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giovedì 4 dicembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 4 dicembre.

Il 4 dicembre 1642 il cardinale Mazzarino diventa il Segretario di Stato dell'Impero di Francia.

Giulio Mazzarino nacque a Pescina (L’Aquila) nel 1602.

Dopo gli studi presso il collegio romano dei Gesuiti, frequentò le università di Alcalá e di Madrid. Tornato in Italia, passò al servizio dei Colonna col grado di capitano (1623-1626).

Addottoratosi in utroque iure passò, durante la seconda guerra del Monferrato (1627-1631), al servizio del cardinale Antonio Barberini, legato del papa Urbano VIII, facendosi notare per la sua abilità di fine diplomatico nelle trattative tra Asburgo, Francia e duca di Savoia, concludendo la tregua di Casale e la pace di Cherasco (1631) che mise fine alle ostilità tra Francia e Savoia.

Durante queste trattative Mazzarino ebbe l’occasione di incontrare più volte il cardinale Richelieu, di cui divenne uno stretto collaboratore. Fu legato papale in Avignone (1633) e poi nunzio straordinario a Parigi. Ottenuta la cittadinanza francese (1639), passò ufficialmente al servizio di Richelieu, che lo fece nominare cardinale (1641) e lo raccomandò al re Luigi XIII come proprio successore.

Dalla morte di Richelieu, Mazzarino fu primo ministro e ascoltato consigliere di Luigi XIII, che tuttavia morì pochi mesi dopo. La reggente Anna D’Austria, non appena il Parlamento di Parigi annullò la disposizione testamentaria del marito che la poneva sotto tutela di un consiglio di reggenza, nominò suo ministro proprio il Mazzarino, al quale si disse fosse segretamente sposata, diceria già smentita da S. Vincenzo de Paoli.

Nonostante Richelieu avesse lasciato precise indicazioni di comportamento politico e gli strumenti per realizzarli, le difficoltà del Mazzarino furono notevoli. La Francia si trovò impegnata, fino al 1648, nell’ultima fase della guerra dei trent’anni e fino al 1659 nel conflitto con la sola Spagna (durante il quale Mazzarino dovette far fronte anche al tradimento del Principe di Condé passato agli spagnoli). Col trattato di Vestfalia Mazzarino ottenne il riconoscimento della annessione dei vescovati di Metz, Toul e Verdun, il possesso di gran parte dell’Alsazia e la definitiva frammentazione di una Germania devastata aperta all’influenza politica e culturale francese. Con la pace dei Pirenei ottenne invece il ridimensionamento della potenza della Spagna, privata della Cerdagne, del Rossiglione, dell’Artois e di altre piazzeforti. Grazie al matrimonio fortemente voluto da Mazzarino tra Luigi XIV e l’infante Maria Teresa, la Spagna veniva poi costretta a muoversi nell’orbita politica francese.

Sul piano interno dovette affrontare la grave crisi della Fronda (dapprima – 1648 – la cosiddetta Fronda Parlamentare, successivamente – 1650-1652 – la Fronda Principesca) che lo costrinse due volte all’esilio ma che lo vide comunque trionfare sugli oppositori grazie a un abile e accurato dosaggio dell’uso della forza e di quello delle trattative, giungendo appunto fino all’apparente cedimento e alla fuga.

Dal 1653 al 1661 l’unico serio elemento di disturbo nella politica interna fu il giansenismo. Finché la polemica tra gesuiti e giansenisti si mantenne sul piano strettamente religioso, Mazzarino si astenne dall’intervenire in modo deciso, ma dopo la pubblicazione delle anonime “Lettere Provinciali”, non appena le critiche dei giansenisti si appuntarono sull’assetto politico e sociale vigente, la reazione del cardinale divenne dura: fece condannare dalla Sorbona le Cinque Tesi, fece chiudere manu militari il convento di Port-Royal e compilare un formulario di condanna del giansenismo la cui sottoscrizione fu imposta a tutti gli ecclesiastici del regno.

Alla sua morte, avvenuta a Vincennes (Parigi) nel 1661, Mazzarino, tanto odiato e disprezzato dalla maggior parte dei francesi, lasciava al suo paese di adozione, oltre alla sua splendida biblioteca personale (divenuta poi sede della Biblioteca nazionale), la pace all’interno e all’esterno e un sovrano da lui personalmente e accuratamente formato all’arte del governo e circondato da abili collaboratori. Lasciava peraltro anche una situazione finanziaria non certo brillante, determinata, oltre che dalle spese belliche, anche dalla eccessiva disinvoltura sua e dei suoi collaboratori nella gestione del pubblico denaro.

Le sue spoglie riposano nella cappella del Collège des Quatre-Nations, a Parigi.


mercoledì 3 dicembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 3 dicembre.

Il 3 dicembre 1957 a Città del Capo, Christiaan Barnard effettua il primo trapianto di cuore al mondo.

“Era egocentrico, gran lavoratore, intelligente, ambizioso, insolente e arrogante; agiva con la convinzione che qualsiasi cosa gli altri sapessero fare, era in grado di farla anche lui. Quando scoprì che un chirurgo russo aveva trapiantato a un cane una seconda testa, andò subito nello stabulario e ripeté l’esperimento, mostrandoci con fierezza il grottesco risultato. Eppure l’intervento non serviva a nulla, se non a esibire il suo virtuosismo tecnico”. L’uomo in questione è Christiaan Barnard, il chirurgo sudafricano autore del primo trapianto cardiaco. A tracciarne questo ritratto, non proprio lusinghiero – soprattutto se si considera che fu scritto in occasione della sua morte (il 2 settembre del 2001) – fu un vecchio collega, l’endocrinologo Raymond Hoffenberg. Ma perché questa malcelata acrimonia?

In effetti Barnard, uno dei pochissimi chirurghi a essere passato alla Storia, era poco apprezzato dai compagni di lavoro. Non tanto per le capacità tecniche (indiscusse) ma piuttosto per quell’insieme di comportamenti che gli antichi Greci avrebbero definito hybris: la tracotanza di chi ritiene di poter superare qualsiasi limite, di chi persegue i propri obiettivi violando leggi, usanze e tradizioni condivise. Tanto per dirne una, quando il 3 dicembre 1967 espiantò il cuore da una giovane donna per trapiantarlo in un uomo di mezza età, Barnard era, almeno secondo le leggi di allora, un omicida. Non solo. Ai tempi della sua storica impresa non era il cardiochirurgo più quotato al mondo, né l’ospedale Groote-Schuur di Città del Capo, dove operò, era considerato la punta di diamante per i trapianti d’organo.

Nell’ambiente erano tutti convinti che il primo a cimentarsi nell’intervento sarebbe stato Norman Shumway, che alla Stanford University di Palo Alto, in California, aveva passato anni a esercitarsi sui cani per poter essere in grado di effettuare il trapianto cardiaco perfetto. Era lui il chirurgo più pronto, ma era frenato da limiti etici e legali. Per la buona riuscita di un trapianto di cuore, infatti, l’organo da utilizzare doveva essere prelevato ancora battente, ovvero da una persona tecnicamente viva.

A quei tempi, infatti, per decretare la morte di una persona si faceva riferimento al cuore: si era ufficialmente deceduti quando questo cessava di battere. Va detto però che alcune innovazioni mediche stavano minando questa convenzione. L’introduzione della respirazione artificiale (prima con il polmone d’acciaio e poi con la ventilazione artificiale), il perfezionamento del massaggio cardiaco (la compressione ritmica del torace per permettere a un cuore in arresto di riprendere a battere) e l’invenzione della defibrillazione cardiaca (una scossa di corrente alternata che interrompe le gravi aritmie) avevano portato alla nascita di una nuova disciplina che “resuscitava” persone dal destino segnato, che non a caso fu chiamata “rianimazione”.

I medici si trovarono così alle prese con una serie di casi mai visti prima. Alcuni individui colpiti da gravi lesioni cerebrali, una volta sottoposti a ventilazione meccanica, invece di morire o riprendersi restavano in uno stato di completa incoscienza: non avevano segni di attività nervosa, non rispondevano a stimoli esterni, non respiravano da soli.

Questo nuovo stato fu battezzato coma depassé, cioè “al di là del coma”, ma era evidente che si poneva un dilemma: che fare di queste persone, il cui cuore continuava a battere? La maggior parte dei medici riteneva che per loro non vi fosse possibilità di ripresa, essendo il cervello completamente danneggiato. Ma tutto era ancora incerto e la decisione di “staccare la spina” restava discrezione dei medici.

Insomma: l’idea di asportare un cuore ancora battente, anche se da una persona che la scienza medica indicava come morta, per impiantarlo in un altro corpo, significava andare oltre un limite. E non era una passeggiata. Ecco perché nessuno osava fare il primo passo, temendo polemiche soprattutto nel caso (tutt’altro che improbabile) di un fallimento. Serviva una persona disposta a correre quei rischi e Barnard cascava a fagiolo: non era dilaniato da scrupoli morali e scalpitava per mettere a frutto le competenze che riteneva di possedere.

L’intervento non era in realtà così difficile, specie se paragonato per esempio alle operazioni per riparare alcune deformità congenite del cuore. Così, a differenza dei colleghi, Barnard non tergiversò e individuò subito il candidato ideale per il trapianto: un droghiere di mezza età, Louis Washkansky, che oltre a un cuore completamente spompato aveva reni e fegato pressoché fuori uso. Praticamente un caso disperato. Proprio quello che ci voleva per un intervento ad alto rischio, mai sperimentato prima, ma che certamente avrebbe fatto clamore.

L’opportunità si presentò la notte fra il 2 e il 3 dicembre 1967, quando fu ricoverata una giovane donna in coma irreversibile dopo un incidente d’auto. Barnard prese l’iniziativa senza avvisare nessuno (per questo non esistono foto dell’intervento) e solo dopo 5 ore di sala operatoria telefonò al direttore dell’ospedale comunicandogli l’esito: intervento riuscito. Poco importa se Washkansky morì appena 18 giorni dopo di polmonite: il primo trapianto di cuore fu presentato dai media come un grande trionfo della medicina e Barnard, forte del suo innato carisma, non solo non venne mai accusato di omicidio, ma divenne in breve una star internazionale (a differenza di altri colleghi che prima di lui avevano trapiantato altri organi, quali rene e fegato, che colpivano molto meno l’immaginazione del pubblico).

Ancora una volta il chirurgo sudafricano non perse tempo. Appurato che l’operazione era tecnicamente riuscita, il 2 gennaio 1968 tentò un secondo intervento. A ricevere un cuore nuovo di zecca fu stavolta Philip Blaiberg, dentista 59enne che sopravvisse per più di un anno e mezzo: di fatto fu questo successo a dare il via libera ai trapianti di cuore. Ancora una volta con la complicità dei media, stregati dal fascino di quella sfida con la morte. A dispetto delle cronache del tempo (che parlarono di rinascita, indugiando persino sul recupero del vigore sessuale) la salute di Blaiberg era gravemente compromessa. Una fotografia ripresa da tutti i giornali, in cui il secondo trapiantato sguazza allegro tra le onde del mare, ha retroscena poco noti: testimoni riferiscono che Blaiberg fu trasportato in acqua di peso, giusto il tempo di scattare la foto, e poi subito strappato ai flutti.

Solo recentemente, decenni dopo l’intervento, si sono scatenate le polemiche su quella sfida più etica che medica: secondo Hoffenberg, Barnard partì troppo presto, “prima del segnale di via”, quando lo stato delle conoscenze era ancora limitato. Sull’onda dell’entusiasmo e presi dallo spirito di emulazione molti chirurghi si cimentarono in trapianti di cuore (un centinaio solo nel primo anno) per i quali non erano tecnicamente preparati e senza aver risolto il problema cruciale della possibile crisi di rigetto del nuovo organo (la ciclosporina fu introdotta solo nel 1971).

