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venerdì 7 novembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


Buongiorno, oggi è il 7 novembre.

Il 7 novembre 1929 viene inaugurato a New York il Museum of Modern Art.

Il MoMA di New York City è più di un museo, è un tempio dell’arte moderna e si trova proprio nel centro di Manhattan, nel cuore pulsante della Grande Mela. È stato inaugurato il 7 novembre 1929, quasi dieci giorni dopo il crollo della Borsa, simbolo della Grande Crisi, con una mostra molto importante dove, per la prima volta, furono esposte le opere di Van Gogh, Gauguin, Cézanne e Seurat.

Il Museum of Modern Art nasce dall’idea di tre donne: la moglie di John D. Rockefeller Jr, Abby Aldrich Rockefeller, Lillie P. Bliss e Mary Quinn Sullivan (soprannominate The Ladies). Il museo doveva essere la casa dell’arta moderna e contemporanea americana, ma nessuno nei primi anni Trenta poteva mai immaginare che sarebbe diventato nel corso della storia uno dei musei più importanti del mondo. All’inizio la signora Rockefeller coprì il ruolo di tesoriere, mentre A. Conger Goodyear, presidente del consiglio di amministrazione della Albright Art Gallery di Buffalo, fu il presidente del MoMA e riuscì con i suoi contatti a coinvolgere due prestigiosi membri:  Paul J. Sachs, condirettore del Fogg Art Museum,  e Frank Crowninshield.

Oggi il MoMA si trova sulla 53ª strada, tra la Quinta e la Sesta Avenue, ma l’anno dell’apertura era una semplice galleria di sei stanze al dodicesimo piano del Manhattan’s Heckscher Building. Lo splendido palazzo attuale è costruito su un terreno che Rockfeller regalò a sua moglie per edificarne la sede. Il MoMA fu ufficialmente trasferito nel Time & Life Building all’interno del Rockefeller Center, nel 1937, ma l’apertura al pubblico avvenne solo il 10 maggio del 1939, a dieci anni dalla prima inaugurazione. Per quest’occasione ci fu una grande festa cui parteciparono sei mila invitati e il nastro fu tagliato virtualmente alla radio della Casa Bianca dal Presidente Roosevelt in persona.

Nei primi 10 anni di attività, il museo ebbe da subito un grande richiamo internazionale. Il 4 novembre del 1935 ci fu una personale di Van Gogh con 66 dipinti a olio e 50 disegni, provenienti dall’Olanda e correlati dalle lettere dell’artista: fu un successo incredibile. Non si era mai visto nulla di simile a New York.  La nuova sede più ampia e più capiente, permise al MoMA di allargare la sua collezione: si susseguirono numerose mostre, tra cui una retrospettiva dedicata a Picasso a cavallo tra 1939 e il 1940.

La famiglia Rockefeller s’impegno in prima linea nella promozione del museo: i figli di Abby, Nelson e David dedicarono la loro vita al MoMA, considerato quasi un bene di famiglia, tanto che ancora oggi nel consiglio di amministrazione siedono David Rockefeller Jr. e Sharon Percy Rockefeller.

La sede del MoMA è stata restaurata diverse volte e l’ultimo lavoro si è concluso alla fine del 2004, con un progetto firmato dall’architetto giapponese Yoshio Taniguchi. Gli spazi del museo sono stati quasi raddoppiati, così come il costo del biglietto d’ingresso. Oggi il MoMA è il museo più caro della città, ma visitarlo è un viaggio straordinario all’interno degli ultimi due secoli e ne vale davvero la pena. Inoltre, come moltissimi musei americani, anche il MoMA ha una fascia oraria gratuita: il venerdì dopo le 16.

Questo tempio di cultura, visitato ogni anno da 2.1 milioni di persone, conta 150 mila opere, e  22 mila film, mentre la biblioteca e gli archivi raccolgono oltre 300.000 libri e periodici e sono più di 70.000 le schede personali degli artisti.

 

giovedì 6 novembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 6 novembre.

Ogni 6 novembre in Marocco si celebra l'anniversario della marcia verde.

Il Sovrano marocchino Hassan II organizzò una oceanica marcia per liberare il Sahara occidentale dalla presenza spagnola, come aveva promesso a suo padre, all’indomani dell’Indipendenza del Marocco. Il 6 novembre 1975, all’alba, la Marcia Verde o operazione Fath venne lanciata: i 350.000 volontari di questa armata pacifica si incamminarono verso il deserto per una dimostrazione che durò sino alla metà del mese. Ritratti del monarca marocchino, che volontariamente piazzò la Marcia sotto i colori dell’Islam, bandiere e migliaia di Corani vennero distribuiti a quella marea umana in sostituzione delle armi, che incrociò le prime guarnigioni spagnole che stavano evacuando la zona. Il Sahara occidentale era infatti colonia spagnolo, ma il dittatore Francisco Franco era morente e la Spagna decise di ritirare le proprie truppe senza combattere.

