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mercoledì 28 aprile 2021

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 28 aprile.
Il 28 aprile 1945 Benito Mussolini e Claretta Petacci vengono fucilati nei pressi di Dongo, dopo che il tentativo di fuga verso la Germania era stato sventato.
Nel tentativo di sfuggire alla disfatta definitiva della Repubblica Sociale Italiana, dopo aver rifiutato una proposta di resa offertagli dai rappresentanti del C.L.N. con la mediazione del cardinale di Milano Ildefonso Schuster, la sera del 25 aprile Mussolini lascia Milano e parte in direzione del lago di Como, verso la frontiera con la Svizzera. I motivi di tale scelta, a quanto sembra, furono il tentativo di raggiungere la Valtellina dove già da alcune settimane alcuni gerarchi fascisti prospettavano di costituire un estremo baluardo di resistenza, oppure tentare di entrare nella neutrale Svizzera ed avviare da lì trattative con diplomatici americani. La notte raggiunge la prefettura di Como e si ferma lì fino all'indomani.
Il pomeriggio del 26 aprile riparte, scortato da alcuni gerarchi fascisti, dall'amante Claretta Petacci che l'aveva raggiunto nel frattempo e da un gruppo di nazisti che avevano ricevuto l'ordine da Hitler di scortare verso la Germania il Duce (o sorvegliarlo, onde evitare che tentasse la fuga in Svizzera?). Dopo essersi spostato nel piccolo paese di Grandola ed Uniti, esattamente nella frazione di Cardano, Mussolini alloggia per la notte presso l'Hotel Miramare (cosi indicato sulle cartine militari dell'epoca, identificato localmente come "Hotel Miravalle"). Questo Hotel era sito a pochi metri di distanza dal campo di Golf di Menaggio frequentato da persone vicine agli Angloamericani, in prossimita della stazione ferroviaria di Cardano, linea Menaggio-Porlezza (attualmente non più in uso). La Zona fortificata come ultimo fronte fin già dal 1915 (ancora individuabile dalle costruzioni presenti), è nei pressi della frontiera; era ben conosciuta anche per alcuni studi topografici fatti nel periodo fascista per il possibile sfruttamento minerario, ed inoltre per la vicinanza con il confine. Appare incredibile che Mussolini non abbia tentato di passare il confine in quelle zone, per evitare di essere fermato da qualche posto di blocco (i partigiani della zona era molto presenti sul lago di Como, poco verso quel confine che era zona franca di contrabbando di spalloni, i quali avevano facile accesso alla Svizzera). Ciò che forse lo fermò, è che non sapeva che le truppe Svizzere presenti sin a qualche giorno prima sul confine erano state spostate presso la frontiera di Chiasso, per impedire lo sbando dei militari tedeschi in ritirata.
La mattina del 27 aprile il Duce (non riuscendo o non volendo distaccarsi dai tedeschi), insieme ai gerarchi fascisti con famiglie al seguito, ritorna verso il lungolago a Menaggio e si aggrega ad una colonna di tedeschi in ritirata verso il nord per tentare di passare il confine verso i Grigioni, frontiera più disponibile e meno difesa dagli Svizzeri. Il convoglio prosegue fino a Musso. Lì viene fermato dai partigiani, che iniziarono a trattare coi tedeschi riguardo al permesso di poter proseguire e giungono al seguente accordo: i tedeschi possono proseguire per alcuni chilometri fino al prossimo posto di blocco partigiano, ma i fascisti saranno arrestati subito. Il Duce, su consiglio di un ufficiale tedesco, si traveste con un'uniforme nazista e sale su uno dei camion dei soldati tedeschi. Gli altri gerarchi fascisti vengono quasi tutti arrestati ed il giorno seguente fucilati sul lungolago. Gli autocarri tedeschi (con a bordo il Duce) proseguono, ma giunti al successivo posto di blocco viene fatto un controllo e Mussolini viene riconosciuto da un partigiano, (soprannominato Bill) e immediatamente arrestato. Viene portato via sotto scorta armata e viene piantonato da due giovani partigiani presso una famiglia di antifascisti (casa De Maria) a Bonzanigo, una frazione di Mezzegra, dove nel frattempo viene portata anche Claretta, che aveva espresso il desiderio di poter condividere la prigionia con lui.