Ma un merito a Barnard bisogna riconoscerlo. Fu grazie a quell’atto di “tracotanza” che la comunità medica si decise in tutta fretta ad adottare criteri comuni per la definizione di “morte cerebrale”. Nel 1968, infatti, un comitato di esperti dell’Università di Harvard pubblicò su Jama (una delle più autorevoli riviste mediche) il rapporto Una definizione del coma irreversibile, poi diventato la base di tutte le legislazioni nazionali, in cui si stabiliva quando è lecito interrompere la rianimazione perché il paziente è clinicamente morto. Nel rapporto veniva definita la “sindrome della morte cerebrale”: il soggetto non dà segni di recettività, non presenta alcun movimento, non respira spontaneamente, non conserva riflessi e l’elettroencefalogramma è piatto. Criteri che si mantengono quasi invariati ancora oggi.

Barnard, dal canto suo, divenuto sui giornali “il profeta dei cuori” e “il mago dei trapianti”, smise invece di operare (anche per via di una brutta artrite reumatoide), dedicandosi alle conferenze e soprattutto alla bella vita e alle belle donne. Come la seconda moglie Barbara Zoellner, ricchissima e appena diciannovenne quando la sposò nel 1970; o come la terza, Karin Setzkorn, di una cinquantina d’anni più giovane di lui. Non si sa invece chi fosse al suo fianco quando, nel 2001, si spense a Cipro ai bordi di una piscina. Lo uccise un attacco d’asma. Ma tutti i giornali scrissero che aveva avuto un infarto al cuore.

martedì 2 dicembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


Buongiorno, oggi è il 2 dicembre.

Il 2 dicembre 1852 Napoleone III diventa imperatore dei francesi.

Carlo Luigi Napoleone nasce a Parigi il 20 aprile 1808, anno nefasto per lo zio Napoleone I in quanto segna l'inizio, con la campagna di Spagna, dello sgretolamento dell'impero.

Terzogenito di Luigi Bonaparte, re d'Olanda, e di Ortensia di Beauharnais, ancora bambino viene portato in Svizzera dalla madre in conseguenza della caduta dell'impero. Qui frequenta ambienti vicini alla Rivoluzione francese e ne assimila le idee.

Nel 1830 è a Roma dove aderisce alla carboneria antipontificia, ma un'efficace repressione lo costringe alla fuga; si sposta in Romagna, dove replica l'esperienza carbonara ed è nuovamente obbligato a partire; nel 1831 ripara in Francia, ma anche da qui è costretto ad allontanarsi perché Luigi Filippo, "il re borghese" ed antibonapartista non tollera i suoi espliciti programmi di ascesa al trono (aspirazione peraltro legittimata dalla morte di suo fratello maggiore); nel 1836 viene mandato in esilio negli Stati Uniti, ma l'anno successivo rientra in Europa e riprende i suoi piani di conquista del potere.

Nel 1840 viene arrestato e condannato al carcere a vita, ma nel 1846 riesce ad evadere. Si trova quindi in libertà quando scoppia la rivoluzione del febbraio 1848, ed egli può, dall'Inghilterra dove si era rifugiato, precipitarsi nuovamente in Francia. Grazie al nuovo regime repubblicano, può candidarsi ed essere eletto nell'Assemblea Costituente che, nel dicembre dello stesso anno, lo elegge Presidente della Repubblica Francese.

Fra le prime iniziative intraprese, nel nuovo ruolo, vi è quella della restaurazione pontificia a Roma, dove era stata proclamata la Repubblica, a guida del triumvirato Mazzini, Armellini e Saffi: l'intervento francese consente al papa Pio IX di rientrare a Roma, il 12 aprile 1850, ed a Napoleone III di assicurarsi per circa vent'anni una notevole influenza sulla politica romana.

Trascorsi appena tre anni dall'insediamento, ricalcando le orme dello zio, nel 1851 dichiara decaduta l'Assemblea e, sostenuto dal clero, dalla borghesia e dalle forze armate, si avvia alla proclamazione dell'impero assumendo il 2 dicembre 1852 il nome di Napoleone III. Del grande avo, che egli considera un mito, replica lo stile di governo: limitazioni alla libertà di stampa e stato di polizia. Quanto alla politica estera, ne coltiva le stesse mire imperialistiche. L'anno successivo sposa Eugenia Maria di Montijo.

Nel 1856, con Gran Bretagna e Piemonte, prende parte alla spedizione in Crimea - tesa a contrastare le mire espansionistiche della Russia verso la Turchia - che si conclude con la pace di Parigi, nel 1858. Nello stesso anno, coinvolto da Cavour, sottoscrive con lo stesso i patti di Plombieres, in virtù dei quali prende parte alla seconda guerra d'indipendenza contro l'Austria: nei reali intendimenti di Napoleone III vi è quello di riprendere potere in Italia, ma la piega che ad un certo punto rischia di assumere il conflitto, con la sua estensione ad altre potenze europee, lo induce a promuovere un armistizio con l'Austria che ponga fine alla guerra. L'accordo viene stipulato a Villafranca, l'11 luglio del 1859.

Nel 1861, in seguito ad una posizione ostile assunta dal Messico nei confronti di Francia, Spagna ed Inghilterra, si determina, dietro sua iniziativa, un'alleanza fra le tre potenze che invadono con successo lo Stato d'oltreoceano e vi insediano un sovrano amico (soprattutto della Francia): Massimiliano d'Asburgo, con il titolo di imperatore del Messico. Ma l'intervento degli Stati Uniti e l'esplicita richiesta alla Francia di ritiro delle truppe - richiesta prontamente accolta - determina la caduta di Massimiliano ed un epilogo drammatico dell'intera vicenda.

Intanto in Europa va crescendo l'influenza diplomatica e la potenza militare della Prussia: un dissidio sorto intorno al trono di Spagna è causa - o pretesto - per un nuovo conflitto. Napoleone III, con un'opposizione interna sempre più vasta ed agguerrita, ed un calo notevole del suo prestigio all'estero, dichiara guerra alla Prussia, sancendo in questo modo il proprio definitivo declino.

Sconfitto più volte, imprigionato dopo una disastrosa disfatta a Sedan, nella battaglia del 2 settembre 1870, viene incarcerato nel castello di Wilhelmshohe. Da qui, dopo la proclamazione della nuova Repubblica e la dichiarazione di decadenza della dinastia napoleonica, Napoleone III è lasciato partire per l'Inghilterra, a Chislehurst, dove muore il 9 gennaio 1873, all'età di 65 anni.

In origine fu sepolto a Chislehurst, presso la chiesa cattolica di Santa Maria; tuttavia, dopo che suo figlio, ufficiale dell'esercito del Regno Unito, morì nel 1879 combattendo contro gli Zulu in Sud Africa, Eugenia decise di costruire un monastero e una cappella per le spoglie del marito e del figlio: così, nel 1888, Napoleone e il figlio furono definitivamente traslati nella cripta imperiale nell'Abbazia di San Michele a Farnborough, nella contea dello Hampshire nel Regno Unito.

Tra una guerra e l'altra è riuscito a dare, probabilmente, il meglio di sé in una produzione letteraria di un certo interesse: la sua opera più importante è una "Vita di Giulio Cesare". Fra i tanti avversari politici ne annovera uno del calibro di Victor Hugo che gli dedica la definizione, rimasta celebre, di "Napoleon le petit". 

lunedì 1 dicembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il primo dicembre.

Il primo dicembre 1923 crolla la diga del Gleno provocando il disastro della Valle di Scalve.

Messa in ombra dalla più grave (per dimensioni e numero di morti) tragedia del Vajont, la catastrofe della Diga del Gleno rimane ancora oggi un capitolo di storia delle Alpi sconosciuto alla maggioranza della popolazione, nonostante nei primi decenni del '900 abbia portato morte e distruzione in un'intera vallata.

Lo sbarramento realizzato sul torrente Gleno, realizzato con l'intento di produrre energia elettrica, il 1 Dicembre del 1923 crollò, riversando il suo bacino idrico e creando una tragedia che sconvolse letteralmente la Valle di Scalve in provincia di Bergamo e la Val Camonica in provincia di Brescia.

I ruderi della diga sono ancora là, a oltre 1500 metri in alta val di Scalve, al cospetto delle vette orobiche più elevate, ma la loro storia è nota solamente alla popolazione locale e a pochi altri.

Il forte sviluppo industriale delle aree prealpine centrali, ed in particolare della Val Camonica, dove si era sviluppata un'intensa attività metallurgica, richiedeva una sempre maggior quantità di energia elettrica, fatto che spinse le autorità dell'epoca a cercare località alpine adatte alla costruzione di invasi. Già all'inizio del secolo era nata l'idea di uno sbarramento sul torrente Povo (affidata nel 1907 all'ingegner Tosana di Brescia) in Val di Scalve; il progetto rimase incompiuto per anni, anche a causa della Grande Guerra, fino a vedere la realizzazione nel 1919, quando la ditta brianzola Galeazzo Viganò di Triuggio, iniziò la realizzazione della struttura, completata poi nel 1923.

Il progetto iniziale di una diga a gravità (alta 52 metri e lunga ben 260 metri) è stato poi sostituito in corso d'opera da una struttura ad archi multipli, dando origine a non pochi problemi tecnici, poiché i due diversi progetti furono in un certo qual modo "mischiati" senza prendere le dovute precauzioni architettoniche. Era anche l'unico esempio al mondo di diga mista a gravità ed archi multipli

L'invaso così costruito aveva una capienza di circa sei milioni di metri cubi d'acqua, una dimensione notevole per il periodo.

Dopo diversi il giorni di piogge, durante il mese di ottobre il bacino si riempì per la prima volta, vennero anche valutate delle considerevoli perdite di acqua. Le perdite continuarono fino a quando avvenne il vero e proprio disastro: la notte del 1 dicembre 1923 parte della murata della diga crollò, creando uno squarcio di 80 metri e riversando l'intero contenuto dell'invaso in Val di Scalve.

In un istante furono spazzati via dalla furia dell'acqua gli abitati di Bueggio e Dezzo di Azzone In Valle di Scalve; rapidamente l'onda folle si abbatté poi sul comune di Darfo, Boario Terme e Gorzone in Val Camonica, per poi concludere la sua folle corsa nel Lago d'Iseo, a oltre 20 chilometri di distanza.

La massa d'acqua del bacino del Gleno lasciò nella valle 356 vittime riconosciute, oltre ad un numero non meglio definito di dispersi.

Per decenni si discusse su quali possano essere state le cause di un tale disastro: alla fine, ciò di cui siamo certi è che la struttura non rispondeva ai requisiti architettonici necessari a garantirne la sicurezza, gli archi erano appoggiati malamente alla precedente struttura a gravità, la murata era costellata di crepe e non erano mai stati eseguiti i controlli e le manutenzioni necessarie.

I responsabili della ditta Viganò, costruttrice della Diga del Gleno, furono processati dal regime fascista e condannati a pochi anni di reclusione per imperizia, lasciando senza colpevoli uno dei disastri più devastanti che hanno caratterizzato le valli alpine italiane nel secolo scorso.

domenica 30 novembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 30 novembre.

Il 30 novembre 1786 il Granducato di Toscana, primo Stato al mondo, abolisce la pena di morte nel suo territorio.

La pena di morte viola il diritto alla vita. La Dichiarazione universale dei diritti umani e altri trattati regionali e internazionali, che chiedono l’abolizione della pena di morte, riconoscono il diritto alla vita. Un riconoscimento sostenuto anche dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite che, nel 2007 e nel 2008, ha adottato una risoluzione che chiede, fra l’altro, una moratoria sulle esecuzioni, in vista della completa abolizione della pena di morte.