Il Marocco celebra questa festività come un avvenimento storico determinante che tradusse con forza la simbiosi tra il Trono e il Popolo, uniti da legami indistruttibili verso la causa della “marocchinità” del Sahara. Tuttavia questa si tratta di una versione edulcorata della realtà che considera la vicenda come un semplice conflitto tra Marocco e Algeria, dimenticando completamente che esiste un popolo saharawi che ha sostenuto una dura guerra di liberazione, che in gran parte è stato costretto all’esilio e che, in definitiva, è la vera e unica vittima di questa vicenda.

Dopo la cacciata degli Spagnoli, infatti, il Sahara occidentale fu spartito tra il Marocco (che annesse la regione settentrionale) e la Mauritania (che annesse la parte meridionale). Il 27 febbraio 1976, il Fronte Polisario, l’organizzazione indipendentista del popolo Saharawi, sostenuta dall’Algeria e già attiva dai tempi degli Spagnoli, si ribellò all’occupazione e proclamò la Repubblica Democratica Araba Sahrawi. Il Polisario iniziò una violenta guerriglia contro gli occupanti mauritani e marocchini.

La Mauritania, a fronte dei problemi procurati dalla guerriglia, nel 1979 rinunciò alla sovranità sul detto territorio, che fu annesso dal Marocco, militarmente più forte e in grado di respingere la guerriglia.

La guerriglia contro il Marocco è terminata nel 1991 quando Marocco e Repubblica Democratica Araba Sahrawi si accordarono per il cessate il fuoco e il Consiglio di sicurezza dell’ONU istituì una missione con il compito di sorvegliare che venisse rispettato, di facilitare il rientro dei profughi e di supervisionare un referendum di autodeterminazione, previsto per il 1992. Da allora le ostilità non sono cessate e il referendum è stato continuamente rinviato per la difficoltà di accordarsi sull’ammontare complessivo della popolazione avente diritto al voto, dato l’elevato numero di profughi sahrawi e i contingenti di coloni marocchini insediatisi nel Sahara Occidentale.

Attualmente Il Marocco domina la maggior parte del territorio, mentre il Fronte Polisario controlla una zona dell’entroterra ed una sottile striscia di terra al confine meridionale con la Mauritania. Le Nazioni Unite lo considerano un "territorio non autonomo".

mercoledì 5 novembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 5 novembre.

Il 5 novembre 1941 nasce a Forest Hills Art Garfunkel.

Art Garfunkel è un cantautore statunitense noto per aver scritto e cantato canzoni celeberrime insieme all'amico Paul Simon, con il quale ha formato un duo musicale folk per molti anni. 

Paul Simon nasce a Newark, nel New Jersey, il 13 ottobre dello stesso anno.

Tutti e due hanno origini ebraiche, e tutti e due vivono in una zona residenziale della periferia di New York, Forest Hills, a pochi isolati di distanza.

Frequentano la stessa scuola elementare, ed è proprio al periodo delle elementari che può essere fatto risalire il loro primo spettacolo in pubblico. Si tratta di una recita scolastica che riprende "Alice nel Paese delle Meraviglie", di Lewis Carroll, nel quale Paul Simon veste i panni del Bianconiglio, mentre Art Garfunkel interpreta lo Stregatto.

Successivamente i due si iscrivono alla Forest Hills High School e cominciano a suonare insieme, facendosi chiamare come Tom e Jerry, riprendendo il famoso cartone animato di Hanna e Barbera. Paul sceglie lo pseudonimo di Jerry Landis, mentre Art sceglie quello di Tom Graph.

La coppia prende dichiaratamente spunto dallo stile degli Everly Brothers, e inizia a scrivere canzoni originali a partire dal 1957. Riescono a incidere il primo brano, intitolato "Hey, schoolgirl", per l'etichetta Big Records. Il singolo si rivela un discreto successo, venendo pubblicato sia come 45 giri che come 78 giri (proponendo "Dancin' Wild" sul lato B). Entra nella top 50 delle classifiche di Billboard, vendendo più o meno 100mila copie.

Con lo stesso pezzo, per altro, Simon e Garfunkel prendono parte ad "American Bandstand", festival in cui suonano anche il celebre brano di Jerry Lee Lewis "Great Balls of Fire".

Sempre con il nome d'arte di Tom e Jerry, Simon e Garfunkel incidono tra il 1958 e la prima metà degli anni Sessanta diverse altre canzoni, ma non riescono a ottenere il successo fatto registrare con il primo disco.

