Buongiorno, oggi è il 19 ottobre.
Il 19 ottobre 1812, Napoleone si ritira da Mosca, ponendo così fine alla campagna di Russia.
Napoleone Bonaparte aveva chiamato alle armi oltre 600.000 uomini, per metà Francesi e per l'altra metà di undici lingue diverse, per la sua guerra contro la Russia.
La "Seconda guerra polacca", come la chiamò Napoleone, o, come la definì lo zar Alessandro, "la guerra per la Madrepatria", non giungeva all'apice della potenza dell'imperatore, ché la sua parabola mostrava già segni di cedimento, ma certificava al Mondo la sua feroce volontà di garantire a se stesso e a quanto aveva costruito un futuro non effimero.
Quell'esercito enorme riuniva al confine con la Russia uomini provenienti da ogni parte d'Europa, dai territori dell'impero come da nazioni alleate più o meno entusiaste: nelle gambe di molti di loro v'era già il peso di un numero di chilometri maggiore di quanti ne avrebbero dovuti percorrere nei mesi a venire.
Ma le origini di quella guerra provenivano da ancora più lontano: come spesso è accaduto, affondavano le radici in una pace imperfetta, quella scritta nei paragrafi del trattato di Tilsit.
Dopo aver vinto i Prussiani nel 1806 a Jena e i Russi nel 1807 a Friedland, Napoleone incontrò i due sovrani sconfitti nella città prussiana di Tilsit, l'attuale Sovetsk in Russia, per avviare con loro colloqui di pace.
Nel rapporto con Alessandro I, però, Napoleone andò molto oltre il prevedibile. L'imperatore, infatti, non si limitò alle richieste del vincitore – tra le quali non poteva mancare l'obbligo di aderire all'assedio economico continentale contro l'Inghilterra – ma offrì allo zar la divisione dell'Europa intera in sfere di influenza. In un'anticipazione della politica dei blocchi, la Russia avrebbe avuto mano libera in Finlandia e nei Balcani, concretizzando due prospettive strategiche storicamente care alla Russia e in particolare ad Alessandro: l'espansione verso la penisola Scandinava e soprattutto la difesa delle popolazioni di religione ortodossa, con la concomitante cacciata degli Ottomani musulmani dall'Europa. Ma Napoleone vagheggiò allo zar scenari ancora più grandiosi: addirittura la comune conquista del Mondo intero, con una nuova spedizione francese in Egitto che avrebbe preparato la conquista russa della Persia e dell'India. Il carisma dell'uomo venuto dal nulla conquistò senza riserve il giovane zar, ma i prosaici motivi della politica lo riportarono ben presto alla ragione.
Il patto di "eterna" amicizia con la Francia era infatti duramente contestato in Russia soprattutto per l'adesione al blocco continentale che chiudeva le nazioni europee al commercio con la Gran Bretagna per strangolarne l'economia.
Una misura impopolare ovunque, che però i sudditi di sua Maestà Britannica pativano: forse non quanto Napoleone aveva sperato, ma più di quanto essi riuscissero a sopportare. Le risorse umane inglesi da sole poco potevano contro una potenza che esprimeva ormai una popolazione di 45 milioni di persone. Ne ottimizzarono comunque l'impiego con un sostegno diretto alle rivolte antifrancesi nella penisola iberica: una piccola ferita in un teatro privo di valore strategico, nell'opinione di Napoleone, ma che proprio per questa sottovalutazione era destinata, negli anni a seguire, a stillare copiosamente sangue francese.
Particolarmente penalizzata dal blocco continentale, però, fu da subito proprio la precaria economia russa, le cui fortune dipendevano in parte rilevante dal commercio di legname con la Gran Bretagna e dalle importazioni dei prodotti delle manifatturiere inglesi.
Le proteste dei mercanti russi e dei notabili antifrancesi non sarebbero da sole bastate a convincere lo zar Alessandro a rinnegare il trattato di Tilsit, anche considerata l'attitudine della nobiltà russa alle congiure di palazzo, ma servirono come fattore di attenzione sulle sue clausole e sugli sviluppi politici che le imprese napoleoniche generavano.