La pena di morte è una punizione crudele e disumana. La sofferenza fisica causata dall’azione di uccidere un essere umano non può essere quantificata, né può esserlo la sofferenza mentale causata dalla previsione della morte che verrà per mano dello Stato. Sebbene le autorità dei paesi mantenitori continuino a cercare procedure sempre più efficaci per eseguire una condanna a morte, è chiaro che non potrà mai esistere un metodo umano per uccidere.

La pena di morte non ha valore deterrente. Nessuno studio ha mai dimostrato che la pena di morte sia un deterrente più efficace di altre punizioni.

La pena di morte è un omicidio premeditato dello stato. Eseguendo una condanna a morte, lo stato commette un omicidio e dimostra la stessa prontezza del criminale nell’uso della violenza fisica. Alcuni studi hanno non solo dimostrato come il tasso di omicidi sia più alto negli stati che applicano la pena di morte rispetto a quelli dove questa pratica è stata abolita, ma anche come questo aumenti rapidamente dopo le esecuzioni.

La pena di morte è sinonimo di discriminazione e repressione. Nelle mani di regimi autoritari, la pena capitale è uno strumento di minaccia e repressione che riduce al silenzio gli oppositori politici.

La pena di morte non dà necessariamente conforto ai familiari della vittima. Lontana dal mitigare il dolore, la lunghezza del processo non fa altro che prolungare la sofferenza dei familiari della vittima, fino alla conclusione dove una vita viene presa per un’altra vita, in una forma di vendetta legalizzata.

La pena di morte può uccidere un innocente. Una difesa legale inadeguata, le false testimonianze e le irregolarità commesse da polizia e accusa sono tra i principali fattori che determinano la condanna a morte di un innocente. In alcuni paesi, il segreto di Stato che circonda la pena capitale impedisce una corretta valutazione di questo fenomeno.

La pena di morte infligge sofferenza ai familiari dei condannati. La pena capitale ha effetto sulla famiglia, sugli amici e su tutti coloro che sono vicini al condannato a morte.

La pena di morte nega qualsiasi possibilità di riabilitazione. Qualunque sia il metodo scelto per uccidere il condannato, l’uso della pena di morte nega la possibilità di riabilitazione, di riconciliazione e respinge l’umanità della persona che ha commesso un crimine.

La pena di morte non rispetta i valori di tutta l’umanità. I diritti umani sono universali, indivisibili e interdipendenti. Derivano da molte e diverse tradizioni nel mondo e sono riconosciuti da tutti i membri delle Nazioni Unite come standard verso i quali hanno accettato di conformarsi. È sull’insieme di questi valori che Amnesty International basa la sua opposizione alla pena di morte.

Ovunque la pena di morte sia applicata, il rischio di mettere a morte persone innocenti non può essere eliminato. Dal 1973 negli Usa sono stati rilasciati 167 prigionieri dopo che erano emerse nuove prove della loro innocenza. Alcuni di questi sono arrivati a un passo dall’esecuzione dopo aver trascorso molti anni nel braccio della morte.

In ognuno di questi casi sono emerse caratteristiche simili e ricorrenti: indagini poco accurate da parte della polizia, assistenza legale inadeguata, utilizzo di testimoni non affidabili e di prove o confessioni poco attendibili. Ma non solo. Negli Usa, purtroppo, sono diversi i casi di prigionieri messi a morte nonostante l’esistenza di molti dubbi sulla loro colpevolezza.

Il problema della potenziale esecuzione di un innocente non è solo limitato agli Usa.

Nel 2019, almeno undici persone sono state prosciolte in due paesi: Zambia e Stati Uniti d’America. Nel 2018, erano state prosciolte almeno 8 persone in 4 paesi tra cui Egitto, Kuwait, Malawi e Stati Uniti d’America.

Cheng Hsing-tse è stato prosciolto a Taiwan nel 2017 dopo sette procedimenti giudiziari e otto processi in appello. L’uomo ha trascorso 14 anni in stato di detenzione, di cui 10 nel braccio della morte. Nel 2016, Zang Aiyun è stato assolto dall’accusa di omicidio in Cina dopo 11 anni e 9 mesi di prigione. In Vietnam, Tran Van Them, 80 anni, è stato prosciolto da ogni accusa e liberato dal braccio della morte dopo 43 anni.

Sono 28 i paesi che mantengono in vigore la pena di morte, ma nei quali le esecuzioni non hanno luogo da almeno dieci anni, oppure hanno stabilito una prassi o assunto un impegno a livello internazionale a non eseguire condanne a morte: Algeria, Brunei Darussalam, Camerun, Corea del Sud, Eritrea, Eswatini (ex Swaziland), Federazione Russa , Ghana, Grenada, Kenya, Laos, Liberia, Malawi, Maldive, Mali, Mauritania, Marocco/Sahara occidentale, Myanmar, Niger, Papua Nuova Guinea, Repubblica Centrafricana, Sierra Leone, Sri Lanka, Tagikistan, Tanzania, Tonga, Tunisia, Zambia.

Sono 56 i paesi che mantengono in vigore la pena di morte (tra parentesi il numero delle esecuzioni note effettuate nel 2019; col punto interrogativo si indica il Paese in cui tale dato è secretato (come nel caso della Cina) o non disponibile: Afghanistan, Antigua e Barbuda, Arabia Saudita (184), Bahamas, Bahrain (3), Bangladesh (2), Barbados, Belize, Bielorussia (2), Botswana (1), Ciad, Cina (?), Comore, Corea del Nord (?), Cuba, Dominica, Egitto (32), Emirati Arabi Uniti, Etiopia, Gambia, Giamaica, Giappone (3), Giordania, Guinea Equatoriale, Guyana, India, Indonesia, Iran (251), Iraq (100), Kuwait, Lesotho, Libano, Libia, Malesia, Nigeria, Oman, Palestina (Stato di), Pakistan (14), Qatar, Repubblica Democratica del Congo, Singapore (4), Siria (?), Somalia (12), Saint Kitts e Nevis, Saint Lucia, Saint Vincent e Grenadine, Stati Uniti d’America (22), Sudan (1), Sudan del Sud (11+), Thailandia, Taiwan, Trinidad e Tobago, Uganda, Vietnam (?), Yemen (7), Zimbabwe.

Come parte del suo impegno per difendere i diritti umani, l’Unione europea è il più grande donatore nella lotta contro la pena di morte nel mondo. Tutti i paesi europei hanno abolito la pena di morte in linea con la Convenzione europea dei diritti dell'uomo.

L’UE combatte la pena di morte in molti modi. Ad esempio vieta il commercio di merci che potrebbero essere utilizzate per la pena di morte e utilizza le politiche commerciali per incoraggiare il rispetto dei diritti dell’uomo. Inoltre supporta le organizzazioni della società civile nei paesi che ancora applicano la pena di morte, facendo un lavoro di documentazione e di sensibilizzazione.

L’Unione europea, come osservatore permanente dell’ONU, sostiene convintamente tutte le azioni che pongono fine alla pena di morte dove è ancora praticata.

Il Parlamento europeo adotta le risoluzioni e ospita i dibattiti che condannano le azioni dei paesi che ancora utilizzano la pena capitale. Una risoluzione del 2015 sulla pena di morte condannava il suo uso per sopprimere l’opposizione, oppure per ragioni di credo religioso, omosessualità e adulterio.

sabato 29 novembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 29 novembre.

Il 29 novembre 1899 viene fondato il FC Barcelona.

Il Fútbol Club Barcelona, noto internazionalmente anche come Barça o in Italia come Barcellona, è una società polisportiva spagnola fondata a Barcellona nel 1899.

Il 29 novembre 1899, Joan Gamper fondò il Football Club Barcelona ( Barça). Gamper scelse il famoso blu e il chiaretto come colori della squadra perché sono i colori del cantone svizzero da cui proviene. Il mito è nato: Kubala, Suárez, Cruyff, Maradona, Ronaldo e Ronaldinho, tra molti altri, hanno giocato per questo club. Nel corso del XX secolo, il "Barça" è diventato un simbolo di Barcellona, un simbolo che rappresenta l'identità catalana come nazione. Ecco perché si dice che il "Barça" sia più di un Club.

Nell'ufficio di Solé Gym, il 29 novembre 1899, Gamper incontrò Gualteri Wild, Lluís d'Ossó, Bartomeu Terrados, Otto Kunzle, Otto Maier, Enric Ducal, Pere Cabot, Carles Pujol, Josep Llobet, John Parsons e William Parsons. Undici sportivi si sono riuniti per fondare una squadra di calcio. Gualteri Wild è stato nominato presidente. Il primo incontro disputato fu alla pista ciclabile di Bonanova e fu giocato contro un gruppo di espatriati inglesi che vivevano a Barcellona. Gli inglesi vinsero 1-0. Il 14 marzo 1909, il Club inaugurò il suo 1° terreno di proprietà a c/Indústria, con una capacità di 6.000 persone. In quel momento il Barcellona FC ottenne le prime vittorie: Il Campionato Catalano: 1909-10, 1910-11, 1912-13, 1915-16, 1918-19 1919-20, 1920-21, 1921-22 e i Campionati di Spagna: 1909-10, 1911-12, 1912-13, 1919-20 e 1921-22.

Il terreno di Les Corts (noto anche come "La Cattedrale del Calcio") fu inaugurato il 20 maggio 1922. Quello stadio aveva una capacità iniziale di 30.000 spettatori, ma in seguito raddoppiata a 60.000. Nel 1924 il Club contava già 12.207 soci e un gran numero di tifosi pose le basi dell'attuale massa sociale. Durante la stagione 1928-1929, il Barça vinse brillantemente la prima edizione del titolo della Lega Nazionale spagnola e completò, quindi, un periodo pieno di titoli.

Joan Gamper morì il 30 luglio 1930. Il decennio che stava per iniziare ebbe un inizio fatale e il Club entrò in un periodo di declino: crisi istituzionale, molti soci abbandonarono il Club, cattivi risultati sportivi e la pressione politica dei sostenitori di Franco. La guerra civile del 1936 ebbe conseguenze disastrose per il Barcellona. Josep Suñol, Presidente del Club, fu assassinato dai soldati di Franco vicino a Guadalajara. Tuttavia, il Barça si mantenne in vita e nel 1936 decise di andare in tournée in Messico e negli Stati Uniti, fatto che avrebbe aiutato il Club a risolvere i problemi finanziari. Nel marzo 1938 i fascisti fecero esplodere una bomba sul Club Sociale del Barcellona e causarono gravi danni. Nel 1939 le truppe di Franco crearono molti problemi al Club perché era già diventato un simbolo per il popolo catalano. Anche il numero dei soci scese, arrivando a 3.486.

Durante gli anni '40, il Barça si è gradualmente ripreso nonostante le difficoltà interne. Nel giugno 1943, la scandalosa partita contro il Madrid nel campo di Chamartín vide i giocatori del Barça minacciati dall'arbitro e dalla polizia e Piñeyro, fascista convinto, ma onestamente disgustato dal trattamento che la sua squadra aveva ricevuto, si dimise dalla presidenza del Club (che aveva tenuto dal 1940). I tempi migliori sarebbero venuti in seguito. Il Barça vinse i titoli di Lega Nazionale 1944-45, 1947-48 e 1948-49 e la Coppa Latina 1949, competizione che precedette il titolo di Campione d'Europa, il primo successo internazionale del Barcellona. Era il tempo di César, Basora, Velasco, Curta, i fratelli Gonzalvo, Seguer, Biosca o Ramallets. Il Barça ha festeggiato il suo 50° anniversario raggiungendo il numero di membri di 24.893.