Fin qui l'esigua traccia certa. In seguito si innestano invece diverse altre ricostruzioni che non solo sono fra loro in qualche punto contrastanti, ma che nemmeno furono sempre narrate, nel tempo, allo stesso modo.
Da qui prelevati, secondo la versione ufficiale, poi cambiata almeno quattro volte dallo stesso colonnello Valerio (nome di battaglia del partigiano Walter Audisio), poco dopo le ore 16 del 28 aprile Mussolini e Claretta Petacci vengono fucilati a Giulino di Mezzegra. Eseguite le condanne degli altri gerarchi a Dongo, il 29 aprile i cadaveri sono trasportati a Milano ed esposti in piazzale Loreto. La folla - memore della strage lì perpetrata dei nazifascisti il 10 agosto del 1944, quando 15 partigiani erano stati fucilati ed esposti al pubblico - subito si accanisce contro i corpi. Per evitare lo scempio, i cadaveri vengono issati a testa in giù e appesi alla pensilina di un distributore di benzina.
Permangono dubbi sui materiali esecutori della condanna a morte, sulle reali motivazioni, sui passaggi di consegne dal luogo della cattura sul camion tedesco fino a piazzale Loreto, sugli eventuali rapporti con inviati di potenze straniere; la quantità di dubbi è tale da inficiare conseguentemente l'attendibilità anche dei riferiti dettagli tecnici e pratici, ad esempio luoghi e persone.
Walter Audisio (conosciuto sia col nome di battaglia di colonnello Valerio che colonnello Giovanbattista Magnoli) era al tempo capo di un raggruppamento delle forze partigiane con funzioni di polizia. La sua figura emerse, direttamente con riferimento a questi fatti, negli anni '60, quando il quotidiano "L'Unità" (organo del PCI, per il quale Audisio fu poi deputato) diede notizia del suo coinvolgimento. Metà della notizia non era in verità nuovissima, essendo il nome del colonnello Valerio già circolato nell'immediato, ciò malgrado non se ne conosceva l'identità e l'Audisio non aveva mai dato modo di parlare di sé, solo essendo noto in qualche ambiente di militanza; tutti "sapevano" che Mussolini era stato fucilato dal colonnello Valerio, ma nessuno avrebbe detto che si trattasse di Audisio. Identificandosi con quel Valerio, Audisio sostenne, non senza qualche contraddizione fra le sue stesse versioni, di essere in pratica il responsabile e l'autore materiale della fucilazione di Mussolini.
Nella notte tra il 27 e il 28 aprile 1945, affermò, ricevette dal generale Raffaele Cadorna l'ordine di uccidere Mussolini. Si trattava comunque di un ordine che contraddiceva le clausole dell'armistizio di Cassibile e gli accordi sottoscritti dal CLNAI, secondo i quali Mussolini doveva essere consegnato vivo agli Alleati. Secondo alcuni storici parte delle forze partigiane temevano che una volta consegnato agli alleati sarebbe stato rimesso al potere nell'arco di qualche anno, da qui la decisione di non rispettare gli accordi dell'armistizio e di procedere alla sua condanna a morte. Alle 7 del mattino successivo, un convoglio guidato dal colonnello Valerio partì alla volta di Como, ove si trattenne fino alle 12.15, per poi spostarsi a Dongo, dove arrivò alle 14.10. Qui Valerio e i suoi uomini avrebbero comunicato ai partigiani locali che avevano in custodia Mussolini ed i gerarchi dal pomeriggio avanti, e di voler fucilare i prigionieri.
Di fronte al rifiuto dei partigiani locali di rivelare dove si trovasse Mussolini, che essi volevano portare a Como, Audisio ricorse ad un espediente ed alle 15.15 poté partire con una Fiat 1100 nera verso Giulino di Mezzegra, distante 21 km, più a sud, dove - in frazione Bonzanigo l'ex dittatore era tenuto prigioniero presso una famiglia di Antifascisti (casa De Maria).
Da questo punto la narrazione diviene meno chiara. Audisio fornì ben quattro differenti versioni della sua presentazione a Mussolini. Ciò provocò in seguito polemiche e dubbi sul modo in cui effettivamente si svolsero i fatti.
