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mercoledì 3 dicembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 3 dicembre.

Il 3 dicembre 1957 a Città del Capo, Christiaan Barnard effettua il primo trapianto di cuore al mondo.

“Era egocentrico, gran lavoratore, intelligente, ambizioso, insolente e arrogante; agiva con la convinzione che qualsiasi cosa gli altri sapessero fare, era in grado di farla anche lui. Quando scoprì che un chirurgo russo aveva trapiantato a un cane una seconda testa, andò subito nello stabulario e ripeté l’esperimento, mostrandoci con fierezza il grottesco risultato. Eppure l’intervento non serviva a nulla, se non a esibire il suo virtuosismo tecnico”. L’uomo in questione è Christiaan Barnard, il chirurgo sudafricano autore del primo trapianto cardiaco. A tracciarne questo ritratto, non proprio lusinghiero – soprattutto se si considera che fu scritto in occasione della sua morte (il 2 settembre del 2001) – fu un vecchio collega, l’endocrinologo Raymond Hoffenberg. Ma perché questa malcelata acrimonia?

In effetti Barnard, uno dei pochissimi chirurghi a essere passato alla Storia, era poco apprezzato dai compagni di lavoro. Non tanto per le capacità tecniche (indiscusse) ma piuttosto per quell’insieme di comportamenti che gli antichi Greci avrebbero definito hybris: la tracotanza di chi ritiene di poter superare qualsiasi limite, di chi persegue i propri obiettivi violando leggi, usanze e tradizioni condivise. Tanto per dirne una, quando il 3 dicembre 1967 espiantò il cuore da una giovane donna per trapiantarlo in un uomo di mezza età, Barnard era, almeno secondo le leggi di allora, un omicida. Non solo. Ai tempi della sua storica impresa non era il cardiochirurgo più quotato al mondo, né l’ospedale Groote-Schuur di Città del Capo, dove operò, era considerato la punta di diamante per i trapianti d’organo.

Nell’ambiente erano tutti convinti che il primo a cimentarsi nell’intervento sarebbe stato Norman Shumway, che alla Stanford University di Palo Alto, in California, aveva passato anni a esercitarsi sui cani per poter essere in grado di effettuare il trapianto cardiaco perfetto. Era lui il chirurgo più pronto, ma era frenato da limiti etici e legali. Per la buona riuscita di un trapianto di cuore, infatti, l’organo da utilizzare doveva essere prelevato ancora battente, ovvero da una persona tecnicamente viva.

A quei tempi, infatti, per decretare la morte di una persona si faceva riferimento al cuore: si era ufficialmente deceduti quando questo cessava di battere. Va detto però che alcune innovazioni mediche stavano minando questa convenzione. L’introduzione della respirazione artificiale (prima con il polmone d’acciaio e poi con la ventilazione artificiale), il perfezionamento del massaggio cardiaco (la compressione ritmica del torace per permettere a un cuore in arresto di riprendere a battere) e l’invenzione della defibrillazione cardiaca (una scossa di corrente alternata che interrompe le gravi aritmie) avevano portato alla nascita di una nuova disciplina che “resuscitava” persone dal destino segnato, che non a caso fu chiamata “rianimazione”.

I medici si trovarono così alle prese con una serie di casi mai visti prima. Alcuni individui colpiti da gravi lesioni cerebrali, una volta sottoposti a ventilazione meccanica, invece di morire o riprendersi restavano in uno stato di completa incoscienza: non avevano segni di attività nervosa, non rispondevano a stimoli esterni, non respiravano da soli.

Questo nuovo stato fu battezzato coma depassé, cioè “al di là del coma”, ma era evidente che si poneva un dilemma: che fare di queste persone, il cui cuore continuava a battere? La maggior parte dei medici riteneva che per loro non vi fosse possibilità di ripresa, essendo il cervello completamente danneggiato. Ma tutto era ancora incerto e la decisione di “staccare la spina” restava discrezione dei medici.

Insomma: l’idea di asportare un cuore ancora battente, anche se da una persona che la scienza medica indicava come morta, per impiantarlo in un altro corpo, significava andare oltre un limite. E non era una passeggiata. Ecco perché nessuno osava fare il primo passo, temendo polemiche soprattutto nel caso (tutt’altro che improbabile) di un fallimento. Serviva una persona disposta a correre quei rischi e Barnard cascava a fagiolo: non era dilaniato da scrupoli morali e scalpitava per mettere a frutto le competenze che riteneva di possedere.

