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giovedì 18 settembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 18 settembre.

Il 18 settembre 1931 ebbe luogo l'incidente di Mukden, pretesto per l'occupazione giapponese della Manciuria.

La seconda guerra mondiale in Asia iniziò non a Pearl Harbor, ma dieci anni e tre mesi prima, in Manciuria, a Mukden (oggi Shenyang), nella notte del 18 settembre 1931. Evento decisivo nella storia del 20° secolo, oggi dimenticato. Eppure impressionò il contemporaneo Hergé, che ne fece il centro dell’intrigo dell’albo di Tintin "Il Loto Blu".

Il piccolo corpo d’armata giapponese, l’armata del Kwantung, deve il suo nome al territorio del Kwantung, o Guandong in cinese moderno, Kanto in giapponese, nella penisola di Lioadong, dove si trova Dalian e un nome noto nei primi anni del 20° secolo: Port Arthur, la base navale russa conquistata dai giapponesi dopo un assedio estenuante nella guerra russo-giapponese (1904-1905). E’ la lontananza dell’arcipelago motivo per cui l’armata del Kwantung, nonostante il piccolo stato maggiore, divenne vivaio di cospiratori e sostenitori del fascismo giapponese.

Il problema che affrontò il Giappone dopo la vittoria sulla Russia nel 1905 fu che la sua presenza nel continente rimase fragile. In virtù del trattato di Portsmouth, il Giappone recuperò solo i diritti acquisiti dalla Russia in Manciuria. Una volta che tali diritti decaddero, nel 1923, il Giappone doveva abbandonare ciò per cui aveva combattuto e vinto al prezzo di 130.000 morti. Posando da protettori della Cina, bloccando ogni tentativo di smembramento coloniale del Regno di Mezzo come fecero gli europei in Africa, gli Stati Uniti furono gli intermediari che a Portsmouth chiesero ed ottennero che il Giappone rinunciasse alle ambizioni in Manciuria. I semi della Guerra del Pacifico vennero gettati. Le tensioni non smisero di crescere tra Giappone e Stati Uniti. La sfida era in Cina. La conclusione del lento cumularsi di risentimenti, sospetti, incomprensioni e rivalità esplose a Pearl Harbour nel dicembre 1941. Ma nel tardo 19° secolo, conquistare il nord della Cina era considerato prioritario dagli strateghi giapponesi. Vedendo nelle province del nord-est della Cina il baluardo necessario per controllate la Corea, il cui possesso bloccava lo stretto di Tsushima e metteva l’arcipelago al riparo dalle invasioni. Nel 1895 questo fu il motivo della prima guerra cino-giapponese. Il Giappone poi conquistò la penisola del Lioadong. Col Trattato di Shimonoseki la Cina cedette territori al Giappone. Ma l’intervento vigoroso della Russia, sostenuta da Germania e Francia, costrinse l’esercito imperiale ad evacuare Port Arthur. Nel 1898, in cambio del sostegno di Mosca, Pechino cedette alla flotta russa la base navale di Port Arthur. Il Giappone ritenne l’alleanza russo-cinese volta a indebolirlo e privarlo dello status di grande potenza per, infine, ridurlo in schiavitù. Come si vide, gli eventi accelerarono di molto. Con ciascuna di tale manovre, come nel gioco del Go, l’Occidente cessò di essere il modello di modernità e divenne l’usurpatore delle vittorie del Giappone. Il timore di vedere l’arcipelago schiacciato arrivò a suscitare una mentalità da assedio. Il primo nemico fu la Russia, da cui la guerra russo-giapponese. E dal 1905 gli Stati Uniti. L’idea di conquistare la Manciuria divenne urgente presso certi ambienti per allentare la pressione. Nel 1915, approfittando degli europei impantanati nella guerra in Europa e dello status di alleato di Francia e Gran Bretagna, il governo conservatore tentò la fortuna con le famose “Ventuno domande” che posero la Cina sotto il protettorato giapponese di fatto. Anche in questo caso gli Stati Uniti s’interposero. Il tentativo di mettere sotto protettorato la Cina fallì. Ma il Giappone non rimase a mani vuote: il contratto di affitto del Kwantung fu esteso fino al 1997. Parziale vittoria per il Giappone? O disastrosa sconfitta come sostennero le fazioni più radicali.

