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domenica 15 gennaio 2023

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 15 gennaio.
Il 15 gennaio 1947 viene trovato a Los Angeles il cadavere di Elizabeth Short.
Non è facile essere una ragazza qualunque. Non è facile essere una ragazza che lavora. Magari in fabbrica, magari fino a sera, magari per una paga misera. Non è facile essere una ragazza qualunque ed Elizabeth Short lo sapeva bene. Elizabeth ha lottato per tutta la vita, per non essere una qualunque. Ha lottato per emergere, per essere ricordata. E c’è riuscita, in qualche modo.
Il suo omicidio, infatti, è ormai letteratura. Il suo delitto è quasi leggenda. A ritrovarla- il 15 gennaio del 1947- è Betty Bersinger, una madre di famiglia, una casalinga di Los Angeles che si trascina dietro la figlioletta di tre anni nel deserto della periferia. Il cielo è grigio, lo scenario desolato: Betty, quella mattina, si sente un po’ giù ma non sa che tra poco si sentirà ancora peggio. È quasi arrivata all’angolo tra la Northern Avenue e la trentanovesima quando qualcosa attira la sua attenzione: tra l’erba c’è un manichino. Il manichino d’un negozio, abbandonato così: le gambe divaricate e staccate dal busto, un rifiuto gettato all’aperto in un quartiere degradato. Che vergogna, quanta inciviltà! Poi, però, Betty guarda meglio. E guarda ancora. Quello non è un manichino, quello è il corpo di una donna. Una donna vera! Betty cerca di farsi forza e trattiene un grido di terrore. Dopotutto, insieme a lei c’è la figlia, una bambina di tre anni. Ingoia il disgusto e la paura e si dirige verso la casa più vicina, da dove – immediatamente- chiama la polizia. E, in dieci minuti, i poliziotti sono lì. La donna non mentiva: tra le erbacce, c’è davvero una donna divisa in due. Giace sulla schiena e sembra quasi che sia stata messa lì, come in una macabra posa di seduzione. Nuda, le gambe oscenamente aperte, le braccia sollevate. La sconosciuta però è tutt’altro che attraente: è piena di ferite e abrasioni e un taglio netto sulla bocca le ha deformato le labbra in un finto sorriso. Un largo sorriso di sangue, che va da un orecchio all’altro. E poi, quei segni di corda sui polsi, sul collo, sulle caviglie: qualcuno l’ha tenuta legata e l’ha torturata per giorni. Quasi sicuramente è stata uccisa altrove e altrove l’hanno tagliata in due, con millimetrica precisione, appena sopra la vita. Una scena agghiacciante, dove poco dopo camminano tutti: decine di giornalisti e poliziotti distratti, medici e curiosi calpestano e distruggono eventuali tracce. Arrivano infine anche i detective che sgombrano la scena del crimine e fanno portare via quel corpo che tanta morbosa curiosità ha suscitato: lo spediscono alla Morgue di Los Angeles, dove le prendono le impronte e le inviano all’FBI. Mentre si attendono notizie sull’identità della poverina, l’autopsia ha inizio.
 La causa della morte? Le emorragie provocate dalle numerose ferite alla testa. Le lacerazioni al volto, infatti, sono tante, anche se non suscitano il medesimo orrore del taglio all’altezza della vita. Un taglio netto, preciso, spaventoso ma non l’unico segno di terribile e sadico accanimento. La ragazza, infatti, è stata sodomizzata e seviziata e nel suo stomaco sono ritrovate delle feci umane. Quanto basta per lasciare sgomenti anche gli addetti ai lavori, per quanto abituati al sangue e alla violenza. Ѐ terribile. Ѐ un delitto feroce, per di più senza ancora un nome. Un’identità. Una famiglia da avvertire. La sconosciuta, però, non è destinata a restare tale: è già schedata e dunque l’FBI riesce ad assegnarle un nome, una città, un passato. La poveretta si chiama Elizabeth Short. Ѐ un’attrice. O meglio, un’aspirante tale. Ѐ bella, Elizabeth Short. Ha occhi azzurri, grandi e lucenti. Ha capelli nero corvino e pelle bianchissima, quasi di porcellana: un contrasto forte, che non la fa passare inosservata nemmeno ad Hollywood, il quartiere più luccicante di Los Angeles, dove la ragazza è arrivata in cerca di fortuna. Elizabeth, infatti, vuol fare l’attrice ma sa che un bel viso non basta: occorre conoscere