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mercoledì 9 maggio 2012

E cosa insegna nel nostro lugubre #ateneo? - Disastri Paul #Auster #Invisibile #citazione Bertran #De Born #guerra #scrittura


Gustave Doré, Inferno, Bertran de Born



La prima volta che gli strinsi la mano fu nella primavera del 1967. Ai tempi frequentavo il secondo anno di università alla Columbia: ero un ragazzo ignorante e affamato di libri che coltivava la fede (o l'illusione) di diventare un giorno cosí bravo da potersi definire un poeta; e da lettore di poesia, avevo già incontrato il suo omonimo nell' Inferno di Dante, un dannato che si trascina nei versi finali del canto XXVIII della prima Cantica. Bertran de Born, il poeta provenzale del XII secolo, tiene per i capelli la propria testa recisa che ondeggia avanti e indietro come una lucerna: senz'altro una delle immagini piú grottesche nel catalogo di allucinazioni e supplizi che si sussegue per tutto l' Inferno. Benché fosse convinto estimatore della poesia di de Born, Dante lo condannò alla dannazione eterna per aver consigliato il principe Enrico di ribellarsi a suo padre, Re Enrico II; e dato che de Born aveva provocato una divisione fra padre e figlio rendendoli nemici, l'ingegnosa pena dantesca è dividere de Born da se stesso. Da qui il corpo decapitato che si lamenta nel mondo sotterraneo, chiedendo al viaggiatore fiorentino se può esistere dolore piú tremendo del suo.
Quando si presentò come Rudolf Born, i miei pensieri andarono subito al poeta. Per caso lei è parente di Bertran? gli chiesi.

Ah, mi rispose, quella disgraziata creatura che perse la testa. Può darsi, ma temo sia improbabile. Manca il de. Per averlo bisogna far parte della nobiltà, e la triste verità è che io sono tutt'altro che nobile.

Non ricordo perché mi trovassi lí. Qualcuno doveva avermi chiesto di accompagnarlo, ma chi fosse quel qualcuno mi è svanito da tempo dalla mente. Non ricordo nemmeno dove si tenesse la festa - in periferia o in centro, in un appartamento o in un loft - e per la verità neanche il motivo per cui avevo accettato l'invito, dato che all'epoca tendevo a evitare le occasioni mondane, respinto dal baccano del chiacchiericcio generale, imbarazzato dalla timidezza che mi dominava in presenza degli sconosciuti. Ma quella sera, chissà come mai, dissi di sí e seguii il mio amico dimenticato nel luogo, qualunque fosse, dove mi portò.

Ricordo invece questo: che a un certo punto della serata mi ritrovai solo, in piedi, in un angolo della stanza. Fumavo una sigaretta e guardavo gli invitati, decine e decine di giovani corpi ammassati nei limiti di quello spazio, ascoltavo il clamore misto di parole e risa, chiedendomi che diavolo ci stavo a fare lí, e pensai che forse era ora di andarsene. Sul calorifero alla mia sinistra era appoggiato un portacenere, e quando mi voltai per spegnere la sigaretta vidi che il ricettacolo colmo di cicche si stava alzando verso di me retto nel palmo della mano di un uomo. Poco prima, senza che me ne accorgessi, si erano sedute sul calorifero due persone: un uomo e una donna, entrambi piú grandi di me, anzi senz'altro piú vecchi di tutti gli altri presenti nella sala: lui sui trentacinque anni, lei attorno alla trentina.