Nel frattempo Art Garfunkel frequenta la Columbia University, mentre Paul Simon segue i corsi del Queens College di New York. Lo stesso Simon nel 1963 ha l'occasione di suonare prima con Bob Dylan e in seguito con Carole King, tornando alla ribalta nel mondo folk e facendo ascoltare all'amico Art alcuni suoi pezzi. Tra questi vi sono "He Was My Brother" e "Bleecker Street".

L'anno successivo Simon & Garfunkel pubblicano con la Columbia Records il loro primo disco, "Wednesday Morning, 3 A.M.". L'album comprende una versione acustica di una delle loro più celebri canzoni, "The Sound of Silence". Vi sono poi altre quattro canzoni originali.

C'è, inoltre, "He Was My Brother", che viene dedicata a Andrew Goodman, un amico della coppia di cantanti, già compagno di scuola di Simon e attivista per i diritti civili, ucciso quell'anno nella Contea di Neshoba.

Il disco, tuttavia, si rivela - almeno in un primo momento - un fallimento dal punto di vista delle vendite. Anche per questo motivo la coppia si separa di nuovo.

Paul Simon va in Inghilterra e registra nella primavera del 1965 "The Paul Simon Songbook", un disco da solista. Quell'estate, intanto, le stazioni radio di Gainesville e di Cocoa Beach, in Florida, ricevono sempre più richieste per trasmettere il brano "The Sound of Silence", che così viene conosciuto sempre di più, fino a Boston.

Con Simon al di là dell'Oceano Atlantico, il produttore del disco Tom Wilson decide di aggiungere la batteria e la chitarra elettrica alla registrazione del brano originale, per poi pubblicarlo di nuovo come singolo. Il pezzo raggiunge, così, la top 40 nelle classifiche di vendita Usa, fino ad arrivare al primo posto.

Saputo dell'imprevisto successo del suo brano, Paul Simon decide di tornare in America e di ricomporre il duo con Art Garfunkel. Da questo momento in avanti la coppia realizzerà diversi dischi destinati a entrare nella storia della musica americana e mondiale.

Si comincia il 17 gennaio del 1966, con la pubblicazione di "Sounds of Silence", album che riprende il nome del brano. L'LP tra l'altro comprende diversi pezzi provenienti da "The Paul Simon Songbook". Tra questi, "Leaves That Are Green" e "I Am A Rock", questa volta rielaborati con strumenti elettrici.

L'anno seguente il duo si occupa della composizione della colonna sonora di un film di Mike Nichols, "Il laureato". Grazie a questo lavoro Paul Simon si aggiudica un Grammy Award. La canzone "Mrs. Robinson", aiuta a rendere celeberrimo il film, che vede protagonisti un giovane Dustin Hoffman e Anne Bancroft.

Nel marzo del 1968 viene dato alle stampe il disco "Bookends", che include "Mrs. Robinson" e "America".

Poco dopo Art Garfunkel comincia a lavorare come attore. I film in cui appare sono "Comma 22" (1970) e "Conoscenza carnale" (1971), entrambe diretti da Mike Nichols (lo stesso regista de Il laureato). I suoi impegni in questo campo finiscono per infastidire Paul Simon. Il legame nella coppia inizia a deteriorarsi. Le ultime esibizioni di Simon & Garfunkel insieme risalgono alla fine degli Anni Sessanta, con i concerti di Oxford, nell'Ohio, e di Carbondale, nell'Illinois.

I filmati di tali show vengono mostrati in "Songs of America". Si tratta di uno speciale televisivo contrastato dagli sponsor. Il motivo del contrasto risiede nelle posizioni assunte dal duo di cantanti, contrari alla guerra degli Stati Uniti in Vietnam.

Il 26 gennaio del 1970 viene pubblicato l'ultimo album del duo, intitolato "Bridge over Troubled Water", con il singolo omonimo che diventa uno dei 45 giri di maggior successo commerciale dell'intero decennio. Nel disco sono presenti anche "El Còndor Pasa" e "The Boxer".

Così, Simon e Garfunkel si separano, anche se nel 1972 la compilation "Greatest Hits" fatta uscire dalla casa discografica ottiene un successo notevole.

Il duo Simon & Garfunkel non si ricostituirà mai ufficialmente, anche se non mancheranno le occasioni in cui i due cantanti torneranno sul palco di nuovo insieme. Accade, per esempio, nel 1972, con un concerto tenuto al Madison Square Garden per supportare George McGovern, candidato alla presidenza americana, o nel 1975, con la partecipazione al "Saturday Night Live", trasmissione comica della Nbc in cui verranno suonate "Scarborough Fair" e "The Boxer".

Sempre nello stesso periodo, inoltre, i due pubblicano insieme anche "My Little Town", singolo che sale subito in top ten.