Ladislao Kubala arrivò a Barcellona nel giugno 1950 e fece diventare il FC Barcelona una squadra imbattibile grazie alla sua magica linea di attaccanti: Basora, César, Kubala, Moreno e Manchón. Tra il 1951 e il 1953, il Barça vinse tutte le competizioni in programma (Campionati di Spagna 1951-52 e 1952-53 e Coppe di Spagna 1950-51, 1951-52 e 1952-53). Da quel periodo d'oro, è importante sottolineare la stagione 1951-52, in cui hanno ottenuto le Cinque Coppe: Campionato di Spagna, Coppa di Spagna, Coppa Latina Eva Duarte e trofei Martini Rossi.

Kubala era una figura troppo grande per Les Corts e ben presto Francesc Miró-Sans promosse la costruzione dello stadio Camp Nou, che venne inaugurato il 24 settembre 1957. Il nuovo stadio aveva una capacità di 90.000 posti.

Il Barça vinse i Campionati di Spagna 1958-59 e 1959-60, e le Coppe delle Fiere 1957-1958 e 1959-60, allenate da Helenio Herrera con giocatori eccellenti come Kocsis, Czibor, Evaristo, Kubala, Eulogio Martínez, Suárez, Villaverde, Olivella, Gensana, Segarra, Gràcia, Vergés e Tejada. Gli anni '60 sono stati un periodo di crisi (hanno vinto le Coppe di Spagna 1963 e 1968 e solo la Coppa delle Fiere 1966). Ma è allora che nasce la frase "più di un club". Il Barça era oltre il livello sportivo: il Club e i suoi colori divennero un modo per difendere l'identità nazionale catalana.

Nel 1973, la firma dell'olandese Johan Cruyff ha dato il tocco finale a una linea d'oro in avanti di Rexach, Asensi, Cruyff, Sotil e Marcial, che ha guidato la squadra vincente del campionato 1973-74. In concomitanza con il 75° anniversario del Club, i soci erano ormai 69.566, il che lo rese il club sportivo più potente del mondo. Joan Miró fece un poster commemorativo di quell'evento.

Nel 1978, Josep Lluís Núñez divenne Presidente del FC Barcelona. Il club iniziò allora un notevole periodo di espansione sociale e finanziaria. Il numero di soci raggiunse i 100.000 e furono fondati molti club di tifosi. Il FC Barcelona stava diventando l'entità sportiva più importante del mondo. Il Barça fu anche dotato di strutture sportive emblematiche: l'espansione del Camp Nou (con una capacità di oltre 100.000 spettatori), la costruzione del Miniestadi, il Palau Blaugrana, e così via.

L'epoca di Núñez costituisce senza dubbio il momento sportivo più brillante della storia del Barça: La Coppa delle Coppe di Basilea, la Lega spagnola 1984-85, con Terry Venables, il Dream Team (1990-1994) con Johan Cruyff (quattro campionati spagnoli consecutivi, la Coppa delle Coppe; la SuperCoppa, la Coppa di Spagna e la Supercoppa spagnola, e la Coppa dei Campioni europei allo stadio di Wembley). Poi sono arrivati Bobby Robson, che ha vinto la Coppa delle Coppe, la Coppa di Spagna e la Supercoppa di Spagna nella stagione 1996-97 e i titoli consecutivi di Louis van Gaal nel 1997-98 e nel 1998-99, quando la squadra ha vinto il doble per la prima volta in 39 anni.

Il Barcellona è attualmente un'entità sportiva che comprende le sezioni di basket, pallamano, hockey, atletismo, hockey su ghiaccio, pattinaggio artistico, calcio indoor, rugby, baseball, pallavolo e calcio femminile. La squadra di calcio è l'unica ad essersi qualificata per le competizioni europee ogni anno dalla sua inaugurazione nel 1955. Oggi ci sono 105.706 membri e 1.508 club di tifosi.

 

venerdì 28 novembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 28 novembre.

Il 28 novembre 1970, appena sbarcato a Manila, Papa Paolo VI subisce un attentato.

Era boliviano e pittore Benjamin Mendoza y Amor, l’uomo che, nella storia recente del papato, è il primo ad aver tentato di uccidere un Papa. Il fatto accadde il 28 novembre 1970 all’aeroporto di Manila nelle Filippine quasi al termine dello storico viaggio di Paolo VI in Estremo Oriente e in Oceania.

Papa Montini era appena sceso dall’aereo quando un uomo nella folla, vestito da prete e levando una croce che fungeva da lasciapassare si avvicinò al pontefice, estrasse un “kriss” (il tipico pugnale malese a lama serpeggiante) e tentò di colpire il Papa al petto. L’immediato e provvidenziale intervento di Mons. Macchi, il celebrato segretario particolare di Papa Paolo VI, che spinse con violenza l’attentatore tra le braccia della polizia, fece sì che solo una leggera ferita fu portata al braccio del Papa. Paolo VI si rese ben conto che, al contrario di quanto poi riportato nel comunicato della Santa Sede, non era stato solo urtato dall’attentatore e, comunque, decise di continuare secondo i dettami del cerimoniale e perciò, inni nazionali e discorsi, come previsto. A chi gli chiedeva come stava, quasi per scoraggiare domande e premure, rispondeva: nulla, non è accaduto nulla. Più tardi, raggiunta la sede della nunziatura, ci si accorse che la pugnalata sferratagli da Mendoza lo aveva raggiunto in prossimità del cuore e, nonostante le immediate cure, Papa Montini accuserà febbre nei giorni successivi all’attentato. In tanti proposero al Pontefice di sospendere il viaggio, ma lui non volle sentire ragioni e minimizzando l’accaduto disse che “tutto deve proseguire come da programma”.

Ma chi era “lo squilibrato” Benjamin Mendoza y Amor? Come detto era un pittore di origini boliviane e non propriamente di scarso successo. Organizzava mostre dei suoi dipinti un po’ dappertutto e prima di arrivare nelle Filippine aveva esposto anche in Unione Sovietica. Quando fu arrestato si scoprì che sulle lame del pugnale era incisa la frase: ” proiettili, superstizioni, bandiere, regni, spazzatura e merda eserciti“. Mendoza fu condannato a una pena detentiva breve e fu rilasciato su cauzione. Mentre era in prigione chiese a un gallerista di esporgli alcuni dipinti per una mostra. I quadri furono tutti venduti e con parte del ricavato fu pagata la cauzione. Forse, alla ricerca di una maggiore popolarità deve attribuirsi l’attentato a Paolo VI. Infatti, tornato in libertà ricominciò a girare il mondo e, qualche anno dopo, la polizia lo fermò a Roma perché privo di permesso di soggiorno, ma forse il vero motivo era quello del suo nome conosciuto come l’attentatore del Papa, e lo accompagnò all’aeroporto per metterlo su un volo diretto a Rio de Janeiro.

Mendoza dalla scaletta di imbarco griderà: ”Arrivederci al prossimo papa che verrà a Manila”. 

L'attentatore è mancato nel 2004.

 

giovedì 27 novembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 27 novembre.

Il 27 novembre 2005 il Tevere esondò in Umbria e Lazio.

Alla fine del mese di novembre del 2005 si verificò nell'Italia centrale un'importante piena del fiume Tevere. I danni furono contenuti grazie alla gestione della piena, all'utilizzo degli sbarramenti artificiali (come la diga di Corbara) ed al continuo monitoraggio. Il fiume comunque esondò in diverse aree, in Umbria e nel Lazio. Il 27 novembre 2005 il Tevere raggiunse il suo picco di portata a Roma, facendo segnare una delle altezze idrometriche più alte degli ultimi decenni.

All’idrometro di Ripetta, situato a poca distanza da Castel Sant'Angelo, venne raggiunta l’altezza di 12 metri, che non veniva toccata da circa vent'anni. L'evento fu molto seguito dai romani, che si recarono sugli argini dei fiumi per assistere al passaggio della piena. Del resto, una delle cose che più colpisce del Tevere, uno dei fiumi più lunghi e con maggior portata d'Italia, è proprio la sua capacità di aumentare enormemente le sue dimensioni nei mesi di piogge, rispetto all'estate. Il fiume, che quando è in magra può scendere anche sotto i 5 metri di altezza a Ripetta e lascia libere le banchine, su cui passano pedoni e ciclisti, in quell'occasione si presentava davvero trasformato. Questo succede a fasi alterne quasi ogni anno, anche se piene così importanti si verificano meno frequentemente.

La piena del 2005 tenne Roma con il fiato sospeso, anche se in realtà non venne mai raggiunto il livello di guardia: la piena fu ordinaria (si parla di piena straordinaria solo quando il livello va sopra i 13 metri a Ripetta). Durante l’ultima esondazione del Tevere a Roma, avvenuta nel dicembre 1937, il livello era stato di 16,84 metri a Ripetta, ben superiore.

Gli effetti della piena furono comunque importanti: specie nell’area della foce, a Fiumicino, vennero evacuate molte abitazioni a rischio. Inoltre, un barcone-discoteca ormeggiato nel centro di Roma affondò. Un antipasto di quanto sarebbe accaduto tre anni dopo nella piena del 2008, con il disastro dei barconi trascinati dalla piena e finiti contro il Ponte Sant’Angelo.

Le piene del 2008, 2012 e 2014 sono state più importanti, superando in certi casi il livello dei 13 metri a Ripetta. In quel caso, fino a 16 metri, si parla di piene straordinarie. Da molti decenni però le piene del Tevere non si spingono fino a questi livelli di guardia, anche grazie al controllo esercitato a monte dalle dighe di Corbara, Alviano, Castel Giubileo, che vengono gestite in modo tale da ridurre al minimo l’impatto delle piene.

mercoledì 26 novembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 26 novembre.

Il 26 novembre 2018 la sonda spaziale Insight atterra su Marte.

Marte non è solo roccia, sabbia e distese sconfinate di nulla: è un pianeta vivo, con venti, terremoti e uno strano campo magnetico. È quello che emerge dagli studi sul Pianeta Rosso portati a termine dagli scienziati della NASA con l'aiuto della missione Insight, dal nome della sonda lanciata il 25 maggio 2018 e giunta su Marte il 26 novembre dello stesso anno. I risultati di oltre 12 mesi di osservazioni sono stati pubblicati in 6 articoli apparsi su Nature e Nature Geoscience.

La missione Insight è la prima che la NASA dedica allo studio del sottosuolo marziano. Tra i vari strumenti di cui è dotata la sonda ci sono infatti un sismometro, un anemometro per misurare la velocità del vento, un barometro, un sensore di campi magnetici e un dispositivo che permette di misurare la temperatura sotto la superficie del pianeta. Cuore della missione è l'esperimento SEIS - Seismic Experiment for Interior Structure, che ha permesso ai ricercatori di ascoltare "la voce di Marte". Il pianeta è infatti scosso da numerosi terremoti che si propagano nel sottosuolo marziano per migliaia di chilometri.

L'analisi delle onde sismiche e della loro struttura permette ai ricercatori di studiare nel dettaglio la composizione del sottosuolo del pianeta e di formulare nuove ipotesi sulla sua formazione e sulla sua storia. Nei primi 12 mesi di osservazione la sonda ha registrato 450 terremoti, il più forte dei quali di magnitudo 4.0, quindi non abbastanza intenso da raggiungere la parte più interna del sottosuolo marziano.

Gli scienziati stanno ora aspettando il Big One, un sisma abbastanza intenso da propagarsi nella parte inferiore del mantello, nel cuore di Marte, e quindi in grado di rivelare qualche segreto.

Marte non ha placche tettoniche simile a quelle terrestri, ma ha una intensa attività vulcanica concentrata in alcune regioni. Almeno due dei terremoti registrati dai ricercatori hanno avuto origine in una di queste aree, la Cerberus Fossae, dove sono ben visibili grossi massi che sono scivolati giù dai pendii più scoscesi.