Alessandro I aveva una personalità estremamente complessa. Allevato dalla nonna, Caterina la Grande, che non aveva fama di avere un particolare istinto materno, divenne zar all'età di 22 anni, con la morte del padre Paolo I. I cospiratori che lo avevano appena assassinato, la notte del 23 marzo 1801, andarono a cercare il giovane nei suoi appartamenti e, trovatolo, gli comunicarono bruscamente la sua ascesa al trono: "È tempo di crescere, va e governa!". Ma la Russia non era certo un paese facile da governare. Esteso dall'Alaska fino all'Europa centrale, aveva una popolazione di circa 37 milioni di abitanti, un quarto di quelli dell'Europa intera, ma il suo peso politico era minimo, così come quello economico. Alessandro doveva modernizzare il suo regno in anni in cui questo significava fare una rivoluzione, mentre la sua profonda fede religiosa e la convinzione di regnare per volontà divina, lo spingevano al tradizionalismo più conservatore. Fu l'ambizione di Napoleone a risolvere per lui questa contraddizione.
A Tilsit, infatti, era stato creato il ducato di Varsavia, strappando province soprattutto alla Prussia e limitatamente anche alla stessa Russia. Per lo zar questa rinascita lungo il confine col fiume Niemen di una nazione polacca, al momento significava poco, confidando nella promessa di Napoleone a non elevarla a regno. E per una volta Napoleone era seriamente intenzionato a mantenere questa promessa, tradendo senza esitazioni le speranze dei Polacchi, suoi entusiastici sostenitori.
Nel 1809, però, la sincerità delle promesse dell'imperatore non fu più sufficiente per lo Zar: sconfitta nuovamente l'Austria, infatti, Napoleone conferì al Ducato di Varsavia i territori nord-orientali degli Asburgo. Per Napoleone era solo un modo per consolidare la propria posizione in funzione anti-prussiana e anti-austriaca, ma l'avvertimento ricevuto a San Pietroburgo fu diverso: era solo questione di tempo, ormai, e la risorta patria polacca, animata da un indomito spirito nazionalistico, avrebbe rivendicato quanto dell'originaria "Grande Polonia" era diventato Russia. Lo spirito di Tilsit non esisteva più, anche se non era ancora il momento di informarne Napoleone. Nel frattempo, un numero sempre più consistente di navi "neutrali" riprendeva le attività commerciali nei porti russi, rompendo il blocco continentale e minando l'autorità di Napoleone. Dobbiamo riconoscere allo zar Alessandro, se non altro per attitudine, solo la volontà di cercare un accomodamento pacifico su basi più favorevoli di quelle dettate dal vincitore allo sconfitto a Tilsit, dimostrandosi anche preparato militarmente.
Da parte sua l'imperatore aggravò ulteriormente, pur senza una precisa intenzione, le preoccupazioni russe. Dal marzo del 1810 la Francia aveva una nuova imperatrice e, dall'agosto dello stesso anno, la Svezia un nuovo re: Napoleone, dopo aver divorziato da Joséphine de Beauharnais, incapace di dargli un erede, aveva infatti sposato Maria Luisa, duchessa di Parma, figlia dell'imperatore austriaco Francesco II, mentre gli Svedesi, per risolvere una propria crisi dinastica, avevano chiamato al trono del proprio regno, con il riluttante assenso di Napoleone, il maresciallo di Francia Jean Bernadotte. Di fatto la Russia in questo modo risultava circondata a Occidente da un unico fronte di alleati della Francia, e spinta più a Est e più lontana dal secolare obiettivo strategico russo di entrare da grande potenza nel cuore della politica continentale e mediterranea. Aggiungiamo pure che Napoleone, decidendo di fidanzarsi con Maria Luisa, aveva interrotto senza troppi complimenti le trattative matrimoniali (che stavano andando per le lunghe) per sposare una sorella dello zar: quel genere di offesa che si dimentica facilmente per convenienza politica, e sempre per convenienza politica può decretare una frattura insanabile e, nella fattispecie, infiammare nell'opinione pubblica sentimenti anti-francesi.
