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lunedì 23 dicembre 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 23 dicembre.
Il 23 dicembre 1796 viene proclamata la Repubblica Cispadana.
Fu proclamata a Reggio Emilia dal congresso formato dai rappresentanti dei territori occupati dalle truppe francesi di Bologna e Ferrara, Modena e Reggio. Il congresso venne organizzato, non ufficialmente, da Napoleone, il cui esercito aveva attraversato l’Italia del nord all’inizio dell’anno e aveva necessità di stabilizzare la situazione in Italia e di riunire nuove truppe per una nuova offensiva contro l’Austria. La neonata repubblica sorella della Francia rivoluzionaria invitò gli altri popoli italiani ad unirsi ad essa e venne formata una guardia civica, composta da cacciatori e artiglieri. La Repubblica Cispadana ebbe però vita breve: dopo circa sei mesi, il 9 luglio 1797, si fuse con la Repubblica Transpadana, formando la Repubblica Cisalpina.
Non va dimenticato che i colori della bandiera italiana furono scelti proprio dal congresso della Repubblica Cispadana. La bandiera approvata in quell’occasione era un tricolore orizzontale, con strisce rosse, bianche e verdi, e con un emblema, al centro, composto da una faretra che si erge su trofei di guerra, con dentro quattro frecce che simboleggiavano le quattro province originali, all’interno di una corona di alloro.
Alla fine della primavera del 1796 Napoleone, ormai dominatore di gran parte dell’Italia settentrionale dopo le vittorie sui piemontesi e sugli austriaci, impose la sua autorità anche sui ducati di Parma e di Modena e invase lo Stato Pontificio, obbligando Pio VI ad un oneroso armistizio e alla rinuncia della sua sovranità sulle Legazioni di Bologna e di Ferrara. I francesi entrarono in Bologna il 19 giugno 1796 e, sbandierando con messaggi e proclami le nuove idee democratiche sancite dalla Costituzione dell’anno III, suscitarono i primi fermenti e le prime speranze di un migliore avvenire in una popolazione ormai abituata da secoli ad un immobilismo che, pur nel variare delle situazioni contingenti, aveva lasciato sostanzialmente inalterata la struttura socio-politica della città ed intatto il fortissimo divario economico tra il ceto abbiente e le masse popolari. Tuttavia Bologna nel suo complesso non era ancora preparata né disposta ad accogliere grosse novità; e come si era limitata a commuoversi per l’infelice sorte di Zamboni e De Rolandis, rimanendo indifferente al loro messaggio politico, così si limitò ad osservare con composta curiosità l’arrivo dei nuovi venuti. La rivoluzione francese, infatti, appariva alla massa dei bolognesi come qualcosa di molto lontano e incomprensibile, che comunque non sembrava avere alcun rapporto con il proprio sistema di vita, scandito al ritmo regolare e tranquillo delle tradizionali feste religiose, come gli «addobbi» o l’annuale discesa in città della Madonna di San Luca, e delle tradizionali divagazioni culinarie, collegate alla comparsa stagionale dei prodotti dell’agricoltura e dell’allevamento.
Napoleone, giunto a Bologna il 20 giugno, si preoccupa subito di dare una sistemazione politica alla sua azione militare. Se in teoria si porta al seguito l’idea rivoluzionaria dell’egalité e se i suoi soldati sono entrati in Bologna al canto della Marsigliese, in pratica egli non vuole affatto dare l’avvio ad alcuna rivoluzione sociale; anzi, al contrario, mira a procurarsi l’appoggio dei ceti dirigenti. La sua politica, del resto, è perfettamente in linea con quella del Direttorio, esponente della nuova borghesia francese, preoccupata di consolidare il suo potere e di evitare ogni pericoloso ritorno all’estremismo giacobino, e perciò ben disposta ad accettare, fuori di Francia, la collaborazione e l’appoggio dei «moderati» di ogni stampo e di ogni ceto, fossero pur anche conti e marchesi. Napoleone, inoltre, ha fretta di dare un assetto politico ai territori occupati e di trovare in essi una base economica di appoggio per poter portare a termine la guerra contro gli austriaci. Evidentemente bene informato, agisce in modo deciso e coerente per la realizzazione del suo fine: ingiunge al cardinale Ippolito Vincenzi, legato di Bologna, di partire immediatamente per Roma, minacciando la vendetta repubblicana per la morte di Zamboni e De Rolandis; riceve nella sala Farnese del palazzo comunale i senatori bolognesi, li tratta con deferenza e di fronte a loro, stupiti e lusingati, esalta l’antica libertà di Bologna repubblicana, da secoli soffocata dall’autorità pontificia; dichiara solennemente di voler restituire al glorioso Senato cittadino il potere legislativo e governativo, purché sia giurata fedeltà alla Repubblica France­se e sia sottoscritto l’impegno di esercitare il potere in suo nome e alle sue dipendenze. Ma se toglie alla Chiesa l’autorità politica, dell’ autorità religiosa e morale della Chiesa intende servirsi per mantenere l’ordine sociale e in tal senso chiede l’intervento e l’appoggio della massima autorità religiosa bolognese, l’arcivescovo Gioannetti.