In questa regione sono anche presenti canali lunghi oltre 1000 km scavati da antiche inondazioni, e che negli ultimi 10 milioni di anni - un battito di ciglia, geologicamente parlando - sono stati riempiti dalla lava fuoriuscita dai vulcani. Alcuni di questi fiumi di lava sono stati frantumati da terremoti piuttosto recenti, meno di due milioni di anni fa.

Marte oggi non ha campo magnetico. Ma lo ha avuto in passato: le rocce sepolte 60 metri sotto la superficie del pianeta riportano tracce di questo antico magnetismo. Il magnetometro di Insight ha però misurato alcune stranezze: il magnetismo di superficie, indotto dalle rocce sepolte nel sottosuolo, cambia di intensità tra il giorno e la notte, con alcune pulsazioni attorni alla mezzanotte marziana.

Gli scienziati hanno formulato diverse teorie sul perché questo accada: la più attendibile mette in correlazione queste variazioni di campo magnetico con il vento solare che interagisce con l'atmosfera del pianeta. Insight è dotata di due apparati radio: il primo viene utilizzato per comunicare dati e osservazioni con la Terra mentre il secondo, chiamato Rotation and Interior Structure Experiment, ha l'obiettivo di registrare eventuali scostamenti nella rotazione del pianeta. L'analisi di questi dati permetterà ai ricercatori di determinare se il centro del pianeta è liquido o solido. Un cuore liquido genererà infatti uno scostamento maggiore rispetto a quello generato da un cuore fatto di materiale solido. Le osservazioni dureranno un anno marziano, pari a circa due anni terrestri.

Marte sembra un luogo piuttosto ventoso: i sensori di Insight misurano costantemente velocità e direzione del vento e pressione atmosferica. I dati hanno registrato numerosi mulinelli e piccoli vortici di sabbia sollevati dal vento che, smuovendo gli strati di terreno più superficiali,  offrono ai ricercatori la possibilità di studiare la composizione.

martedì 25 novembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 25 novembre.

Il 25 novembre 1947 i "10 di hollywood" vengono messi nella lista nera degli Studios.

La storia dei 10 di Hollywood è una storia che abbiamo troppo spesso dimenticato ed in questo modo abbiamo dimenticato il coraggio di 10 uomini amanti della libertà.

Questa storia ha inizio negli Stati Uniti d’America, a quei tempi considerati come la Patria della libertà, un paese che negli anni bui del nazi-fascismo era diventata la seconda Patria di molti registi della scuola tedesca di cinematografia in fuga da Hitler.

Questa storia si svolge più precisamente nel mondo di Hollywood, un mondo che negli anni caldi dell’alleanza fra USA ed URSS ( 1942-1944) era stato “incaricato” di produrre film spiccatamente filo-sovietici come “Mission to Moscow” diretto da Curtiz ,in cui il regista dipinge un’immagine positiva di Stalin , e “Fuoco ad Oriente”, in cui viene elogiato il sistema dei Kolchoz ucraini e la resistenza sovietica al nazismo.

Questa storia inizia nel 1947 anno in cui l’HUAC, la commissione per le attività antiamericane istituita nel 1938, comincia la sua guerra nei confronti di tutti coloro che, nel mondo del cinema, si sono distinti per un impegno politico e sociale ed ad un’adesione al partito comunista statunitense.

Questa storia ha 10 eroi, 10 persone vicine, in un modo o nell’altro, al partito comunista statunitense, 10 uomini di cinema che, appellandosi alla libertà di poter esprimere le proprie idee politiche, si rifiutarono di rispondere agli interrogatori dell’HUAC concernenti la loro vicinanza politica con il partito comunista.

Questa storia è stata una tragedia per questi amanti della libertà che si ritrovarono per anni esclusi dal mondo della cinematografia, controllati dalla polizia e dai servizi segreti ed additati come nemici della nazione dai media; questi 10 eroi non furono le uniche vittime dell’isteria anticomunista perché altre decine e decine di persone furono inserite in apposite liste di proscrizione ed ostracizzate dal mondo del cinema: come dimenticarsi di una delle più grandi star del cinema mondiale, Charlie Chaplin, il quale fu allontanato dalla cinematografia statunitense nel ’52?

Molti attori e registi per non fare una brutta fine decisero di trasformarsi in delatori e di accusare i propri colleghi di simpatie marxiste.

Questa storia va inserita nel periodo definito del “maccartismo”, periodo caratterizzato da una spietata caccia ai comunisti che arrivò all’obbligo, da parte dei dipendenti statali, di prestare un “giuramento anticomunista” per poter continuare a lavorare; questo giuramento fu esteso anche ad alcune università, come l’università californiana, dove i docenti si trovarono nella stessa situazione in cui si erano trovati i colleghi italiani durante gli anni del fascismo.

A causa di questa politica, resa sistematica da McCarthy, negli anni ’50 diecimila lavoratori furono licenziati per sospetto comunismo, scienziati democratici e pacifisti del calibro di Tolman e di Einstein furono messi sotto stretta sorveglianza ed i professori poco inclini ai giuramenti politici furono allontanati dalle università e dalle scuola di tutti i gradi e livelli.

lunedì 24 novembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 24 novembre.

Il 24 novembre 1951 debutta a Broadway la commedia Gigi, la cui protagonista è una quasi sconosciuta Audrey Hepburn.

Audrey Kathleen Ruston (nome cambiato poi in Edda Van Heemstra durante la guerra) nasce il 4 maggio 1929 a Bruxelles da padre banchiere inglese e da madre baronessa olandese; di famiglia agiata, frequenta la scuola di ballo, sognando di diventare come quella grande danzatrice che risponde al nome di Margot Fonteyn. Negli anni della guerra deve a lungo soffrire la fame, e si dice che la sua struttura fisica, così snella e flessuosa, si sia in fondo determinata quando la ragazza dovette cibarsi solo di povere cose (narra la leggenda che per un periodo lei e la sua famiglia non trovarono di meglio per cibarsi che bulbi di tulipano).

La prima persona che la nota è la scrittrice - allora ottantenne - Colette (un mostro sacro della cultura del Novecento), in vacanza a Montecarlo, che la vuole come protagonista della sua commedia teatrale "Gigi", tratta da un suo romanzo. In seguito, a ventidue anni, agli albori della carriera, ottiene un ruolo di principessa birichina nel film "Vacanze Romane" di William Wyler, che le porta anche un Oscar come miglior attrice protagonista.

Poi nel 1954 arriva "Sabrina" (di Billy Wilder, con Humphrey Bogart), uno dei film più belli che oggi la storia del cinema ricordi, che la lancia nell'Olimpo delle star. Nel ruolo dell'omonima protagonista Audrey Hepburn risulta più bella ed elegante che mai, ma soprattutto dotata di una vena di ingenuità e di freschezza che la rendono unica.

La bellezza eterea di Audrey Hepburn non è l'unico elemento che la consacra regina di Hollywood. Alle spalle vi è anche un'indiscutibile bravura, tale da venir richiesta da tutti i maggiori registi del tempo. Gira così "Arianna", "Colazione da Tiffany" (con George Peppard), "My fair lady", "Verdi dimore", "Guerra e pace", "Come rubare un milione di dollari e vivere felici", "Storia di una monaca", "Robin e Marian"; e, ancora, "Due per la strada", "Cenerentola a Parigi" (con Fred Astaire) e tanti altri.

Nel 1954 sposa Mel Ferrer che gli darà il suo primo figlio, Sean, mentre nel 1969, a causa della relazione clandestina con il medico italiano Andrea Dotti nascerà Luca, il secondo figlio. Divorziata da Ferrer, troverà nel 1981, finalmente, il compagno della sua vita, Robert Wolders, ex-marito di Merle Oberon.

Ritiratasi dalle scene, si è dedicata attivamente negli ultimi anni di vita al volontariato, tanto da divenire ambasciatrice UNICEF.

Audrey Hepburn muore di cancro al colon a 64 anni, il giorno 20 gennaio 1993, presso Tolochenaz, paesino svizzero vicino Losanna dove risiedeva e dove venne sepolta.

Alle esequie, oltre ai figli e a Wolders, erano presenti gli ex-mariti Mel Ferrer e Andrea Dotti, il grande amico Hubert de Givenchy, rappresentanti dell'UNICEF e gli attori e amici Alain Delon e Roger Moore. A officiare il funerale fu chiamato il sacerdote Maurice Eindiguer che, trentanove anni prima, aveva sposato la Hepburn e Ferrer.

Lo stesso anno della sua morte, il figlio Sean fondò l'Audrey Hepburn Children's Fund per favorire la scolarizzazione nei Paesi africani.

domenica 23 novembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 23 novembre.

Il 23 novembre 1925 due carbonari, Angelo Targhini e Leonida Montanari, vengono ghigliottinati a Roma presso la Porta del Popolo.

L'alone di mistero che circonda le attività della carboneria affonda le sue radici nella vaghezza stessa delle sue origini. Secondo alcuni studiosi rimontano addirittura all'XI secolo. Lo storico Giuseppe Ricciardi ha scritto che "credesi fondatore di essa un Teobaldo, detto poi Santo [...]. Nacque in Francia Teobaldo nel 1017 nella città di Provins. 

Fattosi prete in Italia, si ritrasse, indi a poco, in Svezia, provincia germanica, ove dicesi nata la setta, alla quale, morto Teobaldo, non vennero meno le forze". Ma con quali intenti e propositi non è mai stato ben chiarito. Altri studiosi hanno indagato le origini straniere della setta, trovandole di volta in volta in Germania, in Svizzera, in Spagna e in Polonia.

Ma forse la genesi più attendibile è quella francese. Notizie certe risalgono alla seconda metà del XVIII secolo, epoca in cui si ha notizia dell'esistenza di una setta dei bons cousins charbonniers (buoni cugini carbonari) che dissimulava i propri programmi politici entro associazioni di carattere mutualistico professionale (compagnonnage). Il carbonarismo prese vita da una costola della massoneria di Besançon e della Franca Contea nel periodo precedente la Rivoluzione francese. Numerosi furono infatti i massoni di questa regione che avevano sposato i valori e i principi modernizzatori del Secolo dei Lumi. Del resto, la massoneria è stata la generatrice di tutte le sette fiorite nei secoli XVIII e XIX. I massoni credevano in Dio, "Grande Architetto Dell'Universo", ma negavano i dogmi della Trinità e dell'Incarnazione ed avversano il cattolicesimo e il clero.

Volevano favorire il progresso, in ciò condividendo le idee dell'Illuminismo e i concetti di libertà e uguaglianza degli uomini, ma in un certo senso si piegarono al dispotismo napoleonico. Negli ultimi anni di vita dell'impero Napoleonico numerose logge si sciolsero e quelle che rimasero non ebbero più seria importanza politica. Molti affiliati, che non approvarono l'atteggiamento elitario e i loro intenti puramente teoretici, si erano però già divisi dalla massoneria fondando nuove sette. Alcuni adepti diedero vita a cellule segrete destinate a tradurre nella pratica i valori dell'illuminismo.

Queste cellule assumeranno nomi diversi, i Carbonari, i Filadelfi, gli Adelfi, il Palladio, la Società della Rigenerazione Europea. Spesso guidate da militari, seguiranno una linea politica costituzionalista, repubblicana e rivoluzionaria, in opposizione ai principi monarchici di diritto divino. Il programma prevedeva l'opposizione ad ogni forma di assolutismo, la lotta per l'indipendenza, la libertà dei popoli oppressi, l'affermazione di governi costituzionali e di ispirazione democratica e repubblicana.

Quando Napoleone Bonaparte fece il colpo di stato del 18 Brumaio, alcune organizzazioni segrete entrarono nell'opposizione repubblicana e antibonapartista, senza tuttavia cessare di far parte dell'amministrazione dello Stato francese.

