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sabato 12 ottobre 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 12 ottobre.
Il 12 ottobre 1938 iniziano le riprese del film "Il mago di Oz".
A distanza di oltre ottant’anni Il mago di Oz ci sembra privo di confini, capace di andare ben oltre le mura dei teatri di posa e di dare vita a una terra di mezzo spensierata, idealizzata, irraggiungibile per qualsiasi intruso malvagio.
Dorothy vive in una fattoria del Kansas con gli zii Emma e Henry. Trascinata da un violento tornado in un regno incantato con l’inseparabile cagnolino Toto, Dorothy dovrà trovare il potente mago di Oz per poter tornare dagli amati zii. Accompagnata dai suoi nuovi amici – uno spaventapasseri, un uomo di latta e un leone – Dorothy percorre il sentiero dorato verso la città di smeraldo, trovando sulla sua strada alberi parlanti, nani canterini, streghe belle e buone e streghe brutte e cattive…
Sarebbero bastati gli accesi cromatismi del Technicolor o le scarpette rosse di Dorothy per consegnare Il mago di Oz alla storia (del cinema), all’immaginario cinefilo e collettivo, ai sogni di generazioni e generazioni. Dietro la linearità del racconto e del celeberrimo sentiero dorato ci sono così tanti aneddoti, talenti, intuizioni, teorie e interpretazioni, intrecci artistici e produttivi da rendere davvero immortale il film di Fleming e della Metro Goldwyn Mayer. In un certo senso una pietra miliare che è ancora in divenire, in crescendo, una pellicola che continua a parlarci della magia del cinema, della potenza creativa di Hollywood.
Il mago di Oz è la festa dopo la Grande Depressione, è la crescita di Hollywood e della società a stelle e strisce. Ma è anche l’arcobaleno prima della tempesta, la parentesi dorata prima della Seconda guerra mondiale. Tra la realtà in bianco e nero della fattoria nel Kansas e i colori sgargianti di Oz possiamo scorgere altri piani narrativi, altre suggestioni. Il mago di Oz è una fertile cartina tornasole storica, sociale e produttiva.
Prima ancora di seguire il sentiero dorato, è interessante cercare di sbrigliare almeno un po’ la matassa produttiva che ha portato a questo fantasy/musical: insomma, non solo Fleming, ma anche George Cukor, Mervyn LeRoy, Norman Taurog, King Vidor e Richard Thorpe. In primis Thorpe, sostituito dopo un paio di settimane di riprese. L’investimento della MGM era imponente, il produttore Mervyn LeRoy si muoveva su un terreno alquanto franabile e l’immaginario di L. Frank Baum richiedeva una trasposizione all’altezza. Lo richiedevano schiere e schiere di lettori. E lo richiedeva, in fin dei conti, lo standard qualitativo imposto dallo straripante successo di Biancaneve e i sette nani, straordinario trampolino per Walt Disney e per l’animazione. Per ambizione e grandeur, Il mago di Oz è figlio di Biancaneve, ma anche genitore o genitrice dei musical successivi, dei successi minnelliani – si veda, in questo senso, l’analisi di Paolo Bertetto sulle influenze Oz/Minnelli in Metodologie di analisi del film (Laterza, 2006).
Scartata l’impostazione poco fanciullesca di Thorpe, Il mago di Oz viene indirizzato sul binario giusto da Cukor, che restituisce a Judy Garland la naturalezza e l’innocenza acqua e sapone. Per un motivo o per l’altro, alla guida del set passano più registi: una staffetta creativa che caratterizzava quel periodo hollywoodiano e che restituisce almeno in parte le difficoltà artistiche e produttive di LeRoy, della MGM e dei numerosi professionisti coinvolti. Basterebbero le prime scelte Shirley Temple (Dorothy) e Gale Sondergaard (la strega dell’Ovest), poi brillantemente sostituite dall’adolescente Garland e dalla poco avvenente Margaret Hamilton, per darci la misura di un risultato finale che è stata la summa di ripensamenti e avvicendamenti, e di una lavorazione sul set di un anno. Oppure la falange rumorosissima di nani chiamati a raccolta per impersonare i mastichini, con un centinaio di costumi e di trucchi preparati in cinque settimane di duro lavoro, o le dolorose scelte di montaggio, con Over the Rainbow inizialmente tagliata e poi saggiamente recuperata.
