Buongiorno, oggi è il 5 agosto.
Il 5 e 6 agosto 1284 la flotta navale di Pisa fu sconfitta da quella genovese nella famosa battaglia della Meloria, sancendo di fatto la fine della Repubblica Marinara di Pisa.
Nel 13esimo secolo la Repubblica di Genova aveva conquistato molti insediamenti in Crimea, dove aveva stabilito la colonia di Caffa. L'alleanza con l'impero bizantino restaurato aveva aumentato la ricchezza e la potenza di Genova, e contemporaneamente diminuito il commercio veneziano e pisano. L'Impero bizantino aveva concesso la maggioranza dei diritti di libero scambio a Genova. Pisa nel 1282 tentò di ottenere il controllo del commercio e approvvigionamento della Corsica, ma nello stesso anno il giudice di Cinarca, Sinucello della Rocca, si ribellò contro Genova chiedendo il sostegno pisano.
Nel mese di agosto 1282 una parte della flotta genovese istituì un blocco del commercio pisano presso il fiume Arno. Nel 1283, sia Genova che Pisa si prepararono alla guerra. Pisa raccolse soldati provenienti dalla Toscana e capitani nominati tra le sue nobili famiglie. Genova costruì 120 galee, sessanta delle quali appartenevano alla Repubblica, mentre le altre sessanta furono affittate a privati. Più di 15.000 mercenari vennero assunti come rematori e soldati da parte dei genovesi.
Nei primi mesi del 1284 la flotta genovese aveva provato a conquistare Porto Torres e Sassari in Sardegna. Una parte della flotta mercantile genovese sconfisse una forza pisana, nel viaggio verso l'impero bizantino. La flotta genovese aveva bloccato il porto di Pisa, e attaccò le navi pisane in viaggio nel mare Mediterraneo. Una forza genovese di trenta navi guidata da Benedetto Zaccaria si recò a Porto Torres, per sostenere le forze genovesi che stavano assediando Sassari.
I Genovesi, desiderosi di attirare il loro nemico in battaglia, e al fine di rendere l'azione decisiva, avevano organizzato la loro flotta in due linee di passo. Il primo era composto, secondo Agostino Giustiniani, da cinquantotto galee e otto Panfili, una classe di galee sottili di origine orientale, che prendevano il nome dalla provincia di Panfilia. Oberto Doria, l'ammiraglio genovese, era dislocato al centro della prima linea. A destra vi erano le galee della famiglia Spinola, quattro tra quelle delle otto "compagne" (antico raggruppamento dei quartieri di Genova), in cui la città era stata divisa: Castello, Piazza lunga, Macagnana e San Lorenzo. A sinistra vi erano le galee dei Doria e di altre quattro compagne, Porta, Soziglia, Porta Nuova e Il Borgo.
La seconda linea di venti galee, sotto il comando di Benedetto Zaccaria, era posta così in ritardo rispetto alle prime che i pisani non potevano vedere se era composta da navi da guerra o da piccole imbarcazioni di supporto. Ma erano abbastanza vicine per colpire e decidere la battaglia.
I Pisani, comandati dal Podestà Morosini e dai suoi luogotenenti Ugolino della Gherardesca (il Conte Ugolino dell'Inferno dantesco) e Andreotto Saraceno, si mossero in un unico schieramento. Si narra che, mentre l'Arcivescovo benediceva la flotta, la croce d'argento gli cadde di mano; ma che l'auspicio venne ignorato dall'irriverenza dei Pisani, convinti che con il vento a favore potessero fare a meno dell'aiuto divino.
Dopo una prima esitazione i Pisani decisero di attaccare la flotta genovese e si lanciarono sulla prima linea. Entrambe le flotte erano in formazione a falcata ovvero a mezzo arco. Lo scontro era dunque frontale. I famosi balestrieri genovesi, al riparo dietro le loro pavesate, tiravano contro i legni pisani, mentre questi tentavano, secondo le tattiche dell'epoca, di speronare le navi con il rostro per poi abbordarle. Qualora l'abbordaggio non avesse luogo, gli equipaggi si colpivano con ogni sorta di munizioni scagliate da macchine belliche o dalle nude mani, come sassi, pece bollente e addirittura calce in polvere.