Sembravano una coppia un po' incongrua, Born con un vestito di lino bianco stropicciato e anche piuttosto sudicio, e la donna (che risultò poi chiamarsi Margot) tutta in nero. Quando lo ringraziai per il portacenere, lui mi fece un breve cenno di cortesia e disse Le pare con una minima traccia di accento straniero. Francese o tedesco, non avrei saputo decidere, perché parlava un inglese quasi impeccabile. Cos'altro notai in quei primi momenti? Carnagione pallida, capelli rossicci e spettinati (tagliati piú corti della maggioranza degli uomini dell'epoca), una bella faccia larga senza tratti caratteristici (una faccia, per cosí dire, generica, una faccia che in mezzo a qualsiasi folla sarebbe diventata invisibile), e due occhi castani, fermi, gli occhi indagatori di un uomo che sembrava non avere paura di niente. Né magro né grasso, né alto né basso, ma in tutto ciò una sensazione di forza fisica, forse dovuta alle mani poderose. Quanto a Margot, stava seduta senza muovere un muscolo, gli occhi fissi nello spazio come se la sua missione principale nella vita fosse apparire annoiata. Però affascinante, molto affascinante per un ventenne come me, con i capelli neri, la dolcevita nera, la minigonna nera, gli stivali di pelle nera e il trucco pesante nero attorno ai grandi occhi verdi. Non una bellezza, forse, ma un simulacro della bellezza, come se lo stile e la raffinatezza del suo aspetto incarnassero una sorta di ideale femminile dell'epoca.

Born dichiarò che lui e Margot erano stati li li per andarsene, ma poi mi avevano visto lí, in piedi da solo in un angolo, e dato che avevo un'aria cosí infelice avevano deciso di avvicinarsi e tirarmi un po' su... tanto per essere sicuri che non mi tagliassi le vene prima della fine della serata. Non avevo idea di come interpretare la battuta. Quest'uomo mi sta insultando, mi chiesi, oppure cerca davvero di mostrarsi gentile con un ragazzo sconosciuto, avendolo visto a disagio? Di per sé le parole avevano un carattere abbastanza scherzoso, disarmante, ma lo sguardo di Born mentre le pronunciava era freddo e distaccato, e non potei fare a meno di sentire che mi stava sondando, mi provocava per ragioni che proprio non capivo.

Scrollai le spalle, gli feci un sorrisetto e ribattei: Che ci creda o no, non mi sono mai divertito tanto in vita mia.

Fu allora che si alzò, mi porse la mano e mi disse il suo nome. Dopo la mia domanda su Bertran de Born mi presentò a Margot, la quale mi sorrise in silenzio e tornò alla sua occupazione di fissare gli occhi nel vuoto.

A giudicare dalla sua età, disse Born, e dalla sua conoscenza di poeti poco noti, direi che è uno studente. Di lettere, senz'altro. NYU o Columbia?

Columbia.

Columbia, sospirò lui. Che posto triste.

La conosce?

Insegno li da settembre, alla Scuola di Affari Internazionali. Professore in visita con incarico annuale. Per fortuna ormai è aprile, e fra due mesi me ne tornerò a Parigi.

Dunque è francese.

Per circostanze, anima e passaporto. Ma di nascita, svizzero.

Svizzero francese o tedesco? Nella sua voce sento un po' di entrambi.

Born schioccò appena la lingua e poi mi guardò intensamente negli occhi. Orecchio fino, disse. In effetti io sono entrambi... il prodotto ibrido di una madre germanofona e di un padre francofono. Sono cresciuto facendo avanti e indietro fra le due lingue.

A quel punto, non sapendo che dire, mi interruppi un momento e poi gli rivolsi una domanda innocua: E cosa insegna nel nostro lugubre ateneo?

Disastri.

Una materia molto vasta, no?

Per la precisione, i disastri del colonialismo francese. Tengo un corso sulla perdita dell'Algeria, e un altro sulla perdita dell'Indocina.

Quella deliziosa guerra che abbiamo ereditato da voi.

Mai sottovalutare l'importanza della guerra. La guerra è l'espressione piú pura e vivace dell'anima umana.

Sta iniziando a parlare come il nostro poeta senza testa.

Mi scusi?

Deduco che non l'ha letto.

Nemmeno una parola. Tutto quello che so di lui, lo so da Dante.