Mentre Art Garfunkel si dedica sia alla recitazione che alla musica, Paul Simon si concentra solo nel secondo campo. Per altro la sua è una carriera da solista che gli regala più di una soddisfazione. Nel 1973 registra il disco "There Goes Rhymin' Simon". Questo è seguito un paio di anni più tardi da "Still Crazy After All These Years".

Il 19 settembre 1981 è una data storica per la carriera del duo. Simon e Garfunkel si riuniscono per un concerto gratuito a New York, a Central Park. All'evento partecipano oltre 500.000 persone. Pochi mesi più tardi, il 16 febbraio 1982, viene pubblicato un album live dell'evento. Si tratta probabilmente di uno dischi live più noti del XX secolo: The Concert in Central Park.

Nel 1983 Paul Simon registra l'album "Hearts and Bones". Nel 1986 tocca a "Graceland".

In questi anni Art Garfunkel recita nei film "Il lenzuolo viola" (1980), "Good to Go" (Short Fuse, 1986), "Boxing Helena" (1993) e "The Rebound - Ricomincio dall'amore" (2009).

Nel 1990 Simon e Garfunkel suonano insieme in occasione della cerimonia per l'inserimento dei loro nomi nella Rock and Roll Hall of Fame. Tre anni dopo, i due tengono a New York una ventina di concerti, oltre ad alcuni show di beneficenza tra cui quello al Bridge School Concerts.

Nel 2003 la coppia si riunisce di nuovo esibendosi all'apertura della cerimonia dei Grammy Awards con "The Sound of Silence". Nella circostanza i due ricevono il premio Grammy alla carriera, il Grammy Lifetime Achievement Award.

Negli anni anche Garfunkel ha registrato una serie di dischi da solista, con fortune alterne.

Art Garfunkel è sposato con Kim Cermack (vero nome Kathryn Cermack). Conosciuta nel 1985, si sono poi sposati nel settembre del 1988. Hanno un figlio, James Arthur, anch'egli cantante. A causa di un problema alle corde vocali avuto nel 2010, non ha potuto cantare per oltre un anno.

martedì 4 novembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 4 novembre.

Il 4 novembre 2011 un alluvione a Genova provocò la morte di sei persone: Shpresa Djala, 23 anni, e le sue figlie Gioia, 8 anni, e Janissa di un anno, Angela Chiaramonte, 40 anni, Evelina Pietranera 50 anni, e Serena Costa, di 19. Sei morti travolti dalle acque del torrente Fereggiano, uscito dagli argini intorno all’una. Esondò anche il torrente Bisagno, più grande del Fereggiano. La zona della stazione Brignole, compresi Borgo Incrociati, piazza della Vittoria e il tratto di via XX Settembre fino all’altezza di via Cesarea, rimasero sommerse dall’acqua per alcune ore. Centinaia i negozi allagati. I quartieri più colpiti furono Quezzi, Sturla, San Desiderio, San Fruttuoso, Marassi, Albaro, Quarto, Quinto, Nervi. Fu subito polemica sulle responsabilità dei morti e dei danni. La giunta venne prima accusata di non avere deciso la chiusura delle scuole, se le istituzioni lo avessero fatto forse le sei vittime si potevano evitare. 

Il sindaco di allora Marta Vincenzi parlò di una “tragedia assolutamente imprevedibile in questa forma”, di una “bomba d’acqua” che colse di sorpresa la città e l’amministrazione. L’alluvione del  2011 entrò negli annali statistici per la quantità di pioggia caduta in un’ora. La procura di Genova, dopo avere aperto un’inchiesta per disastro colposo e omicidio colposo plurimo contro ignoti, contestò la versione dei fatti fornita dall’amministrazione. Secondo l’accusa, i tempi dell’esondazione del Fereggiano erano stati riportati in modo falso per giustificare l’intempestività dell’intervento.

Il gup Carla Pastorini ha rinviato a giudizio per omicidio colposo plurimo, disastro, falso e calunnia Marta Vincenzi. Con il sindaco sono finiti a processo anche l’ex assessore alla Protezione Civile Francesco Scidone, i dirigenti comunali Gianfranco Delponte e Pierpaolo Cha, l’ex capo della protezione civile comunale Sandro Gambelli e l’ex coordinatore dei volontari Roberto Gabutti (a cui vengono contestati solo il falso e la calunnia).

 Il 28 novembre 2016 Marta Vincenzi viene condannata a 5 anni di reclusione venendo assolta solo dall'accusa di calunnia; il PM aveva chiesto 6 anni e 1 mese. Il Comune di Genova è stato condannato a pagare una provvisionale di alcuni milioni ai parenti delle vittime con provvedimento immediatamente esecutivo. La condanna a 5 anni di reclusione è stata confermata dalla Corte di Appello di Genova il 23 marzo 2018. Il 23 giugno 2020, in seguito al patteggiamento, la pena viene ridotta a 3 anni di reclusione.

lunedì 3 novembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il novembre.

