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giovedì 31 luglio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 31 luglio.

Il 31 luglio 1703 Daniel Defoe viene messo alla gogna per diffamazione nei confronti della Chiesa d'Inghilterra.

Figlio di James Foe, mercante di candele londinese whig, liberale, originario delle Fiandre, Daniel Defoe nasce a Londra il giorno 3 aprile 1660. Viene educato in un' "Accademia dei dissenzienti": una scuola politecnica fondata da quei protestanti "cromwelliani" e non anglicani che erano banditi dalle università tradizionali, e che sarebbero divenuti di li a poco gli artefici della Rivoluzione industriale.

Rinuncia a diventare pastore presbiteriano e ben presto si lancia nel commercio viaggiando sul continente. Di volta in volta fabbricante di mattoni, commerciante di prodotti di nuova invenzione, armatore, perde ripetutamente le considerevoli fortune che guadagna. All'apice del successo aggiunge al cognome originario Foe un "De" volto a identificarlo come un rifugiato fiammingo elisabettiano protestante.

Intorno all'anno 1683 Daniel Defoe apre un negozio di merci e sposa Mary Tuffley, figlia di un ricco mercante che vanta una dote di ben 3.700 sterline: da lei avrà sei figli. Nel 1692 arriva il tracollo: Defoe finisce in prigione per bancarotta con 17 mila sterline di debiti, dopo essersi distratto dagli affari per mettersi a scrivere di economia. In questi scritti peraltro Defoe raccomanda la creazione di una banca nazionale (poi nata nel 1694), di compagnie di assicurazioni (i Lloyds nasceranno poco tempo dopo), di casse di risparmio, pensioni, manicomi, auspicando - naturalmente - la riforma delle leggi sulla bancarotta.

La dura esperienza del carcere lo allontana dalle speculazioni avventate. Whig convinto, Daniel Defoe lotta nel 1685 a fianco del duca di Monmouth, figlio protestante e illegittimo di Carlo II, contro la salita al trono di Giacomo, il fratello apertamente cattolico di Carlo ed erede legittimo. Prende quindi parte alla rivoluzione (la cosiddetta "Glorious Revolution") del 1688 arruolandosi nell'esercito; partecipa alla spedizione d'Irlanda e mette il suo talento di libellista al servizio di Guglielmo III d'Orange, quando questi venne chiamato a rovesciare il suocero cattolico Giacomo il quale minacciava di introdurre in Inghilterra uno Stato assoluto, imitando il cugino Luigi XIV nella "pulizia" dei protestanti.

Con il suo scritto "L'Inglese di fiero lignaggio" (The True - Born - Englishman, 1701) difende il re e la sua politica. Si batte in favore della libertà di stampa e di coscienza, della proprietà letteraria e della libertà religiosa. Con la morte del suo protettore, il re Guglielmo d'Orange, Defoe viene arrestato per aver diffamato la Chiesa d'Inghilterra in "La via più breve per i dissenzienti" (The Shortest Way with the Dissenters, 1702). Queste pagine avrebbero successivamente ispirato la "Modesta proposta" (1729) di Jonathan Swift per una soluzione del problema irlandese: si tratta di un pamphlet di satira dal titolo "A Modest Proposal: For Preventing the Children of Poor People in Ireland from Being a Burden to Their Parents or Country, and for Making Them Beneficial to the Publick" (Una modesta proposta: per evitare che i figli degli Irlandesi poveri siano un peso per i loro genitori o per il Paese, e per renderli un beneficio per la comunità), in cui Swift suggerisce provocatoriamente di mangiare i bambini irlandesi.

Defoe suggerisce ironicamente agli anglicani di trattare i dissenzienti come Luigi XIV aveva trattato i suoi sudditi protestanti. La collera delle alte sfere della Chiesa anglicana è tale che la Camera dei comuni lo giudica all'Old Bailey, manda a rogo il libro - fatto, questo, eccezionale - e condanna Defoe a tre esposizioni alla gogna fra le grida di sostegno della folla che lo adorava, nonché all'imprigionamento a Newgate, che sarebbe poi diventato lo sfondo del suo grande romanzo "Moll Flanders".

Con una moglie e sei figli da mantenere, persa la fabbrica di mattoni, Daniel Defoe dà vita in prigione alla rivista "The Review" (1703 - 1713) che uscirà tre volte a settimana e che diventerà una pietra miliare del giornalismo inglese. Defoe scrive da solo, su qualsiasi argomento, tutti i numeri della rivista; mentre affettava un atteggiamento da commentatore politico indipendente si trovava in realtà - in cambio della promessa di rilascio - nel libro paga del primo ministro tory (conservatore) Robert Harley, suo supposto nemico e persecutore; resterà al suo servizio per circa undici anni.

Dopo il 1715 si allontana definitivamente dalla lotta politica. Con sessanta primavere sulle spalle si dedica alle opere romanzesche: pubblica "Robinson Crusoe" nel 1718, romanzo ispirato all'avventura del marinaio scozzese d'origine tedesca, Alexander Selkirk finito in un'isola deserta a seguito di un naufragio, e che, con mezzi di fortuna e con il sussidio del suo ingegno, riesce a costruire da zero il mondo inglese e borghese dal quale era fuggito per insofferenza della sua stessa condizione (borghese). Il successo è immediato, da subito appare immenso, tanto che durerà fino ai nostri giorni.

La seconda parte della storia appare l'anno successivo. Seguono quindi vari romanzi quali "La vita, le avventure e le piraterie del capitano Singleton" (The life, Adventures and Pyracies of the Famous Captain Singleton, 1720); "Fortune e disgrazie della famosa Moll Flanders" (The fortunes and Misfortunes of the Famous Moll Flanders, 1722); "Colonel Jack" (1722); "Giornale dell'anno della peste" (A journal of the Plague Year, 1722) e "Lady Roxana" (Lady Roxana or the Fortunate Mistress, 1724).

Precursore del realismo immaginario, Daniel Defoe è considerato a tutti gli effetti il primo moderno scrittore "seriale". Defoe non era in realtà interessato a creare o sviluppare il romanzo a fini letterari. Era prima di tutto un giornalista e un saggista, e allo stesso tempo anche un professionista della penna pronto a mettere il suo talento al servizio del miglior offerente. Defoe è stato visto più volte dalla critica letteraria come il padre del romanzo moderno, in particolare di quella forma in prosa in cui la figura di un singolo personaggio o di un gruppo di personaggi e del loro destino sia al centro della vicenda, in cui si cerca di rispettare determinati criteri di coerenza e verosimiglianza. Defoe non inventò un genere ma fu di fatto il primo a utilizzare questo tipo di forma letteraria per una produzione sistematica.

Dopo un'esistenza caratterizzata da numerose delusioni e disgrazie, Daniel Defoe muore a Moorfields, nei pressi di Londra, il 24 aprile 1731, abbandonato da un figlio che l'aveva depredato da ogni bene lasciandolo nella miseria più estrema. Oggi è nel cimitero di Bunhill Fields, a Londra.

mercoledì 30 luglio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 30 luglio.

Il 30 luglio 1672 viene alla luce in Francia il cosiddetto scandalo dell'"affare dei veleni".

L’affare dei veleni non viene trattato a scuola (non sia mai che venga raccontato qualcosa di interessante, si rischia poi che gli studenti si sveglino e facciano domande), ma si tratta nientemeno che del caso di cronaca nera più sconvolgente dell’epoca del Re Sole, un’indagine che insozzò indelebilmente l’immagine scintillante della corte di Francia agli occhi dell’Europa.

Tutto iniziò nel 1672 con l’arresto della marchesa di Brinvilliers, una fragile e garbatissima signora di 46 anni, a seguito del ritrovamento di alcune carte compromettenti.

Tempo prima, il padre e i due fratelli della marchesa erano deceduti in circostanze misteriose, nonché sospettosamente simili. Tutti e tre erano lentamente deperiti in una lunga agonia che non aveva lasciato scampo. Nessuno poteva sospettare dell’affranta marchesa, perseguitata da una sorte tanto crudele.

Nella realtà, Madame de Brinvilliers aveva avvelenato il padre e i fratelli con la complicità del suo amante, grande appassionato di alchimia.

Purtroppo, la dolce metà della marchesa era perita improvvisamente in un brutto incidente (forse un esperimento andato male). Durante una perquisizione dell’abitazione, la polizia era entrata in possesso di alcune carte firmate dalla marchesa in persona.

Tali carte dimostravano essenzialmente due cose: il primo era la colpevolezza di Madame de Brinvilliers, il secondo che la medesima non era decisamente un genio del crimine. Marchesa, marchesa… Non si può mettere su carta sempre tutto, specialmente quando si avvelenano familiari con una certa frequenza!

Questa leggerezza le costerà cara: il suo complice si era premurato di conservare ogni ricordo materiale dei traffici di madame de Brinvilliers (ricette, lettere, ricevute…) cosicché, se un domani avesse mai voluto ricattarla, tutto sarebbe stato bell’e pronto. Cosa non si fa per amore...

Come se non bastasse, nelle lettere che la marchesa aveva indirizzato al suo complice, ella pianificava anche l’avvelenamento della sorella e della cognata, così da diventare lei sola l’erede dei beni di famiglia (ah, la banalità del male!).

Consapevole di non avere scampo, la marchesa fuggì a gambe levate riuscendo a nascondersi in un convento, luogo inaccessibile agli agenti del re. Un brillante ufficiale di polizia si finse allora prete e, col tempo, riuscì a guadagnarsi la fiducia della latitante avvelenatrice, fino a prometterle la fuga e attirarla così all’esterno del convento…

Tortura, decapitazione e rogo segnarono la fine di questa dama-assassina, ma non quella delle indagini: il re pretendeva di arrestare il sordido commercio di veleni della capitale ed eliminarne i vertici.

Nicolas Gabriel de la Reynie, capo della polizia che ispirò il personaggio di Fabien Marchal nella serie televisiva Versailles, era venuto a conoscenza che traffici di sostanze illecite si concentravano nel quartiere poco raccomandabile di Saint-Denis (oggi corrisponde alla parte compresa tra il boulevard de la Bonne Nouvelle e la porta Saint-Denis) e lo aveva fatto battere al tappeto dai suoi agenti.

Venditori di veleni, streghe, indovini e altra marmaglia da messa nera venne rastrellata e ammassata nelle prigioni. L’ordine del re era chiaro: bisognava estirpare il problema alla radice!

Gli interrogatori e le indagini portarono alla luce nuovi crimini, commerci sordidi e diversi colpevoli, ma le rivelazioni che maggiormente attirarono l’attenzione di Reynie furono quelle della maga La Voisin, una fattucchiera molto nota del quartiere.

Preoccupato dai nomi illustri che ripetutamente saltavano fuori nel corso delle indagini, il capo della polizia ritenne opportuno avvertire persino il ministro della guerra, il celebre marchese de Louvois.

Uno scandalo ripugnante e senza precedenti stava prendendo forma. L’aspetto più preoccupante della vicenda, per Reynie, non era tanto il ricorso disinvolto al veleno, quanto piuttosto il livello sociale delle persone coinvolte, la crème de la crème della Francia!

Il re, informato dal fido ministro de Louvois, ordinò di arrivare in fondo alla faccenda e le indagini si fecero serrate, con ben 319 arresti e 35 condanne a morte.

La contessa Olimpia Mancini, amante “rottamata” del Re Sole, venne accusata d’aver tentato in passato di vendicarsi della rivale Louise de la Vallière tramite l’impiego del veleno. Se il piano della contessa era quello di riconquistare in questo modo il re, le andò male perché venne bandita dal regno.

Sua sorella Maria Anna Mancini, duchessa di Bouillon,  venne accusata di voler avvelenare il marito per poter sposare il proprio amante (che era suo nipote, ma tanto c’è un limite alla sensibilità allo scandalo, oltre il quale nessuno fa più caso a nulla).