Nei primi anni ’20 l’armata del Kwantung era una piccola forza. Se la flotta giapponese aveva il diritto di ancorare le navi a Port Arthur, i trattati internazionali limitavano la presenza dei soldati giapponesi a 10.000 uomini. D’altra parte, gli stessi trattati internazionali proibivano le armi offensive: artiglieria pesante, aviazione, blindati… La missione era pattugliare un corridoio di 1 km lungo la ferrovia, la cui concessione fu strappata alla Russia nel 1905, da Port Arthur, a Dalian dopo 40 chilometri per unirsi ad Harbin al ramo manciuriano della Transiberiana. L’armata del Kwantung era quindi una forza di polizia per vigilare sulla sicurezza della rete ferroviaria minacciata dalle bande di saccheggiatori, che sciamavano nell’immensa Manciuria attaccando i convogli. La Manciuria era quindi una sorta di “Wild West” asiatico popolato da nomadi, pastori, banditi, trafficanti di oppio mongoli, manciù e cinesi. Le sue forze erano composte da una divisione di fanteria sostituita ogni quattro anni. Gli ufficiali godevano di condizioni di vita lussuose a Dalian e Port Arthur, in cui aveva sede il quartier generale dell’armata del Kwantung, edificio che esiste ancora. I bilanci erano arrotondati con confortevoli diarie, le più alte dell’esercito imperiale. E soprattutto gli ufficiali avevano una libertà di manovra sconosciuta nelle caserme dell’arcipelago, dove la gerarchia era greve. Nel Kwantung militari e amministratori erano liberi di agire a piacimento. Il cambio del personale permanente ebbe effetti perversi, creando nell’esercito imperiale lo “spirito della Manciuria” che si fuse con la convinzione che la Manciuria andasse conquistata con la forza, bypassando l’accordo di Tokyo.