L’intervento non era in realtà così difficile, specie se paragonato per esempio alle operazioni per riparare alcune deformità congenite del cuore. Così, a differenza dei colleghi, Barnard non tergiversò e individuò subito il candidato ideale per il trapianto: un droghiere di mezza età, Louis Washkansky, che oltre a un cuore completamente spompato aveva reni e fegato pressoché fuori uso. Praticamente un caso disperato. Proprio quello che ci voleva per un intervento ad alto rischio, mai sperimentato prima, ma che certamente avrebbe fatto clamore.

L’opportunità si presentò la notte fra il 2 e il 3 dicembre 1967, quando fu ricoverata una giovane donna in coma irreversibile dopo un incidente d’auto. Barnard prese l’iniziativa senza avvisare nessuno (per questo non esistono foto dell’intervento) e solo dopo 5 ore di sala operatoria telefonò al direttore dell’ospedale comunicandogli l’esito: intervento riuscito. Poco importa se Washkansky morì appena 18 giorni dopo di polmonite: il primo trapianto di cuore fu presentato dai media come un grande trionfo della medicina e Barnard, forte del suo innato carisma, non solo non venne mai accusato di omicidio, ma divenne in breve una star internazionale (a differenza di altri colleghi che prima di lui avevano trapiantato altri organi, quali rene e fegato, che colpivano molto meno l’immaginazione del pubblico).

Ancora una volta il chirurgo sudafricano non perse tempo. Appurato che l’operazione era tecnicamente riuscita, il 2 gennaio 1968 tentò un secondo intervento. A ricevere un cuore nuovo di zecca fu stavolta Philip Blaiberg, dentista 59enne che sopravvisse per più di un anno e mezzo: di fatto fu questo successo a dare il via libera ai trapianti di cuore. Ancora una volta con la complicità dei media, stregati dal fascino di quella sfida con la morte. A dispetto delle cronache del tempo (che parlarono di rinascita, indugiando persino sul recupero del vigore sessuale) la salute di Blaiberg era gravemente compromessa. Una fotografia ripresa da tutti i giornali, in cui il secondo trapiantato sguazza allegro tra le onde del mare, ha retroscena poco noti: testimoni riferiscono che Blaiberg fu trasportato in acqua di peso, giusto il tempo di scattare la foto, e poi subito strappato ai flutti.

Solo recentemente, decenni dopo l’intervento, si sono scatenate le polemiche su quella sfida più etica che medica: secondo Hoffenberg, Barnard partì troppo presto, “prima del segnale di via”, quando lo stato delle conoscenze era ancora limitato. Sull’onda dell’entusiasmo e presi dallo spirito di emulazione molti chirurghi si cimentarono in trapianti di cuore (un centinaio solo nel primo anno) per i quali non erano tecnicamente preparati e senza aver risolto il problema cruciale della possibile crisi di rigetto del nuovo organo (la ciclosporina fu introdotta solo nel 1971).

Ma un merito a Barnard bisogna riconoscerlo. Fu grazie a quell’atto di “tracotanza” che la comunità medica si decise in tutta fretta ad adottare criteri comuni per la definizione di “morte cerebrale”. Nel 1968, infatti, un comitato di esperti dell’Università di Harvard pubblicò su Jama (una delle più autorevoli riviste mediche) il rapporto Una definizione del coma irreversibile, poi diventato la base di tutte le legislazioni nazionali, in cui si stabiliva quando è lecito interrompere la rianimazione perché il paziente è clinicamente morto. Nel rapporto veniva definita la “sindrome della morte cerebrale”: il soggetto non dà segni di recettività, non presenta alcun movimento, non respira spontaneamente, non conserva riflessi e l’elettroencefalogramma è piatto. Criteri che si mantengono quasi invariati ancora oggi.

Barnard, dal canto suo, divenuto sui giornali “il profeta dei cuori” e “il mago dei trapianti”, smise invece di operare (anche per via di una brutta artrite reumatoide), dedicandosi alle conferenze e soprattutto alla bella vita e alle belle donne. Come la seconda moglie Barbara Zoellner, ricchissima e appena diciannovenne quando la sposò nel 1970; o come la terza, Karin Setzkorn, di una cinquantina d’anni più giovane di lui. Non si sa invece chi fosse al suo fianco quando, nel 2001, si spense a Cipro ai bordi di una piscina. Lo uccise un attacco d’asma. Ma tutti i giornali scrissero che aveva avuto un infarto al cuore.

martedì 2 dicembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


Buongiorno, oggi è il 2 dicembre.

Il 2 dicembre 1852 Napoleone III diventa imperatore dei francesi.

Carlo Luigi Napoleone nasce a Parigi il 20 aprile 1808, anno nefasto per lo zio Napoleone I in quanto segna l'inizio, con la campagna di Spagna, dello sgretolamento dell'impero.

