Buongiorno, oggi è il 17 marzo.
Il 17 marzo 1791 nel porto di Gibilterra cola a picco il piroscafo Utopia, e con esso più di 500 emigranti italiani diretti in America.
Una delle sciagure dimenticate, passata quasi inosservata e della quale si conosce molto poco, forse perchè i morti non avevano lo stesso “peso” dei ricchi passeggeri del Titanic; erano dei semplicissimi contadini affamati che, con una valigia di cartone, e pieni di speranza affrontavano un viaggio avventuroso e rischioso per l’epoca, con l’obiettivo di condurre se stessi e le loro famiglie verso il sogno americano, verso un’esistenza migliore.
I tribunali Italiani condannarono gli Henderson Brothers proprietari della Anchor Line a risarcire le vittime ma, a seguito di rifiuto da parte degli armatori, si innescò un contenzioso legale di cui si occuparono (per ben 5 anni) i rispettivi ministeri degli affari esteri (quello Inglese e quello Italiano) nei tribunali di Napoli.
La cappa di mistero che avvolge questa tragedia è dovuta soprattutto al fatto che il naufagio è avvenuto in porto in fase di manovra di attracco del Piroscafo che si è schiantato contro lo sperone sommerso di una corazzata inglese ormeggiata nel porto di Gibilterra (la Anson). Tra l’altro, si desume dalle notizie raccolte che la nave nel naufragio si depositò sul fondo del mare per essere successivamente recuperata e riparata. Difatti riprese a navigare nello stesso anno (1891) solcando i mari fino alla sua definitiva radiazione avvenuta nel 1900.
La nave, che già nel suo nome aveva probabilmente scritto il suo destino (difatti in greco la parola Utopia significa “in nessun luogo”), partì da Trieste, si fermò a Palermo e arrivò a Napoli. Dal capoluogo partenopeo ripartì il 12 marzo carica di emigranti campani, calabresi ed abruzzesi e delle loro speranze di una vita migliore in America. Il 17 marzo 1891 alle ore 18:00 circa, superata Punta Europa, giungeva nella Baia di Gibilterra; il giornale spagnolo “El Imparcial” riportava di una probabile avaria al timone in atto.
La brezza, in breve tempo, si trasformò in un vento di tempesta e John McKeague, Comandante della nave poi sopravvissuto alla tragedia, volle comunque entrare in porto nonostante il tempo avverso, la scarsa visibilità e la presenza di troppe navi della Flotta Inglese.
Secondo i giornali dell’epoca: “imperversava una forte tempesta da sud-ovest e la nave era in ritardo”. Successivamente, nella manovra di attracco, il comandante probabilmente commise degli errori “grossolani”. Quella a Gibilterra non era nemmeno una sosta prevista ed egli si giustificò al processo affermando che era necessario rifornirsi di carbone che a bordo scarseggiava. Secondo Joseph Caiazzo (storico Italo-americano) sarebbe stato sufficiente e quanto mai opportuno, rimanere in mare ad attendere il calmarsi della tempesta ma probabilmente la decisione presa fu condizionata dalla spietata concorrenza tra le varie flotte. Il capitano commise un secondo gravissimo errore nella fase di manovra di attracco non valutando bene la deriva a causa soprattutto del fortissimo vento reso ancor più grave dal fatto che nemmeno tenne conto della presenza della Corazzata ANSON ovvero del fatto che la nave Militare Inglese era strutturalmente provvista di uno spaventoso devastante “Rostro” di ben 6 metri interamente sommerso e quindi invisibile.
La virata a dritta della “Utopia” si dimostrò tardiva poichè, scarrocciando, andò ad impattare con la poppa sullo sperone della corazzata ormeggiata provocando una falla che si rivelò fatale (gli speroni, sulle navi da guerra erano strutture rinforzate e costituivano un arma che veniva usata per squarciare le lamiere delle unità nemiche).
L’affondamento fu rapido ma forse nemmeno totale tanto è che il bastimento fu successivamente disincagliato, rientrando successivamente, una volta riparato, a far parte della flottiglia “Anchor Line” fino alla definitiva radiazione che avvenne nel 1900. La rapidità con la quale si consumò la tragedia provocò la morte di 563 Passeggeri (la cifra non è nemmeno certa). In pochi riuscirono a salvarsi gettandosi in mare ed accaparrandosi le insufficienti scialuppe di salvataggio (secondo alcune fonti dall’Utopia non furono nemmeno calate a mare per la celerità dell’affondamento e la impreparazione dell’equipaggio; le scialuppe che salvarono la vita a parte dell’equipaggio erano, in realtà di altre unità navali presenti in porto). Dei 300 superstiti circa salvati, alcuni proseguirono il loro speranzoso viaggio mentre alti tornarono indietro coscienti di essere miracolosamente scampati al mortale pericolo.
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