Quella crisi di nervi che non veniva mai e vibrava sempre
nel suo corpo dava a Diotima una felicità che ella non conosceva ancora. Era un
fremere, un sentirsi tutta irrorata d’importanza, uno scricchiolio come quello
della pressione in una pietra posta al fastigio dell’edificio del mondo, un
formicolio come l’impressione del nulla quando si è sulla vetta di una montagna
che sovrasta tutte le altre. In una parola, era il senso della “posizione”,
improvvisamente rivelatosi alla figlia di un modesto maestro e giovane moglie
di un viceconsole borghese, quale ella era sempre rimasta, nonostante l’ascesa,
nella parte più fresca della sua natura.
Questo senso della posizione è uno degli stati fondamentali,
benché inavvertiti, dell’esistenza, come il non accorgersi che la terra gira, o
che noi portiamo un contributo personale alle nostre percezioni. L’uomo
camminando sul terreno di una patria, di una religione o di una tassa sulle
entrate, porta la maggior parte delle proprie vanità sotto i piedi – perché gli
hanno insegnato che non è lecito portarla nel cuore – e in mancanza di una
posizione s’accontenta pure – cosa che è data a tutti – di trovarsi sulla punta
momentaneamente più alta della colonna del tempo, sorgente dal nulla; vale a
dire di vivere proprio ora, che tutti gli antecessori son ridotti in polvere e
i posteri non sono ancora nati. Ma se questa vanità, che di solito è inconscia,
sale a un tratto per qualche motivo dai piedi alla testa, può produrre una mite
pazzia simile a quella delle vergini che credono di essere gravide del globo
terrestre.
(Robert Musil, L’uomo senza qualità, Torino, Einaudi, 1972,
p. 219)
(Nell’immagine sopra, Miluna, Vanità,
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