Terzogenito di Luigi Bonaparte, re d'Olanda, e di Ortensia di Beauharnais, ancora bambino viene portato in Svizzera dalla madre in conseguenza della caduta dell'impero. Qui frequenta ambienti vicini alla Rivoluzione francese e ne assimila le idee.

Nel 1830 è a Roma dove aderisce alla carboneria antipontificia, ma un'efficace repressione lo costringe alla fuga; si sposta in Romagna, dove replica l'esperienza carbonara ed è nuovamente obbligato a partire; nel 1831 ripara in Francia, ma anche da qui è costretto ad allontanarsi perché Luigi Filippo, "il re borghese" ed antibonapartista non tollera i suoi espliciti programmi di ascesa al trono (aspirazione peraltro legittimata dalla morte di suo fratello maggiore); nel 1836 viene mandato in esilio negli Stati Uniti, ma l'anno successivo rientra in Europa e riprende i suoi piani di conquista del potere.

Nel 1840 viene arrestato e condannato al carcere a vita, ma nel 1846 riesce ad evadere. Si trova quindi in libertà quando scoppia la rivoluzione del febbraio 1848, ed egli può, dall'Inghilterra dove si era rifugiato, precipitarsi nuovamente in Francia. Grazie al nuovo regime repubblicano, può candidarsi ed essere eletto nell'Assemblea Costituente che, nel dicembre dello stesso anno, lo elegge Presidente della Repubblica Francese.

Fra le prime iniziative intraprese, nel nuovo ruolo, vi è quella della restaurazione pontificia a Roma, dove era stata proclamata la Repubblica, a guida del triumvirato Mazzini, Armellini e Saffi: l'intervento francese consente al papa Pio IX di rientrare a Roma, il 12 aprile 1850, ed a Napoleone III di assicurarsi per circa vent'anni una notevole influenza sulla politica romana.

Trascorsi appena tre anni dall'insediamento, ricalcando le orme dello zio, nel 1851 dichiara decaduta l'Assemblea e, sostenuto dal clero, dalla borghesia e dalle forze armate, si avvia alla proclamazione dell'impero assumendo il 2 dicembre 1852 il nome di Napoleone III. Del grande avo, che egli considera un mito, replica lo stile di governo: limitazioni alla libertà di stampa e stato di polizia. Quanto alla politica estera, ne coltiva le stesse mire imperialistiche. L'anno successivo sposa Eugenia Maria di Montijo.

Nel 1856, con Gran Bretagna e Piemonte, prende parte alla spedizione in Crimea - tesa a contrastare le mire espansionistiche della Russia verso la Turchia - che si conclude con la pace di Parigi, nel 1858. Nello stesso anno, coinvolto da Cavour, sottoscrive con lo stesso i patti di Plombieres, in virtù dei quali prende parte alla seconda guerra d'indipendenza contro l'Austria: nei reali intendimenti di Napoleone III vi è quello di riprendere potere in Italia, ma la piega che ad un certo punto rischia di assumere il conflitto, con la sua estensione ad altre potenze europee, lo induce a promuovere un armistizio con l'Austria che ponga fine alla guerra. L'accordo viene stipulato a Villafranca, l'11 luglio del 1859.

Nel 1861, in seguito ad una posizione ostile assunta dal Messico nei confronti di Francia, Spagna ed Inghilterra, si determina, dietro sua iniziativa, un'alleanza fra le tre potenze che invadono con successo lo Stato d'oltreoceano e vi insediano un sovrano amico (soprattutto della Francia): Massimiliano d'Asburgo, con il titolo di imperatore del Messico. Ma l'intervento degli Stati Uniti e l'esplicita richiesta alla Francia di ritiro delle truppe - richiesta prontamente accolta - determina la caduta di Massimiliano ed un epilogo drammatico dell'intera vicenda.

Intanto in Europa va crescendo l'influenza diplomatica e la potenza militare della Prussia: un dissidio sorto intorno al trono di Spagna è causa - o pretesto - per un nuovo conflitto. Napoleone III, con un'opposizione interna sempre più vasta ed agguerrita, ed un calo notevole del suo prestigio all'estero, dichiara guerra alla Prussia, sancendo in questo modo il proprio definitivo declino.

Sconfitto più volte, imprigionato dopo una disastrosa disfatta a Sedan, nella battaglia del 2 settembre 1870, viene incarcerato nel castello di Wilhelmshohe. Da qui, dopo la proclamazione della nuova Repubblica e la dichiarazione di decadenza della dinastia napoleonica, Napoleone III è lasciato partire per l'Inghilterra, a Chislehurst, dove muore il 9 gennaio 1873, all'età di 65 anni.