Al processo la duchessa si fece una bella risata presentandosi al braccio del marito da un lato, dell’amante dall’altro. Venne totalmente assolta.

Nel frattempo, il marchese de Louvois e Reynie avevano fatto una malaugurata scoperta: durante gli interrogatori era venuto fuori troppo spesso il nome di Madame de Montespan, la potente favorita del re, nonché madre di sette dei suoi figli!

Secondo le testimonianze raccolte, per mantenere viva la passione del re la Montespan aveva fatto ricorso a messe nere, malocchio, filtri d’amore, veleno e altre “amenità”. Si accennò addirittura al sacrificio di neonati!

Difficile distinguere il crimine dalla calunnia in questo caso, in quanto alla Montespan certo non mancavano i nemici. Tuttavia, poiché il re fece improvvisamente chiudere il caso e poi sequestrare e bruciare le carte che la riguardavano, risulta difficile credere che fosse del tutto estranea alla faccenda. Quello fu l’inizio della di lei “rottamazione”, nonché di una profonda crisi morale del re.

Chi non si fece scappare questo prezioso spunto letterario? Alexandre Dumas che, con il successo de I tre Moschettieri, aveva dimostrato che per scrivere delle buone storie non occorre per forza inventarle da zero. Suo il libello "L'avvelenatrice", pubblicato nel 1840.

martedì 29 luglio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 29 luglio.

Il 29 luglio 1976 Tina Anselmi viene nominata Ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale. Per la prima volta una donna riceve un incarico di governo in Italia.

Tina Anselmi nasce il 25 marzo del 1927 a Castelfranco Veneto, in una famiglia cattolica: la madre, casalinga, si occupa della gestione di un'osteria insieme alla nonna di Tina, mentre il padre è un aiuto farmacista (che sarà perseguitato dai fascisti per le sue idee vicine al socialismo).

Dopo avere frequentato il ginnasio a Castelfranco Veneto, la giovane Tina Anselmi si iscrive all'istituto magistrale di Bassano del Grappa dove viene costretta, insieme con altri studenti, ad assistere - il 26 settembre del 1944 - all'impiccagione compiuta dai nazifascisti di più di trenta prigionieri per rappresaglia.

Da quel momento in poi Tina - che fino ad allora non si era mai interessata di politica - sceglie di contribuire attivamente alla Resistenza, e diventa staffetta - dopo avere adottato il nome di battaglia "Gabriella" - della brigata Cesare Battisti guidata da Gino Sartor, prima di passare al Comando regionale veneto del Corpo volontari della libertà.

Conclusa la Seconda guerra mondiale, Tina si iscrive all'Università Cattolica di Milano (nel frattempo era entrata a far parte della Democrazia Cristiana, prendendo parte attivamente alla vita di partito), dove si laurea in Lettere. Diventa, quindi, insegnante alle scuole elementari, e nel frattempo si dedica all'attività sindacale nella Cgil, prima di passare alla Cisl (fondata nel 1950): se tra il 1945 e il 1948 era stata dirigente del sindacato dei tessili, tra il 1948 e il 1955 fa parte del sindacato degli insegnanti elementari.

Sul finire degli anni Cinquanta, Tina Anselmi viene scelta come incaricata nazionale dei giovani della Democrazia Cristiana, mentre l'anno successivo entra a far parte del consiglio nazionale dello Scudo Crociato.

Nel 1963 viene eletta nel comitato direttivo dell'Unione europea femminile, organismo di cui - nello stesso anno - diventa vicepresidente. Abbandonato l'incarico di rappresentante dei giovani della DC, nel 1968 viene eletta deputata per il partito nella circoscrizione Venezia-Treviso.

Il 29 luglio del 1976 diventa la prima donna ministro in Italia, venendo scelta per il governo Andreotti III come ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale. In seguito, sempre con Giulio Andreotti presidente del Consiglio, è anche ministro della Sanità (negli esecutivi Andreotti IV e Andreotti V), contribuendo in maniera decisiva alla formulazione della riforma che porta alla nascita del Servizio Sanitario Nazionale.

Nel 1981, viene nominata - nel corso dell'VIII Legislatura - presidente della Commissione di inchiesta sulla loggia massonica P2 di Licio Gelli, i cui lavori si concluderanno quattro anni dopo.

Nel 1992 viene proposta dal settimanale satirico "Cuore" come candidata per la presidenza della Repubblica, ricevendo anche il sostegno del gruppo parlamentare La Rete; nello stesso anno, però, per la prima volta dal 1968 è costretta a lasciare il Parlamento, dopo essere stata inserita (di proposito) da Arnaldo Forlani in un seggio perdente.

Il 18 giugno del 1998 Tina Anselmi riceve l'onorificenza di Dama di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica Italiana.

Nel 2004 si spende per pubblicizzare il libro "Tra città di Dio e città dell'uomo. Donne cattoliche nella Resistenza veneta", che contiene un suo saggio, mentre due anni più tardi il blog intitolato "Tina Anselmi al Quirinale" ripropone il tam tam mediatico che la vorrebbe presidente della Repubblica; nel 2007, invece, Tina è la madrina del sito web "Le democratiche", concepito per fare sì che anche le donne possano contare su una presenza significativa in occasione delle primarie del Partito Democratico.

Nel 2009 l'ex ministro si vede assegnare il "Premio Articolo 3" a riconoscimento dell'attività svolta nel corso della sua vita, da giovanissima staffetta partigiana a "guida esemplare della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla Loggia P2", oltre che come "madre della legge sulle pari opportunità".

Nel 2016 viene celebrata la sua figura con l'emissione di un francobollo (emesso il 2 giugno, in occasione della festa della repubblica): è la prima volta che viene dedicato un francobollo a una singola persona ancora in vita.

Tina Anselmi si spegne all'età di 89 anni nella sua città natale, Castelfranco Veneto, il 1° novembre 2016.

Le esequie si tennero il 4 novembre nel duomo di Castelfranco Veneto e furono presiedute dal vescovo di Treviso Gianfranco Agostino Gardin alla presenza dei presidenti delle due Camere. Al termine del rito la salma fu sepolta nella tomba di famiglia nel cimitero cittadino.

lunedì 28 luglio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 28 luglio.

Il 28 luglio 1904 viene inaugurata la Sinagoga a Roma.

Da più di un secolo la sagoma della Grande Sinagoga delinea lo skyline del centro di Roma nel tratto di Lungotevere tra l’antico Ghetto e l’isola Tiberina. Per la costruzione dell’edificio di culto in stile eclettico, fu bandito nel 1889 un concorso cui parteciparono 26 gruppi di architetti, i cui progetti sono tutti conservati nel Museo ebraico che si trova al di sotto della sinagoga. “Una partecipazione così larga – spiega l’architetto Gianni Ascarelli, assessore alla cultura della Comunità ebraica di Roma – dà evidenza del grande significato simbolico che assunse la costruzione del Tempio maggiore”. Abbattuti i confini del ghetto, gli ebrei si affacciavano alla piena partecipazione alla vita sociale, economica e politica della capitale del nuovo Regno d’Italia.

Alla fine della selezione fu scelto il progetto degli architetti Armanni e Costa, ispirato a motivi dell’architettura greca e assira e dell’Art Nouveau, con una pianta a croce greca e sormontata da una grande cupola di alluminio traslucido. All’interno le decorazioni geometriche e floreali degli affreschi di Annibale Brugnoli e Domenico Bruschi e delle vetrate di Cesare Picchiarini creano giochi di luce che: “Soprattutto alla sera – afferma Ascarelli – quando c’è l’illuminazione artificiale la rendono una scatola preziosa“.

Elementi fondamentali dell’edificio di culto ebraico sono l’Aron Ha-Kodesh, l’Arca Santa, l’armadio riccamente decorato che contiene i rotoli della Torah (i primi 5 libri della Bibbia) e la Tevà o Bimà, il podio da cui si legge la Torah o si recitano le preghiere. Le sinagoghe si collocano al centro della vita delle comunità ebraica. A Roma esiste la comunità ebraica più antica del mondo occidentale ed è un particolare legato alla sinagoga di Ostia Antica a darne la prova.

Come tutte le sinagoghe del mondo, anche il Tempio Maggiore di Roma oltre che luogo di culto è un luogo di incontro culturale e di confronto, come in occasione della visita di papa Francesco e, prima di lui, di Benedetto XVI nel 2010 e di Giovanni Paolo II nel 1986. Alla sinagoga fanno capo tutti gli organismi religiosi e amministrativi che regolano la vita della comunità, come l’Ufficio rabbinico, il bagno rituale, l’Archivio storico e il Museo ebraico di Roma. Rimane tuttavia principalmente il luogo dove la comunità si raccoglie per pregare e celebrare la festa, a cominciare da quella fondamentale: lo Shabbat, il Sabato. E’ il giorno di riposo in memoria del settimo giorno della creazione, in cui Dio stesso si riposò. Inizia il venerdì sera appena prima del tramonto del sole e termina il sabato sera, con l’apparizione della prima stella nel cielo. Durante questo intervallo di tempo l’ebreo praticante deve abbandonare tutte le sue occupazioni abituali per non pensare che a Dio.

 

domenica 27 luglio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 27 luglio.

Il 27 luglio 2014 Vincenzo Nibali vince il Tour de France.

 Il romantico tramonto parigino accoglie un eroe sportivo. Mancano tre km alla fine del Tour de France, in attesa dello sprint finale, poi vinto del tedesco Marcel Kittel, il tempo viene neutralizzato. Significa che per Vincenzo Nibali suona il gong nella storia: è il settimo italiano a vincere il Tour de France dopo Bottecchia, Bartali, Coppi, Nencini, Gimondi e Pantani. Una vittoria perentoria, una missione meditata da un paio d'anni, forse da una vita, di una portata enorme per il ciclismo e per tutto lo sport italiano. La maglia gialla nella marcia di avvicinamento a Parigi, ma anche negli ultimi metri della passerella finale, viene scortata da tutti i compagni dell'Astana. E stavolta è una scorta dolce, priva dell'agonismo della gara, a volte talmente feroce da appiattire l'umanità. Scarponi e compagni hanno faticato tutti i giorni per tenere il capitano in rampa di lancio, ma quando non ci sono riusciti lui ha fatto da solo, applicando una ricetta straordinariamente difficile nella sua semplicità: ha fatto valere la legge del più forte. 

Ore 19,10 del 27 luglio 2014, inizia una festa senza fine: l'Arco di Trionfo, le note dell'inno di Mameli che inebriano gli Champs Elysées. Vincenzo le vive intimamente, è preda di una commozione genuina, le lacrime ne segnano il volto. Ci sono i genitori, la moglie Rachele, l'ultima arrivata Emma, tenerissima, che sembra quasi capire con fierezza il capolavoro del papà. Non è neanche semplice aggiungere altro ai fiumi di inchiostro versati nel mondo per la maglia gialla. I termini più usati in queste tre settimane sono stati 'normale', ' comune' ecc. Vero, viene da associarsi. Vincenzo Nibali è il ragazzo della porta accanto che va fortissimo in bicicletta. Ma non cambia mai atteggiamento verso il prossimo. Forse è per questo che in fase di avvicinamento al Tour ci siamo preoccupati che non ce la potesse fare. C'era il timore che quella serenità potesse soccombere di fronte alla brutale voglia di riscatto di Contador o alle scariche adrenaliniche dell'allampanato Froome. Nibali con le sue imprese ha ribaltato tutto, e anche senza controprova è lecito affermare che lo Squalo questo Tour lo avrebbe vinto lo stesso anche se il pistolero e il britannico non si fossero massacrate le ossa sull'asfalto. Magari con distacchi più contenuti, ma avrebbe vinto lo stesso. Nibali lo ha fatto capire a Sheffield nel secondo giorno, quando l'Inghilterra sembrava la Vallonia e lui ha piazzato una rasoiata da classica fulminando i suoi rivali.