Due eventi accelerarono la rottura dell’armata del Kwangtung con le autorità del governo civile. Il primo fu la rapida democratizzazione vissuta dal Giappone alla morte dell’imperatore Meiji nel 1912, denominata “democrazia Taisho” dal nome del figlio di Meiji, e padre del futuro imperatore Hirohito. Il riconoscimento dei sindacati, la legalizzazione del Partito Socialista, l’estensione del diritto di voto universale agli uomini, al fine di concedere il diritto di voto alle donne… il Giappone seguiva l’ondata di liberalizzazione nel mondo che usciva dalla Prima Guerra Mondiale. Ma i liberali erano anche i sostenitori del disarmo. Il Giappone era uno dei cinque fondatori della Società delle Nazioni, precursore delle Nazioni Unite, creata dopo la prima guerra mondiale. E per i liberali, la sicurezza del Giappone non passava più attraverso la costituzione di un forte esercito, ossessione di Meiji, ma con la firma di accordi con le maggiori potenze. Già indignato dall’occidentalizzazione dei costumi (in cui vide la rinuncia allo spirito guerriero dei samurai), l’esercito imperiale veniva colpito al cuore con la riduzione degli effettivi. Per motivi di bilancio (la difesa copriva il 30% del bilancio dello Stato) e politico, si avviò l’allineamento politico con Paesi importanti come Stati Uniti, Francia e Regno Unito che smobilitavano. Ad aggravare il senso di tradimento dell’élite giapponese: la resa dei beni giapponesi in Manciuria fu presa in considerazione a Tokyo per rilassare le relazioni con la Cina, che non riconobbe né il trattato di Portsmouth, né l’accordo Giappone-USA sulle “Ventuno domande”. L’altro evento decisivo fu la scomparsa degli uomini di Meiji a capo delle Forze armate. Obbedienti e spesso giunti ai vertici grazie più alla lealtà che alla competenza, conobbero la guerra civile e le battaglie per la restaurazione Meiji nel 1860-70; ora morivano uno dopo l’altro. L’ultimo a scomparire fu il maresciallo Aritomo Yamagata, il padre dell’esercito Meiji, nel 1922. Questo passaggio di generazioni mutò la presa dei clan vincitori della restaurazione Meiji, i clan di Satsuma e Choshu, e fece avanzare i giovani dei clan sconfitti originari delle provincia a nord di Tokyo, Tohoku. Assai meno rispettosi dell’ordine stabilito, se non addirittura in rivolta verso di esso, da cui si sentivano esclusi poiché il mondo economico gli era precluso, entrarono nell’esercito come cadetti all’età di dodici anni, sul modello dell’esercito di Bismark (riferimento nella costruzione dell’esercito imperiale giapponese). Per Ishiwara e Itagaki, e probabilmente per gli altri ufficiali giapponesi, tale tuffo brutale nell’universo rigidamente disciplinato delle scuole militari segnò la fine dell’infanzia, rimanendo un trauma che non riuscirono a superare completamente, come mostrano i testi che lasciarono. Soprannominati “giovani ufficiali”, perché al massimo erano colonnelli, ebbero dal 1920 responsabilità gerarchiche sempre più importanti. Un primo tentativo di conquistare con le armi la Manciuria si ebbe nel 1928, quando una bomba fu posta sotto il treno di Chang Tso-lin (Zhang Zuolin), il signore della guerra della Manciuria ancora “cliente” del Giappone. Il cervello dell’attentato fu il colonnello Daisaku Komoto. Komoto sperava che per vendicare il padre ucciso dall’esplosione, il figlio di Chang Tso-lin, Chang Hsue-liang (Zhang Xueliang) lanciasse le sue truppe all’assalto del Kwantung, fornendo il pretesto per invasione della Manciuria. Ma quest’ultimo, consapevole della trappola tesa e dell’impreparazione dell’esercito cinese, si limitò alle denunce verbali. Komoto fu sollevato dell’incarico senza essere processato per tale atto di terrorismo. Per paura della reazione ostile dell’esercito imperiale, fu costretto a lasciare l’esercito in sordina.

Una nuova cospirazione fu avviata, più forte. Il cervello del nuovo complotto era il colonnello Tetsuzan Nagata, che raccolse intorno a sé nomi che resteranno nella storia, perché saranno tutti processati e giustiziati dagli Alleati dopo il 1945, Hideki Tojo, Tomoyuki Yamashita che s’illustrerà conquistando Malesia e Singapore nei primi mesi del 1942, Kenji Doihara, uomo dei servizi segreti giapponesi, Seishiro Itagaki e Kanji Ishiwara il cui ruolo fu cruciale per il successo dell’invasione. Tali incontri furono clandestini. Nell’organizzazione politica istituita da Meiji era infatti vietato agli ufficiali incontrarsi per discutere di questioni politiche o militari. Solo i consulenti diretti dell’imperatore avevano tale privilegio. Ma alla fine degli anni ’20, le regole imposte da Meiji furono spazzate via dalla rivolta degli ufficiali, infuriati dal mutare della società giapponese e dalla politica del disarmo. Ishiwara e Itagaki furono inviati da Nagata a sostituire Komoto a Port Arthur. Questo tandem provocò la guerra. Ishiwara fu responsabile della pianificazione dell’invasione. La funzione di Itagaki, teoricamente superiore di Ishiwara, era “politica”: avere contatti nell’esercito imperiale affinché il complotto fosse supportato e si preparasse l’amministrazione della Manciuria, una volta conquistata. Si sa dagli scritti di Ishiwara quali fossero le motivazioni di questi due ufficiali. Avviare la guerra in Manciuria non solo puntava a conquistare lo spazio considerato vitale per la difesa del Giappone, ma anche a fermare il programma del disarmo del Giappone, rovesciare il governo per sostituirlo con uno militare (o almeno influenzato dai militari), e militarizzare la società giapponese per l’obiettivo finale: affrontare con le armi gli Stati Uniti. Quindi fu una vera rivoluzione quella preparata dalla congiura, una rivoluzione paragonabile alla Restaurazione Meiji secondo i suoi fautori.