Il 3 novembre 1955 esce nelle sale americane il film Bulli e Pupe.

Dopo il clamoroso successo ottenuto a Broadway dall’omonimo musical, nel 1955 arriva nei cinema di tutto il mondo Bulli e pupe (Guys and Dolls in originale), per cui la Samuel Goldwyn Company arriva a sborsare una cifra astronomica all’epoca per i diritti (circa un milione di dollari) e a investire altri soldoni sonanti per assicurarsi la presenza nel film di grandi star come Marlon Brando, Frank Sinatra e Jean Simmons e per garantirsi l’operato del regista Joseph Mankiewicz, reduce dai grandi successi di Lettera a tre mogli ed Eva contro Eva. L’investimento si rivela azzeccato, e Bulli e Pupe, grazie anche alla strada aperta da musical di successo dell’epoca come Cantando sotto la pioggia, Un americano a Parigi e Spettacolo di varietà, conquista i botteghini, incassando nei soli  Stati Uniti circa 13 milioni di dollari e si ritaglia un ruolo di primo piano fra i classici del genere musical.

Nathan Detroit (Frank Sinatra) e “Sky” Masterson (Marlon Brando) sono due incalliti giocatori d’azzardo newyorkesi, amanti della bella vita e restii a impegni sentimentali seri e duraturi. Nathan in particolare non si è ancora deciso a convolare a nozze con la fidanzata Adelaide (Vivian Blaine), nonostante i due siano fidanzati da 14 anni. L’uomo è decisamente più interessato alla prosecuzione del suo vizio, e per procacciarsi i fondi per allestire una bisca clandestina propone a Sky una scommessa sulla carta già vinta con una posta di 1000 dollari: il suo socio dovrà riuscire a portare a cena con lui Miss Sarah Brown (Jean Simmons), fervente religiosa e arruolata nell’Esercito della Salvezza. Nel tentativo di portare a casa la vittoria, Sky userà tutte le sue migliori armi, ma dovrà fare i conti con un cambiamento interiore che non si sarebbe mai aspettato.

Bulli e pupe si propone fin dalle prime battute come un musical leggero e frizzante, puntando forte sulla classe e sul carisma dei propri formidabili interpreti. Il risultato finale è un prodotto a tratti ancora godibile, ma invecchiato decisamente male. Dopo aver offerto un ritratto cinico e disincantato del teatro e dello spettacolo nel suo capolavoro Eva contro Eva, Joseph Mankiewicz qui non riesce mai a staccarsi dal tema portante della pellicola, composto dal progressivo ribaltamento dei ruoli nella nascente storia d’amore fra una donna in partenza seriosa e calata con anima e corpo nella propria attività (Jean Simmons) e un uomo in apparenza guascone e immorale (Marlon Brando), che in realtà si rivela più profondo di quanto gli altri credano. Un contrasto lui spavaldo\lei “rigidina” che nel 1955 poteva ancora essere apprezzato, ma che visto oggi perde gran parte del proprio fascino. La trama lineare e ampiamente prevedibile viene ulteriormente indebolita da una durata della pellicola francamente spropositata (poco meno di 150 minuti), che riesce a mettere in difficoltà anche lo spettatore più allenato. Nonostante questi difetti, Bulli e pupe riesce però a non naufragare mai, soprattutto grazie alle ottime musiche di Frank Loesser (fra le altre meritano una citazione A Woman in Love, Adelaide’s Lament e If I Were a Bell) e a dialoghi freschi e vivaci, che sentiti oggi fanno sorridere, ma che riescono ancora nell’intento di ravvivare il film nei momenti meno efficaci. Per quanto riguarda gli interpreti, fra i due litiganti Marlon Brando (sempre ottimo sul fronte della recitazione, ma decisamente a disagio per quanto riguarda il lato cantato) e Frank Sinatra (al contrario superbo nelle canzoni, ma imprigionato in un ruolo bidimensionale e di scarso spessore) a emergere a sorpresa è la splendida Jean Simmons, che conferisce grande profondità a un personaggio che a conti fatti si rivela il più riuscito del film, rendendo alla perfezione la progressiva perdita dei freni inibitori di Sarah e il suo lento avvicinamento ai comportamenti che all’inizio della storia rigettava. Di grande effetto ancora oggi la fotografia, che ci mostra una New York fatta di luci al neon e colori sgargianti e che fece guadagnare a Bulli e pupe una delle sue quattro nomination all’Oscar, insieme a quelle per scenografia, costumi e colonna sonora.