Fu così che i bons cousins charbonniers del XVIII secolo francese si trasformarono in un attivisti repubblicani in seno ad un paese, la Francia napoleonica, in cui gli ideali della Rivoluzione francese sembravano essere stati traditi dal Consolato prima e dall'Impero poi.

Fin qui le origini. Ma come abbiamo visto sopra, tra la fine del XVIII secolo e l'inizio del XIX la carboneria era solo una delle tante società segrete diffuse in Europa. Come poi sia invece riuscita a trasformarsi, nei primi tre decenni dell'Ottocento, in uno dei primi strumenti del Risorgimento italiano è questione che merita un approfondimento a sé.

La carboneria fu portata in Italia dai soldati francesi (e per altre vie penetrò anche in Germania e Spagna), diffondendosi negli anni che vanno dal 1806 al 1812 soprattutto nell'Italia meridionale, a partire dal Napoletano, dall'Abruzzo e dalla Calabria. In seguito prese piede anche in Puglia e nel Salento, in Terra d'Otranto. Negli anni successivi fu presente un po' in tutta la penisola, collegandosi con altre società simili o assorbendole.

Ma anche sulle precise origine della carboneria italiana permangono dubbi e interpretazioni diverse. A partire dall'effettivo luogo di nascita.

C'è chi sostiene infatti che abbia avuto i natali nei monti Abruzzesi, altri sostengono invece sia sorta in Calabria.

Secondo alcuni autori nacque nel napoletano portata tra il 1809 e il 1810 da alcuni Filadelfi francesi, venuti nel Regno di Napoli come funzionari o ufficiali dell'esercito, ed incontratisi con gli oppositori del regime in nome dei princìpi giacobini. È probabile che fra i Filadelfi vi fosse Joseph Briot, ex seguace di Gracco Babeuf, il rivoluzionario della Congiura degli Eguali, amico di Buonarroti (tant'è che secondo alcuni Babeuf sarebbe il vero padre della carboneria). Una volta organizzatisi, i carbonari napoletani strinsero relazioni con gli inglesi - che in tutta Europa appoggiavano qualsiasi setta manifestasse la benché minima contrarietà verso Napoleone - per ricevere aiuti economici nella lotta contro il dominio di Murat e della Francia. Il primo tentativo insurrezionale di stampo carbonaro, favorito anche dai Borboni, prese infatti piede nel 1813 nel napoletano, a Cosenza. Il tentativo fu subito circoscritto dalle truppe di Murat, che saccheggiarono la cittadina di Altilia (Cosenza), considerata il centro operativo della setta.

Secondo lo storico e patriota Carlo Botta, che visse in prima persona gli avvenimenti del primo Risorgimento, nella carboneria "entravano principalmente uomini del volgo", sarti, commercianti, contadini e operai. Ma al suo interno si potevano trovare anche ampia rappresentanza della borghesia cittadina e fondiaria, esponenti delle professioni liberali una quota consistente di nobili vicini alle idee riformatrici e anche alcuni membri del basso clero.

La struttura della carboneria era regolata dall'alto e il comportamento degli affiliati era ispirato alla massima segretezza. E per soddisfare fino in fondo le esigenze di riservatezza, si faceva ricorso a nomi ed espressioni tipici di uno dei più antichi mestieri del popolo, diffuso, e non è un caso, proprio nell'Italia centromeridionale: il carbonaro, cioè colui che trasforma la legna in carbone, un mestiere che si praticava nei boschi e che comportava continui spostamenti.

L'organizzazione era diretta dal centro, cioè dalla cosiddetta "grande vendita", di cui faceva parte un ristretto numero di membri. Da qui gli ordini venivano trasmessi alle "vendite locali", composte da una ventina di affiliati, i cosiddetti "cugini". I "cugini" entravano nella carboneria con il grado più basso, quello di "apprendisti". Dopo un periodo di prova, entravano a far parte del grado superiore, diventando "maestri" e poi "gran maestri".

Nella carboneria, così come in gran parte delle logge e delle sette segrete, vigeva una sorta di gradualismo: i principi di massima erano noti, ma le finalità pratiche venivano rivelate progressivamente, mano a mano che gli adepti venivano ritenuti degni di essere iniziati ai segreti.

Non a caso, nel grado più basso di affiliazione venivano genericamente professati principi umanitari, vagamente democratici e di stampo religioso e moraleggiante. Diventando "maestri" si accedeva invece a dibattiti intorno ad argomenti politici: il sistema costituzionale, l'indipendenza nazionale, le libertà individuali ecc. Ma era solo con il grado di "gran maestro" che si accedeva finalmente al ristretto club dei rivoluzionari di professione: la lotta per la repubblica, per l'uguaglianza sociale e la spartizione dei grandi latifondi.

Minimo comune denominatore era la conquista di una costituzione. Ma poi esistevano notevoli differenza tra la carboneria dell'Italia settentrionale, quella dell'Italia centrale e quella del Mezzogiorno. Del resto, nei primi decenni dell'Ottocento la coscienza nazionale era ancora acerba: chi aspirava all'indipendenza dell'Italia, chi a quella della propria regione, chi voleva la monarchia costituzionale e chi la repubblica. Per i carbonari del Lombardo-Veneto, ad esempio, era fondamentale la questione dell'indipendenza dal dominio austriaco.

Per i carbonari sudditi dello Stato Pontificio, invece, non c'era un dominio straniero da abbattere, ma un governo ecclesiastico da sostituire con un'autorità laica (anche se, occorre aggiungere, quando l'obiettivo si spostava verso la meta finale dell'unità del Paese, l'opposizione carbonara allo Stato Pontificio diventava tutt'uno con l'opposizione al papato e gli aspetti dottrinari del suo potere). Nel Regno delle Due Sicilie i "cugini" chiedevano la fine dell'assolutismo borbonico, ma nell'isola molti aspiravano a uno stato separato e autonomo.

Differenze sul piano ideologico esistevano poi in merito alla religione. A differenza della massoneria la carboneria non era atea, sosteneva anzi di trarre ispirazione dall'esempio di Gesù Cristo. Tuttavia la realtà delle cose era decisamente più articolata.

"I carbonari mostrano una fede sincera nella religione di Gesù quale si trova nell'Evangelo, e liberata di tutti gli elementi estranei che i teologi vi hanno introdotto in diciotto secoli. Essi sono a una volta riformatori politici e religiosi". Così recitava il credo carbonaro. Ma è evidente come in questa dichiarazione ci fosse in realtà un invito a tornare ai principi cristiani delle origini (fede, umiltà e povertà) contro il magistero papale e il suo dominio temporale. Un ritorno, se vogliamo, alle eresie medievali, intese come recupero di una purezza di fede priva di intermediazioni di sorta. Una critica all'autorità dogmatica del Papa, quindi, ma non il proposito di creare un'alternativa al cristianesimo.

Non deve quindi stupire più di tanto se Papa Pio VII nel 1821, in una lettera apostolica, condannò aspramente la "società volgarmente detta de' Carbonari, la cui mira principale è dare ad ognuno una gran licenza di formarsi la Religione a capriccio, a seconda delle proprie opinioni…; di profanare e lordare la passione di Gesù Cristo con certe nefaste loro cerimonie; di spezzare i sacramenti della Chiesa che vogliono sostituirne de' nuovi da loro scelleratamente inventati e, di rovesciare questa Sede Apostolica, contro la quale essi hanno un odio particolarissimo e, non fan che macchinare quanto vi è di più pestifero e di pernicioso… Nostri predecessori… condannarono e proibirono la Società de' Liberi Muratori, ossia Francs-Maçons, delle quali la Società deve stimarsi un rampollo o per certo un'imitazione questa Società de' Carbonari". E per i carbonari, e contro chiunque nutrisse simpatia verso di loro, era pronta la scomunica.

Concludeva infatti Pio VII: "abbiamo stabilito e determinato di condannare e proibire la predetta Società de' Carbonari o, comunque, altro nome si chiami, i di lei ceti, uomini, congreghe, logge, combriccole… comandiamo a tutti i fedeli cristiani che niuno ardisca intraprendere, formare o propagandare la predetta Società de' Carbonari, fomentarla, ricettarla, occultarla o, nelle case o edifici o, altrove, non ardisca a farsi ascrivere o aggregarsi a lei, intervenire o essere presente alle di lei unioni, darle consiglio, aiuto o favore in palese o, in segreto, sotto pena di scomunica, ipso facto… comandiamo oltre a ciò a tutti sotto pena di scomunica, che siano tenuti a denunciare a' Vescovi tutti coloro che sapranno aver dato il nome a questa Società, o di essersi imbrattati in alcuni di quei delitti, de' quali si è fatta menzione".

Da una serie di lettere carbonare saltate fuori dagli archivi pontifici sembra però che alcuni timori del Papa non fossero del tutto infondati. Nell'epistolario di due carbonari si legge infatti che l'obiettivo dell'unità d'Italia era in realtà uno specchietto per le allodole. "L'indipendenza e l'unità d'Italia - scriveva un carbonaro a un altro affiliato - sono chimere. Pure queste chimere producono un certo effetto sopra le masse e sopra la bollente gioventù. Noi sappiamo quello che valgono questi principii. Sono palloni vuoti […] Il nostro scopo finale è quello di Voltaire e della rivoluzione francese: cioè l'annichilimento completo del cattolicismo e perfino dell'idea cristiana", nel nome di una rigenerazione universale. Del resto, che tra i carbonari esistessero posizioni le più disparate lo abbiamo già visto sopra, a proposito dei vaghi obiettivi politico immediati. Allo stesso modo, quindi, possono aver convissuto al suo interno generiche spinte per un rinnovamento religioso nel solco di una tradizione cattolica originaria, così come spinte più marcatamente anticlericali, se non addirittura - come si evince dalla lettera tra i due carbonari - ostilmente atee o di ispirazione neopagane.

Ma quale fu il ruolo effettivo della carboneria nella prima stagione risorgimentale, quella cioè immediatamente successiva alla fine del dominio napoleonico?

Fu proprio tra il 1814 il 1815 che la setta iniziò a diffondersi in molte regioni, sovrapponendosi o integrandosi ad altri associazioni cospirative, come la Guelfia nel Lazio e nelle Marche (territori allora compresi nello Stato Pontificio), i Federati in Piemonte e in Lombardia.

E fu nelle Marche, a Macerata, che nel giugno del 1817 si ebbe il secondo tentativo carbonaro insurrezionale, dopo quello del 1813 contro Murat. Ne risultò un fallimento totale, cui seguì una dura repressione.

Il carbonarismo diede il meglio di sé nel meridione, dove si fece interprete del malcontento della popolazione verso l'assolutismo borbonico. Dalle prime manifestazioni di intolleranza verso i governanti ritornati sul trono con la restaurazione, si passò a vere e proprie insurrezioni e ammutinamenti dentro gli eserciti. Nel luglio 1820, a Nola, due ufficiali carbonari appartenenti a un reggimento della cavalleria reale borbonica, Michele Morelli e Giuseppe Silvati si ammutinarono marciando su Avellino.

A loro si unirono anche i carbonari salernitani. Ferdinando I di Borbone, mandò l'esercito a reprimere la rivolta, ma nelle stesse file dell'esercito avvennero molte defezioni che andarono così a rafforzare i rivoltosi. Si aggiunse anche il generale Guglielmo Pepe, che con il suo esercito appoggiò gli ammutinati di Salerno, mettendosi poi a capo della rivolta. Pepe chiese al sovrano la concessione della Costituzione di Spagna, che fu inizialmente accordata ma subito dopo rinnegata. Anche in questo caso il risultato ultimo fu una dura repressione, culminata in una serie di arresti e nella condanna a morte per tutti i militari che avevano preso parte alla rivoluzione.