Il mago di Oz è una delle chiavi di volta di un periodo visivamente straordinario, ma è anche una più che istruttiva macchina del tempo: Biancaneve è del 1937, Oz e Via col vento sono del 1939, Il ladro di Bagdad del 1940, e nella perfida Albione l’impareggiabile coppia Powell & Pressburger stava per regalare al mondo Scala al paradiso (1946) e Scarpette rosse (1948). Progetti grandiosi, manifesti di un’estetica programmaticamente smisurata, veri e propri blockbuster creati per colmare di stupore gli occhi del pubblico. Di un vastissimo pubblico. Quello stesso stupore che prova Dorothy dopo aver aperto la porta di casa nel regno di Oz: il passaggio dal seppiato al Technicolor riesce a restituire la magnificenza della macchina cinema, rende palpabile un mondo immaginario, i colori impossibili, gli abitanti bizzarri. Fleming anticipa Ford e l’altrettanto emblematica apertura su un immaginario di Sentieri selvaggi. Cinema avanti di decenni. Anche adesso. Forse per sempre.
Il mago di Oz è un film che continua a restare sospeso tra vari piani. La realtà seppiata e la favola coloratissima, la Grande Depressione e la Seconda guerra mondiale, la storia per bambini e le tante allegorie rintracciate – dalla politica monetaria statunitense alla rilettura di Salman Rushdie, passando per l’afflato femminista e le riflessioni di Žižek. Ma anche la sovrapposizione tra l’immaturità di Dorothy, ancora in bilico tra infanzia e adolescenza, e la maturità della Garland, ragazzina dagli occhioni grandi e dal talento già adulto: un ruolo che le resterà dentro, che la accompagnerà su ogni palcoscenico, come le note di Over the Rainbow, malinconiche e forse profetiche.
In fin dei conti, la cartapesta e il Technicolor del regno di Oz non sono altro che il sogno di una via di fuga, come il View-Master Model J rosso di Nói Albínói (2003). Ma se lo stereoscopio rosso nutriva i sogni di Nói, tanto da trasformare nel finale una veduta tropicale in un paesaggio reale, le rosse scarpette di Dorothy la riportano a casa, verso la vera fiaba, l’unico luogo sognante, a farsi cullare dalla sua adolescenza di ragazzina del Kansas.
La tridimensionalità de Il mago di Oz è figlia della profondità di campo, delle angolazioni e prospettive, delle scenografie stratificate, della ricchezza architettonica e cromatica di un mondo ricostruito in interni, ma virtualmente senza confini. Ne Il mago di Oz svanisce il concetto di quarta parete, si dissolve, sovrastato da linee e colori, dalla certosina messa in scena di un immaginario a briglie sciolte.
I fondali dipinti ci invitano a guadare oltre, a scrutare un orizzonte che la nostra immaginazione può continuare a colorare. Come per le migliori pellicole d’animazione, ne Il mago di Oz rintracciamo quella straordinaria sospensione della verosimiglianza, quella totale adesione a un mondo altro che nel giro di una manciata di fotogrammi diventa tangibile, reale, assolutamente nostro.
All’ennesima visione, la struttura narrativa de Il mago di Oz ci sembra ancora una volta implacabilmente perfetta col suo ritmo cadenzato, misurato al millimetro, speculare. La cornice narrativa seppiata, attorno ai venti minuti, con una presentazione fugace ma efficace dei personaggi e poi il professor Meraviglia, imbroglione dal cuore d’oro che ha un senso solo in questa provincia rurale bonaria e lontanissima dalla Grande Depressione – almeno una menzione per gli effetti speciali di Gillespie, con l’impetuoso tornado di stoffa e il modellino volante della casa.
Dalla fattoria di Dorothy al palazzo di Oz lo schema si ripete, come le canzoni e le dinamiche tra i personaggi.
La morte accidentale della malvagia strega dell’est, l’accoglienza dei mastichini e la bella strega del nord, con il Munchkinland Medley e soprattutto Follow the Yellow Brick Road, coi mastichini che in coro accompagnano i primi titubanti passi di Dorothy lungo il sentiero dorato.
L’incontro con lo spaventapasseri senza cervello – If I Only Had a Brain e We’re Off to See the Wizard.
L’incontro col boscaiolo di latta senza cuore – If I Only Had a Heart e We’re Off to See the Wizard.
L’incontro con il leone senza coraggio – If I Only Had the Nerve e We’re Off to See the Wizard.
L’arrivo alla città di smeraldo, l’accoglienza festante degli abitanti, il confronto con la strega malvagia, il mago imbroglione e il ritorno della strega buona.
Il ritorno a casa e al bianco e nero.
There’s no place like home.
The End. Fine.
Perfetto.

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