Buongiorno, oggi è il 15 maggio.
All'alba del 15 maggio 1860, Calatafimi si preparava a diventare il punto nevralgico della battaglia tra i mille di Garibaldi e le truppe borboniche comandate da Francesco Landi. Garibaldi e i suoi volontari siciliani vi si dirigevano da sud, dopo essersi lasciati Salemi alle spalle; le colonne borboniche, invece, si muovevano da Alcamo, dopo aver trascorso interi giorni in attesa di una svolta agli eventi; adesso, stanco di aspettare, il Landi aveva deciso di muovere finalmente contro l'esercito garibaldino: la «settantenne reliquia, ansimava e sbuffava seguendo il battaglione in una pesante carrozza e impiegando sei giorni per fare trenta miglia».
Durante quella lenta marcia, il generale aveva però stabilito di inviare i suoi reparti in perlustrazione del territorio, così aveva spedito a raggiera tre colonne in ricognizione. La prima, composta da 6 compagnie di Cacciatori, un plotone di Cavalleria e 4 cannoni verso Salemi, al comando del maggiore Sforza; la seconda, formata da una compagnia di Carabinieri e una di Fanti, lanciata verso sud; la terza - si trattava di 2 compagnie di Carabinieri e mezzo plotone di Cavalleria - verso est. Tutte le altre forze erano state lasciate di riserva.
La marcia della colonna diretta da Sforza si era da subito rivelata estremamente difficile: le salite erano ripide e scoscese, e il sole così forte da annebbiare la vista dei suoi uomini. Per questo, giunti in prossimità di Pianto dei Romani, poco fuori dalla cittadina di Calatafimi, i soldati non si erano accorti immediatamente della bandiera tricolore che sventolava, quasi insolente, nell'altipiano che si stagliava dinanzi ai loro occhi. Dopo essersi faticosamente arrampicati su un'altura, e dopo che la foschia si era un po' diradata, lo spettacolo che si era presentato era stato minaccioso e maestoso al tempo stesso: i volontari garibaldini e le squadre siciliane accorse in loro aiuto erano schierati proprio dinanzi ai loro occhi, a pochi passi da loro: al centro, la vetta più alta, il monte Pietralunga, era un'immensa parete tinta di rosso. Lì stavano arroccati i Mille, e al loro fianco Garibaldi col suo Capo di Stato Maggiore, intenti a scrutare il paesaggio; le squadre di insorti dell'isola si erano asserragliate invece ai loro lati, sui due poggi che proteggevano i fianchi del promontorio. Le due truppe nemiche erano separate solo dal largo avvallamento che si incuneava placido tra i rilievi. Per alcuni interminabili istanti, quei due contingenti si erano limitati a scrutarsi minacciosi, senza che nessuno si decidesse a fare il primo passo. Intorno a Mezzogiorno, erano stati poi i reparti d'assalto di Sforza a rompere gli indugi: le compagnie si erano sparpagliate, 2 avanti in ordine sparso e 4 dietro a rincalzo; il battaglione era sceso a valle e da lì aveva aperto il fuoco, provando intanto a risalire il monte Pietralunga. La risposta non si era fatta attendere: dai carabinieri di Genova era partito un fuoco altrettanto preciso e serrato del primo, mentre Garibaldi ordinava ai suoi uomini di scendere alla baionetta. L'esercito borbonico, allora, era stato costretto a retrocedere precipitosamente, pressato dai rivoluzionari, e il combattimento si era trasformato in un serrato corpo a corpo che incalzava a tratti, per poi trovare un fuggevole riparo nei muretti a secco delle coltivazioni a terrazzi, che permettevano agli attaccanti di prendere fiato e di riordinarsi.