Nonostante alcuni difetti, Bulli e pupe è comunque una pellicola da recuperare per i cinefili appassionati di musical e per tutti i fan di Marlon Brando e Frank Sinatra, che non offrono le migliori performance delle rispettive carriere ma illuminano comunque il film con la loro eccezionale presenza scenica. Anche se il gusto, gli usi e i costumi del pubblico con il passare del tempo sono inevitabilmente mutati, a volte un salto indietro nel tempo può servire per capire da dove arriviamo, cosa siamo e dove stiamo andando. Ben venga quindi Bulli e pupe a farci compiere questo tuffo nel passato, anche con la sua ingenuità e leggerezza.

domenica 2 novembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 2 novembre.

Il 2 novembre 1960 si conclude il caso giudiziario di oscenità per il romanzo "L'amante di Lady Chatterley".

Si tratta del caso più eclatante di censura della storia letteraria; ancora oggi non si può nominare il titolo L’amante di Lady Chatterley senza ritenerlo in qualche misura sconveniente o controverso. È un romanzo che porta su di sé la patina del proibito, una sorta di condanna sopravvissuta ai secoli che ne accompagna la fama ponendola in simbiosi con un’oscura perversione. Nel 1960 si apriva in Inghilterra il processo che poneva sotto accusa l’opera di David Herbert Lawrence, nonostante fossero passati quasi trent’anni dalla morte del suo autore.

Lady Chatterley’s Lover era il libro incriminato, posto sul banco degli imputati in un’edizione Penguin da tre scellini e mezzo spietatamente dissezionata dai commenti di Lady Dorothy Byrne, moglie del giudice incaricato di presiedere l’udienza. «Permettereste a vostra moglie di leggere un libro simile?» aveva domandato il Pubblico Ministero Griffith-Jones alla giuria in un’arringa epica; e a quanto pare venne preso in parola da Sir Lawrence Byrne che lo sottopose al giudizio insindacabile della sua signora.

Nel 2000, in occasione del quarantesimo anniversario del processo, la copia da due soldi vergata da Lady Byrne fu venduta all’asta con un prezzo di partenza di 15mila sterline – una volta divenuta la prova testimoniale di un verdetto storico il suo valore si era miracolosamente quintuplicato.

L’amante di Lady Chatterley è ormai considerato uno dei capolavori del Novecento; tuttavia il suo valore non si limita all’indiscutibile merito letterario, travalica lo splendore della prosa per intrecciarsi a un discorso sulla libertà in grado di sferrare un duro colpo alla morale puritana della Gran Bretagna di inizio secolo. Si tratta di un libro raro e prezioso, poiché rappresenta la prova storica che la letteratura può farsi diretta promotrice del cambiamento sociale.

Esiste un prima e un dopo la pubblicazione di L’amante di Lady Chatterley: il libro della discordia, che ha determinato una rivalutazione del concetto di morale, proprio come il fatidico morso al frutto proibito ha provocato la cacciata dell’uomo dal Paradiso Terrestre.

Come è risaputo, tutte le grandi riforme sociali si ottengono attraverso un piccolo atto di infrazione. Soltanto un anno prima il libro era stato protagonista di un analogo processo, negli Stati Uniti, che vedeva sul banco degli imputati la casa editrice americana Grove Press, accusata di pubblicazioni oscene. L’assoluzione non era bastata a impedire che un secondo processo si svolgesse nel Regno Unito, stavolta contro la Penguin Books che malauguratamente aveva deciso di ripubblicare tutte le opere di D.H. Lawrence in occasione del trentesimo anniversario dalla morte dell’autore, offrendo per la prima volta al pubblico l’edizione integrale di Lady Chatterley’s Lover.

Il romanzo era stato pubblicato per la prima volta a Firenze, nel 1928, dall’editore Giuseppe Orioli in un’edizione semi-clandestina di appena mille copie. Per l’occasione, la copertina venne realizzata da Lawrence stesso: rappresentava una fenice in fuga da un nido in fiamme, vi si poteva leggere una chiara allusione alla forza prorompente del libro destinato a risorgere dalle proprie ceneri malgrado i tentativi governativi di censurarne il contenuto.

D.H. Lawrence scrisse le tre stesure nella residenza fiorentina di Villa Miranda, e proprio in terra toscana vide la luce la prima edizione stampata del libro, sfuggendo così alle maglie della censura inglese. Nonostante fossero state prese le dovute precauzioni, le copie in circolazione vennero sequestrate più volte e ne fu proibita l’esportazione nel Regno Unito. In seguito alla morte di Lawrence, il romanzo venne diffuso in alcune versioni censurate, e nel 1947 persino tradotto in lingua italiana da Manlio Lo Vecchio Musti, che omise tutti i vocaboli ritenuti osceni attraverso un’opera di traslitterazione che ne edulcorava il contenuto.  Così «fuck» divenne «baciare»; «cock» divenne «coda» e tutti i riferimenti agli organi genitali furono tradotti con espressioni metaforiche, astratte, che creavano un’inevitabile ambiguità nella lettura.

