[New York, 1974] Acey aveva un viso ovale e la fronte alta. I
suoi capelli avevano una lievissima sfumatura color cannella. Se la guardavi,
seduta di fronte a te in autobus, e le lanciavi un’occhiata tra una fermata e l’altra,
era probabilmente a causa della bocca. Aveva una bocca forte, una bocca mordace
– con una piega che si sarebbe potuta definire un sogghigno, sebbene l’espressione
mutasse e si addolcisse continuamente dando al suo sorriso la qualità di un
colpo di fortuna, di una notizia inattesa.
- Io non ho dovuto lasciare mio marito per dipingere, -
disse a Klara. – Ho dovuto lasciarlo perché non volevo più vivere con lui.
- Qual’era il problema?
- E’ un uomo, - disse Acey.
A metà del ponte, Klara si accorse che la donna più giovane
controllava continuamente l’azione umana, i ciclisti e i corridori, e quello
che indossavano, e chi erano, e la cosa che avevano in comune, ovvero una
personalità studiata. Non come a Chicago, disse Acey, dove l’azione vicino al
lago è tutta sudore inconsapevole, gente che corre fino a scoppiare per
scuotersi di dosso la pelliccia dell’ufficio e del lavoro, l’anormale sudario
di materia. Qui la pellicola è quella in cui recitano. L’inquadratura di
orizzonte limpido con i profili dei grattacieli, e sembrava pronta per questo,
Acey.
- E così adesso sei qui. E forse per sempre. Per cui l’effetto
di essere passata sull’altra sponda deve essere doppiamente forte.
- Probabilmente sono passata sull’altra sponda un sacco di
tempo fa. Fondamentalmente all’insaputa di tutti, salvo che di me stessa.
- Sei preoccupata per le conseguenze?
- Di uscire allo scoperto? No, doveva succedere. Mi sarei
preoccupata se non fosse successo.
- E tuo marito?
- Mio marito cosa? – Chiese Acey.
- Non so. Cosa ne pensa lui. Lo sa che vai a letto con le
donne?
- Figurati, le lesbiche lo eccitano. Gli ho detto, James, uno
di questi giorni ti mando qualche diapositiva. Piccante.
- Sei un gangster.
- La pupa del gangster, la puttana della banda, ecco come mi
chiamavano a L. A. Per via dei quadri dei Blackstone, sai, la groupie borghese
dei negri.
- Carino. Sai come
chiamavano me? La Bag Lady.
Risero e passarono sulla sponda di Brooklyn, dove Acey
lavorava in un vecchio magazzino poco lontano dal ponte. Non voleva mostrare il
suo lavoro prima che fosse finito per cui fecero solo un giro dello studio. C’era
un calendario con Marylin Monroe sulla parete, ripresa dall’alto ai tempi in
cui era ancora la pinup Miss Sogni d’Oro, un corpo nudo adagiato su un fondo di
velluto rosso sangue.
- Questa non può essere qui per caso, vero?
- D’accordo, è una cosa che guardo, - disse Acey.
- E a cui pensi.
- E’ una cosa che sto elaborando a poco a poco.
- Interessante. Ma ho sentito dire che stai lavorando a
qualcosa di completamente diverso.
- Davvero? E cos’è che hai sentito dire?
E Klara allungò un braccio verso la parete in fondo, dove c’erano
alcune tele appoggiate su una mensola bassa o su cavalletti, alcune con strisce
di carta da imballaggio che Klara aveva adocchiato prima – strisce di carta
assicurate con l’adesivo a opere non finite come guide per indicare i vari
colori.
- Ho sentito dire che stai facendo una serie sulle Pantere
Nere.
Acey fece il suo sorriso sarcastico, lento ed elaborato.
- Ma davvero? Be’, sai una cosa, l’ho sentito dire anch’io.
E pensare che questa avrebbe dovuto essere l’era
postpittorica, rifletté Klara, ed ecco qua una giovane donna che dipingeva con
passione, una donna nera che dipingeva generosamente uomini neri ma non senza
esercitare un certo rigore critico. La spavalderia frontale delle bande, una
cultura di un’audacia quasi principesca, ma carica di presagi, naturalmente, di
minaccia non edulcorata, ed era questo che Acey esaminava chirurgicamente,
lavorando ai dettagli, cercando le tracce del solitario, del giovane diverso
nella propria posa pensierosa.
Riattraversarono il ponte.
- Ti chiamano ancora così, la Bag Lady?
- Di rado, ormai, - disse Klara. – Allora eravamo in poche. Prendevamo
i rifiuti e li conservavamo come forma d’arte. Il che suona più nobile di
quanto non fosse. Era solo un modo di guardare più attentamente alle cose. E lo
sto ancora facendo, forse però a un livello più profondo.
- Non è il mio genere. Forse diffido del bisogno di un
contesto. Sai cosa voglio dire?
- Immagino di sì.
- Perché io riesco a capire ma solo fino a un certo punto. Prendi
il tuo oggetto da uno studio incasinato e lo pianti in un museo dalle pareti
bianche con dipinti classici e diventa qualcosa di forte in questo contesto, diventa una specie di
provocazione. E che cos’è in realtà. Vecchie vetrate di fabbrica e tela da
imballaggio. Diventa, non saprei, molto filosofico.
Arrivarono sull’altra sponda e Acey voleva camminare ancora
un po’ ma Klara era esausta. Guardarono una vecchia barca a vela ancorata oltre
South Street. Klara stava cercando di cancellare la piccola offesa, la piccola
delusione ritardata della casuale osservazione negativa di Acey sul suo lavoro.
Prima ritardò la propria reazione, poi cercò di soffocarla.
- Io, - disse Acey – ero il tipo di ragazza che non vedeva l’ora
di crescere. Adesso ormai sono qui, ufficialmente. Questa città è l’orologio
che scandisce il tempo. Mi getta nel panico, ma sono pronta.
Quello che Klara ammirava di più era l’apparente facilità,
il modo casualmente spettacolare in cui Acey stendeva la pittura. Mani di fondo
sature di colore e bellissimi marroni carne e pennellate in ogni indefinibile
sfumatura e anche molti grigi, cieli glauchi e fumo, perché è sempre inverno a
Chicago e i membri della banda appartengono al loro territorio, ai mattoni
pallidi e alle finestre ghiacciate, e in questo senso potrebbero essere
fratelli di quegli uomini dalla pelle olivastra negli affreschi delle chiese
umbre – Acey aveva la calma e l’occhio triste di una cinquecentista.
(Don De Lillo, “Underworld”, trad. di Delfina Vezzoli,
Torino, Einaudi, 1999, pp. 417-20)
(Nell’immagine, Tamara De Lempicka, “Irene e le sue sorelle”,
tratto da http://retroguard1a.noblogs.org/post/2011/08/09/tamara/)
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