quelli che contano, bisogna frequentare i posti giusti. E questa diventa la sua missione, il suo principale impegno: non è difficile incontrarla nei night più alla moda, intenta a sorseggiare drink e a far conversazione. La ragazza spera così di stringere nuove amicizie, che possano rivelarsi utili per la sua carriera. E pian piano, testardamente, ella riesce nel suo intento: conosce infatti Barbara Lee, un’attrice che lavora per la Paramount Pictures e che l’accompagna nei club più esclusivi e meglio frequentati, alla ricerca di contatti e produttori. Bella e seducente, Elizabeth Short anima le notti di Hollywood e non disdegna la compagnia maschile. Tuttavia, non cade nel pantano della promiscuità e non si prostituisce: ammalia e stuzzica i suoi boyfriend ma non si concede e tiene ben stretta la propria reputazione di ragazza “perbene”. Tra un long - drink e l’altro, Elizabeth conosce Mark Hansen, un uomo che possiede un night e un teatro ed è, pertanto, piuttosto vicino a importanti nomi dello show-biz. Hansen invita la Short a trasferirsi in una villa di sua proprietà, insieme ad altre aspiranti attrici e modelle: tutte giovani e belle, tutte in cerca di un posto al sole. Elizabeth (o Beth, come preferisce esser chiamata) diventa dunque una delle Hansen girls e attende – sdraiata sul bordo piscina- che il suo destino cambi, sebbene le prospettive di girare davvero un film siano quasi nulle. Beth inoltre, non ha denaro: mangia e beve solo quando qualcuno la invita fuori, si fa ospitare perché non può pagare l’affitto, chiede in prestito denaro che non rende mai. Insomma, Beth è una scroccona: bella e affascinante certo, ma pur sempre una scroccona. Nel frattempo, un film sbanca al botteghino: è The Blue Dahlia, con Veronica Lake. Alcuni amici della bella (e spiantata) Beth iniziano dunque a chiamarla Black Dahlia, soprannome che richiama il grande successo cinematografico e al tempo stesso evidenzia l’abitudine di Beth a vestirsi perennemente di nero. Il nomignolo scherzoso piace molto a Beth: le sta così bene addosso che la ragazza ne fa un vero  e proprio nome d’arte. Per tutti la brunetta dalla pelle chiara diventa quindi The Black Dahlia, donna affascinante che cerca di farsi strada nei club più fashion di Hollywood.
Le origini di Elizabeth Short, però, sono tutt’altro che glamour e poco hanno a che vedere con quell’aura di sexy vamp che la ragazza si è costruita: nata nel 1924 a Hyde Park nel Massachusetts, la piccola Elizabeth si trasferisce ben presto a Boston, con mamma Phoebe e papà Cleo. Quest’ultimo è un uomo, per così dire, piuttosto “avanti”: disegna e costruisce piste di mini golf, con discreto successo. Dietro l’angolo però, c’è la terribile crisi economica del 1929 e con la Grande Depressione, le Borse crollano trascinando con sé anche l’attività di Cleo Short. Quest’ultimo- che nel frattempo ha avuto altre figlie- proprio non sa che pesci prendere e non trova di meglio che inscenare un finto suicidio, abbandonando l’auto proprio vicino a un ponte, dal quale la polizia crede che l’uomo si sia buttato. Sola e con cinque bambine da crescere, la signora Phoebe si arrangia come può: è bibliotecaria ma anche commessa in una panetteria, tuttavia è costretta a ricorrere anche al sostegno dei servizi sociali. Un giorno, inaspettatamente, le giunge una lettera del marito: no, non è un segno dell’aldilà. Cleo è vivo, il suicidio è stato la vile messinscena di un uomo disperato ed egli ora è pronto a chiedere perdono e a tornare in famiglia. Phoebe però, non vuol saperne: il marito, per lei, è morto quel giorno di tanti anni addietro. A riallacciare i rapporti con Cleo è invece sua figlia Elizabeth che è venuta su proprio bene: bella, vivace, spensierata. Soffre d’una forma grave d’asma, è vero… ma non permette alla malattia di condizioni l’esistenza, anzi. Beth è piena di vita e vuole evadere da quella quotidianità faticosa e stentata e suo padre- redivivo- potrebbe tornarle utile: egli, infatti, vive a Los Angeles, la patria di quell’industria del cinema in cui Beth sogna di sfondare. Vuole diventare una stella, vuol fare l’attrice.