I bolognesi accettano con favore la nuova situazione: la nobiltà senatoriale, che aveva visto nel piano economico del cardinale Boncompagni una grave insidia ai suoi privilegi, spera di riacquistare, appoggiandosi ai francesi, la sua antica autonomia e di conservare intatto il suo predominio economico, e si adatta perciò ai nuovi formalismi democratici e ai necessari sacrifici economici pur di salvare la sostanza del suo potere; la classe media, nel proclamato superamento delle barriere di casta che prima le precludevano l’ingresso al Senato, intravede la concreta possibilità di una partecipazione politica attiva e di una conseguente crescita economica; la classe popolare, nell’esaltazione degli ideali democratici e nelle nuove mode – distruzione di stemmi gentilizi, abolizione dei titoli nobiliari, delle parrucche e del codino, passaggio dalla condizione di sudditi alla condizione di «cittadini» – avverte sia pur confusamente l’inizio di una nuova epoca, che trova il suo simbolo nell’albero della libertà innalzato in piazza Maggiore, un alto fusto decorato di festoni tricolori, dei fasci consolari e del berretto frigio dei rivoluzionari. Illustri giuristi dello Studio bolognese preparano intanto la nuova Costituzione, in cui sono fusi con apprezzabile equilibrio i principi della Costituzione francese dell’anno III con gli istituti dell’antica libertà comunale, così che il motto Libertas dello stemma di Bologna, senza perdere il suo tradizionale significato, sembra assumere una più ampia ed aggiornata dimensione.
La nuova Costituzione della Repubblica di Bologna, votata nella chiesa di San Petronio il 4 dicembre 1796 dai rappresentanti della città e del territorio, fu approvata con 454 voti favorevoli su 484 votanti. Nei giorni precedenti il testo posto ai voti era stato pubblicato e discusso dalla cittadinanza; è perciò da considerarsi, sia per il suo contenuto sia per la procedura seguita per la sua approvazione, la prima costituzione democratica della storia dell’Italia moderna.
Dopo un Te Deum di ringraziamento, le campane di San Petronio annunciarono ai bolognesi l’avvenuta approvazione della Costituzione, e in Piazza ci fu grande festa attorno all’albero della libertà. Il «Monitore di Bologna» esaltò orgogliosamente la «rigenerazione» della città, avvenuta nella concordia, senza lotte e senza spargimento di sangue; ma l’avvenimento fu visto più come un ritorno alle antiche glorie municipali che come l’inizio di una nuova era storica.
La Costituzione del 4 dicembre ebbe brevissima vita giuridica e nessuna applicazione pratica. La durata della appena nata, o rinata, Repubblica bolognese non poteva che essere effimera, legata come era alle mutevoli esigenze politico-militari del turbinoso Bonaparte, che già due mesi prima aveva fatto riunire in un convegno i rappresentanti di Bologna, Ferrara, Modena e Reggio, in vista della creazione di una confederazione delle quattro città cispadane. Un nuovo congresso, riunitosi a Reggio alla fine di dicembre, diede vita alla Repubblica Cispadana, dichiarata «una e indivisibile», con capitale Bologna. L’assemblea di Reggio continuò i suoi lavori per preparare la nuova Costituzione e nella seduta del 7 febbraio 1797 approvò, su proposta del ferrarese Compagnoni, l’emblema e la bandiera della nuova Repubblica, cioè quel tricolore bianco, rosso e verde che divenne in seguito la bandiera delle lotte risorgimentali e dell’Italia unita. Al vertice dello Stato furono previsti un Direttorio di tre membri e due Consigli legislativi. Le elezioni avvennero nell’aprile del 1797 e videro una larga partecipazione degli elettori iscritti, con una percentuale che superò 1’80%; il Senato di Bologna, con un proclama in data 26 aprile 1797, firmato dal suo ultimo gonfaloniere, Gerolamo Legnani, annunciò la convocazione dei nuovi eletti e rassegnò il suo mandato. Tale atto, anche se l’effettivo trapasso dei poteri richiese ancora qualche settimana, può essere considerato la conclusione della secolare storia del Senato bolognese, avvenuta pochi mesi dopo quello che era sembrato il rilancio del suo prestigio e poco meno di tre secoli dopo la sua istituzione, risalente ai tempi di papa Giulio II.
Anche la Repubblica Cispadana ebbe vita non meno effimera della Repubblica di Bologna: nel maggio furono staccati dalla Cispadana e aggregati alla Lombardia i territori di Modena e Reggio; in compenso a Bologna e a Ferrara fu unito il territorio della ex Legazione di Forlì, al cui possesso la Chiesa era stata costretta a rinunziare con il trattato di Tolentino (19 febbraio 1797); il 9 luglio nacque la Repubblica Cisalpina, con capitale Milano; il 27 luglio, infine, ebbe termine la Repubblica Cispadana e i suoi territori – Bologna, Ferrara e la Romagna – furono annessi alla Cisalpina.

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