A pensarci bene però, anche quel 'comune' va riveduto e corretto. Basta analizzare i distacchi inflitti. Peraud e Pinot, giusto orgoglio di una Francia che torna a respirare il podio con due atleti dopo 30 anni, sono dietro di otto minuti. Il decimo, Bauke Mollema, addirittura a ventuno minuti e mezzo. Il tutto tenendo presente che, a parte la cavalcata selvaggia scatenata nell'ultima tappa pirenaica verso Hautacam, Nibali ha sempre tenuto benzina nel serbatoio, dando la sensazione di spingere meno rispetto alle potenzialità. Avrà pure la faccia del ragazzo della porta accanto, ma comune... Proprio no. Entra in un club che più esclusivo non si può: ci sono Jacques Anquetil, Eddy Merckx, Felice Gimondi, Bernard Hinault e Alberto Contador. Sono gli unici nella storia del ciclismo che hanno vinto almeno una edizione delle maggiori corse a tappe, Tour, Giro, Vuelta.

Nel Tour ha dimostrato una completezza impressionante. Di Sheffield abbiamo detto, ma è stato solo l'inizio. Il capolavoro Nibali lo compie sul pavè della Roubaix, più odiato che amato dai big: Froome sulle pietre della leggenda neanche ci arriva, Contador naufraga nel fango, Vincenzo si prende la prima pagina de L'Equipe che sembra un tuono: 'Dantesque". E poi i Vosgi, la Plance des Belles filles, e le Alpi nel giorno dei 100 anni del mito Bartali, ed ancora sui Pirenei, quando chiude il poker perfetto. Ottavio Bottecchia, Gino Bartali, Fausto Coppi, Gastone Nencini, Felice Gimondi, Marco Pantani, i nostri eroi in giallo. Ora lo Squalo, di gran lunga il più meridionale di tutti, segnale di un ciclismo che cambia geografia non solo nel mondo, ma anche in Italia. Merci, Monsieur Nibalì.

sabato 26 luglio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 26 luglio.

Il 26 luglio 1878, in California, il poeta e fuorilegge che si faceva chiamare Black Bart compie la sua ultima fuga riuscita, quando ruba una cassetta di sicurezza da una diligenza della Wells Fargo. La cassetta vuota verrà trovata in seguito con all’interno un poema beffardo.

Charles Earl Bowles, detto anche Black Bart (Norfolk, 1829 – 28 febbraio 1888), fu un rapinatore statunitense, specializzato in assalti a diligenze e divenuto famoso nel Far West americano anche per la sua usanza di lasciare messaggi poetici dopo due dei suoi più epici colpi. Conosciuto anche con i nomi di Charles E. Boles, Charles Bolton, CE Bolton, Charles E. Bowles e Black Bart the Po8, è da sempre stato considerato come un bandito gentiluomo e uno dei più famigerati assalitori di diligenze operanti nella California del Nord e nell’Oregon del Sud, fra il 1870 ed il 1880. La fama che ha avuto per i suoi numerosi colpi fu dovuta soprattutto alla sua audacia, al suo stile ed alla sua raffinatezza.

Nacque a Norfolk, in Inghilterra, da John e Maria Bowles. Era uno dei 10 fratelli, sette maschi e tre femmine. All’età di due anni, i suoi genitori emigrarono nella Contea di Jefferson, New York, dove il padre acquistò una fattoria a quattro miglia a nord di Plessis Village, verso Alexandria Bay.

Alla fine del 1849 Bowles, chiamato dagli amici Charley, e due dei suoi fratelli, David e James, parteciparono al California Gold Rush. Iniziarono a lavorare presso una miniera del North Fork, in California.

Bowles lavorò solo un anno prima di tornare a casa nel 1852. Ben presto fece un nuovo viaggio presso i campi per l’estrazione dell’oro della California, con il fratello David e con un altro fratello, Robert; sia David che Robert morirono per malattia, poco dopo il loro arrivo. Bowles continuò a lavorare nella miniera per altri due anni prima di partire.

Nel 1854, in Illinois, Bowles (che per qualche motivo cambiò l’ortografia del suo cognome in “Boles”) sposò Mary Elizabeth Johnson. Ebbero quattro figli. Nel 1860 la coppia andò a vivere a Decatur, Illinois.

Il 13 agosto 1862 Boles venne arruolato nell’esercito nella società B di Decatur, nel 116º Reggimento. Dimostrò di essere un buon soldato, raggiungendo il grado di sergente prima di fare un anno nell’esercito. Prese parte a numerose battaglie e campagne, tra cui Vicksburg, (dove fu gravemente ferito) e Sherman. Il 7 giugno 1865, venne dimesso a Washington, District of Columbia e tornò a casa in Illinois. Aveva ricevuto un temporaneo brevetto sia come sottotenente che tenente.

Dopo lunghi anni di guerra, passò ad una vita tranquilla di agricoltura. Nel 1867 fu di nuovo ingaggiato in prospezioni nell’Idaho e nel Montana. Poco si sa di lui in questo periodo, ma in una lettera di agosto del 1871, indirizzata alla moglie, citò un episodio spiacevole con alcuni dipendenti della Wells Fargo & Company. Per un certo periodo non scrisse più alla moglie e lei ritenne che fosse morto.

Acquisito il soprannome di Black Bart, commise 28 rapine alle diligenze della Wells Fargo, nel nord della California, tra il 1875 ed il 1883 e lungo la storica Siskiyou Trail, tra la California e l’Oregon. Anche se ha lasciato solo due poesie, nei siti di alcune delle sue rapine, la sua firma divenne di grande fama. Black Bart ebbe molto successo e si allontanò con migliaia di dollari ogni anno.

Boles aveva paura dei cavalli e compì tutte le sue rapine a piedi. Con questo, insieme alle sue poesie, si guadagnò molta notorietà. Nei suoi anni da bandito di strada, non sparò mai un colpo di pistola.

Boles fu sempre cortese e non pronunciò mai alcuna parolaccia. Indossava un lungo cappotto spolverino di lino ed una bombetta. Aveva la testa coperta da un sacco di farina, con buchi per gli occhi, e brandiva un fucile da caccia. Queste furono le sue caratteristiche distintive che divennero il suo marchio.

Il 26 luglio 1875 Boles derubò la prima diligenza a Calaveras County, sulla strada tra Copperopolis e Milton. Ciò che rese il suo crimine insolito furono la cortesia e le buone maniere del fuorilegge. Parlava con tono profondo e risonante e disse a Shine John, il postiglione: «Per favore, butti giù la cassaforte!» Non appena Shine aveva porto la cassaforte, Black Bart gridò: «Se lui avesse il coraggio di sparare, dategli una dura scarica, ragazzi!»

Questa prima rapina fruttò a Boles solo $ 160.

L’ultima rapina ad una diligenza ebbe luogo presso Funk Hill, a sud-est di Copperopolis. Il postiglione era Reason McConnell, che stava attraversando un fiume col traghetto Reynolds. Alla traversata, McConnell raccolse Jimmy Rolleri, di 19 anni, figlio del proprietario del traghetto. Jimmy Rolleri aveva con sé un fucile e scese in fondo alla collina, su una strada ripida, per sincerarsi che la diligenza fosse stata in grado di scendere. Ritornato sulla sommità, si accorse che la diligenza non c’era più e cominciò a cercarla a piedi, trovandola poco distante da lui.

Capì così che la diligenza era stata avvicinata da qualcuno; Black Bart uscì da dietro una roccia con il suo fucile da caccia; egli aveva fatto scendere McConnell per impossessarsi della cassaforte, nonostante la Wells Fargo l’avesse ben sigillata. McConnell informò Rolleri che vi era una rapina in corso e Rolleri tentò di ferire Bart con due colpi del suo fucile, mentre questi stava già scappando. Jimmy però lo rincorse e tentò ancora di sparargli, mentre Bart entrò in un boschetto; Bart venne ferito alla mano e continuò la sua fuga per ancora un quarto di miglio, prima di fermarsi esausto e di fermare l’emorragia con un tronchetto marcio. Nonostante tutto, Bart riuscì fuggire in definitiva con $ 500 in monete d’oro, lasciando il fucile in un albero cavo.

Durante la sua ultima rapina del 1883, quando Boles venne ferito e fu costretto a fuggire, lasciò diversi oggetti personali, tra cui un paio di occhiali, prodotti alimentari ed un fazzoletto con un segno di lavanderia FXO7. I detective della Wells Fargo, James B. Hume (fisionomicamente quasi identico a Boles, soprattutto per via dei baffi) ed Henry Nicholson Morse contattarono tutte le lavanderie di San Francisco, per avere informazioni su possibili contatti con Boles. Dopo aver interrogato quasi 90 operatori delle lavanderie, la lavanderia usata da Boles fu individuata nella Ferguson & Bigg’s, in Bush Street, California; gli addetti di quella lavanderia furono in grado di identificare il fazzoletto come appartenente a Boles, che viveva in una modesta pensione.

Boles si descriveva come un “ingegnere minerario” e fece frequenti “viaggi d’affari”, coincidenti con le rapine della Wells Fargo. Dopo aver inizialmente negato di essere Black Bart, Boles alla fine ammise di aver rapinato diverse diligenze della Wells Fargo ed anche alcuni crimini commessi prima del 1879. Quando la polizia esaminò i suoi beni, fu trovata anche una Bibbia, un regalo della moglie, con inciso il suo vero nome. La polizia, dopo il suo arresto, dichiarò che Boles era “una persona di grande resistenza”.

La Wells Fargo sporse denuncia solo sulla rapina finale. Boles venne giudicato colpevole e condannato a sei anni di carcere a San Quintino, ma la sua permanenza venne ridotta a quattro anni per buona condotta. Quando venne rilasciato, nel gennaio 1888, la sua salute era decisamente peggiorata a causa delle condizioni della prigione. Era visibilmente invecchiato, la sua vista stava calando e divenne sordo ad un orecchio. Alcuni reporter chiesero a Boles, dopo la scarcerazione, se era intenzionato a rapinare altre diligenze. “No, signori”, rispose sorridendo: “Io ho finito con la criminalità”. Un altro giornalista gli chiese se poteva scrivere ancora delle poesie. Boles rise e disse: “Allora non mi hai sentito dire che ho finito con la criminalità?”

Boles non tornò più dalla moglie Maria, trasferitasi ad Hannibal, Missouri. Tuttavia le scrisse dopo la scarcerazione dicendo che era stanco di essere pedinato dalla Wells Fargo, si sentiva demoralizzato e voleva fuggire da tutti. Nel febbraio 1888, Boles lasciò la sua casa in Nevada e scomparve. Hume riferì alla Wells Fargo che Boles venne rintracciato al Palace Hotel, a Visalia; l’albergatore disse che un cliente rispondeva alla descrizione di Black Bart, dopodiché Boles riscomparse. L’ultima volta che Boles venne avvistato fu il 28 febbraio 1888.

Il 14 novembre 1888 un’altra diligenza della Wells Fargo venne derubata da un bandito mascherato, che lasciò un versetto. Il detective Hume venne chiamato ad esaminare la nota. Dopo il confronto con la scrittura di una vera e precedente poesia di Black Bart, dichiarò che la rapina fu opera di un altro criminale.

Vi furono alcune voci che sostenevano che la Wells Fargo avesse pagato e mandato via il bandito per impedirgli di compiere altre rapine. Tuttavia la Wells Fargo negò tutto.