Dal 1810, quindi, Francia e Russia iniziarono contemporaneamente estesi preparativi militari. Nelle intenzioni di entrambe le parti per il momento solo una misura precauzionale, ma anche l'occasione di ulteriori reciproci sospetti e di un'inarrestabile escalation che avrebbe inevitabilmente condotto alla guerra:
Nei primi mesi del 1812 centinaia di migliaia di uomini già erano sul Niemen, formalmente per difendere la Polonia da un attacco russo, e altrettanti ne stavano arrivando: una migrazione armata di massa come non si era mai vista. Nessuno si era sottratto alla sua richiesta di truppe, neppure nazioni non propriamente amiche come Austria e Prussia avevano osato negargliele e, nonostante la loro inaffidabilità, questi contingenti sarebbero stati funzionali al suo progetto. Anche lo zar, però, aveva messo a segno importanti colpi diplomatici: una pace con l'impero Ottomano aveva reso disponibili le imponenti guarnigioni del confine meridionale, mentre un altro trattato con la Svezia e Bernadotte aveva assicurato un benevolo stato di non belligeranza all'estremo Nord del paese, con grande sorpresa dell'imperatore che però in seguito ebbe a commentare il comportamento dell'ex maresciallo dicendo che poteva "rimproverargli ingratitudine, non tradimento".
Più che agli intrighi diplomatici, i pensieri di Napoleone erano tutti rivolti al suo vero avversario, la Russia, e all'organizzazione al minimo dettaglio dei preparativi per conquistarla. Un territorio nemico per la sua sconfinata vastità ma anche, paradossalmente, per essere talmente boscoso da non avere campi di battaglia sufficientemente ampi da ospitare grandi eserciti, per la scarsità delle sue risorse, che sicuramente il nemico avrebbe oltretutto provveduto ad azzerare, per i grandi fiumi che scorrevano trasversali alla direzione di marcia, per il clima torrido d'Estate e glaciale in Inverno, per l'assenza di una rete stradale degna di questo nome. La Russia si sarebbe opposta agli invasori con tali armi terribili e Napoleone si preoccupò prima di queste che dei cannoni dello zar. Con la sua maniacale puntigliosità l'imperatore studiò e controllò personalmente ogni dettaglio organizzativo: dal treno dei rifornimenti, ai depositi e al loro contenuto, dagli artigiani specializzati che dovevano accompagnare le armate, al bestiame che doveva nutrirle. Le armate dovevano essere indipendenti in tutto perché nulla avrebbero trovato in quei luoghi inospitali che il nemico avrebbe reso desolati. Persino la composizione degli zaini e la disposizione degli oggetti al loro interno fu accuratamente studiata per massimizzarne le capacità di trasporto.
Prima ancora che la campagna iniziasse, però, le difficoltà di gestire ordinatamente un esercito così grande (circa 450.000 solo quelli in diretto comando di Napoleone) emersero prepotentemente. Era stato ad esempio deciso che gli uomini, nella loro marcia di avvicinamento al Niemen, avrebbero dovuto approvvigionarsi localmente per non intaccare i rifornimenti riservati alla successiva invasione, ma non di rado le risorse messe a disposizione dalle autorità civili alleate erano troppo scarse, così che alle truppe, già esasperate dalla marcia, restava solo il saccheggio. Ma proprio nei numeri Napoleone confidava per vincere: innanzitutto perché mai i Russi avrebbero potuto immaginare di avere contro il doppio delle proprie forze, e in secondo luogo perché l'Imperatore contava di chiudere la guerra in 3 settimane, e in quel lasso di tempo le inevitabili perdite sarebbero state trascurabili.
Effettivamente i Russi furono colti di sorpresa dal numero degli avversari e questo sconvolse i loro piani, che prevedevano un arretramento delle due armate principali, la Prima al comando di Michael Barclay de Tolly e la Seconda agli ordini di Pyotr Bagration, fino al campo fortificato di Drissa, dove avrebbero trovato ad attenderli i rinforzi resi disponibili dalla mobilitazione generale, per colpire Napoleone tra incudine e martello.
Certamente l'idea di rimandare lo scontro e di localizzarlo lontano dalle frontiere era buona, ma Drissa ancora troppo vicina perché l'Armata francese risultasse sufficientemente indebolita dal naturale attrito della guerra. Al contrario, l'Imperatore era intenzionato ad approfittare della propria posizione centrale intromettendosi tra le due armate nemiche per distruggere quella che avesse incontrato per prima.