La diaspora dei carbonari sfuggiti alla repressione contribuì a diffondere il sentimento dell'unità nazionale, a costruire una primitiva idea di Risorgimento, anche se pur sempre a livello di élites e non di popolo. L'eco della rivolta raggiunse rapidamente il Lombardo-Veneto, i ducati di Modena, di Parma, la Romagna, il Piemonte, creando così nuovi legami tra le varie società segrete. In Piemonte la rivolta di Guglielmo Pepe trovò una rielaborazione nell'insurrezione del marzo 1821 ad Alessandria, dove i dragoni del re, comandati da Isidoro Palma, occuparono la cittadella proclamando la Costituzione di Spagna. Ma le ambiguità e le reticenze della corte sabauda, temporaneamente retta da Carlo Alberto, e la successiva repressione di Carlo Felice stroncarono anche questa iniziativa.

Ma quanti erano di fatto i carbonari in Italia? Alcuni autori hanno avanzato una cifra attorno ai seicentomila affiliati nel periodo di maggior sviluppo, cioè tra il 1819 e il 1821. Ma il dato è in sé scarsamente verificabile, anche perché con il termine "carbonaro" allora si era soliti indicare tutti gli scontenti della situazione politica-amministrativa dell'Italia: anti-austriaci, liberali sabaudi, anti-papisti, anti-borbonici, rivoluzionari moderati ed estremisti. C'era, oltre alla borghesia, anche un certo numero di preti "progressisti" ostili alla Santa Alleanza.

Quel che è certo, però, è che, nonostante i numeri, quando la parola passò ai tribunali per i cospiratori non ci fu via d'uscita. Sulle gazzette dell'epoca i carbonari venivano descritti come assassini capaci di ogni nefandezza. Sui fogli cattolici, gli affiliati delle sette segrete venivano paragonati a Satana. Nel Lombardo-Veneto fu ordinato ai parroci di leggere in chiesa un invito ai fedeli a denunciare eventuali sospetti: come premio un sacco di sale per le informazioni, 500 corone per la cattura di un ribelle vivo o morto. A Rovigo, la polizia austriaca aveva già fatto una serie di arresti nel 1818, cui erano seguite diverse condanne ed esecuzioni. A Milano i provvedimenti contro i "sobillatori" portarono all'arresto di Silvio Pellico e Pietro Maroncelli, entrambi vicini al cenacolo carbonaro che si riuniva attorno al Conciliatore di Confalonieri. A Modena, nel settembre del 1823 Francesco IV fece giustiziare nove cospiratori.

Intanto Pio VII aveva comminato la scomunica nei confronti della carboneria, rivestendo così il reato politico di insurrezione anche di un aspetto religioso. Il suo successore, Leone XII, infierì duramente sui carbonari. In Romagna tra il 1824 e il 1826, quindi anche a Roma, dove nel 1825 furono giustiziati due affiliati, Targhini e Montanari.

Un'inattesa ripresa delle cospirazioni carbonare si ebbe nel giugno 1828 nel Regno delle Due Sicilie. Nel Cilento e nel salernitano scoppiarono nuove rivolte. Nella cittadina di Bosco è un ecclesiastico, Antonio De Luca, a mettersi alla guida dell'insurrezione, chiedendo la proclamazione della Costituzione rivoluzionaria francese del 1791. Nello stesso tempo scoppiano rivolte appoggiati da soldati ammutinati nella zona di Palinuro. Ma ancora una volta gli insorti vennero sconfitti dalle truppe fedeli al Re, che rasero al suolo alcuni paesi ritenuti epicentro dell'attività carbonara. I vertici insurrezionali furono tutti arrestati e fucilati.

Il canto del cigno della carboneria si può fissare idealmente nelle insurrezioni del 1831 nello Stato Pontificio e nei ducati di Modena e Parma, nate sulla scia della rivoluzione parigina del 1830. Ma ormai era evidente che l'improvvisazione, l'ambito ristretto a pochi iniziati in cui si muoveva l'organizzazione, così come la mancanza di un vertice capace di collegare fra loro le diverse iniziative regionali secondo criteri unitari e organici, costituivano limiti insormontabili. Fu così che la carboneria andò incontro a una rapida disgregazione. Visse ancora per qualche tempo in Francia, dove si rese responsabile di una rivolta a Lione, nel 1834. Ma in Italia, quasi due decenni di insurrezioni fallimentari richiedevano una svolta.

"Chi pensava allora all'Italia, alla sua indipendenza, alla sua rigenerazione? Meno poche eccezioni, la schiuma sopraffina della canaglia, che si riuniva misteriosamente nelle vendite dei Carbonari", così Massimo D'Azeglio, esponente moderato del primo risorgimento, in polemica con i democratici e i rivoluzionari. A partire dal 1831 i singoli affiliati confluirono quindi verso altre strutture, guidate però da esponenti borghesi non improvvisati (Confalonieri, Mazzini) e portatori di ideali costituzionali moderati.

Lo storico E. J. Hobsbawm ha scorto nei movimenti carbonari nel meridione d'Italia, una manifestazione di primitiva rivolta sociale del popolo diseredato, che così acquisì una sua coscienza storica. Carboneria quindi come strumento di democratizzazione ed emancipazione, pur tra le mille contraddizioni che abbiamo cercato di esporre sopra. Ma carboneria anche come idealismo democratico punteggiato di aspirazioni umanitarie e socialistico-rivoluzionarie. O, ancora, come confuso laboratorio costituzionale oscillante tra la monarchia costituzionale e le aspirazioni repubblicane. Tutte antinomie la cui soluzione non poteva trovarsi in un'unica organizzazione misteriosa e dai rituali segreti. Un'organizzazione che però è passata alla storia come il brodo primordiale, il big-bang dal quale si sarebbe poi sviluppato il Risorgimento con tutte le sue inevase contraddizioni.

sabato 22 novembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 22 novembre.

Il 22 novembre 1968 per la prima volta va in onda in televisione un bacio interrazziale sulla TV americana, grazie a una puntata del telefilm Star Trek.

In un episodio della serie Star Trek il capitano James T Kirk e l’ufficiale capo dell’Enterprise, Nihota Uhura, si baciano non senza qualche pressione: il telefilm era alla sua terza stagione, gli ascolti stentavano a decollare e la troupe temeva la cancellazione imminente. I dirigenti della rete erano preoccupati che la scena del bacio potesse sconvolgere i telespettatori degli Stati del Sud. Nichelle Nichols – alias Nihota Uhura – racconterà che i produttori inizialmente volevano girare due diverse versioni del famigerato bacio tra lei e William Shatner – il capitano Kirk – di cui una con le labbra serrate per evitare ogni polemica.

Ma alla fine la decisione fu presa e la scena fu girata come previsto, e con un occhio verso gli Emmy la rete annunciò su Hollywood Reporter che il primo bacio interrazziale della TV americana stava per andare in onda.

Nel Vecchio Continente fu la britannica BBC a mandare in onda il primo bacio televisivo interrazziale della storia. A detenere il primato era Emergency Ward 10 che nel 1964 trasmetteva il bacio tra Joan Hooley e John White. Solo recentemente la medical soap è stata spodestata, nel 2015 il British Film Institute ha scoperto negli archivi il film tv You in Your Small Corner, in cui i due protagonisti Elizabeth MacLennan e Lloyd Reckord vivono un amore contrastato lottando contro le contraddizioni razziste della società dell’epoca, e precorrendo i tempi in una scena sfiorano le loro labbra.

Mandato in onda un’unica volta nel giugno del 1962, del film per la Tv se ne erano poi perse completamente le tracce.

Tra curiosità e indignazione sul grande schermo già nel 1896 andava in scena il primo bacio del cinema. Meno di diciotto secondi che avevano fatto gridare allo scandalo, all’epoca le effusioni in pubblico erano perseguibili, ma consegneranno alla storia i due interpreti John C. Rice e May Irwin. Saltando nel tempo a piè pari, nel 2014 i baci fanno ancora notizia, a calamitare l’attenzione del mondo del web è il cortometraggio sperimentale First Kiss, della film maker Tatia Pilieva; per chi non l’ha visto, riprendeva 10 coppie di sconosciuti che si baciavano sotto l’occhio della telecamera per la prima volta, che ha raggiunto in poche ore oltre un milione di visualizzazioni. Scopriamo con una carrellata alcuni tra i baci più famosi della storia.

Ingrid Bergman e Cary Grant nella pellicola Notorious, del 1946, scandalizzeranno Hollywood, complice il leggendario regista Alfred Hitchcock, con il bacio più lungo e intenso del cinema.

Greta Garbo e John Gilbert ne La carne e il diavolo del 1927 inauguravano il primo bacio a bocca aperta della storia del cinema e lo scandalo fu enorme.

Nel 1933, Greta Garbo - ancora lei - interpreta la sovrana di Svezia ne La regina Cristina di Rouben Mamoulian e in una scena schiocca uno dei primi baci lesbo del cinema all'attrice Elizabeth Young.

È entrato nella storia come il V-Day kiss, il bacio appassionato tra un marinaio e una crocerossina alla fine della seconda guerra mondiale a Times Square, a New York, il 4 agosto 1945.

Tra le immagini che hanno scritto la storia, quella del bacio che suggella l’intesa tra Leonid Breznev e Erich Honecker ha poche rivali.

Del 1968 è il primo bacio tra specie diverse. Charlton Heston bacia Kim Hunter ne Il pianeta delle scimmie.

Baci bollenti sul set del film Getaway tra Ali MacGraw e Steve McQueen, che in men che non si dica lasceranno i rispettivi coniugi per vivere uno degli amori più tormentati e turbolenti di Hollywood.

Nella vita reale Carlo e Diana rompono la tradizione in mondovisione scambiandosi, per primi nella storia della monarchia britannica, un bacio sul balcone di Buckingham Palace.

Nel 1996 Roberto Benigni stravolge tutti i presenti baciando sulla bocca Walter Veltroni alla festa dell'Ulivo.

Nell'estate del 1992 Sarah Ferguson viene colta in flagrante intimità con il miliardario texano John Bryan, che tra le molte effusioni la bacia con disinvoltura e a bordo piscina le succhia l’alluce sinistro.

Il bacio tra un prete e una suora è la campagna Benetton firmata da Oliviero Toscani nel 1991. Provocatoria e scandalosa viene subito censurata per le pressioni del Vaticano.

Fernando Aiuti, immunologo alla Sapienza di Roma, nel 1991 per dimostrare che il bacio non trasmette il virus dell'Aids, bacia la giovane donna sieropositiva Rosaria Iardino.

Vent'anni dopo, nel 2003, Maurizio Costanzo ripete il gesto in tv e bacia anche lui Rosaria Iardino.

Nel 2000 ai Golden Globe Awards, Angelina Jolie stampa un bacio sulle labbra al fratello James Haven.

Tre mesi dopo alla cerimonia degli Oscar, Angelina Jolie replica e bacia ancora una volta il fratello James Haven, tutti gridano allo scandalo.

Al festival di San Remo del 2003, suggellano con un appassionato bacio la 53a edizione, Pippo Baudo e Luciana Littizzetto.

Tra i baci indimenticabili un posto d'onore va a quello scoccato da Adrien Brody a Halle Berry dopo aver vinto l'Oscar come miglior attore per il film Il pianista.

Sempre nel 2003, Britney Spears e Madonna sorprendono la platea agli MTV Video Music Awards con un intenso e appassionato bacio.

Barak Obama è il primo presidente americano che non si trattiene dal baciare apertamente la first Lady, Michelle.

Nel 2011, per la prima volta nella storia l'onore del tradizionale bacio dopo una lunga missione di un’unità della marina Usa, va a una coppia omosessuale. E Marissa Gaeta, sottufficiale, sulla banchina bacia la compagna Citlalic Snell, anche lei sottufficiale di marina.