Molti testimoni affermarono che, usciti di casa, Audisio, i partigiani e Mussolini si recarono alla macchina. Nessuno dei testimoni ha però saputo dire con esattezza quanti fossero i partigiani di scorta e come fossero vestiti i prigionieri. Mussolini e la Petacci, saliti dietro, furono fatti scendere in un angusto vialetto (via XXIV Maggio) davanti a Villa Belmonte, un'elegante residenza della zona situata in posizione assai riparata. Quello che lì accadde è ancora oggi poco chiaro, complici le diverse versioni di Valerio così come di Guido e Michele Moretti, gli altri 2 partigiani che si trovavano con lui in quel momento (l'autista dell'auto e l'altro passeggero sul sedile anteriore).
Sempre secondo Valerio, apprestandosi ad eseguire la fucilazione, gli si incepparono il mitra e la pistola. Per sparare a Mussolini usò perciò l'arma di Moretti, il quale però, dopo la morte di Audisio, affermò di essere stato lui a sparare perché le armi di Audisio non funzionavano. Inoltre Guido affermò d'aver sparato il colpo di grazia, che però venne rivendicato anche da un altro partigiano azzanese.
Alle 17 il colonnello Valerio ritornò a Dongo per fucilare gli altri gerarchi, dopo aver lasciato alle 16.20 Guido e Moretti di guardia ai corpi davanti a Villa Belmonte. Alle 17.48, a Dongo, tutti i 16 gerarchi erano morti.
Caricati i loro cadaveri su un camion, Valerio partì per Milano verso le 20, passando a recuperare anche i corpi di Mussolini e della Petacci. Durante il viaggio di ritorno la colonna si imbatté in altri partigiani e in posti di blocco alleati che le diedero qualche problema. Tuttavia alle 3.40 di domenica 29 aprile giunse in Piazzale Loreto.
Ad oggi nessuno sa con esattezza chi diede l'ordine di portare i cadaveri in quel piazzale. Il CLN emise in giornata un messaggio di deplorazione firmato da tutte le sue componenti, inclusa la comunista. Nessuno, tuttavia, si assunse la responsabilità di aver ordinato il trasporto delle salme in quel luogo. Solo Valerio disse più tardi che l'ordine era partito dal comando generale, ma non venne creduto. Audisio decise di scaricare i cadaveri nel lato della piazza in cui il 10 agosto 1944, per rappresaglia, i tedeschi avevano fatto uccidere dai fascisti quindici partigiani. I corpi dei 15 uomini erano stati lì abbandonati in custodia a militi fascisti, che li avevano dileggiati e lasciati esposti al sole per l'intera giornata, impedendo ai familiari di raccogliere i loro resti.
Verso le 7 del mattino, mentre i partigiani lasciati di guardia alle salme dormivano, i primi passanti si accorsero dei cadaveri. Qualche ora dopo la piazza si riempì, complice un passaparola che aveva in un lampo attraversato tutta Milano. Iniziava così una vicenda che pochi anni fa è stata resa di pubblica notorietà nei suoi dettagli più scabrosi con la pubblicazione di alcuni reperti filmati girati dalle truppe americane di occupazione, che per decenni erano rimasti secretati; ne venivano confermati i resoconti già in precedenza anticipati da altri testimoni (ad esempio Indro Montanelli), ma che non erano stati creduti per la loro crudezza.
Nella piazza si udirono scariche di mitra, le prime file di folla venivano spinte verso i cadaveri calpestandoli, prendendoli a calci. Una donna sparò al cadavere di Mussolini cinque colpi di pistola per vendicare i propri cinque figli morti. Mentre sui cadaveri venivano gettati ortaggi e persone delle prime file sputavano sui corpi, a Mussolini fu messo in mano un gagliardetto fascista, fu sfilata la cintura e tolto lo stivale destro (presumibilmente i due oggetti furono presi per essere conservati come ricordo del duce) e qualcuno orinò sul cadavere della Petacci.
Al gruppo dei cadaveri venne aggiunto anche il corpo senza vita del gerarca Achille Starace, appena catturato nei dintorni, mentre ignaro di tutto era uscito di casa in tuta da ginnastica per la quotidiana corsa, e fucilato con una raffica di mitra alla schiena. Alle 11, dopo che una squadra di Vigili del Fuoco giunta con un'autobotte aveva lavato abbondantemente i cadaveri imbrattati di sangue, sputi e ortaggi, gli stessi pompieri ne appesero cinque per i piedi, alla pensilina del distributore di carburante ESSO allo sbocco di Viale Brianza, secondo alcuni per fare in modo che tutti potessero vedere i cadaveri, secondo altri quasi a voler preservare i più odiati dall'oltraggio della folla.

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