Negli anni Sessanta una delle ragioni che posero l’opera nella posizione scomoda di essere processata pare fosse dovuta proprio all’irrisorio prezzo di copertina della nuova edizione tascabile Penguin, che l’avrebbe resa apertamente fruibile alle masse; una narrazione tanto sconveniente doveva rimanere assoluto privilegio dell’élite, come un sacro segreto da custodire, non poteva certo essere divulgata al popolo. Nel 1959 in Inghilterra era entrato in vigore l’Obscene Publications Act, il cui ordinamento stabiliva che un’opera fosse da considerarsi oscena solo se il suo effetto era «tale da tendere a depravare e corrompere le persone.» La prima vittima della legge appena approvata dal Parlamento fu proprio il romanzo di D.H. Lawrence, definito dalla società benpensante «volgare»; «disgustoso»; «osceno», come riportano le cronache di età vittoriana: «Un affronto disgustoso e volgare al comune senso del pudore».

Un processo letterario che può vantare un precedente illustre, quello affrontato da Gustave Flaubert in seguito alla pubblicazione di Madame Bovary, nel 1857. A un secolo di distanza le cose non sembravano affatto cambiate: se Flaubert aveva dovuto rispondere all’accusa di immoralità, a Lawrence – o meglio, alla sua opera postuma – spettava l’imputazione di oscenità. I romanzi risultavano accomunati dalla medesima caratteristica colpevolizzante: davano voce a una donna che praticava adulterio e si poneva in aperta sfida contro la società.

Entrambe le opere rappresentavano un manifesto contro l’ipocrisia borghese: Flaubert mostrava, senza finzioni né abbellimenti, la vita asfissiante nella provincia francese e una donna che vi si ribella nel tentativo di non soccombere; mentre Lawrence dava voce, attraverso la sua protagonista, a una storia d’amore illecita pervasa di sensualità. Constance Chatterley, proprio come Emma Bovary, è colta e piena di vitalità, imprigionata nella monotonia irriducibile di un matrimonio infelice, e alla disperata ricerca di una via di fuga.

Non era la descrizione – peraltro aggraziata – degli amplessi sessuali a rendere scandaloso il romanzo di Lawrence, piuttosto il fatto che a praticare adulterio fosse una donna – di alto rango, per giunta – che tradiva il proprio nobile marito nientemeno che con un guardiacaccia, quindi un individuo di classe sociale inferiore. La storia narrata in L’amante di Lady Chatterley, a giudizio dell’accusa, rischiava di influenzare negativamente altre donne di buona famiglia, conducendole sulla strada della depravazione e dell’immoralità. A rendere il libro tanto scandaloso per i lettori dell’epoca era l’atteggiamento controcorrente della sua protagonista: Lady Chatterley, di fatto, si oppone alle condizioni opposte dalla sua condizione nobiliare e al potere maschile. In questa veste Connie, proprio come Madame Bovary, è un’eroina ante-litteram che appare in rivolta contro l’intera società, simbolo illuminante del risveglio culturale femminile che pervade l’Europa degli anni Trenta.

Il rapporto carnale per Connie rappresenta una riscoperta di sé, una totale aderenza all’istinto vitale, un mezzo per affermare la propria forza di volontà e lo stretto connubio tra mente e corpo. È giusto tuttavia osservare che il soggetto principale del romanzo non sono i rapporti sessuali tra i due protagonisti, ma l’analisi di un’intera società: Lawrence ci fa respirare l’atmosfera della provincia inglese, focalizza la propria attenzione sulle condizioni di vita dei minatori, sullo sfruttamento da parte dei nobili della manodopera contadina, sul rapporto artificiale tra uomo e natura conseguente allo sviluppo dell’industria; il tutto narrato nella prosa raffinata e dettagliatamente descrittiva, degna di un grande classico. L’amante di Lady Chatterley è un romanzo che offre innumerevoli spunti di riflessione, ancora oggi attualissimi, che di certo non meritano di essere svalutati per la fama quasi pornografica che l’opera ha assunto in seguito alle sue vicissitudini storiche.

Flaubert venne assolto da ogni accusa tramite lo stratagemma del «discorso indiretto libero» che poneva in luce la distinzione sottile tra voce narrante e personalità autoriale; nel caso dell’opera di Lawrence la faccenda si presentava più controversa poiché a essere posto sotto accusa non era l’autore in prima persona ma il contenuto “disdicevole” del libro.

Il caso giudiziario di L’amante di Lady Chatterley pose in discussione il concetto di censura in epoca moderna, un fatto di per sé eclatante nei primi anni Sessanta quando l’Era dell’Indice dei Libri Proibiti doveva teoricamente essersi conclusa da un pezzo.