Secondo quanto riferito, durante l’estate del 1888, un rapinatore di diligenze non identificato venne ucciso vicino a Virginia City, Nevada; se si fosse trattato di Black Bart, probabilmente il suo corpo sarebbe stato riconosciuto. Alcuni credono che Boles si fosse trasferito a New York City e qui fosse vissuto tranquillamente per il resto della sua vita, morendo nel 1917, anche se questo non è mai stato confermato. Altri credono al racconto improbabile secondo il quale l’ex bandito poeta, non avendo problemi di vista, si fosse recato nel Montana, o forse in Nevada, per fare fortuna.

venerdì 25 luglio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 25 luglio.

Il 25 luglio 1943 Mussolini si dimette e viene arrestato. E' la caduta del fascismo.

«La guerra continua. L’Italia, duramente colpita nelle sue province invase, nelle sue città distrutte, mantiene fede alla parola data, gelosa custode delle sue millenarie tradizioni»… così l’annunciatore Arista del Giornale Radio, alle 22,45 del 25 luglio 1943 annunciava alla nazione che Sua Maestà il Re Imperatore aveva accettato le dimissioni del Cavaliere Benito Mussolini dalla carica di Capo del Governo, Primo Ministro Segretario di Stato, e di aver nominato in sua vece il Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio.

Sulla scorta della memorialistica e della diaristica sull’argomento abbiamo ricostruito quanto avvenne in quel 25 luglio in un’afosa giornata della sciroccosa estate romana, particolarmente «calda» perché il giorno precedente, dopo quattro anni, si era riunito il Gran Consiglio del Fascismo alle ore 17,00 nella sala del Mappamondo di Palazzo Venezia; Gran Consiglio che si era concluso con l’approvazione, dopo dieci ore di discussione, dell’ordine del giorno di Dino Grandi con cui era stato chiesto che il Capo del Governo (Mussolini) restituisse al Re «… l’effettivo comando delle Forze Armate e quella suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a lui attribuiscono …». In chiare lettere le dimissioni di Mussolini.

Pur non esistendo un verbale della storica seduta, attraverso le versioni date successivamente dai presenti e dallo stesso Mussolini nel suo volume “Storia di un anno -II tempo del bastone e della carota”, risulta che votarono «Sì» i seguenti 19 alti gerarchi: Acerbo, Albini, Alfieri, Balella, Bastianini, Bignardi, Bottai, Cianetti, Ciano, De Bono, De Marsico, De Stefani, De Vecchi, Federzoni, Gottardi, Grandi, Marinelli, Pareschi, Rossoni; mentre Biggini, Buffarini Guidi, Frattari, Galbiati, Polverelli, Scorza e Tringali votarono contro. Si astenne il solo Suardo; Farinacci invece, l’uomo dei tedeschi, presentò e votò un suo personale ordine del giorno.

Paolo Monelli, il primo a dedicare un libro, “Roma 1943”, sull’argomento scrisse: «… a votazione conclusa Mussolini chiede: “Chi porterà questo ordine del giorno al Re?…”. “…Tu lo porterai…” risponde Grandi. “…Mi pare che basti…” dice Mussolini e prosegue: “…Voi avete provocato la crisi del regime. La seduta è tolta…”.

All’invito di Sforza di chiudere la seduta con il rituale «Saluto al Duce!» il protocollare «A noi!» di risposta risuona molto fiacco e distratto, alcuni gerarchi erano già usciti dalla sala.

Parallelamente all’azione promossa da Dino Grandi (avvocato bolognese, all’epoca Ministro Guardasigilli), nel corso di quel fatidico 1943 si era mosso nella stessa direzione anche il Re; infatti in una sua lettera al duca Acquarone, Ministro della Real Casa, si legge: «…Fin dal gennaio 1943 io concretai definitivamente la decisione di porre fine al regime fascista e di revocare il Capo del Governo Mussolini. L’attuazione di questo provvedimento, resa più difficile dallo stato di guerra, doveva essere minuziosamente preparata e condotta nel più assoluto segreto, mantenuto anche con le persone che vennero a parlarmi del malcontento del Paese. Lei è stato al corrente delle mie decisioni e delle mie personali direttive, e Lei sa che soltanto queste dal gennaio del 1943 portarono al 25 luglio successivo».

Ma torniamo a quelle prime fatidiche ore del 25 luglio che videro rientrare Mussolini a Villa Torlonia, atteso dalla moglie Rachele che così ricorda: «…L’aspettavo in piedi e gli sono corsa incontro in giardino. Era con Scorza. Non so come mi sia uscita di bocca la frase “…Li hai fatti almeno arrestare tutti?”. Benito ha risposto a voce bassa: “Lo farò”. Erano le cinque quando ci siamo salutati e ci siamo augurati un buon riposo».

Giova a questo punto rammentare che Dino Grandi, immediatamente uscito da Palazzo Venezia, si era incontrato con il duca di Acquarone e messolo al corrente del voto del Gran Consiglio, lo aveva invitato a rendere partecipe il Re delle notizie e di aver deciso di anticipare di 24 ore l’arresto di Mussolini, già stabilito per il giorno 26.

Seguiamo pertanto il duca Acquarone che, dopo aver riferito al sovrano sulle decisioni adottate di comune accordo con il generale Ambrosio, Capo di S.M. Generale e il suo ufficiale Addetto, il generale Giuseppe Castellano, aveva dato il via alle complesse operazioni relative all’arresto di Mussolini. D’intesa pertanto con il generale Angelo Cerica, Comandante generale dell’Arma dei Carabinieri, da poco succeduto al generale Hazon, perito nel corso del bombardamento del 19 luglio su Roma, aveva convocato il Comandante del gruppo interno dei Carabinieri e ordinato al Ten. Col. Giovanni Frignani che venisse sospesa la libera uscita ai componenti le tre Legioni di stanza nella città e che la truppa, schierata in armi nei cortili delle rispettive caserme, attendesse di venire passata in rassegna.

II generale Cerica quindi ordinò ai capitani Paolo Vigneri e Raffaele Aversa, alla presenza dello stesso Frignani e del Commissario di P.S. Marzano: «Vi affido un compito per cui faccio appello al giuramento di fedeltà al Re, da voi prestato nel giorno della vostra nomina ad ufficiale. Fra qualche ora, d’ordine di Sua Maestà il Re, voi dovete arrestare Mussolini che, messo in minoranza nella seduta di questa notte del Gran Consiglio, sarà sostituito nelle funzioni di Capo del Governo dal Maresciallo Badoglio».

«Va bene» risposero i due capitani e rimasero in attesa di ulteriori disposizioni. Le modalità di esecuzione prevedevano per il trasporto del Duce l’uso di un’ambulanza con i vetri smerigliati (messa a disposizione dall’autoparco del Ministero degli Interni) e la scorta di cinquanta carabinieri a bordo di un autocarro con i teloni abbassati; fu convocato anche il Questore Giuseppe Morazzini, incaricato della sicurezza della residenza reale, con il preciso compito di agevolare l’ingresso degli automezzi all’interno di Villa Ada.

Nel rapporto si legge che sull’ambulanza, oltre al conducente, un agente di P.S., si trovavano altri tre agenti in abito civile armati di mitra, tutte persone di fiducia del Commissario Marzano e, in previsione di una colluttazione, vi avevano preso posto anche tre sottufficiali dei carabinieri particolarmente prestanti (i vicebrigadieri Domenico Bertuzzi, Romeo Cianfriglia e Sante Zanon). Non dimentichiamo che l’arresto avrebbe dovuto eseguirsi a qualunque costo (catturarlo vivo o morto, era stato l’ordine tassativo del Ten. Col. Frignani).

I due automezzi quindi procedettero alla volta di Villa Ada e, preceduti dalla macchina del questore Morazzini, entrarono nel grande parco e si fermarono sul lato orientale della Villa Savoia ove si fermò l’ambulanza mentre l’autocarro proseguì fino al lato settentrionale della villa, sul retro.

Ma torniamo ora a Mussolini che nel pomeriggio riceve a Villa Torlonia, la sua residenza, ben tre telefonate che con diversi pretesti gli ricordano l’appuntamento con il Re a Villa Savoia per le 17,00. Alle 16,50 infatti l’auto del Duce, guidata da Ercole Boratto, il suo autista personale, e con a bordo il segretario particolare, il prefetto Nicola De Cesare, oltrepassa il cancello di Villa Ada, lasciando le tre vetture del seguito e la guardia presidenziale su Via Salaria; si addentra nel viale alberato che conduce a Villa Savoia ove lo attende il Re che ha appena avuto un’animata discussione con Acquarone e con la Regina, fermamente indignata perché l’arresto di Mussolini è stato predisposto avvenga in casa sua, contravvenendo alle regole dell’ospitalità.

Ma cosa si sono detti il sovrano e Mussolini all’interno della Villa? Sulla scorta del diario del solo testimone auricolare, il generale Paolo Puntoni, primo aiutante di campo di Vittorio Emanuele III (soltanto il 5 luglio era stato messo al corrente dell’azione per deporre il Duce) e ai ricordi dello stesso Mussolini, pubblicati sul Corriere della Sera del 1944 e poi raccolti nel volume “Storia di un anno”, abbiamo ricostruito parte di quel colloquio e le vicende relative al suo arresto.

«Appena raggiunto Sua Maestà all’interno della Villa – è Puntoni che scrive – il Re mi dice che ha deciso di invitare categoricamente il Duce ad andarsene e che lo sostituirà con Badoglio: “Farò un Ministero di militari e di funzionari”, soggiunge Vittorio Emanuele III, e continua: “Io riprenderò il comando delle Forze Armate e Ambrosio resterà al suo posto di Capo di Stato Maggiore Generale. Per quanto riguarda Mussolini ho autorizzato che alla fine dell’udienza, fuori di Villa Savoia, sia fermato e portato in una caserma per evitare da un lato che possa mettersi in contatto con elementi estremisti del partito e provocare disordini e, dall’altro, che antifascisti scalmanati attentino alla sua persona…”. Fatti altri passi aggiunge: “Siccome non so come il Duce potrà reagire, la prego di rimanere accanto alla porta del salotto dove noi ci ritireremo a discutere. In caso di necessità intervenga…”».

Dopo una pausa il Re riprende: «Aspettavo da giorni l’occasione buona, ormai non avevo più dubbi sull’avversione della massa per il Duce e per il fascismo; per di più ho buoni motivi per ritenere la guerra irrimediabilmente perduta. Fino all’ultimo, data la sua qualità di generale in servizio attivo – rivolgendosi direttamente a Puntoni – ho voluto che lei rimanesse fuori di tutto. Mussolini è Ministro della guerra e lei dipende dal Ministro. Ogni sua partecipazione diretta o indiretta a quest’affare poteva considerarsi un vero e proprio complotto. Questo non lo avrei mai permesso».

Ma ormai Mussolini, accompagnato dal segretario, che è stato fatto accomodare in un altro salottino privato, è sopraggiunto e Puntoni prende posto secondo i desideri del sovrano. Il Re entra nel salotto, seguito dal Duce, che ricorda di averlo notato «in uno stato di anormale agitazione e con i tratti del volto sconvolti» dice: «…Caro Duce, le cose non vanno più. L’Italia è in tocchi. L’Esercito è moralmente a terra. I soldati non vogliono più battersi. Gli alpini cantano una canzone nella quale dicono che non vogliono più fare la guerra per conto di Mussolini. II voto del Gran Consiglio è tremendo. Diciannove voti per l’ordine del giorno Grandi: fra essi quattro Collari dell’Annunziata. Voi non vi illudete certamente sullo stato d’animo degli italiani nei vostri riguardi. In questo momento voi siete l’uomo più odiato d’Italia. Voi non potete contare più su di un solo amico. Uno solo vi è rimasto, io. Per questo vi dico che non dovete avere preoccupazioni per la vostra incolumità personale, che farò proteggere. Ho pensato che l’uomo della situazione è, in questo momento, il Maresciallo Badoglio. Egli comincerà col formare un ministero di funzionari, per l’amministrazione e per continuare la guerra. Fra sei mesi vedremo. Tutta Roma è già a conoscenza dell’ordine del giorno del Gran Consiglio e tutti attendono un cambiamento…».