Lo zar, formalmente il comandante in capo, seguiva la situazione da San Pietroburgo, un po' troppo lontano per prendere decisioni: faceva le sue veci sul campo Barclay de Tolly, appartenente alla schiera di fuoriusciti tedeschi che riempivano i ranghi del suo esercito. Bagration, russo, mal tollerava il suo stato di subordinazione ad uno "straniero" e, pur accettandone disciplinatamente l'autorità, non ne condivideva le scelte strategiche: per Barclay Napoleone era troppo forte per essere affrontato, secondo Bagration si doveva assumere decisamente l'offensiva. Paradossalmente questo contrasto al vertice si rivelò prezioso per le sorti russe: cautela e orgoglio si fusero, e i Russi in costante ritirata non si persero mai d'animo, ma si rivelarono combattenti irriducibili in difesa e sempre pronti alla controffensiva.
Le trappole tese da Napoleone ai due eserciti nemici fallivano una dopo l'altra e fu impossibile impedirne il ricongiungimento presso Smolensk dove avvenne la prima battaglia degna di questo nome. L'occasione per distruggere l'esercito russo, tanto cercata da Napoleone, giungeva solo il 14 agosto dopo quasi due mesi dall'inizio dell'invasione, ma il risultato non fu quello che l'imperatore auspicava. A rovinare quello che molti considerano un capolavoro di Napoleone fu Gioacchino Murat, che schiantò la sua cavalleria contro i quadrati della fanteria russa, senza alcun risultato. Dopo un'accanita resistenza i Russi riuscirono a sganciarsi.
Il bilancio per Napoleone, a questo punto della guerra, era già assolutamente negativo. La cavalleria russa, in virtù anche delle milizie cosacche, era sempre riuscita efficacemente a costruire uno schermo impenetrabile alle unità esploranti francesi. I marescialli si muovevano così alla cieca, seguendo l'istinto di Napoleone e i suoi ordini. Ma quando questi mancavano o erano imprecisi, il timore di contravvenire le intenzioni del loro inflessibile padrone li paralizzava nell'inazione. Napoleone pretendeva un controllo totale, impossibile in quelle condizioni, e i suoi subordinati non fecero molto per pretendere la maggiore autonomia che sarebbe stata opportuna.
L'inseguimento dei Russi costringeva i soldati di Napoleone a marce estenuanti nell'insopportabile caldo dell'Estate russa e il loro percorso si disseminava di cadaveri: uomini e animali morti per la fatica, la dissenteria, la fame. Le loro colonne compatte sollevavano tempeste di polvere che soffocavano gli uomini, torturandoli per la sete, e quanto più esse marciavano veloci, tanto più si distanziavano dai loro rifornimenti, che rimanevano indietro, insabbiati nella steppa, condannando gli uomini già esausti al digiuno. Un semplice acquazzone estivo poteva peggiorare ancora di più le cose, trasformando il terreno in un insuperabile lago di fango, che letteralmente inghiottiva senza distinzione uomini, animale e cose. Molti preferiscono suicidarsi piuttosto che vivere in queste condizioni, altri disertano riunendosi in formazioni improvvisate che vivono di brigantaggio mentre cercano di tornare alle loro patrie lontane, e contadini e cosacchi danno loro la caccia come animali feroci.
In questo terribile scenario, non c'è da stupirsi che dopo la battaglia di Smolensk Napoleone prenda in considerazione l'ipotesi di attestarsi sulle posizioni raggiunte per l'Autunno e l'Inverno, dando modo al suo esercito di riposarsi e rifiatare. Le forze al suo comando sono appena un terzo di quelle con le quali era partito due mesi prima: potrà reintegrarle con le reclute, potrà donare ai Polacchi la sospirata indipendenza e ottenerne in cambio la mobilitazione generale e altri centomila uomini, potrà decidere in Primavera quale delle due capitali russe, San Pietroburgo o Mosca, dirigere il suo attacco. Ma era un'ipotesi impraticabile, perché mai il suo esercito avrebbe potuto sopravvivere a lungo nel cuore nel territorio russo: non rimaneva che ritornare indietro o avanzare altri 450 chilometri e prendere Mosca, augurandosi che questo fosse sufficiente a costringere lo zar alla resa.
Ma Alessandro si era ormai determinato a resistere e aveva assegnato il comando in capo all'esperto Mikahil Kutuzov, con il mandato, intriso di misticismo, di liberare il sacro suolo russo dall'invasore.
