Buongiorno, oggi è il 21 maggio.
Il 21 maggio 1937 l'Italia si macchia di un delitto orribile quanto dimenticato: il massacro in Etiopia dei religiosi del monastero di Debre Libanos.
Il 19 febbraio 1937 ad Addis Abeba, il generale Graziani organizzò una grande festa per onorare la nascita dell’erede al trono di casa Savoia.
Invitò un certo numero di notabili del luogo e qualche centinaio di poveri a cui aveva promesso una congrua elemosina. Mentre erano in corso i festeggiamenti, alcuni etiopi che si erano nascosti tra la folla, lanciarono delle granate verso la tribuna delle autorità. Il risultato di tale attentato fu di sette morti e di cinquanta feriti tra i quali, in modo lieve, persino il viceré Rodolfo Graziani. A questo episodio, seguì una feroce rappresaglia da parte degli italiani.
Il monastero di Debre Libanos, fondato nel XIII secolo da S. Tekle Haymanot, era situato a 90 chilometri da Addis Abeba, nella parte settentrionale dello Scioa, all’epoca dell’attentato a graziani teatro di aspri combattimenti da parte della resistenza etiopica. Oltre ad essere meta di pellegrinaggi, era il più autorevole centro di insegnamento teologico del paese, e godeva di legami assai stretti con il notabilato amhara, al governo con Hayla Sellase, oltre che con l’abuna Petros, vescovo del Wallo e fiero oppositore dell’invasione italiana.
Nel corso delle indagini sommarie e febbrili successive all’attentato, e sulla base di sospetti mai provati, si dà corpo tra l’altro alla tesi del coinvolgimento del monastero in un piano insurrezionale di cui l’attentato rappresenterebbe il momento scatenante. Il monastero viene inoltre accusato di aver offerto ospitalità ai due attentatori, che lì si sarebbero anche esercitati nel lancio delle bombe nei giorni precedenti l’attentato, ritornandovi subito dopo, come prima tappa dopo la fuga da Addis Abeba.
In effetti dal 1881 il monastero godeva di una sorta di extraterritorialità giudiziaria -essendo stato autorizzato ad accogliere fuggitivi, inclusi ladri ed assassini, e dar loro asilo – circostanza che renderebbe ragione della presenza dei due attentatori a Dabra Libanos. Tuttavia va sottolineato come all’epoca dei fatti non esistesse alcuna prova, al di fuori delle ricostruzioni dei servizi di polizia politica italiana, peraltro screditati dalla loro incapacità di prevedere l’attentato, che Abraha Daboch e Mogas Asgadom, i due eritrei ritenuti responsabili dell’attentato al viceré, avessero soggiornato – assieme ad altri che si considerano colpevoli – presso il monastero, né soprattutto che le complicità nell’attentato includessero l’intera comunità dei monaci.
In realtà è proprio il monastero, già guardato con sospetto, il vero obiettivo di Graziani che attraverso di esso intende colpire la chiesa copta nel suo complesso e, più in generale, l’aristocrazia tradizionale etiopica – in particolare quella amhara – per costringere entrambi alla collaborazione. “Non si sarebbe potuta avere opportunità migliore per sbarazzarci di loro”, afferma infatti il 1° marzo in un telegramma al generale Nasi, ordinandogli di fucilare tutti i notabili (e i loro seguaci) fatti prigionieri, assieme a quanti si sono costituiti.
Dopo il fallimento di un primo attacco al monastero nella notte del 22 febbraio, in cui molti dei religiosi riescono a mettersi in salvo, il secondo tentativo è pianificato con cura scrupolosa. Viene scelta, non a caso, la data del 20 maggio (12 Genbot), festa di S. Mikael e ricorrenza della traslazione delle spoglie di S. Tekle Haymanot; data rilevante nel calendario religioso etiopico e la più importante fra le festività celebrate dal monastero, che per tale ragione avrebbe accolto un numero considerevole di persone, peraltro richiamate anche dall’offerta di doni promessa per quel giorno particolare dalle autorità fasciste a coloro che avessero preso parte alle celebrazioni.
Le operazioni contro il monastero vengono dirette dal generale Pietro Maletti al quale il viceré non aveva mancato di far presente in un foglio di istruzioni telegrafato il 7 aprile che “[...] più vostra signoria distruggerà nello Scioa e più acquisterà benemerenze nei riguardi pacificazione territorio impero”.
In aggiunta ai carabinieri già presenti, e ad altri fatti confluire da Dabra Berhan, Maletti concentra nella zona tre battaglioni di truppe coloniali che il 18 maggio costringono i religiosi, i visitatori e i pellegrini all’interno della chiesa, sigillandone i portali. Il 19 maggio i prigionieri vengono interrogati, sommariamente identificati e la gran parte di essi caricata su camion diretti a Chagel, una località poco distante, dove il giorno successivo sono raggiunti da altri prigionieri fatti tra i visitatori nel frattempo giunti a Debre Libanos.