Qualche ora più tardi, la linea di combattimento si era estesa anche ai lati del colle, col battaglione di Bixio a sinistra e quello di Carini a destra, capeggiato dallo stesso Garibaldi. Il caldo era quasi insopportabile, il morale di entrambi gli schieramenti instabile, pronto a sfociare in infuocati entusiasmi o nella più nera disperazione. Con un risoluzione repentina, erano i Mille a sferrare l'ultimo attacco alla baionetta, accolto dal fuoco dei napoletani: il portabandiera in camicia rossa, Schiaffino, cadeva sotto questo fuoco, e il tricolore in mani borboniche. Anche Garibaldi era ferito al volto, dai sassi che alcuni avversari avevano iniziato a scagliare, in preda alla confusione. Era allora che Sforza ordinava la ritirata precipitosa, alla volta di Calatafimi, durante la quale uno dei cannoni veniva sequestrato dai garibaldini.
Landi avrebbe potuto rafforzare la sua posizione in città, in attesa di rinforzi ma, disse «giudicai prudente sloggiare da Calatafimi la sera stessa del 15, facendo la mia ritirata sopra Alcamo, pria che venissero tagliati i passi e darmi al vincitore».
Più di uno sbaglio era stato compiuto, e quel coacervo di errori aveva finito per essere una miscela letale alle sorti di quella battaglia. Calatafimi, tuttavia, era anche il simbolo delle tare strutturali dell'esercito borbonico, poco adeguato all'azione sul campo e vittima di una fatale sottovalutazione dell'avversario. A causa di ciò, le forze schierate contro gli insorti erano state private dei 6 battaglioni principali della compagnia, che erano rimaste in riserva, ad attendere un segnale d'azione, che tuttavia non era arrivato. A segnare le sorti dello scontro c'era poi l'assillo per la concentrazione di forze a Palermo, che aveva portato Landi a riunire la colonna a Calatafimi, confessando che «la ritirata è la migliore delle vittorie!».
A notte fonda, le sue truppe giungevano così ad Alcamo e lì, ancora una volta, il generale decideva di non sfruttare l'ottima posizione logistica del paese, preferendo riprendere l'estenuante marcia verso Partinico. Non immaginava, probabilmente, che ad accoglierlo sarebbe stato il fuoco dei ribelli, e che avrebbe dovuto aprirsi il passo combattendo strenuamente e dando alle fiamme numerose abitazioni. Solo dopo ore riusciva a dirigersi verso Montelepre, e a superare un nuovo attacco prima di riprendere la strada che avrebbe dovuto portarlo all'unica meta, ossessivamente agognata: Palermo. Vi entrava, infine, la mattina del 17, con una truppa stremata dai 100 km di cammino in due giorni, e per di più ferita, affamata, in preda al più completo disordine. Intanto, la notizia della sconfitta iniziava a diffondersi per l'isola, poi più oltre, fino a Napoli. Francesco II non riusciva a persuadersi di come 20.000 uomini bene armati e ben riforniti avessero potuto cedere il passo a uno sparuto gruppo di ribelli, e continuava ad inviare rinforzi, armi, munizioni e viveri, oltre a feroci telegrammi in cui incitava i suoi all'attacco. Ma le risposte che gli venivano dal nuovo comandante in capo, il generale Lanza, che aveva sostituito Castelcicala, non erano affatto confortanti: «la colonna del generale Landi è rientrata in Palermo nella scorsa notte, dopo aver combattuto a Calatafimi coi filibustieri e con molte squadre [?]. Tale colonna ha dovuto ritirarsi per difetto di viveri [?]. Palermo è repressa dalla forza, ma aspetta il momento per insorgere».
Anche il nuovo comandante, come il suo predecessore, preferiva continuare a tergiversare, ostinandosi nell'idea di concentrare tutte le truppe a Palermo e solo il 21 inviava 4.000 uomini agli ordini del colonnello svizzero Von Mechel per sbaragliare gli insorti. In quella situazione di emergenza assoluta, la dirigenza militare borbonica mostrava i segni della sua stonata polifonia di comandi: ordini e contrordini inutili e inconcludenti continuavano a rimbalzare, impazziti, da un'autorità all'altra.
Intanto Garibaldi, con 1.500 uomini, era già sull'altipiano di Renda e minacciava da vicino la capitale.
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