L’operazione scattò nella notte del 18 e 19 settembre 1931, quando una piccola bomba fu collocata dai soldati del Kwantung sotto la ferrovia, appena fuori Mukden. Nelle ore seguenti Mukden fu occupata assieme alle stazioni principali fino al confine settentrionale della concessione ferroviaria giapponese. Rinforzi di stanza in Corea, cinquemila uomini comandati da ufficiali guadagnati alle idee degli ammutinati, violarono l’ordine di non intervenire entrando in Manciuria. L’8 ottobre Ishiwara suscitò un’altra provocazione. Diresse il bombardamento aereo di Jinzhou. L’obiettivo questa volta era la linea ferroviaria gestita dagli inglesi; voleva estendere il conflitto per paralizzare il governo che cedeva alle richieste della SdN di por fine alle ostilità. La provocazione ebbe successo, incapace di trattenere l’armata del Kwantung (temendo che sanzionando i cospiratori avrebbe causato un colpo di Stato militare in Giappone), il governo giapponese non poté che osservare la situazione in Manciuria sfuggirgli completamente. Mentre continuavano gli scontri, una massiccia campagna di disinformazione fu attuata. Tutti i media supportarono l’armata del Kwantung. Ci vorrà la sconfitta del 1945 affinché il pubblico giapponese sapesse che il Giappone non fu vittima di un’aggressione cinese a Mukden, ma che fu una provocazione ordita con freddezza da ufficiali giapponesi. Inebriato dalle vittorie, Ishiwara volle di slancio attaccare i sovietici sempre presenti a nord della Manciuria. Le sue truppe risalirono in treno fino a Tsitsihar. E presso questa città vi fu l’unica battaglia della campagna, nota alla storia come “Incidente Manciuriano”, Manchu Jiken. Ai primi di novembre 1931, a 30 gradi sottozero, le forze giapponesi schiacciarono quelle del generale cinese Ma Chan-shan (Ma Zhanshan), perdendo circa quattrocento uomini, due terzi per il freddo (più di cinquecento feriti per congelamento). I giapponesi presero Tsitsihar (Qiqihar) ma questa volta il più attento Itagaki trattenne l’impetuoso Ishiwara. Quando gli interessi ferroviari (il ramo manciuriano della Transiberiana) furono rispettati, i sovietici osservarono da spettatori i combattimenti. Il 31 dicembre 1931, l’armata del Kwantung entrò a Jinshou. Con 15.000 uomini strapparono a 250.000 soldati cinesi (male addestrati e mal curati, è vero) un territorio grande quattro volte la Francia. Incapace di farli rientrare in caserma, il governo del Giappone fu rovesciato e l’esercito imperiale impose alla guida dello Stato personalità ad esso fedeli. Internazionalmente il Giappone fu isolato. I trattati sul disarmo abrogati e la militarizzazione avviata. Fu aperta la via all’alleanza con Germania nazista e Italia fascista. Nel settembre 1931 il Giappone avviò una guerra lunga quattordici anni, fino all’apocalisse finale di Hiroshima e Nagasaki, nell’agosto 1945.

mercoledì 17 settembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 17 settembre.

Il 17 settembre 1776 viene fondato il Presidio di San Francisco.

Nel 1776, i coloni spagnoli furono i primi a insediarsi in quest'area che, dopo un breve periodo di controllo messicano, fu trasformata in presidio militare dagli Stati Uniti, che la utilizzarono fino al 1994, diventando così la più longeva base militare nella storia del paese. 

Oggi Presidio Military Reservation è parte del patrimonio storico statunitense e copre una superficie di quasi 590 ettari, che includono un campo da golf professionale, un cimitero, percorsi escursionistici e il centro Letterman Digital Arts, una delle sedi dell'azienda del regista George Lucas. Qui potrete passeggiare tra pini sempreverdi e fortificazioni monolitiche sullo sfondo delle torri rosse del Golden Gate o procedere verso Baker Beach per ammirare lo straordinario panorama. Il Presidio vanta 40 chilometri di percorsi escursionistici che si snodano attraverso l'incontaminata costa californiana, proprio alle porte di San Francisco.

