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Siamo stati educati a fare nostro tutto ciò che ci piace, tutto ciò che è vicino a noi, fa parte della nostra intimità.
Sia a livello della conoscenza sia a quello dei sentimenti facciamo nostro tutto ciò che accostiamo, che si avvicina a noi.
Il nostro modo di ragionare, il nostro 
modo di amare corrisponde ad un’appropriazione. La nostra cultura, la 
nostra istruzione scolastica, vogliono che imparare e sapere equivalgano
 a far nostro attraverso strumenti di conoscenza capaci, lo crediamo, di
 apprendere, di capire, di dominare tutta la realtà, tutto ciò che 
esiste, tutto quello che percepiamo con i nostri sensi e ciò che è al di
 là di essi.
Vogliamo avere l’intero universo nella 
nostra testa, talvolta l’intero mondo nel nostro cuore. Non vediamo che 
un tale gesto trasforma la vita del mondo in qualcosa di finito, di 
morto in un certo senso, perché il mondo perde così la sua propria vita 
sempre estranea a noi, esterna a noi, altra da noi.
Farò un esempio. Se capissimo esattamente
 quello che fa la primavera, perderemmo probabilmente la contemplazione 
stupita davanti al mistero della crescita primaverile, perderemmo la 
vita, la vitalità alle quali tale rinascita universale ci consente di 
partecipare senza che possiamo conoscere né controllare donde ci 
arrivino la gioia, la forza, il desiderio che ci animano. Ammesso che 
fosse possibile analizzare ogni elemento di energia che avviene 
nell’esplosione della primavera, ne perderemmo lo stato globale che 
proviamo quando siamo immersi(e) in essa con tutti i nostri sensi, il 
nostro intero corpo, la nostra anima.
Questo stato, mi permetterò di dire: 
questo stato di grazia, che ci procura la primavera, lo conosciamo 
talvolta, per lo meno parzialmente, quando ci troviamo in un nuovo 
paesaggio, in una manifestazione cosmica straordinaria, in un ambiente 
che ci è insieme percettibile e impercettibile, conosciuto e 
sconosciuto, visibile e invisibile. Siamo situati, in tal caso, in 
un’atmosfera, in un evento che sfuggono al nostro controllo, alla nostra
 competenza, alla nostra intenzione, al nostro stesso immaginario. La 
nostra risposta a tale «mistero» allora può essere la sorpresa, 
l’incanto, la lode, talvolta l’interrogazione, ma non può essere 
l’appropriazione, la riproduzione, la ripetizione.
Lo stato – fisico o spirituale – che 
produce in noi la primavera, certi paesaggi, certi fenomeni cosmici, può
 accadere all’inizio di un incontro con altri. L’altro ci commuove in 
tal modo nei primi momenti di un incontro, toccandoci in maniera 
globale, non conoscibile, non padroneggiabile. Poi, troppo spesso, lo 
facciamo nostro – o la facciamo nostra – attraverso la conoscenza, la 
sensibilità, la cultura. Entrando nel nostro orizzonte, nel nostro 
mondo, l’altro perde la stranezza della sua attrazione. La sua presenza 
ci circondava di un certo mistero, comunicandoci un risveglio sia 
corporeo sia spirituale, ma lo riconduciamo a noi, lo conglobiamo a 
nostra volta. Al limite, non lo vediamo più, non lo udiamo più, non lo 
percepiamo più. Fa parte di noi. A meno che non lo respingiamo.
L’altro è dentro o fuori. Non è dentro e 
fuori, facendo parte della nostra interiorità ma rimanendo anche fuori, 
esterno, estraneo a noi, altro. Svegliandoci con la sua alterità, con il
 suo mistero, con l’infinito (in due parole: non l’assoluto) che 
rappresenta per noi. E proprio quando non lo conosciamo, o quando 
accettiamo che resti per noi non conoscibile, che l’altro ci illumina in
 qualche modo, ma di una luce che ci rischiara senza che sia possibile 
afferrarla, capirla, analizzarla, farla nostra.
La totalità dell’altro, come quella della
 primavera, ci tocca al di là di ogni conoscenza, di ogni giudizio, di 
ogni riduzione a noi, al nostro, a ciò che ci è in qualche modo proprio.
 In termini un po’ eruditi, potrei dire che l’altro, l’altro in quanto 
tale, in quanto altro, esiste al di là di ogni predicato attribuito da 
noi: non è mai un questo o un quello assegnato a lui/lei da noi. E 
proprio quando sfugge a ogni giudizio da parte nostra che l’altro emerge
 come un tu, sempre altro e inappropriabile dall’ io.
Luce Irigaray, Tra Oriente e Occidente

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