativa di altri. E' altamente improbabile però che il pontefice potesse non sapere quanto fosse stato ordinato alle truppe; e comunque in seguito Pio IX istituì la medaglia “Benemerenti per la Presa di Perugia”, riconoscimento da assegnarsi ai soldati che presero parte alla presa della città e quindi alle stragi. Infine, come ricompensa per i suoi servigi, il colonnello Schmidt fu nominato generale di brigata.
Il 24 giugno, pochi giorni dopo i tragici fatti di Perugia, si svolse la battaglia di San Martino e Solferino, che sancì la vittoria definitiva dei franco-piemontesi sull'Austria, inizio della serie di avvenimenti che portarono alla nascita della nuova Italia libera e indipendente. Circa un anno e mezzo dopo, il 4 novembre del 1860, un plebiscito sancì l'annessione dell'Umbria al Regno di Sardegna: votanti 97.708, favorevoli all'annessione 97.040; e il Regio Decreto del 17 dicembre del 1860 citava: “le provincie dell'Umbria fanno parte del Regno d'Italia”.
Nessun Papa, inclusi i contemporanei, ha mai chiesto scusa per questa barbarie.

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