«Io vi voglio bene – prosegue il Re al Duce – …e ve l’ho dimostrato più volte difendendovi contro ogni attacco, ma questa volta devo pregarvi di lasciare il vostro posto e di lasciarmi libero di affidare ad altri il governo…».

Prosegue Puntoni nel suo diario: «…Passano alcuni attimi di silenzio poi si sente come un bisbiglio… la sua voce interrotta di tanto in tanto da brevi repliche del sovrano che insiste sulla sua decisione e sul suo rincrescimento. Mussolini interviene a scatti, poi le sue parole sono sopraffatte da quelle del Re che accenna al torto fattogli quando, senza neppure salvare la forma, Mussolini aveva voluto assumere il comando delle Forze Armate. Mi arriva netta questa frase: “E mi hanno assicurato che quei due straccioni di Farinacci e Buffarini, che avevate vicini quando non si sapeva se avrei firmato o no il decreto dissero: lo firmerà, altrimenti lo prenderemo a calci nel sedere!”. Mussolini ascolta senza fiatare, ma il sovrano ormai non gli dà tregua. Sembra che tutti e due parlino come se temessero di essere ascoltati, perché del loro colloquio mi giunge poco o nulla».

A questo punto il Re prosegue: «le condizioni interne della Germania sono gravissime. Io devo intervenire per salvare il Paese da inutili stragi e per cercare di ottenere dal nemico un trattamento meno disumano». Il Duce sussurra in maniera stanca qualche parola e domanda: «Ed io, ora, cosa debbo fare?». Replica il Re ad alta voce: «…Rispondo io con la mia testa, della vostra sicurezza personale, statene certo…» e prosegue accompagnandolo alla porta «…mi dispiace, mi dispiace, ma la soluzione non poteva essere diversa…». Mussolini racconterà poi: «…Nel salutarlo mi parve ancora più piccolo, quasi un nano, ma mi strinse la mano con grande calore…».

AI rumore delle sedie Puntoni si allontana dall’uscio e Mussolini, accompagnato dal segretario, si avvia verso l’uscita e, sceso dalle scale, viene affrontato dal capitano Vigneri mentre l’altro capitano, Aversa, si porta alle sue spalle.

Vigneri saluta militarmente e sull’attenti esclama: «Duce, in nome di Sua Maestà il Re, vi preghiamo di seguirci per sottrarvi ad eventuali violenze della folla».

«Non ce n’è bisogno» replica con tono stanco e implorante.

«Duce, io ho un ordine da eseguire», è la ferma risposta dell’ufficiale. «Allora seguitemi» dice Mussolini, e si avvicina alla sua macchina ferma, senza autista, a ridosso di una siepe. Ma il capitano Vigneri, spostandosi a sua volta, gli si para innanzi: «No, Duce, deve venire con la mia macchina!». Mussolini, ammutolito e rassegnato, si avvia quindi verso l’ambulanza ed ha un attimo di esitazione prima di salire a bordo, ma viene sollecitato da Vigneri che, presolo per il gomito, lo aiuta a salire, seguito da De Cesare.

Quando Mussolini protesta perché a bordo dell’ambulanza vengono fatti entrare oltre ai tre agenti di PS anche i tre sottufficiali dell’Arma, Vigneri allarga le braccia per fargli capire che non c’è niente da fare e sollecita gli uomini ordinando «Su, ragazzi, fate presto».

Con un caldo soffocante l’ambulanza con dieci persone a bordo si avvia lungo i viali inghiaiati del parco ed esce da un cancello secondario. Mussolini, pallidissimo, non dice una parola; ogni tanto si porta l’indice alla radice del naso, ma tiene gli occhi bassi.

L’autoambulanza giunge così nel cortile della caserma Podgora. Gli uomini scendono, per ultimo Mussolini, con al suo fianco Vigneri che alla sua richiesta «È una caserma dei carabinieri questa?…» risponde «Sì, Duce» e lo accompagna al Circolo Ufficiali.

Dopo una breve sosta, scortato dagli stessi uomini, a bordo della medesima ambulanza verrà poi condotto nella caserma della Legione Allievi Carabinieri di Via Legnano e lungo il tragitto avrà occasione di lamentarsi per l’eccessiva velocità commentando: «Se portate così i feriti non so come giungeranno vivi!».

La lunga giornata calda andò quindi incontro alla sera e mentre molti italiani già dormivano altri ebbero occasione di udire il giornale-radio delle 22,45 che annunciava: «Sua Maestà il Re Imperatore ha accettato le dimissioni del Cavaliere Benito Mussolini…».

Le strade e le piazze furono immediatamente invase dalla folla esultante. Per tutta una notte, come scrisse Monelli, i canti, le grida, i clamori sembrarono «il grido di un muto che riprende la parola dopo vent’anni».

II colonnello Tabellini che ebbe ospite il Duce nella sua abitazione all’interno della caserma di Via Legnano riferì: «Tenne un contegno che francamente mi meravigliò fino a sconcertarmi… In sostanza ebbi l’impressione che il nuovo stato di cose lo avesse liberato da una situazione insostenibile. Più che rassegnato mi sembrò sollevato».

Rimase nella caserma di Via Legnano ben poco perché quello «scomodo» prigioniero venne inviato, verso le 22 del 27 luglio, a Gaeta, ove venne imbarcato sulla torpediniera Persefone alla volta di Ventotene e delle altre isole del Tirreno.

giovedì 24 luglio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi




 Buongiorno, oggi è il 24 luglio.

Il 24 luglio 2010 a Duisburg avvenne la tragedia della Love Parade.

Il celebre festival di musica techno nato a Berlino nel 1989 ha vissuto la sua ultima edizione nel 2010 a causa di una tragedia che ha segnato per sempre l’organizzazione tedesca di grandi manifestazioni dedicate alla musica techno. Alle 15.30 del 24 luglio 2010 a causa del sovraffollamento,  gli organizzatori della Love Parade chiesero alla polizia di bloccare l’afflusso dei partecipanti e impedire il passaggio attraverso l’unico ingresso, un tunnel troppo stretto per gestire il passaggio in entrata e uscita di migliaia di persone. Centinaia di persone rimaste fuori riuscirono ad entrare dall’alto, attraverso il cavalcavia sopra il tunnel, aggiungendosi ad un numero già impressionante di persone. La calca portò allo schiacciamento di centinaia di persone ed un’escalation di panico che portò alla morte di 21 persone e al ferimento di almeno altre 652.

C’è da capire come e perché fu possibile tollerare la formazione di un’ingestibile calca nei pressi di uno dei tunnel utilizzati per l’ingresso e l’uscita dei partecipanti, presupposto della tragedia. Tra le vittime vi fu anche un’italiana, la ventunenne bresciana Giulia Minola. il tribunale di Duisburg ha proposto l’archiviazione del procedimento penale sulla strage al Loveparade del 24 luglio 2010. Nel corso del maxi evento musicale morirono nella calca 21 persone tra cui un’italiana, la bresciana Giulia Minola di 21 anni. 

Il tribunale tedesco ha proposto alla Procura e ai tre imputati, dipendenti dell’organizzazione, accusati di omicidio colposo e lesioni colpose, di terminare le udienze prima della scadenza imposta dalla prescrizione, che scatterà il 27 luglio 2020. Già lo scorso anno era stata archiviata la posizione degli altri sette imputati. A causa delle restrizioni imposte dal Coronavirus il processo - iniziato nel dicembre del 2018 - già da marzo però è sospeso e la ripresa era prevista il 20 aprile, ma con accesso limitato all’aula del tribunale di Düsseldorf. Per questo, dopo 183 udienze già celebrate, il tribunale ha proposto l’archiviazione. L’EPILOGO SEMBRA scontato. La Procura aveva già dato il proprio assenso un anno fa all’archiviazione del procedimento per altri sette imputati, mentre i secondi, dipendenti della società organizzatrice Lopavent, non rinunceranno all’opportunità di vedere terminare il processo senza condanna e senza sanzioni pecuniarie. Il primo colpo alle speranze di giustizia dei familiari delle vittime era stato inferto il 6 febbraio del 2019 quando la giustizia tedesca aveva archiviato la posizione di sette dei dieci imputati. In quell’occasione Nadia Zanacchi, la mamma di Giulia Minola, aveva espresso la sua amarezza. «La morte di 21 ragazzi rischia di restare senza alcun responsabile», aveva affermato facendosi portavoce dello stato d’animo di tutti i parenti delle vittime. Nel mirino era finita soprattutto la gestione del processo. L’archiviazione era arrivata prima che si concludesse l’analisi in aula della perizia, disposta per fare chiarezza sulle responsabilità. Tutto il processo avrebbe dovuto imperniarsi attorno a quella consulenza, invece sono usciti di scena sette dei dieci imputati. 

mercoledì 23 luglio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 23 luglio.

Il 23 luglio 1986 Andrea, il duca di York, e Sarah Ferguson si sposano nell'abbazia di Westminster.

Sarah Ferguson, la furia rossa; Sarah Ferguson, l’amica/rivale di Diana; Sarah Ferguson, la traditrice. Ben prima (e molto di più) di Meghan Markle a gettare scompiglio all’interno della famiglia reale britannica ci ha pensato Sarah Margaret Ferguson, nata a Londra 65 anni fa e da sempre più famosa col soprannome di Fergie. Ha sposato il principe Andrea, figlio – si dice – prediletto – della regina Elisabetta II, ci ha fatto due figlie (Eugenie e Beatrice di York) e infine ha divorziato nel modo più turbolento possibile. Dopo oltre vent’anni, però, i due sono più vicini che mai. Tanto che ha ancora senso festeggiare l’anniversario di quel matrimonio celebrato in pompa magna a Westminster Abbey, ben 39 anni fa. Gli ex coniugi, infatti, da diciotto anni a questa parte sono tornati a vivere sotto lo stesso tetto, il Royal Lodge di Windsor. E dopo anni di scandali più o meno dimenticati, Sarah Ferguson, pur non facendo più parte della famiglia reale, è tornata a frequentarla pubblicamente. Ma torniamo a dove tutto è iniziato.

«Architetto» dell’amor con il principe è stata Lady Diana. Le due si conoscevano da ben prima di diventare mogli dei due fratelli reali, le loro madri erano amiche d’infanzia. Quando si sono rincontrate nel 1980, Diana aveva 19 anni (e l’anno dopo avrebbe sposato Carlo del Galles) e Sarah 21. Le due giovani donne presto iniziarono a pranzare insieme ogni settimana. E nel 1985, Diana la invitò a un evento organizzato dalla regina al Castello di Windsor, durante la settimana di Ascot. A cena, Sarah, occupò il posto accanto al principe Andrea, da lì iniziarono a uscire insieme. E quando il legame tra Andrea e Sarah divenne più serio, fu Diana a farle da guida all’interno della famiglia reale. La principessa le prestò un paio di vestiti e l’accompagnò ai primi eventi. «Davanti ai paparazzi mi diede il giusto consiglio “continua a sorridere”», ha scritto Fergie nella sua autobiografia, «L’ho fatto per tanti anni».