Mikahil Kutuzov assunse il comando in capo delle armate russe dopo la battaglia di Smolensk, ereditando dal suo predecessore Barclay de Tolly una situazione ancora critica, ma in miglioramento. Napoleone era come un giocatore in perdita al tavolo da gioco costretto ad aumentare la puntata per rifarsi, ma con sempre minori probabilità di vittoria. Il generale russo seppe approfittarne e, forte dell'indomito spirito combattivo delle sue truppe, dispose una linea di resistenza a Borodino attorno a fortificazioni improvvisate. Napoleone non ottenne la vittoria schiacciante di cui aveva bisogno, ma riuscì solo ad allontanare i Russi dalla posizione, aprendosi la strada verso Mosca. Abbandonata la città, Kutuzov schierò le sue truppe a Sud, impedendo così a Napoleone di incamminarsi verso territori non ancora devastati dalla strategia della terra bruciata: la ritirata francese sarebbe stata un incubo.
Provò a bloccare Napoleone a Borodino, il 7 settembre, sul fiume Moskova,offrendo a Napoleone quella "battaglia decisiva", che questi ostinatamente cercava, e pure senza riuscirvi provocò una nuova emorragia di uomini tra le fila francesi.
Una settimana dopo, Napoleone raggiunse Mosca con meno di centomila soldati, troppo pochi per fare paura ad Alessandro, figuriamoci a Kutuzov, le cui truppe finalmente superavano quelle avversarie. In una città semidistrutta da un incendio per cause non ancora chiarite, Napoleone attese invano la resa dello zar. Con colpevole ritardo, solo dopo più di un mese, il 19 ottobre, l'imperatore si decise ad abbandonare la città, intraprendendo la ritirata destinata a rimanere alla storia come una delle più grandi catastrofi militari di tutti i tempi. Kutuzov si era schierato a sud della città, per costringerli a riprendere lo stesso percorso dell'andata, dove tutto era devastazione e morte. Coraggiosamente le truppe italiane al seguito di Napoleone sfondarono il blocco a Maloyaroslavets, per trovarne, un altro, insormontabile, poco più a sud. Ai Francesi non restava che ritornare sui loro passi: dopo la strage compiuta dall'Estate russa, ci avrebbe pensato l'Inverno, con temperature capaci di scendere a -38 gradi, a completare l'opera, lasciando alle armate di Kutuzov solo il compito di infierire su un nemico vinto e in fuga.
Dal 26 al 29 novembre 1812 il fiume Beresina fu testimone del più drammatico episodio della ritirata delle truppe francesi: in pochi riuscirono a sfuggire alla trappola tesa dai Russi. Questi volevano distruggere completamente quanto restava dell'armata francese stringendola in una inesorabile tenaglia con attacchi combinati su entrambe le sponde del fiume.
I Genieri Olandesi di Napoleone, sfidando una temperatura di 20 gradi sotto zero, scesero nella Beresina costruendo 3 pontili lunghi 100 metri, per consentire il suo attraversamento.
Le stremate truppe francesi dovettero combattere e vincere due battaglie: contro i Russi che li inseguivano e contro quelli che dall'altra parte del fiume bloccavano la loro via di fuga.
Mentre infuriavano i combattimenti, i Cosacchi fecero strage dei molti soldati francesi che si erano persi e che cercavano disperatamente di ricongiungersi alla colonna principale.
20.000 civili al seguito dell'Armata francese morirono durante la battaglia della Beresina: di questi si calcola che almeno 10.000 fossero le vittime dei Cosacchi.
Nelle quattro giornate di combattimenti morirono circa 15.000 soldati francesi, ma la trappola russa era fallita e anch'essi avevano lasciato sul campo circa altrettanti uomini.
«Posso mantenere il dominio d'Europa solo dalle Tuileries»: con questa motivazione Bonaparte il 5 dicembre abbandonò in Russia quello che rimaneva della sua armata per raggiungere in segreto Parigi. Lo accompagnava solo una ristrettissima cerchia di collaboratori e una piccola scorta di cavalleria. Ben presto quasi l'intera Europa si sarebbe sollevata contro di lui.
L'ultima striminzita colonna di disperati a cui era stata ridotta la Grande Armata, ormai appena 10.000 uomini, attraversò il Niemen l'11 dicembre, assieme ad altri 25.000 che si erano salvati coi propri mezzi: Napoleone aveva scommesso tutto su una sola giocata e aveva perso.
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