Al suo interno, una delle mete più popolari è Crissy Field, ritrovo di ciclisti, pattinatori e corridori. Le distese sabbiose di questa palude bonificata, all'ombra del Golden Gate, sono lo sfondo ideale per un picnic e rappresentano l'unica spiaggia sulla terraferma della baia di San Francisco.

Non dimenticate di visitare le tante attrazioni del parco, come il Gulf of the Farallones National Marine Sanctuary, il Walt Disney Family Museum, il Battery Chamberlain e il Crissy Fields Center, che offrono una serie di pannelli informativi e attività interattive per la gioia dei più piccoli.

Il passato militare del Presidio è ben visibile a Moraga e nel San Francisco National Cemetery, dove riposano più di 30.000 veterani americani con le loro famiglie. L'eccezionale diversità del parco rimane però la sua più grande attrazione. Al mattino è particolarmente piacevole passeggiare tra i boschi di eucalipto e cipressi o lungo la scogliera. Nel pomeriggio, invece, potrete fare un giro in barca nel Pacifico o ammirare la Yoda Fountain nel Letterman Digital Arts Center.

Situato nella parte più settentrionale della penisola di San Francisco, il Presidio si trova proprio ai piedi del Golden Gate, sul lato sud. Il parco è ben servito da autobus municipali (Muni) e Golden Gate Transit, treni BART (Bay Area Rapid Transit) e navette PresidiGo e, dall'apertura del Presidio Transit Center, è diventato ancora più accessibile. Il modo migliore per esplorare il parco è in bicicletta, che potrete noleggiare sul posto. In alternativa, potrete servirvi delle navette gratuite PresidiGo per raggiungerne le varie attrazioni. Se viaggiate in auto, potrete parcheggiare a pagamento entro i confini del Presidio.

martedì 16 settembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 16 settembre.

Il 16 settembre 1941 Mohammad Reza Phalavi diventa lo Scià di Persia dopo l'abdicazione del padre.

In Iran, prima della rivoluzione khomeinista, regnava lo scià di Persia tra feste di lusso, tirannia e diplomazia. Un ritratto in bianco e nero, a luci e ombre, quello che emerge dalla storia dello scià di Persia, Mohammad Reza Pahlavi. 

Un passato che sa di leggenda, che invece è reale, ben radicato nella storia contemporanea. Nell’immaginario collettivo è sinonimo di ricchezza e di opulenza all’estero, ma di dispotismo e assolutismo in patria, in Iran.

Iran e Persia erano, agli occhi degli occidentali della scorsa generazione, sinonimo di lusso, opulenza, sfarzo, mondanità. Merito della bella vita dello scià di Persia Mohammad Reza Pahlavi, con i suoi viaggi, le sue feste, le sue bellissime tre mogli. Nel 1939 sposa Fawzia, sorella di Faruq I d’Egitto, da cui divorziò dieci anni dopo e dalla quale ha una figlia. Soraya, sposata il 12 febbraio 1951 a Teheran a soli 19 anni, grande e tormentato amore, con l’abito della sposa disegnato da Dior cosparso di oltre 6.000 diamanti… e infine ripudiata, perché sterile. E poi Farah Diba, sposata il 20 dicembre 1959.

È ricca di contrasti, di luci e ombre, la sua storia politica e personale, tra le due date fondamentali: il 16 settembre 1941 quando a ventidue anni viene incoronato scià – re, imperatore (con una manovra di Stalin e Churchill, preoccupati della deriva delle relazioni della nazione con la Germania nazista) – e il 16 gennaio 1979 quando lascia per sempre l’Iran. Ripara in America, per morire un anno e mezzo dopo in Egitto, al Cairo.