Dopo un intenso corteggiamento, i due annunciarono il loro fidanzamento il 16 marzo 1986. L’anello resta tra i più originali: un anello in oro giallo con un rubino circondato da 10 diamanti, e incastonato a forma di fiore. Solo quattro mesi dopo, Fergie e Andrea andarono a nozze. Di quel matrimonio resta indimenticabile un dettaglio: il bacio «appassionato» sul balcone. Se di solito i principi e le principesse si sfiorano appena, loro due indugiarono un po’. Nel documentario Alla ricerca di Sarah: dalla realtà al mondo reale, firmato Oprah Winfrey, la protagonista avrebbe poi ammesso che quel momento romantico fu anche un simbolo di ribellione: «Tutti ci avevano detto di non farlo, ma eravamo molto innamorati». Dopo la maestosa festa al Claridges Hotel, la coppia felice partì per la luna di miele. Nell’agosto 1988, nacque la prima figlia (Beatrice), due anni dopo sarebbe arrivata Eugenie.

Ma i problemi della coppia, le continue assenze di lui, le voci di una possibile infedeltà di Ferguson, poco dopo fanno naufragare l’unione. Nel 1992 i due annunciano il divorzio che diventa effettivo quattro anni dopo. Con un accordo di 4 milioni di dollari. La loro relazione, però, non si è mai incrinata. Anzi, negli anni è diventata sempre più profonda. Uno dei motivi del buon rapporto conservato con la famiglia reale, Sarah l’ha descritto così in un’intervista di qualche anno fa: «Quando ho incontrato Sua Maestà per parlare del divorzio mi chiese: “Di cosa hai bisogno Sarah?” e io ho risposi “della sua amicizia“, ​​e credo che questo la abbia sorpresa, perché tutti erano convinti che io avrei chiesto molto denaro».

Oggi Sarah e Andrea non solo dormono sotto le stesso tetto, ma condividono lo chalet di Verbier. Un ritorno di fiamma, però, l’hanno sempre escluso, almeno pubblicamente: «Siamo solo ottimi amici», hanno voluto precisare entrambi. Come a dire: le cose vanno bene così, perché commettere l’errore di risposarsi?

martedì 22 luglio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 22 luglio.

Secondo alcuni storici il 22 luglio 776 a.C. iniziarono le prime Olimpiadi greche.

Le Olimpiadi antiche furono istituite nel 776 a.C. a Olimpia, in Grecia. Esse, come ci ricorda il poeta lirico Pindaro, vissuto in Grecia tra il 500 e il 400 a.C., sono le manifestazioni più importanti tra i cosiddetti “giochi panellenici” (Giochi Olimpici, Istmici, Pitici, Nemei): “Come l'acqua è il più prezioso di tutti gli elementi, come l'oro ha più valore di ogni altro bene, come il sole splende più brillante di ogni altra stella, così splende Olimpia, mettendo in ombra tutti gli altri giochi”.

Vengono tramandate diverse versioni sulla loro origine, sia sul piano storico, sia su quello mitologico.

Relativamente a quello storico, la fonte principale da cui attingere documentazione è Pausania il periegeta, geografo con interessi artistici e antiquari vissuto nella seconda metà del 2° sec d.C., che afferma che i Giochi sono nati in seguito ad un atto politico, ossia all’accordo tra il re dell’Elide, Ifito, e il re di Sparta, Licurgo, per rendere la città di Olimpia un territorio neutrale, sacro e inviolabile; le Olimpiadi sarebbero state il simbolo della tregua politico-militare tra i due re. Tale notizia è riportata anche dallo storico Plutarco, che trova conferma del patto tra i re nell’iscrizione incisa su di un disco bronzeo custodito nel tempio di Hera, nel recinto sacro dell’Altis. 

Per quanto riguarda la mitologia, invece, numerose sono le versioni tramandate sull’origine dei Giochi da Pindaro e Pausania. Il poeta, nella prima delle 14 Odi olimpiche, narra il mito di Enomao, re di Pisa d'Elide, che era rappresentato sul frontone occidentale del tempio di Zeus a Olimpia. Il sovrano, dal momento che un oracolo gli aveva predetto che sarebbe morto per mano del futuro genero, era determinato a impedire le nozze della figlia Ippodamia; confidando nella superiorità dei cavalli divini che gli  erano stati regalati da Fetonte, a ogni pretendente proponeva una corsa di carri da Pisa a Corinto, con il patto che se lo avesse sconfitto avrebbe sposato Ippodamia, in caso contrario sarebbe stato ucciso. Dopo la morte di tredici aspiranti si presentò Pelope, figlio del re frigio Tantalo, alla guida di un carro condotto da cavalli alati, che gli erano stati donati da Poseidone. Scorgendo, però, le teste dei pretendenti sconfitti appese alle porte del palazzo di Enomao, Pelope perse la fiducia nelle proprie possibilità e per essere sicuro di aggiudicarsi la corsa pensò di avvalersi dell'aiuto di Mirtilo, figlio di Ermes e auriga del carro di Enomao, promettendo che gli avrebbe permesso di passare una notte con Ippodamia se lo avesse messo in condizione di vincere la corsa; Mirtilo accettò l'offerta e tolse i perni degli assali del carro di Enomao, sostituendoli con pezzi di cera. Durante la corsa, le ruote si staccarono, il carro si rovesciò ed Enomao morì. Pelope, quindi, vinse la sfida ma, non avendo intenzione di mantenere la promessa fatta a Mirtilo, lo gettò in mare. Mentre moriva, Mirtilo lo maledisse e Pelope, per sfuggire all'anatema, tentò di conciliarsi i favori di Zeus organizzando in suo onore i primi Giochi di Olimpia. Un'altra versione del mito narra che Pelope, dopo aver vinto la sfida con Enomao, sposò Ippodamia e divenne sovrano di Pisa, estendendo il suo dominio su tutta la penisola, cui diede il nome di Peloponneso; alla sua morte fu sepolto nella valle dell'Alfeo, nella località in cui poi sorse la città sacra di Olimpia e, in seguito, in suo onore si sarebbero svolti i primi Giochi Olimpici, con la partecipazione delle tribù  della regione. Una terza tradizione attribuisce la fondazione dei Giochi a Eracle, che li avrebbe istituiti per rendere grazie agli dei dopo aver ucciso Augia, re dell'Elide, che gli aveva commissionato la pulitura delle stalle e si era poi rifiutato di pagargli il compenso pattuito; in quella occasione, fu consegnato ai vincitori un ramo d'ulivo, premio che nel simbolismo olimpico sarebbe diventato l'emblema della vittoria.

Le Olimpiadi, per circa quattro secoli furono disputate solo in contesto greco; la partecipazione si allargò solo in seguito, quando cominciò a farsi sentire l’influenza macedone e i Macedoni stessi furono ammessi alle gare, acquistando così il diritto di essere Greci a tutti gli effetti. Il contesto si ampliò ancor più quando i Romani conquistarono la Grecia, ma in contemporanea iniziò anche il processo di decadenza dei Giochi. Eventi salienti furono il tentativo da parte di  Silla di spostare le gare a Roma e l’episodio in cui Nerone ritardò addirittura le Olimpiadi di 2 anni per permettere la propria partecipazione: egli conseguì 6 vittorie, in chiave di atleta, ma anche di artista: corsa di carri, quadriga con puledri, concorso per araldi, tragedi, citaredi, tiro a dieci cavalli (67 d.C.). Al popolo conquistatore non piaceva l’agonismo greco: anche Roma ospitava delle gare, i ludi maximi, a cui partecipavano prevalentemente schiavi e persone appartenenti ai ceti più modesti, ma essi avevano come fine divertire gli spettatori e non la vittoria. Inoltre, i Romani criticavano l’atletismo per la sua collocazione esagerata nella scala dei valori sociali; gli atleti, infatti venivano considerati “µόνος καὶ πρώτος”, “πρώτος ἂνθροπος”, godevano di grande fama, vantaggi materiali e privilegi, come statue, il diritto di sedere vicino al re, esenzione dalle tasse, cariche. In questo periodo, per di più, si diffuse sempre maggiormente il professionismo degli atleti: essi venivano, infatti, seguiti da allenatori (“γυμνασταί”) che si basavano su metodi di allenamento scientifici, e si alimentavano in modo sempre più conforme al loro sforzo fisico (aumentò in maniera consistente, per esempio, il consumo di carne). Si verificarono i primi casi di corruzione dovuti alla sete di denaro e di vittoria. Con la diffusione del cristianesimo, poi, le Olimpiadi subirono il loro ultimo colpo: infatti, vennero sempre più aspramente criticate le feste e i riti pagani, in quanto considerati immorali, violenti, ridicoli, assurdi, e le Olimpiadi vennero considerate tali; la loro fine ufficiale risale all’anno 393 d.C., con l’editto antipagano di Costantinopoli emanato da Teodosio I su influenza del Vescovo di Milano Ambrogio.

Le Olimpiadi venivano organizzate ogni quattro anni tra i mesi di Apollonio e Partenio, in estate, in modo che il terzo giorno, quello centrale, desse con il secondo o terzo plenilunio dopo il solstizio d’estate. Alcuni mesi prima, degli ambasciatori, chiamati “σπονδόφοροι”, annunciavano in tutta la Grecia l’inizio delle feste, mentre un mese prima gli atleti dovevano trovarsi a Elide: a questo punto essi potevano ancora rinunciare alla partecipazione. Da questo momento gli atleti venivano tenuti sotto una stretta sorveglianza, anche per quanto concerne l’alimentazione: la loro dieta prevedeva, infatti, un  consumo di pane, fichi, formaggio e carne. In seguito giungevano ad Olimpia anche i famigliari degli atleti e i loro allenatori, oltre alle rappresentanze ufficiali delle πόλειϛ, che si accampavano in tende. Gli atleti godevano, invece, del privilegio di poter alloggiare nel “Λεονιδάιον”, un edificio, costruito negli anni 330- 350 a.C., quasi quadrato (80 metri x 74), costituito da una corte centrale circondata da un peristilio di quarantaquattro colonne doriche su tutti e quattro i lati; il lato ovest era il più grande rispetto agli altri e ospitava le camere più vaste, forse addirittura disposte su due piani; all’esterno dell’edificio correva un colonnato continuo di centotrentotto colonne ioniche. A Olimpia convergevano poi anche oratori, letterati, musici e politici. Altre figure importanti erano gli “θεόκολοι”, che organizzavano riti religiosi e sacrifici, gestivano i templi ed erano i soli autorizzati a risiedere nel santuario olimpico, gli araldi, ossia gli annunciatori ufficiali, e i giudici; avevano questa funzione sia i cosiddetti ellanodici sia il Gran Consiglio, la “βουλή.” I primi indossavano tuniche di porpora e corone di foglie d’ulivo, sedevano in una tribuna riservata ed erano divisi in tre collegi; essi conoscevano perfettamente le regole olimpiche, dal momento che erano sottoposti al un lungo e faticoso tirocinio, e avevano il compito di verificare l’idoneità degli atleti e di far rispettare le norme che disciplinavamo lo svolgimento dei Giochi Olimpici; sono ricordati per la loro incorruttibilità, ad eccezione dell’episodio di Nerone. Il secondo, invece, era formato da membri che risiedevano a Olimpia, eletti per un quadriennio; custodiva le regole delle competizioni e aveva competenze amministrative; era, inoltre, una giuria di appello contro le decisioni dei giudici. Le sanzioni principali consistevano nell’espulsione dai giochi, in sanzioni pecuniarie e in pene corporali.