Il 20 maggio coloro che sono stati lasciati al monastero, per lo più ammalati e disabili, vengono uccisi sul posto. Il giorno 21, dopo aver provveduto a ‘selezionare’ fra i prigionieri di Chagel quelli apparentemente identificabili come religiosi (uno dei criteri sembra sia stato anche quello relativo all’uso o al possesso di un copricapo, come nella tradizione del clero copto), i prigionieri così individuati vengono caricati su camion e trasportati a Laga Wolde, una piana disabitata e ben protetta alla vista da colline, scelta per l’operazione. La località risponde infatti alla necessità di evitare testimoni che possano, da un lato, considerare i giustiziati come martiri e, dall’altro, essere fonte di notizie per la stampa estera, pronta a denunciare i massacri perpetrati dagli italiani. Una indiretta conferma alla decisione di evitare pericolose pubblicità è nelle pagine del diario segreto di Ciro Poggiali che il 1° giugno annota, a proposito di altre sommarie esecuzioni, che “[...] non si sono potute eseguire le fucilazioni coram populo perché i condannati danno esempi superlativamente eroici di coraggio e di dedizione alla causa abissina, e questa sarebbe stata una pericolosa propaganda contro di noi”. Del resto lo stesso Graziani, in un telegramma del 19 marzo, aveva provveduto a fornire a Lessona assicurazioni che: ” [...] le esecuzioni ordinate in conseguenza del noto attentato vengono fatte in località appartate e che nessuno, dico nessuno, può assistervi”.
Così a Laga Wolde i camion dei ‘condannati’ giungono a intervalli regolari scaricando i prigionieri che vengono subito passati per le armi dagli ascari. L’operazione dura l’intero pomeriggio. A esecuzione conclusa Graziani può telegrafare a Lessona comunicando di aver “destinato al plotone di esecuzione 297 monaci, incluso il vicepriore, e 23 laici sospetti di connivenza”, aggiungendo anche: “sono stati risparmiati i giovani diaconi, i maestri e altro personale d’ordine che verranno tradotti e trattenuti nelle chiese di Dabra Berhan”. Tuttavia qualche giorno dopo Graziani ingiunge a Maletti di “passare immediatamente per le armi tutti i diaconi” col pretesto di aver avuto conferma della “piena responsabilità del convento di Debrà Libanòs”. Qualche giorno dopo comunica a Roma di aver giustiziato 129 diaconi: ” [...] sono rimasti così in vita [aggiunge] solo trenta ragazzi seminaristi che sono stati rinviati alle loro case di origine nei vari paesi dello Scioa. In tal modo del convento di Debrà Libanòs [...] non rimane più traccia”.
Solo di recente un’indagine condotta negli anni Novanta da Ian Campbell e Degife Gabre-Tsadik ha consentito di gettare qualche luce in più sulla strage di Debre Libanos, accertandone tra l’altro, anche se per inevitabile approssimazione, l’entità. Stando alla loro ricostruzione dei fatti, a Laga Wolde sono state massacrate in realtà tra le 1.000 e le 1.600 persone.
Del gruppo di diaconi, pellegrini, insegnanti e studenti di teologia, non inclusi nella prima ‘selezione’ effettuata a Chagel, circa 400 (e non 129 come affermato da Graziani) vengono giustiziati a Dabra Berhan. Quanto alla sorte dei “trenta ragazzi seminaristi rinviati alle loro case”, questi, in realtà, sono deportati nel lager di Danane, assieme ad altri 94 monaci dei conventi di Assabot e Zuquala chiusi, con la chiesa di Ekka Micael di Addis Abeba, nei giorni successivi.
Alla luce dei fatti accertati la decisione di Graziani di sottostimare nei suoi rapporti a Roma l’entità delle esecuzioni e tacerne una parte, viene ricondotta alla consapevolezza che egli evidentemente ha di agire con una spietatezza che persino a Roma rischia di essere giudicata eccessiva, e soprattutto controproducente, non facendo che alimentare, esasperandola, la rivolta etiopica all’occupazione fascista. Per questa ragione, in occasione dello sterminio della comunità di Debre Libanos, il viceré, da un lato, tace a Roma la reale dimensione delle esecuzioni e, dall’altro, si sforza di fornire assicurazioni sulla colpevolezza dei condannati, evitando ogni riferimento ai pellegrini, agli insegnanti, ai semplici visitatori, pure eliminati, il cui coinvolgimento nell’attentato sarebbe stato effettivamente impossibile da provare.
I timori del viceré non sono infondati. Di lì a qualche mese sarà sollevato dall’incarico e richiamato dall’Etiopia.
Nel dopoguerra, nonostante le richieste etiopiche, nessun italiano venne mai punito per questi e per altri massacri, favorendo la rimozione dalla memoria collettiva dei crimini compiuti dagli italiani durante le guerre fasciste.
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