Ti ospito a casa mia, le promette il padre ritrovato. E lei non aspetta altro. Tuttavia, ben presto l’idillio familiare lascia il posto alla quotidianità di letti sfatti e piatti da lavare: le belle mani di Beth non si dedicano molto alla casa e Cleo, che mal sopporta la pigrizia della figlia,  la mette alla porta.  La ragazza però, non si perde d’animo e bussa ad un’altra porta: è quella della base militare di Camp Cook, in California. Non solo le viene aperto, ma le viene anche offerto un lavoro come cassiera grazie al quale Beth non tarda a farsi notare: è carina, è carina davvero quella nuova impiegata. Così graziosa, che gli ufficiali la eleggono reginetta del Campo e le fanno una  corte spietata, senza però comprendere quanto lei sia sola e vulnerabile, quanto desideri accasarsi con un soldato, magari un pilota. La voce però comincia a diffondersi: Miss Camp Cook è una ragazza seria, una di quelle che – al massimo – ti concedono una passeggiata mano nella mano perché vogliono metter su famiglia e preservarsi per il matrimonio. E alla fine, il principe azzurro arriva e ha addosso una divisa dell’Aereonautica militare: è il luogotenente Gordon Flicking, di cui Beth s’innamora perdutamente ed è ricambiata. Ma il sogno di una vita tranquilla e borghese si schianta contro la seconda guerra mondiale, che richiama Flicking in Europa e lascia Beth di nuovo da sola, in un mondo che non la accoglie certamente a  braccia aperte. La ragazza, infatti, tenta una maldestra carriera come modella ma ha poca fortuna e, scoraggiata, torna a casa da sua madre. Passano alcuni mesi e poi, la brunetta con gli occhi chiari è pronta per rimettersi in gioco, questa volta a Miami. Il vecchio gioco del corteggiamento ricomincia e questa volta l’aspirante diva (con tentazioni di moglie), conquista il maggiore Matt Gordon. Tra i due innamorati però, si interpone la II guerra mondiale: siamo nel 1945 e Gordon, pilota militare, è chiamato a servire la patria nella lontana India. Prima di partire tuttavia, Matt lascia alla sua ragazza un anello (impegnativo gesto d’amore) e una manciata di promesse matrimoniali, seppure senza una data o piani ben precisi. Beth si aggrappa a quell’anello come a un’ancora: il mondo del cinema è momentaneamente messo da parte, schiacciato com’è da sogni casalinghi. Beth ripete a tutti che presto si sposerà, che sarà moglie in Ottobre. E quando le arriva un telegramma dalla madre di Gordon, lo strappa in fretta, impaziente di trovarvi direttive per l’organizzazione delle nozze. Si tratta invece di una brutta notizia: Gordon è morto, il suo aereo è precipitato proprio quando si accingeva a tornare a casa…
Questa morte crudele e inaspettata lascia Beth sgomenta, spaesata, senza alcun appiglio. Dapprima, la ragazza porta il lutto e racconta in giro d’esser stata sposata col povero Gordon, di aver perso il suo bambino.  Poco a poco però, la “vedova” inconsolabile inizia a rimetter assieme i pezzi della sua vita precedente, quella in cui non ricamava il suo corredo… ma si faceva chiamare Dalia Nera e sognava di diventare una star.  Svariate telefonate dopo, Beth è di nuovo al sole della California, pronta a sgomitare per un pezzettino di gloria, uno spicchio di fama, un quarto d’ora (almeno) di celebrità. Ma non è facile, proprio no. Alla cassiera dell’Aztec Theater di Los Angeles che la trova profondamente addormentata nella sala ormai deserta, Beth -per scusarsi- racconta che lei è una brava ragazza, lei è un’attrice ma purtroppo non ha un posto dove andare. È il Dicembre 1946, c’è crisi e il sindacato degli attori proclama uno sciopero dopo l’altro e lei, Beth, non riesce a trovare un impiego.