In origine fu sepolto a Chislehurst, presso la chiesa cattolica di Santa Maria; tuttavia, dopo che suo figlio, ufficiale dell'esercito del Regno Unito, morì nel 1879 combattendo contro gli Zulu in Sud Africa, Eugenia decise di costruire un monastero e una cappella per le spoglie del marito e del figlio: così, nel 1888, Napoleone e il figlio furono definitivamente traslati nella cripta imperiale nell'Abbazia di San Michele a Farnborough, nella contea dello Hampshire nel Regno Unito.

Tra una guerra e l'altra è riuscito a dare, probabilmente, il meglio di sé in una produzione letteraria di un certo interesse: la sua opera più importante è una "Vita di Giulio Cesare". Fra i tanti avversari politici ne annovera uno del calibro di Victor Hugo che gli dedica la definizione, rimasta celebre, di "Napoleon le petit". 

lunedì 1 dicembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il primo dicembre.

Il primo dicembre 1923 crolla la diga del Gleno provocando il disastro della Valle di Scalve.

Messa in ombra dalla più grave (per dimensioni e numero di morti) tragedia del Vajont, la catastrofe della Diga del Gleno rimane ancora oggi un capitolo di storia delle Alpi sconosciuto alla maggioranza della popolazione, nonostante nei primi decenni del '900 abbia portato morte e distruzione in un'intera vallata.

Lo sbarramento realizzato sul torrente Gleno, realizzato con l'intento di produrre energia elettrica, il 1 Dicembre del 1923 crollò, riversando il suo bacino idrico e creando una tragedia che sconvolse letteralmente la Valle di Scalve in provincia di Bergamo e la Val Camonica in provincia di Brescia.

I ruderi della diga sono ancora là, a oltre 1500 metri in alta val di Scalve, al cospetto delle vette orobiche più elevate, ma la loro storia è nota solamente alla popolazione locale e a pochi altri.

Il forte sviluppo industriale delle aree prealpine centrali, ed in particolare della Val Camonica, dove si era sviluppata un'intensa attività metallurgica, richiedeva una sempre maggior quantità di energia elettrica, fatto che spinse le autorità dell'epoca a cercare località alpine adatte alla costruzione di invasi. Già all'inizio del secolo era nata l'idea di uno sbarramento sul torrente Povo (affidata nel 1907 all'ingegner Tosana di Brescia) in Val di Scalve; il progetto rimase incompiuto per anni, anche a causa della Grande Guerra, fino a vedere la realizzazione nel 1919, quando la ditta brianzola Galeazzo Viganò di Triuggio, iniziò la realizzazione della struttura, completata poi nel 1923.

Il progetto iniziale di una diga a gravità (alta 52 metri e lunga ben 260 metri) è stato poi sostituito in corso d'opera da una struttura ad archi multipli, dando origine a non pochi problemi tecnici, poiché i due diversi progetti furono in un certo qual modo "mischiati" senza prendere le dovute precauzioni architettoniche. Era anche l'unico esempio al mondo di diga mista a gravità ed archi multipli

L'invaso così costruito aveva una capienza di circa sei milioni di metri cubi d'acqua, una dimensione notevole per il periodo.

Dopo diversi il giorni di piogge, durante il mese di ottobre il bacino si riempì per la prima volta, vennero anche valutate delle considerevoli perdite di acqua. Le perdite continuarono fino a quando avvenne il vero e proprio disastro: la notte del 1 dicembre 1923 parte della murata della diga crollò, creando uno squarcio di 80 metri e riversando l'intero contenuto dell'invaso in Val di Scalve.

In un istante furono spazzati via dalla furia dell'acqua gli abitati di Bueggio e Dezzo di Azzone In Valle di Scalve; rapidamente l'onda folle si abbatté poi sul comune di Darfo, Boario Terme e Gorzone in Val Camonica, per poi concludere la sua folle corsa nel Lago d'Iseo, a oltre 20 chilometri di distanza.

La massa d'acqua del bacino del Gleno lasciò nella valle 356 vittime riconosciute, oltre ad un numero non meglio definito di dispersi.

Per decenni si discusse su quali possano essere state le cause di un tale disastro: alla fine, ciò di cui siamo certi è che la struttura non rispondeva ai requisiti architettonici necessari a garantirne la sicurezza, gli archi erano appoggiati malamente alla precedente struttura a gravità, la murata era costellata di crepe e non erano mai stati eseguiti i controlli e le manutenzioni necessarie.

I responsabili della ditta Viganò, costruttrice della Diga del Gleno, furono processati dal regime fascista e condannati a pochi anni di reclusione per imperizia, lasciando senza colpevoli uno dei disastri più devastanti che hanno caratterizzato le valli alpine italiane nel secolo scorso.

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