Nel mentre, la Guerra fredda tra Urss e Stati Uniti, i contatti diplomatici su ambo i fronti, gli accordi sotterranei, le feste, le contestazioni e la rivoluzione islamica. La parabola di un soldato, autoproclamatosi re della Persia, come allora si chiamava l’Iran, e diventato un tiranno. Ma capace di imprimere riforme necessarie al Paese. Ha incontrato tutti, la regina Elisabetta, Truman, Eisenhower, Chirac, Giscard d’Estaing, Leone, Brezhnev, Kennedy, Carter, Nixon, Kissinger, Indira Gandhi, il re di Spagna, Walt Disney.

Durante il suo regno, l’Iran festeggia i 2.500 anni di continua monarchia dalla fondazione dell’impero persiano di Ciro II di Persia (590 a.C. – 529 a.C). Con la sua Rivoluzione bianca – una serie di riforme sociali ed economiche volte a trasformare l’Iran in una superpotenza mondiale – dà un impulso di modernità alla nazione, nazionalizzando le risorse naturali ed estendendo il suffragio alle donne. Ma il contrasto tra la povertà del popolo e l’ostentazione delle sue ricchezze è sempre stridente. Pur essendo musulmano, poi, comincia gradualmente a perdere l’appoggio del clero sciita, particolarmente per la sua spinta verso la modernità e la mondanità, la laicizzazione dello Stato, il conflitto con la classe dei mercanti Bazaari e per il fatto di aver riconosciuto Israele. Gli attriti con gli estremisti islamici, l’aumento dell’attività dei comunisti e, nel 1953, lo scontro col primo ministro Mohammad Mossadeq sulle concessioni petrolifere inglesi – sfociato nell’estromissione di Mossadeq– causano un’involuzione autocratica nel suo stile di governo. Il partito comunista Toodeh viene bandito, i dissidenti politici minacciati o addirittura eliminati dal famigerato servizio segreto Savak. Amnesty International riporta che in Iran c’erano almeno 2.200 prigionieri politici nel 1978. La tensione si trasforma in una rivoluzione che obbliga lo scià a lasciare l’Iran. Poco dopo, le forze rivoluzionarie trasformano il governo in una repubblica islamica.

Lo scià morì di tumore nel 1980 al Cairo: si era trasferito in Egitto visto che la sua presenza negli Usa, dove era fuggito nel gennaio 1979, venne presa come pretesto per l’assalto di novembre all’ambasciata americana in Iran e il sequestro del personale diplomatico.

Per molti occidentali è dunque stato il sovrano illuminato di un regno da mille e una notte. In patria era odiato per i metodi assolutistici, la persecuzione delle opposizioni, l’alleanza con Stati Uniti e Gran Bretagna, lo sfarzo della gigantesca corte. Anche per tutto questo sarà deposto dalla rivoluzione islamica guidata dall’ayatollah Khomeini.

Nel 1958 lo scià, pur di non ripudiare Soraya, l’amore della sua vita, designa come suo erede il fratello Alì, che però muore poco dopo in un incidente aereo. Non avendo altra via d’uscita, il 6 aprile 1958 viene dato l’annuncio ufficiale del ripudio. Il sovrano appare affranto e il dolore che Soraya prova per la separazione dall’uomo che ama profondamente, resterà visibile nel suo sguardo fino alla sua morte e sarà ricordata come “la principessa dagli occhi tristi”. Leila Pahlavi, la più piccola tra i cinque figli dello scià, venne trovata morta l’11 giugno 2001 a Londra, dopo una lunga depressione. Il secondogenito Ali Reza Pahlavi, 44 anni, è morto suicida nel 2011. Oggi c’è Reza Ciro Pahlavi, il primogenito dello scià, che da anni rivendica il suo diritto al trono, uno degli ultimi discendenti diretti della dinastia assieme alla sorella Farahnaz e alla sorellastra Shahnaz (nata dal primo matrimonio dello scià con Fawzia d’Egitto, sorella del re Faruk).

Non sono trascorsi secoli, eppure quasi nessuno ricorda più questo Iran.


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