La cassiera- che di nome fa Dorothy French ed ha un cuore buono- la porta con sé a casa. Beth dorme sul divano. Tanto, è solo per una settimana.  Una settimana che si allunga, perché la crisi non è passeggera e le prospettive di lavoro sono pressoché inesistenti. Beth però non sembra preoccuparsene. Dorme sul divano della sua ospite ma non la aiuta a pulire o a tener in ordine la casa, non si preoccupa di dimostrarle gratitudine ma risparmia energie per la propria vita notturna, che riesce comunque a essere piuttosto animata. Dopo aver prima riagganciato e poi chiuso con l’ex boyfriend Gordon Flickring, conosciuto alla base militare, Beth seduce Robert Manley detto Red, un giovane marinaio di Los Angeles che - a casa- aveva una moglie incinta ad aspettarlo. I due amanti si incontrano saltuariamente fino all’8 gennaio del 1947, giorno in cui la “Dalia Nera” chiede al giovane marinaio un passaggio per Hollywood. Manley acconsente e dopo averla prelevata da casa French intorno alle otto di sera, la porta in albergo. Lì ha già pagato una stanza, sperando forse in una notte di passione ma Beth – nonostante l’audace nome d’arte- vuol conservarsi pura per l’uomo che la porterà all’altare. E dunque, racconterà il marinaio, quella sera lui dorme sul letto e lei su una sedia, lamentando strani malesseri. Il mattino dopo, Beth chiede un ultimo favore al suo Red: vuole andare al Biltmore Hotel, per incontrare sua sorella che si è appena sposata ed è venuta a Los Angeles in visita di cortesia. Manley è un gentiluomo e l’accontenta ma non attende con lei l’arrivo della sposina: ha un appuntamento di lavoro e lascia la povera Beth sola, alla reception, intenta a fare telefonate. Non s’incontreranno mai più. Robert Manley, detto Red, è l’ultima persona (insieme agli impiegati della reception) a vedere Elizabeth Short, in arte Dalia nera, ancora in vita. Poco dopo la ragazza lascia il Biltmore Hotel e scompare nel nulla. È il 9 gennaio del 1947. Per sei giorni, di Beth non si sa più nulla. Poi, il drammatico ritrovamento: quel corpo tranciato di netto all’altezza della vita, quel sorriso di sangue inciso del volto, da un orecchio all’altro.
Una scena terribile, un delitto efferato, un clamore senza precedenti. Le copertine sono tutte per Beth, anche se non esaltano né la sua bellezza né i suoi successi, ma scavano a piene mani nell’orrore della sua fine. L’attività degli investigatori poi è frenetica. Centinaia d’individui sospetti sono interrogati finché gli inquirenti non arrivano a Robert Manley. L’ultimo fidanzato, l’ultimo a parlare con la bella Elizabeth: non ci vuol molto perché il marinaio diventi l’indiziato numero uno e sia sottoposto a interrogatori lunghi, pressanti, che lo condurranno di lì a poco a un crollo nervoso. Diverse domande e due test del poligrafo dopo, Robert è rilasciato. Non è lui l’uomo che la polizia sta cercando, non è il sadico che ha tagliato a metà una giovane donna. Le indagini devono ripartire da zero, proprio mentre la madre di Beth sta per raggiungere Los Angeles: vuole riportare il corpo della sua bambina a casa, vuole una tomba su cui piangere, vuole dimenticare il modo crudele con cui le è stata annunciata la morte della sua sfortunata figliola. Non è stata la polizia, infatti, a chiamare la signora Phoebe: un reporter le ha mentito, le ha detto che la sua bella bambina aveva vinto un concorso di bellezza e le ha chiesto, pertanto, tutto su di lei. Studi, passioni, amici. Tutto su Beth. E poi, sul finire della telefonata, la verità squarcia la menzogna: no, Beth non ha vinto nessuna competizione, non è stata incoronata reginetta di bellezza. L’hanno uccisa, l’hanno tagliata in due. Mamma Phoebe ora vuole solo quel corpo martoriato. Mamma Phoebe non si aspetta più nulla: è un mondo cinico, è un mondo crudele, dove persino il padre della sua Beth- il signor Cleo Smart- si è rifiutato di riconoscere il cadavere della figlia. È un mondo crudele, un mondo che spedisce lettere anonime, un mondo che – senza firmarsi- invia gli effetti personali della povera Dalia Nera a un quotidiano di Los Angeles, avvertendo che presto, molto presto, ci saranno altre comunicazioni. Tra gli oggetti che l’anonimo mittente ha spedito, ci sono la patente di Beth, il suo certificato di nascita, il codice fiscale, fotografie. Ma è una piccola rubrica ad attirare l’attenzione degli inquirenti. Appartiene a Mark Hansen, l’uomo che aveva ospitato Beth nella sua villa, e diverse pagine sono state strappate via. Perché? Mark Hansen è convocato, insieme ad altri uomini che conoscevano la Dalia Nera, ma nulla di rilevante emerge