Per quanto riguarda il programma delle gare, durante le prime tredici Olimpiadi gli atleti si cimentarono in un’unica gara, lo stadion, e quindi la manifestazione durava un solo giorno; successivamente, in seguito all’inserimento di altre gare, la durata delle Olimpiadi crebbe a cinque/sei giorni. Il tutto iniziava con un corteo da Elide verso Olimpia di due giorni. Il terzo giorno il corteo entrava ad Olimpia e, presso il  recinto dell’Altis e la statua di Zeus, celebrava sacrifici e pregava; si teneva poi il giuramento degli atleti, l’ὠρκός: essi dichiaravano di avere i prerequisiti per l’ammissione alle gare e di essersi allenati per 10 mesi, nel rispetto delle regole; seguiva a ciò l’ecatombe, ossia un sacrificio di cento buoi. In seguito, venivano sorteggiati gli atleti per la composizione dei turni eliminatori. Si disputavano poi le gare: lo stadion, gara di corsa veloce di lunghezza corrispondente a quella dello stadio (a Olimpia 192,27 metri), il diaulos (1200 piedi, 400 metri circa di lunghezza), il dolichos (da 7 a 24 stadi, da 1500 a 5000 m circa), la lotta, il pentathlon (corsa, salto in lungo, lancio del giavellotto, lancio del disco e lotta), il pugilato, gli agoni ippici, il pancrazio (una combinazione di lotta e pugilato senza esclusione di colpi, l’oplitodromia, ossia la corsa con le armi. Ruolo fondamentale svolgeva anche la corsa con il carro, che si svolgeva su una pista nettamente più lunga di uno stadion e prevedeva più giri di essa attorno a delle mete. Venivano in seguito premiati i vincitori con una corona di ulivo e ghirlanda, gli atleti facevano il giro dello stadio e veniva, infine, eletto l’atleta eponimo, che dava cioè il nome all’Olimpiade. La manifestazione si concludeva con sontuosi banchetti, in seguito ai quali iniziava il viaggio di ritorno per tutti coloro che erano convenuti ad Olimpia.

Senza dubbio, i protagonisti della manifestazione erano gli atleti. Essi appartenevano all’elite sociale: erano, infatti, tutti aristocratici, dal momento che necessitavano di molto tempo libero e dovevano pagarsi degli allenatori privati; tuttavia, ci furono casi in cui dei benefattori contribuirono al pagamento di maestri e istruttori per chi non fosse di estrazione sociale elevata. L’etica dell’atleta era fondata sulla fatica (“πόνος”), sul coraggio (“ἀνδρεία”) e sulla resistenza (“καρτερία”); era, dunque, necessario che gli atleti avessero un complesso di qualità fisiche e morali. L’atleta mirava unicamente alla vittoria e al successo individuale; solo in questo modo era possibile che si eternasse la sua fama (“κλέος”); egli, infatti, era considerato “baciato dalla buona sorte” (“ὂλβιος”): questo epiteto aveva anche valenza religiosa. Gli atleti, inoltre, erano considerati degli eroi e grazie a loro la comunità poteva festeggiare il trionfo della vita sulla morte. Essi, insomma, impersonavano il concetto greco del “καλός κʹἀγαθός”, letteralmente “bello e buono”, che metteva in diretta relazione la sfera etica e quella estetica della persona. Come ci ricorda Pindaro, (Olimpica I, 95- 101), infatti, “è là, ad Olimpia, che si affrontano i corridori più veloci, là che si giudicano la forza, il valore, la resistenza alle fatiche. E il vincitore, per il resto della sua vita, conosce la felicità e la gioia. È una gioia che si trasmette nel tempo, nei giorni: è la gloria, bene supremo per gli uomini”. Scrive ancora il poeta (Olimpica VIII, Ode 69, 86-87) che il secondo classificato avrebbe patito come tutti gli altri un “odioso ritorno a casa e una fama non gloriosa” e i non vincitori “lungo i vicoli, scansando i nemici, sono mortificati e colpiti dalla sfortuna”. Per partecipare alle gare, bisognava avere determinati prerequisiti, ossia essere di pura discendenza greca, di condizione libera e figli di Greci liberi, iscritti alle liste civiche e immuni da condanne penali; obbligatorio era poi un periodo preparatorio di un mese nel ginnasio di Elis. Gli atleti gareggiavano in un primo tempo con un gonnellino succinto stretto da una cintura, in seguito nudi; i vincitori ricevevano in premio una corona di olivo selvaggio composta di rami del santuario di Zeus; non erano previsti vantaggi economici, ma numerosi premi onorifici, tra cui il privilegio di iscrivere il proprio nome nella lista dei vincitori, di erigere una propria statua, di sfilare su di un carro da parata attraverso la propria città nel momento del rientro in patria, di erigere il proprio ritratto in luoghi pubblici, in banchetti sacri e in ginnasi o palestre, di essere mantenuti a spese dello stato, di avere posti riservati a teatro. Il loro ricordo dei più famosi atleti è stato tramandato ai posteri anche grazie all’epinicio, un genere letterario nato nel VI secolo, dedicato esclusivamente ai vincitori sportivi; questa forma di poesia corale celebrativa veniva declamata durante i festeggiamenti in occasione del ritorno in patria o, più raramente, sul terreno di gara. Non esaltava solo gli atleti, ma anche la loro stirpe e la loro patria: l’evento sportivo veniva descritto solo brevemente e il vincitore era elevato in una sfera sovrumana di racconti mitologici. Infine, bisogna sottolineare che gli atleti erano esclusivamente uomini; alle donne, infatti, non era permesso né assistere né partecipare ai giochi, eccetto come proprietarie di cavalli nelle corse con i carri. Sono solo tre i casi di vittorie femminili in quest’ultimo caso a noi noti.

Numerose sono le raffigurazioni di atleti nell’arte antica; le due più celebri sono il Discobolo di Milone e il Diadumeno di Policleto. Il Discobolo risale al 450 a.C. ed è una statua raffigurante un atleta impegnato nel lancio del disco, nel momento di massima tensione che precede l’azione. L’atleta tiene, infatti, alzato il braccio con cui sta per lanciare; il peso del corpo allenato poggia tutto sulla gamba destra piegata, con il piede ben saldato a terra, mentre la gamba sinistra, più arretrata, asseconda il movimento. Il tronco compie una potente torsione a destra, le armoniose braccia sono distese a formare un arco che dalla mano sinistra, poggiata sul ginocchio destro, passa per le spalle, terminando nel disco sollevato in alto dalla mano destra; il capo dai capelli corti e ricciuti è rivolto verso il braccio che lancia. Tutto ciò forma una  costruzione geometrica, che raffigura un semicerchio e un doppio triangolo; il volto esprime, invece, misurata e tenue concentrazione, determinazione e intelligenza; è stato però fortemente criticato da Plinio il Vecchio nella “Naturalis Historia”. Pecca della statua è la concezione esclusivamente frontale: guardato di profilo, il corpo risulta eccessivamente schiacciato su un unico piano; novità sul piano scultoreo è, invece, il mutamento della concezione di equilibrio, dal momento che non vengono più eliminate le forze e le tensioni, ma vengono controllate attraverso un equilibrio di forze uguali e contrarie. Il Diadumeno è, invece, una statua del 430/425 a.C. e raffigura un atleta che si stringe una benda, la tenia, intorno alle chiome dopo la vittoria di una gara; peculiari sono la geometrizzazione della figura, la sua accurata ponderazione e la struttura chiastica. Le braccia allargate tengono i due capi del nastro e nel volto vi è ricercata riflessività; il baricentro della figura, inoltre, cade al centro delle gambe e il dinamismo trattenuto annulla ogni impressione di staticità. La statua non è più un oggetto frontale, ma un volume che si articola e si muove in tutto il suo spazio tridimensionale.

Le Olimpiadi rivestivano una grandissima importanza nel mondo antico. Esse avevano un ruolo fondamentale al punto che il calendario greco prese le mosse dalla data delle prime Olimpiadi (776 a.C.); fu lo storico Timeo da Tauromenio, nelle Όλιμπιονίκαι a fissare per primo su base scientifica una precisa cronologia per la storia, introducendo l’uso di datare gli eventi storici e letterari in base alle Olimpiadi nelle quali si erano verificati; questo metodo di datazione fu recepito da molti altri, per esempio da Eratostene di Cirene, terzo bibliotecario della biblioteca di Alessandria, che compilò anche un elenco di vincitori nelle gare olimpiche (Όλιμπιονίκαι), e da Polibio. Con il termine Olimpiade, infatti, letteralmente, si intende il periodo di quattro anni che intercorre tra un’edizione e l’altra dei Giochi.

lunedì 21 luglio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 21 luglio.

Il 21 luglio 1858 a Plombières si tenne un riservatissimo incontro tra Cavour e Napoleone III promosso da quest’ultimo. 