I thailandesi Ekkachai e Laksana con il loro bacio di 58 ore, 35 minuti e 58 secondi detengono il record del Guinness dei primati.

Nel 2002, per la prima volta il bacio tra due uomini, Jason Biggs e Seann William Scott, protagonisti di American Pie 2, è giudicato il migliore dell'anno agli MTV Movie Award.

Ne le Mine vaganti, Riccardo Scamarcio schiocca il suo primo bacio cinematografico a un uomo, Carmine Recano, e commenta: «Non è stato difficile, ho chiuso gli occhi e l'ho fatto: ma non so come la prenderanno i miei genitori pugliesi».

Il bacio tra Alex Thomas con il suo boyfriend Scott Jones nel pieno dei disordini di Vancuver nel 2011, è entrato nella storia.


venerdì 21 novembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 21 novembre.

Il 21 novembre 1902 termina la Guerra dei mille giorni in Colombia.

La guerra dei mille giorni fu una guerra civile combattuta in Colombia tra gli anni 1899 e 1902. Il motivo di base alle origini del conflitto è furono gli attriti tra liberali e conservatori, dunque fu una guerra ideologica piuttosto che regionale. Raggiunti circa 100.000 caduti, entrambe le fazioni in lotta hanno chiesto un cessate il fuoco.  

Nel 1899, la Colombia aveva già alle spalle una lunga tradizione di conflitto tra liberali e conservatori. Le questioni fondamentali riguardavano per i conservatori un forte governo centrale, il diritto di voto limitato e forti legami tra Stato e Chiesa. I liberali, d’altra parte, chiedevano governi regionali più forti, il diritto di voto universale  e una netta divisione tra Stato e Chiesa. Le due fazioni erano in contrasto dalla dissoluzione della Gran Colombia nel 1831.

Nel 1898, il conservatore Manuel Antonio Sanclemente venne eletto presidente della Colombia. I liberali si indignarono, convinti che alla base del risultato ci fossero stati brogli elettorali. Sanclemente aveva partecipato ad un rovesciamento conservatore del governo nel 1861 ed era estremamente impopolare tra i liberali. Tuttavia la salute del nuovo presidente era molto cagionevole, e ciò portò a una debole conduzione del Paese. I liberali ne approfittarono e nel 1899 scoppiò una ribellione. 

La rivolta liberale ebbe inizio nella provincia di Santander. Il primo scontro avvenne quando le forze liberali cercarono di prendere Bucaramanga nel novembre 1899, ma vennero respinti. Un mese dopo, i liberali misero a segno la loro più grande vittoria nella guerra, quando il Generale Rafael Uribe Uribe sconfisse una grande forza conservatrice nella battaglia di Peralonso. La vittoria di Peralonso diede ai liberali la speranza e la forza di proseguire il conflitto per altri due anni nonostante la inferiorità numerica.

Ma il generale liberale Vargas Santos evitò stupidamente di approfittare del vantaggio ottenuto a Peralonso, e rimase in attesa invece che proseguire la campagna. Ciò consentì alle forze conservatrici di recuperare le perdite ed inviare un nuovo esercito al contrattacco. Il nuovo scontro si ebbe nel maggio 1900 a Palonegro, sempre nel dipartimento di Santander. La battaglia fu brutale e si protrasse per due settimane. Verso la fine del combattimento il caldo opprimente e la mancanza di cure mediche resero il campo di battaglia un inferno, con i morti in decomposizione che nessuno rimuoveva. Alla fine della battaglia, con oltre 4000 morti da ambo i lati, l'esercito liberale si sfaldò. 

Fino a quel momento, il vicino Venezuela aveva sempre aiutato l'esercito liberale, con l'invio di uomini e armi. Ma la sconfitta di Palonegro convinse il presidente venezuelano Cipriano Castro a sospendere gli aiuti. Solo una visita personale del Generale Rafael Uribe Uribe lo convinse a riprendere l'invio di aiuti. 

Dopo la rotta di Palonegro, la sconfitta dei liberali era solo una questione di tempo. I loro eserciti erano a brandelli, e per il resto della guerra poterono operare solo con tattiche di guerriglia. Riuscirono ad ottenere solo alcune vittorie nella odierna Panama, tra cui una battaglia navale di piccole dimensioni che vide la cannoniera Padilla affondare la nave cilena ( “presa in prestito” dai conservatori) Lautaro nel porto di Panama City. Queste piccole vittorie tuttavia, nonostante i rinforzi provenienti dal Venezuela,  non poterono cambiare le sorti della guerra. Dopo le disastrose perdite umane a Peralonso e Palonegro, il popolo della Colombia aveva perso ogni desiderio di continuare il combattimento.

I liberali moderati cercarono a lungo di giungere ad una fine pacifica della guerra. Anche se la loro causa era persa, si rifiutarono di prendere in considerazione una resa incondizionata: volevano una rappresentanza liberale nel governo come un prezzo minimo per la fine delle ostilità. I conservatori sapevano quanto fosse debole la posizione liberale e rimasero fermi nelle loro richieste. Il trattato di Neerlandia, firmato il 24 ottobre 1902, era fondamentalmente un accordo di cessate il fuoco che includeva il disarmo di tutte le forze liberali. La guerra venne formalmente conclusa il 21 novembre 1902, quando un secondo trattato fu firmato sul ponte della nave da guerra degli Stati Uniti Wisconsin.

La guerra dei mille giorni non portò alcuna diminuzione degli attriti di lunga data tra i liberali e i conservatori, che sarebbero di nuovo andati in guerra nel 1940 nel conflitto noto come La Violencia. Anche se nominalmente fu una vittoria conservatrice, non ci furono veri vincitori, ma solo vinti. Gli sconfitti erano i cittadini colombiani: migliaia di vite andarono perdute  e il Paese venne devastato dalla guerra civile. In più, quasi una beffa, il caos provocato dalla guerra permise agli Stati Uniti di realizzare l’indipendenza di Panama, togliendo alla Colombia questo territorio prezioso per sempre.

La guerra dei mille giorni è un evento storico ben noto in Colombia, ma venne portato all’attenzione internazionale grazie ad un romanzo straordinario. Il Premio Nobel Gabriel García Márques nel suo capolavoro del 1967 "Cent’anni di solitudine" copre un secolo nella vita di una famiglia colombiana immaginaria. Uno dei più famosi personaggi di questo romanzo è il colonnello Aureliano Buendía, che lascia la piccola città di Macondo e va a combattere per anni nella guerra dei mille giorni (per la cronaca, ha combattuto per i liberali e si pensa che sia stato liberamente tratto dal personaggio di Rafael Uribe Uribe).

giovedì 20 novembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 20 novembre.

Il 20 novembre 1959 l'Assemblea generale delle Nazioni Unite approva la prima stesura della Dichiarazione dei Diritti del Fanciullo.

La dichiarazione dei diritti del fanciullo, conosciuta anche come dichiarazione Universale dei diritti del fanciullo è un documento ufficiale, la cui ultima revisione risale al 1989 e approvata dalle Nazioni Unite, nel quale si descrive quali sono i diritti che sempre devono essere riconosciuti ai bambini. Questo testo, non ha alcun valore legale per gli stati membri delle nazioni Unite, tuttavia è un impegno morale che ogni Stato ha assunto. La dichiarazione si articola in 10 principi, tanto attuali quanto ancora poco applicati. Purtroppo, nel mondo, ancora oggi a troppi bambini questi diritti sono negati. Il nostro auspicio è che con il tempo ogni Stato, governo e Nazione possa impegnare sempre più risorse affinché possa essere riconosciuto ogni diritto ad ogni singolo bambino.

La dichiarazione afferma quanto segue:

Principio primo: il fanciullo deve godere di tutti i diritti enunciati nella presente Dichiarazione. Questi diritti devono essere riconosciuti a tutti i fanciulli senza alcuna eccezione, senza distinzione e discriminazione fondata sulla razza, il colore, il sesso, la lingua la religione od opinioni politiche o di altro genere, l’origine nazionale o sociale, le condizioni economiche, la nascita, od ogni altra condizione sia che si riferisca al fanciullo stesso o alla sua famiglia.

Principio secondo: il fanciullo deve beneficiare di una speciale protezione e godere di possibilità e facilitazioni, in base alla legge e ad altri provvedimenti, in modo da essere in grado di crescere in modo sano e normale sul piano fisico intellettuale morale spirituale e sociale in condizioni di libertà e di dignità. Nell’adozione delle leggi rivolte a tal fine la considerazione determinante deve essere del fanciullo.

Principio terzo: il fanciullo ha diritto, sin dalla nascita, a un nome e una nazionalità.

Principio quarto: il fanciullo deve beneficiare della sicurezza sociale. Deve poter crescere e svilupparsi in modo sano. A tal fine devono essere assicurate, a lui e alla madre le cure mediche e le protezioni sociali adeguate, specialmente nel periodo precedente e seguente alla nascita. Il fanciullo ha diritto ad una alimentazione, ad un alloggio, a svaghi e a cure mediche adeguate.

Principio quinto: il fanciullo che si trova in una situazione di minoranza fisica, mentale o sociale ha diritto a ricevere il trattamento, l’educazione e le cure speciali di cui esso abbisogna per il suo stato o la sua condizione.

Principio sesto: il fanciullo, per lo sviluppo armonioso della sua personalità ha bisogno di amore e di comprensione. Egli deve, per quanto è possibile, crescere sotto le cure e la responsabilità dei genitori e, in ogni caso, in atmosfera d’affetto e di sicurezza materiale e morale. Salvo circostanze eccezionali, il bambino in tenera età non deve essere separato dalla madre. La società e i poteri pubblici hanno il dovere di aver cura particolare dei fanciulli senza famiglia o di quelli che non hanno sufficienti mezzi di sussistenza. È desiderabile che alle famiglie numerose siano concessi sussidi statali o altre provvidenze per il mantenimento dei figliuoli.

Principio settimo: il fanciullo ha diritto a una educazione, che, almeno a livello elementare deve essere gratuita e obbligatoria. Egli ha diritto a godere di un’educazione che contribuisca alla sua cultura generale e gli consenta, in una situazione di eguaglianza di possibilità, di sviluppare le sue facoltà, il suo giudizio personale e il suo senso di responsabilità morale e sociale, e di divenire un membro utile alla società. Il superiore interesse del fanciullo deve essere la guida di coloro che hanno la responsabilità della sua educazione e del suo orientamento; tale responsabilità incombe in primo luogo sui propri genitori. Ogni fanciullo deve avere tutte le possibilità di dedicarsi a giochi e attività ricreative che devono essere orientate a fini educativi; la società e i poteri pubblici devono fare ogni sforzo per favorire la realizzazione di tale diritto.

Principio ottavo: in tutte le circostanze, il fanciullo deve essere fra i primi a ricevere protezione e soccorso.

Principio nono: il fanciullo deve essere protetto contro ogni forma di negligenza, di crudeltà o di sfruttamento. Egli non deve essere sottoposto a nessuna forma di tratta. Il fanciullo non deve essere inserito nell’attività produttiva prima di aver raggiunto un’età minima adatta. In nessun caso deve essere costretto o autorizzato ad assumere un’occupazione o un impiego che nuocciano alla sua salute o che ostacolino il suo sviluppo fisico, mentale, o morale.

Principio decimo: il fanciullo deve essere protetto contro le pratiche che possono portare alla discriminazione razziale, alla discriminazione religiosa e ad ogni altra forma di discriminazione. Deve essere educato in uno spirito di comprensione, di tolleranza, di amicizia fra i popoli, di pace e di fratellanza universale, e nella consapevolezza che deve consacrare le sue energie e la sua intelligenza al servizio dei propri simili.

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