da quegli interrogatori e non resta che sperare che su quei poveri effetti personali ci sia qualche impronta digitale utile. Ma l’assassino non è uno sciocco: eventuali tracce sono state tutte accuratamente cancellate con la benzina. Cosa resta dunque ai detective? Nient’altro che i poveri oggetti di una donna morta ammazzata, insieme alla minacciosa promessa di nuove, future lettere anonime… che però, non arrivano. È dunque un cronista dell’Herald Express, tale Aggie Underwood, a prendere in mano la situazione, ipotizzando un collegamento tra l’omicidio di Beth Short e quello di Georgette Bauerdorf, un’amica di Beth che con lei ha condiviso l’amore per i party, gli aperitivi all’Hollywood Canteen e una morte a dir poco spaventosa. Qualcuno, infatti, ha violentato la ragazza, l’ha strangolata e l’ha finita annegandola a faccia in giù in una vasca da bagno. E proprio in una vasca da bagno, gli investigatori credono che Beth sia stata fatta a pezzi. E ancora, prima di morire, Georgette aveva confidato di aver paura di un suo ex, un “soldato alto”: solo una coincidenza che anche Beth, alias Dalia Nera, avesse lavorato in una base militare? E infine, il dettaglio più inquietante: l’auto di Georgette era stata ritrovata, abbandonata, non lontano dal luogo in cui il cadavere di Beth era stato rinvenuto. Forse c’è un collegamento, forse non è solo casualità: la famiglia di Georgette però appartiene alla buona borghesia e, tramite amicizie influenti, fa in modo che Aggie Underwood sia rimosso dal pezzo. Niente più scandali, solo silenzio. E il silenzio rischia di avvolgere anche la fine della Dalia Nera finché, inaspettatamente, a metà degli anni Ottanta, un informatore porta all’ispettore John St John una cassetta registrata su cui è incisa la voce di un certo Arnold Smith che- con agghiacciante precisione- racconta di come un uomo chiamato Al Morrison- alto e zoppo- abbia prima tentato un approccio con Beth e poi, offeso dal suo rifiuto, abbia sodomizzato e in seguito ucciso la ragazza a coltellate. Tanti, tanti sono stati i fendenti: Beth ha cercato di difendersi ma, legata e con le mutandine ficcate in bocca, nulla può contro quei colpi furiosi. Poi, come in un sadico sberleffo, quel taglio da un orecchio all’altro, che allunga la bocca della ragazza in un sorriso di sangue. A quel punto però, Beth è già morta e all’assassino non resta che adagiarla nella vasca da bagno e segare il corpo in due, con l’aiuto di un coltello da macellaio per poi aspettare che il sangue coli, lentamente, goccia dopo goccia, dopo goccia. È molto tardi quando Al finalmente afferra i due pezzi del corpo di Beth, li avvolge in una tovaglia e li carica nella sua auto, che guida nella notte fino a quella desolata periferia dove avverrà il ritrovamento.
Qui termina il macabro racconto di Arnold Smith sulle gesta di Al Morrison, l’assassino zoppo. Qui termina anche la cassetta ma quel nome continua a riecheggiare nella testa del detective John St John. No, non è la prima volta che quel nome si guadagna gli “onori” di un’indagine per omicidio. Quel nome, quel nome è stato tirato in ballo anche in occasione dell’uccisione di Georgette Bauerdorf, la socialitè che con la povera Dalia Nera aveva stretto amicizia. E a quel nome risponde un tizio alto, allampanato, con una certa zoppia: si crede che sia proprio lui il “soldato alto” di cui Georgette aveva timore. Un soldato? Un reduce di guerra? Un militare in carriera? No, è semplicemente un alcolizzato. Un alcolizzato che si fa chiamare alternativamente “Al Morrison” o “Arnold Smith”, ma che in realtà risponde al nome di Jack Anderson Wilson e ha un passato di furti e aggressioni. Dopo aver riascoltato centinaia di volte quella registrazione di morte, St. John è determinato a ritrovare Wilson. Certo, tanti anni sono passati. L’ispettore si ritrova a cercare, in pieni Eighties, prove su un delitto avvenuto nel 1947 e ormai divenuto, ufficialmente, un cold case. L’ispettore però non si arrende. Nonostante sia trascorso tanto tempo, l’attenzione per quella donna tagliata a metà è ancora viva, vivissima ed è alimentata dalla costanza di un informatore, che lascia continui messaggi per Wilson in caffè e ristoranti. Dapprima, Wilson non risponde: sente sul collo il fiato della polizia. Certo,  potrebbe uscire allo scoperto e ridere di quegli sbirri di cui si è beffato per anni ma… a quale prezzo? Un bel dilemma.  Svariati messaggi dopo, il presunto killer accetta la proposta dell’informatore. I due s’incontreranno, parleranno e – puoi scommetterci- nei dintorni ci sarà anche qualche agente sotto copertura.