"L’imperatore, appena fui introdotto nel suo gabinetto - scriveva Cavour il 24 luglio 1858 a Vittorio Emanuele, facendo una relazione in francese sull’incontro avuto con Napoleone III - abbordò la questione che è la causa del mio viaggio. Cominciò dicendo di essere deciso ad appoggiare con tutte le sue forze la Sardegna in una guerra contro l’Austria, purché la guerra fosse intrapresa per una causa non rivoluzionaria, che potesse essere giustificata agli occhi della diplomazia e, più ancora, dell’opinione pubblica in Francia ed in Europa. Poiché la ricerca di questa causa presentava la difficoltà principale, ho proposto dapprima di far valere le lagnanze cui dà luogo la poco fedele esecuzione da parte dell’Austria del suo trattato di commercio con noi. A ciò l’imperatore ha risposto che una questione commerciale di mediocre importanza non poteva provocare una grande guerra destinata a mutare la carta dell’Europa. Proposi allora di mettere nuovamente innanzi le ragioni che, al congresso di Parigi, ci avevano deciso a protestare contro la illegittima estensione della potenza austriaca in Italia; vale a dire il trattato del 1847 fra l’Austria e i duchi di Parma e di Modena, l’occupazione protratta della Romagna e delle Legazioni, le nuove fortificazioni innalzate intorno a Piacenza. L’imperatore non gradì questa proposta. Egli osservò che poiché le lagnanze da noi fatte valere nel 1856, non erano state giudicate sufficienti a indurre la Francia e l’Inghilterra a intervenire in nostro favore, non si comprenderebbe come ora esse potrebbero giustificare una chiamata alle armi. D’altra parte, aggiunse l’imperatore, finché le mie truppe sono a Roma, non ho molto il diritto di esigere che l’Austria ritiri le sue da Ancona e Bologna. L’obiezione era giusta. La mia posizione - continua la relazione di Cavour a Vittorio Emanuele - diventava imbarazzante, poiché non avevo più da proporre nulla di ben definito. L’imperatore venne in mio aiuto e ci mettemmo insieme ad esaminare tutti gli Stati d’Italia, per cercarvi questa causa di guerra così difficile da trovare. Dopo aver viaggiato senza successo in tutta la penisola, arrivammo, quasi senza accorgercene, a Massa e Carrara, e là scoprimmo quel che cercavamo con tanto ardore. [Cavour descrive così il cinico comportamento suo e di Napoleone III]. Dopo aver fatto all’imperatore una descrizione esatta di questo sventurato paese, di cui egli, del resto, aveva già un’idea abbastanza precisa, convenimmo di provocare un appello degli abitanti a Vostra Maestà per chiedere la sua protezione nonché per reclamare l’annessione di questi ducati alla Sardegna. Vostra Maestà non accetterebbe l’offerta, ma, prendendo le parti di queste popolazioni oppresse, rivolgerebbe al duca di Modena, una nota altera e minacciosa. Il duca, forte dell’appoggio dell’Austria, risponderebbe in modo impertinente. Dopo questo, Vostra Maestà farebbe occupare Massa e la guerra comincerebbe. Essendo il duca di Modena la causa della guerra - continua Cavour nella relazione - l’imperatore pensa che essa sarebbe popolare non soltanto in Francia, ma parimenti in Inghilterra e nel resto d’Europa, dato che questo principe, a torto o a ragione, è considerato come il capro espiatorio del dispotismo. D’altra parte, non avendo il duca di Modena riconosciuto alcuno dei sovrani che hanno regnato in Francia dal 1830, l’imperatore ha meno riguardi da usare verso di lui che verso qualsiasi altro principe. Risolta questa prima questione, l’imperatore mi disse: "Prima di andare avanti, bisogna pensare a due gravi difficoltà che incontreremo in Italia: il papa ed il re di Napoli. Io devo usare loro dei riguardi: al primo, per non sollevare contro di me i cattolici francesi; al secondo per conservarci le simpatie della Russia, che mette una sorta di punto di onore nel proteggere il re Ferdinando". Risposi all’imperatore che, quanto al papa, gli era facile conservargli il tranquillo possesso di Roma per mezzo della guarnigione francese ivi stanziata, purché lasciasse insorgere le Romagne; e che, non avendo il papa voluto seguire i consigli datigli dall’imperatore al riguardo, non poteva lagnarsi che queste contrade profittassero della prima occasione favorevole, per liberarsi di un detestabile sistema di governo che la corte di Roma si era ostinata a non riformare. Quanto al re di Napoli, non bisognava occuparsi di lui, a meno che non volesse prendere le parti dell’Austria, salvo a lasciar fare i suoi sudditi se per caso, profittando del momento, volessero sbarazzarsi del suo paterno dominio. Questa risposta soddisfece l’imperatore, e passammo alla grande questione: quale sarebbe lo scopo della guerra? L’imperatore ammise senza difficoltà che bisognava scacciare del tutto gli austriaci dall’Italia, e non lasciare loro neppure un pollice di terreno di qua dall’Isonzo e delle Alpi. Ma dopo, come organizzare l’Italia? Dopo lunghe discussioni, di cui risparmio il resoconto a Vostra Maestà, ci siamo accordati press’a poco sulle basi seguenti, pur riconoscendole suscettibili di essere modificate dagli avvenimenti della guerra. La valle del Po, la Romagna e le Legazioni costituirebbero il Regno dell’Alta Italia sul quale regnerebbe la casa di Savoia. Il papa conserverebbe Roma e il territorio circostante. Il resto degli Stati del papa con la Toscana formerebbe il Regno dell’Italia Centrale. La circoscrizione territoriale del Regno di Napoli non sarebbe toccata. I quattro Stati italiani formerebbero una confederazione sul modello della Confederazione germanica, la cui presidenza sarebbe data al papa per consolarlo della perdita della parte migliore dei suoi Stati. Questa sistemazione mi sembra del tutto accettabile. Vostra Maestà essendo di diritto sovrano della metà più ricca e più forte d’Italia, sarebbe di fatto sovrano di tutta la penisola. Io risposi – continua la relazione di Cavour a proposito della cessione di Nizza e della Savoia - che Vostra Maestà professava il principio di nazionalità, e che di conseguenza comprendeva come la Savoia dovesse essere riunita alla Francia; che Vostra Maestà era dunque pronta a sacrificare la Savoia, sebbene gli costasse eccessivamente rinunciare a un paese che era stato la culla della sua famiglia e ad un popolo che aveva dato ai suoi antenati tante prove di affetto e di devozione. Quanto a Nizza, la questione era differente, poiché i nizzardi, per la loro origine, la loro lingua e le loro abitudini erano più vicini al Piemonte che alla Francia, e di conseguenza la loro annessione all’Impero sarebbe contraria a quel medesimo principio per il trionfo del quale ci si accingeva a prendere le armi. A queste parole l’imperatore si accarezzò più volte i baffi e si accontentò di aggiungere che queste erano per lui questioni del tutto secondarie, di cui ci si sarebbe stato il tempo di occuparsi più tardi. Per costringere l’Austria - continuava Cavour, dopo aver relazionato sulle considerazioni fatte sulla neutralità delle altre grandi potenze - a rinunciare all’Italia, dunque, due o tre battaglie vinte nelle valli del Po e del Tagliamento non saranno sufficienti; bisognerà necessariamente penetrare nel centro dell’Impero e, con la spada sul cuore, cioè a Vienna stessa, costringerla a firmare la pace sulle basi prima decise. Per raggiungere questo scopo, sono necessarie forze considerevoli. L’imperatore le valuta ad almeno 300 mila uomini, ed io credo che abbia ragione. Con 100 mila uomini si bloccherebbero le piazzeforti del Mincio e dell’Adige e si custodirebbero i passaggi del Tirolo; 200 mila uomini marcerebbero su Vienna attraverso la Carinzia e la Stiria. La Francia fornirebbe 200 mila uomini, la Sardegna e le altre province d’Italia gli altri 100 mila. Il contingente italiano sembrerà forse debole a Vostra Maestà; ma se Ella riflette che si tratta di forze che bisogna far combattere, di forze di linea, riconoscerà che, per avere 100 mila uomini disponibili bisogna averne sotto le armi 150 mila. D’accordo sulla questione militare - il Benso di Cavour chiariva a Vittorio Emanuele il punto più importante dell’incontro - siamo stati egualmente d’accordo sulla questione finanziaria che, Vostra Maestà deve saperlo, è quella che preoccupa specialmente l’imperatore. Egli acconsente tuttavia a fornirci il materiale da guerra di cui potessimo aver bisogno, e a facilitarci a Parigi il negoziato per un prestito".

Da quel momento, gli ingranaggi incominciarono a girare. L'Italia, per dirla con le parole di Cavour, iniziava ad essere fatta.

domenica 20 luglio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 20 luglio.

Venerdì 20 luglio 1951 il Re Abdallah I di Giordania rimase vittima di un attentato nella Moschea el-Aqsa di Gerusalemme.

Il sovrano aveva il giorno prima lasciato in aereo Amman diretto a Gerusalemme con l'intenzione di compiere la preghiera del venerdì nella Moschea el-Aqsà, dov'è sepolto il padre. Egli, che era accompagnato dal Principe Husein, figlio dell'erede al trono Talal, aveva appena varcato la soglia della Moschea quando un individuo, nascosto dietro la porta, gli sparò contro un colpo di rivoltella colpendolo alla testa; il Re morì quasi subito. L'assassino, che cercava di darsi alla fuga, fu ucciso dalle guardie del re e poi identificato per Mustafà Shukri Asho, un sarto palestinese di 21 anni. Nella sparatoria cinque guardie rimasero ferite.

La salma del Re fu trasportata in aereo ad Amman dove il 23 si svolsero solenni funerali a cui parteciparono il secondogenito del Re, Nayef, il Principe Husein, il Reggente dell'Iraq Adb el-Ilah, nipote ex fratre dell'estinto, giunto espressamente da Londra e numerose delegazioni dei paesi arabi. Fu notata l'assenza del Principe Zeid, unico fratello vivente del Sovrano. 

Circa i moventi dell'assassinio si parlò di delitto politico connesso con l'uccisione di Riyad es-Sulh, avvenuta ad Amman quattro giorni prima: si disse che l'assassino aveva agito per istigazione dell'ex Mufti di Gerusalemme, Amin el-Huseini, e a questo proposito fu osservato che membri della famiglia el-Huseini, i quali solevano compiere la preghiera del venerdì nella Moschea el-Aqsà, quel giorno si astennero dal recarvisi; si parlò di una fetwa trovata in tasca all'assassino, secondo la quale l'uccisore di re Abdallah avrebbe meritato il Paradiso. Si disse infine che si trattava di una vendetta privata, giacché Mustafà Shukri Asho avrebbe ucciso il re per vendicare la morte di un fratello ammazzato da membri della Legione Araba.

I circoli responsabili di Amman negarono l'esistenza di qualsiasi rapporto tra l'uccisione di Riyad es-Sulh e quella di Abdallah, dicendo che la prima era dovuta a un gruppo di aderenti al Partito Nazionale Siriano, mentre la seconda è da attribuirsi a un gruppo che lavorava in segreto e che vide nell'uccisione di es-Sulh un'occasione propizia per compiere il nuovo delitto. Dal canto suo, l'ex Mufti Amin el-Huseini negò di aver avuto rapporti con l'uccisore o anche solo di conoscerlo personalmente.

Come primi provvedimenti dopo la morte del Sovrano, il Governo di Giordania decretò l'immediata chiusura delle frontiere, la proclamazione della legge marziale, e l'imposizione del coprifuoco a Gerusalemme e dintorni ed ad Amman. Fu pure proceduto a numerosi arresti. 

Il verdetto del tribunale portò alla condanna a morte di sei imputati - tra cui proprio  al-Ḥusaynī, nonché ʿUbayd ʿAkki e suo fratello Zakariyyā, commercianti di bestiame e ʿAbd al-Qādir Farḥāt (proprietario di un bar) e al proscioglimento di altri quattro imputati.

sabato 19 luglio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 19 luglio.

Il 19 luglio 1919 viene finalmente abolita in Italia l'autorizzazione maritale.

Poco più di 100 anni fa le donne conquistarono finalmente la loro legittimazione a compiere atti e a prendere decisioni, di carattere contrattuale, senza l'autorizzazione del marito. È infatti nel 1919, con le "Norme circa la capacità giuridica della donna", che viene abrogato l'articolo 134 del codice civile del Regno d'Italia, in vigore dal 1865 (il cosiddetto codice Pisanelli): proprio quella norma, infatti, aveva per oltre 50 anni sancito il principio dell'"autorizzazione maritale", per cui una moglie non poteva "donare, alienare beni immobili, sottoporli ad ipoteca, contrarre mutui, cedere e riscuotere capitali, costituirsi sicurtà, né transigere o stare in giudizio relativamente a tali atti", senza il via libera del coniuge.

L'autorizzazione doveva essere data con un "atto pubblico", fermo il "diritto" di revocarla. In alcuni casi, però, non era necessaria: quando il marito fosse stato "minore, interdetto, assente o condannato a più di un anno di carcere, durante l'espiazione della pena", o nelle situazioni di separazione legale "per colpa del marito".

Un'altra eccezione alla regola era quella riguardante la donna commerciante ("che eserciti la mercatura", era scritto nel codice Pisanelli): l'esonero all'autorizzazione era legato agli atti commerciali che la moglie compiva nel suo lavoro. Nel caso di opposizione o impossibilità all'autorizzazione da parte del marito, a pronunciarsi, prevedeva la legge, era il tribunale civile. È stata la legge Sacchi, poco più di cento anni fa, a cancellare l'istituto dell'autorizzazione maritale e a riconoscere l'accesso - seppur con limiti che cadranno solo nell'età repubblicana - delle donne agli impieghi pubblici e all'esercizio delle professioni.

Emanata il 17 luglio del 1919 - pubblicata in Gazzetta Ufficiale due giorni dopo - la riforma, firmata dal re Vittorio Emanuele III e controfirmata dal Guardasigilli Ludovico Mortara - abrogò gli articoli del codice civile regio sull'autorizzazione maritale, prevedendo, all'articolo 7, che "Le donne sono ammesse, a pari titolo degli uomini, ad esercitare tutte le professioni ed a coprire tutti gli impieghi pubblici, esclusi soltanto, se non vi siano ammesse espresse espressamente dalle leggi, quelli che implicano poteri pubblici giurisdizionari o l'esercizio di diritti e di potestà politiche, o che attengono alla difesa militare dello Stato secondo la specificazione che sarà fatta con apposito regolamento".

Un altro passo avanti, con il diritto politico, ci sarà nel 1946: le prime elezioni amministrative alle quali le donne furono chiamate a votare si svolsero a partire dal 10 marzo 1946 in 5 turni, mentre le prime elezioni politiche - svolte assieme al referendum in cui gli italiani scelsero la Repubblica - si tennero il 2 giugno 1946. La legge Sacchi sarà infine superata con la riforma del 1963, in base alla quale "la donna può accedere a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la Magistratura, nei vari ruoli, carriere, categorie, senza limitazione di mansioni e di svolgimento della carriera, salvi i requisiti stabiliti dalla legge".

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