De Born era un buon poeta, forse anche un grande poeta... ma inquietante a dir poco. Ha scritto incantevoli poesie d'amore e un commovente lamento per la morte del principe Enrico, ma il suo tema piú autentico, la sola cosa che sembrava stargli a cuore con autentica passione, era la guerra. Ne traeva godimento, davvero.

Capisco, disse Born con un sorriso ironico. Un uomo come piace a me.

Parlo del godimento nel vedere uomini che si sfondano il cranio a vicenda, o nel contemplare castelli incendiati e demoliti, e cadaveri con le lance piantate nel fianco. Roba sanguinolenta, mi creda, ma de Born non fa una piega. Il semplice pensiero di un campo di battaglia lo colma di gioia.

Deduco che lei non ambisce a diventare un soldato.

Per niente. Preferirei andare in prigione che combattere in Vietnam.

E premesso che eviti sia la prigione sia l'esercito, che progetti avrebbe?

Nessuno. Solo continuare con quello che sto facendo nella speranza che funzioni.

E sarebbe?

La scrittura. La bella arte dell'imbrattacarte.

Mi sembrava. Quando Margot l'ha vista in fondo alla stanza, mi ha detto: Guarda quel ragazzo con gli occhi tristi e il viso pensieroso... scommetto che è un poeta. E, mi dica, è proprio cosí?

Sí, scrivo poesie. E recensisco qualche libro per lo «Spectator».

Ah, il giornaletto degli studenti.

Da qualche parte si deve pur iniziare.

Interessante...

Mica tanto. Metà delle persone che conosco vogliono diventare scrittori.

Perché dice volere? Se già lo sta facendo, non lo vuole soltanto. È una cosa che già esiste.

Perché è ancora troppo presto per sapere se sono abbastanza bravo.

Le pagano gli articoli?

No, figurarsi. È un giornalino universitario.

Quando cominceranno a pagarla saprà che è abbastanza bravo.

D'un tratto, prima che potessi rispondere, Born si voltò verso Margot per annunciarle: Avevi ragione, angelo mio. Il tuo giovanotto è un poeta.

Margot alzò gli occhi verso di me e con uno sguardo neutro, valutativo, parlò per la prima volta, pronunciando le frasi con un accento straniero che risultò molto piú spiccato di quello del suo compagno - un inconfondibile accento francese. Io ho sempre ragione, disse. Ormai dovresti saperlo, Rudolf.

Un poeta, continuò Born, sempre rivolto a Margot, occasionale recensore di libri, e studente nel tristo maniero sulle alture, vale a dire che probabilmente è nostro vicino. Ma non ha nome. O almeno, nessuno che io conosca.

Mi chiamo Walker, dissi, rendendomi conto che quando ci eravamo stretti la mano avevo dimenticato di presentarmi. Adam Walker.

Adam Walker, ripetè Born staccando gli occhi da Margot e guardando me mentre sfoderava un altro dei suoi sorrisi enigmatici. Un bel nome americano, solido. Cosí forte, cosí insulso, cosí affidabile. Adam Walker. Il cacciatore di taglie solitario in un western in cinemascope, che perlustra il deserto con il fucile e la sei colpi in sella al suo castrone sauro. O magari il chirurgo di buon cuore, un uomo tanto perbene, in una soap opera per casalinghe, tragicamente innamorato di due donne nello stesso tempo.

Sí, sembra solido, risposi, ma in America niente lo è. Il cognome fu assegnato a mio nonno quando sbarcò a Ellis Island, nel 1900. Pare che gli addetti dell'ufficio immigrazione considerassero Walshinksky troppo difficile da scrivere, e cosí lo chiamarono Walker.

Che paese, disse Born. Funzionari analfabeti che defraudano un uomo della sua identità con un semplice tratto di penna.

Non della sua identità, precisai. Solo del nome. Poi per trent'anni ha fatto il macellaio kosher nel Lower East Side.


(Paul Auster, Invisibile, Torino, Einaudi, 2009, pp. 5 ss.)

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