Ma l’incontro non avverrà mai: Wilson si addormenta con una sigaretta accesa tra le labbra e il resto della storia è solo fuoco e fiamme e un cadavere carbonizzato che non può dare più risposte. In fumo vanno anche alcuni oggetti che il “killer” sosteneva essere appartenuti a Beth Short, e con essi anche le ultime speranze di risolvere il mistero della Dalia Nera. Wilson  muore dunque da sospettato, non da colpevole: il caso resta aperto. Un vecchio caso degli anni Quaranta, un caso che trasuda sadismo e orrore, un caso che sfiora il mondo dorato di Hollywood, un caso sul quale tutti, in America, hanno un’opinione e tutti vogliono dire la loro.  È stato Wilson, il “soldato” a cui manca qualche rotella. Anzi, no: il colpevole è Mark Hansen, l’uomo della villa, dei party in piscina. No, non è stato lui: il responsabile è Red Manley, il marinaio con la faccia da bravo ragazzo. Ma la macchina della verità lo salva dalle accuse, se non dall’esaurimento, mentre molte, moltissime telefonate anonime denunciano il comportamento di due agenti di polizia un po’ troppo solerti e raccontano di un farmacista orgoglioso di saper tagliare un corpo umano in due parti.  Nonostante lo scorrere inesorabile del tempo, l’interesse per il delitto non si spegne mai del tutto ma è nel 1987 che il caso torna prepotentemente sotto i riflettori, complice il quarantesimo anniversario dell’omicidio (avvenuto nel 1947) e la pubblicazione del bel romanzo di James Ellroy, Black Dahlia, cui è ispirato l’omonimo film di Brian de Palma. Ma chi, chi ha davvero ucciso Elizabeth Short? È stato John Douglas- ex capo dell’unità di analisi comportamentale dell’FBI- a rispolverare i referti del coroner e a tracciare un interessante profilo dell’assassino della Dalia Nera. Bianco, vent’anni o poco più, discreta cultura: viveva probabilmente solo e doveva avere una cera dimestichezza con sangue e coltelli, così come con l’ambiente della prostituzione. Affetto da disturbi ossessivo - compulsivi, fortemente stressato e dipendente da alcool, l’assassino potrebbe aver trascorso qualche giorno con la sua vittima, ancora in vita e prigioniera, prima che un eccesso di rabbia lo portasse a uccidere e a infliggere ogni sorta di torture e mutilazioni. Queste ultime, oltre ad avere una finalità pratica (il cadavere, sezionato, era più facilmente trasportabile), è secondo Douglas anche il chiaro segno di una volontà ben precisa, ovvero deridere, distruggere, mortificare la femminilità di Beth. Emblematico il taglio profondo da un orecchio all’altro, come a voler disegnare un grottesco sorriso sulle labbra della ragazza, quelle labbra un tempo strumento di seduzione. E se il delitto fosse avvenuto ai giorni  nostri, cosa sarebbe accaduto? Secondo Douglas, le tecniche moderne avrebbero certamente contribuito a risolvere il caso, con l’ausilio dell’assassino stesso… che, molto probabilmente, soffriva di disturbi di tipo paranoide ed era tormentato da continue ossessioni, che lo spinsero a inviare alla polizia gli effetti personali della Dalia Nera, e diverse lettere in cui si accennava a particolari che solo il killer avrebbe potuto conoscere. Un tentativo di liberarsi di quei ricordi che lo tormentavano? Un crudele gioco al gatto col topo?
E soprattutto, perché – dopo la Dalia Nera- il killer non avrebbe più commesso altri omicidi? Forse non aveva più la forza necessaria per affrontare un nuovo, terribile stress. Forse, finì i suoi giorni in un istituto psichiatrico, in compagnia dei suoi fantasmi personali. Forse, tolse la vita anche a se stesso. Forse, semplicemente, s’incamminò lungo il sentiero del delitto perfetto, sicuro di non esser mai scoperto.

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