Le sorti della battaglia furono decise dopo ore dai trenta legni dello Zaccaria, che piombarono sul fianco pisano, colto completamente impreparato dalla manovra, ed ignaro della stessa esistenza di quelle galee: fu uno sfacelo di legno, corpi e sangue. Dell'intera flotta pisana, solo venti galee, quelle comandate dal Conte Ugolino, si salvarono. L'accusa di vigliaccheria, se non di tradimento, non impedirà al conte di conquistare la signoria de facto e di restare al vertice del governo della città fino alla sua deposizione (1288) e alla celebre morte per inedia (1289).
Un'altra ragione della sconfitta pisana deve essere individuata nell'ormai obsoleto armamento navale e individuale; le navi pisane, più vecchie e più pesanti, imbarcavano anche truppe armate con armature complete, nonostante la calura agostana, e durante la lunghissima battaglia i genovesi, muniti di armature ridotte e più leggere ne furono chiaramente avvantaggiati.
La gloria della Repubblica Pisana s'inabissò in quel giorno nelle acque della Meloria perdendo tra colate a fondo o cadute in mano nemica oltre 49 galere.
Tra i cinque e i seimila furono i morti, e quasi undicimila furono i prigionieri (alcune fonti citano fino a venticinquemila perdite tra morti e prigionieri) tra cui proprio il podestà Morosini, che fu portato con gli altri a Genova nel quartiere che da allora si sarebbe chiamato "Campopisano". Tra i prigionieri anche l'illustre Rustichello che aiutò Marco Polo a scrivere il suo Milione, nelle prigioni genovesi. Solo un migliaio di prigionieri pisani tornò a casa dopo tredici anni di prigionia. Gli altri morirono tutti e sono sepolti sotto il quartiere genovese che tristemente porta ancora il loro nome. La deportazione forzata di tante migliaia di prigionieri, depauperò spaventosamente la repubblica pisana non solo della sua popolazione maschile, ma anche di gran parte del proprio esercito, lasciandola così indebolita e spopolata da causarne la progressiva decadenza. In tale occasione, proprio in riferimento all'ingente numero di prigionieri pisani a Genova, nacque il detto " se vuoi veder Pisa vai a Genova".
Pisa firmò la pace con Genova nel 1288, ma non la rispettò: fatto che costrinse Genova ad un'ultima dimostrazione di forza.
Nel 1290, Corrado Doria, salpò con alcune galee verso Porto Pisano, trovando il suo accesso sbarrato da una grossa catena tirata tra le torri Magnale e Formice. Fu il fabbro Noceto Ciarli (il cognome è spesso riportato anche come Chiarli) ad avere l'idea di accendere un fuoco sotto di essa per renderla incandescente in modo da spezzarla con il peso delle navi. Il porto fu raso al suolo e sulle sue rovine fu sparso il sale, come accadde per Cartagine ai tempi di Scipione, la campagna circostante devastata e saccheggiata.
Con questo evento, e con la definitiva presa della Sardegna pisana da parte Aragonese nel 1324, il potere sul mare di Pisa si spense definitivamente. Nel 1406 la città fu infine assoggettata da Firenze per la prima volta, ma solo dopo un lungo assedio che si concluse con la vendita della città da parte del pavido Capitano del Popolo Giovanni Gambacorta.
La grande catena del porto di Pisa fu portata a Genova, spezzata in varie parti che furono appese come monito a Porta Soprana e in varie chiese e palazzi della città (chiese di Santa Maria delle Vigne, San Salvatore di Sarzano, Santa Maria Maddalena, Sant'Ambrogio, San Donato, San Giovanni in Borgo di Prè, San Torpete, Santa Maria di Castello, San Martino in Val Polcevera, Santa Croce di Riviera di Levante; ponte di Sant'Andrea, Porta di Vacca, Palazzo del Banco di San Giorgio, Piazza Ponticello); furono restituite a Pisa solo dopo l'Unità d'Italia e sono attualmente conservati nel Camposanto Monumentale di Pisa. Uno degli anelli è ancora presente a Moneglia, borgo ligure, che partecipò con sue imbarcazioni alla battaglia.
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