Il processo durò ben sei giorni e vide avvicendarsi sul banco dei testimoni tutta l’élite letteraria dell’epoca, da E.M Forster a Rebecca West. La giuria stessa fu chiamata a valutare il romanzo leggendolo ad alta voce nel corso dell’udienza. Furono tenute oltre trentasei deposizioni da parte di esperti, scrittori, accademici e persino uomini di chiesa. Il Pubblico Ministero Mervyn Griffith-Jones si dimostrò particolarmente agguerrito, mantenne una linea d’accusa molto netta che ancora oggi viene ricordata in alcuni manuali processuali. Jones lesse le parti più scabrose del romanzo in aula, ponendo l’accento sui termini giudicati osceni, e interpellò direttamente la giuria con frasi minacciose: «Fareste leggere questo romanzo ai vostri figli? Alle vostre mogli?». Determinanti per l’assoluzione dell’opera furono le testimonianze degli scrittori e, in particolare, di un cardinale che affermò pubblicamente la sacralità dell’amore tra Connie e il guardiacaccia Mellors, ribadendo l’importanza dell’amore carnale tra esseri umani.

Il processo si concluse il 2 novembre 1960 con un verdetto inatteso; il giudice Byrne giudicò il contenuto del libro accettabile per la società dell’epoca sancendo così la fine del moralismo vittoriano. In seguito alla sentenza, l’opera di D.H. Lawrence fu esposta in tutte le librerie e vendette tre milioni e mezzo di copie. Alla fine dell’anno la casa editrice Penguin venne addirittura quotata alla borsa di Londra.

La pubblicazione di L’amante di Lady Chatterley rappresentò una clamorosa vittoria sociale, ebbe il merito indiscusso di ridefinire il concetto di «tabù»: la sessualità non era dunque più da considerarsi alla stregua di un atto segreto o osceno, faceva parte della vita e in quanto tale poteva essere raccontata senza censure.

Un’importante battaglia era stata vinta. La letteratura, attraverso la sua peculiare capacità di nominare l’indicibile, aveva comportato una ridefinizione del senso di pubblico pudore. Il verdetto di assoluzione di Lady Chatterley’s Lover assunse un valore emblematico: era l’inizio di una nuova Era di liberalizzazione dei costumi e della morale.

Gli anni Sessanta avrebbero in seguito portato molte altre innovazioni sulla strada dei diritti: sarebbero stati l’epoca della prima pillola contraccettiva, della legalizzazione dell’aborto, della depenalizzazione dell’omosessualità. È bello pensare che il cammino verso la modernità sia iniziato grazie a un romanzo: la gente lo leggeva ovunque, sulle panchine del parco, durante le pause in ufficio, in metropolitana, scoprendo un senso di rinnovata libertà. Lady Chatterley’s Lover ha rappresentato la necessità dello scandalo in letteratura: l’importanza di dire, di affermare, di nominare perché solo l’arte può valicare il confine del proibito e rendere l’osceno accettabile.  Come ha notato il premio Nobel J. M. Coetzee in un saggio dedicato all’opera di Lawrence: «Ogni volta che il libro viene riaperto, in epoche successive, anche quando i tabù hanno perso la loro forza, ogni volta che il libro viene riletto quei tabù si rianimano e riassumono la loro cupa forza.»

Leggere L’amante di Lady Chatterley oggi è un privilegio, una libertà conquistata, e ogni volta che sfogliamo questo libro – malgrado le tematiche trasgressive ci appaiano ormai superate alla luce della contemporaneità – dovremmo ricordarci l’importanza benefica dello scandalo, l’urgenza di nominare le cose per conferir loro il diritto di esistere.

sabato 1 novembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il primo novembre.

Il primo novembre 1962 esce nelle edicole il fumetto Diabolik.

È impossibile raccontare la storia del fumetto di Diabolik senza partire dalla particolarità della vicenda delle sue creatrici. Angela Giussani e Luciana Giussani sono due signore borghesi di Milano, belle e colte, che d'un tratto nella loro vita si lanciano in un'impresa senza precedenti.

Angela Giussani nasce a Milano il 10 giugno 1922. Delle due sorelle è la più forte e intraprendente. In contrapposizione al costume corrente, infatti, negli Anni Cinquanta, guida l'auto e ha addirittura il brevetto di pilota di aerei.

È modella, giornalista e redattrice. Sposata all'editore Gino Sansoni dedica tutta la sua vita a Diabolik e alla casa editrice Astorina che dirige fino alla morte, avvenuta il 10 febbraio 1987 a Milano.

Di sei anni più piccola, Luciana nasce a Milano il 19 aprile 1928: lei è razionale e concreta. Appena diplomata, lavora come impiegata presso una nota fabbrica di aspirapolveri. Presto, però, lavoro al fianco della sorella nella redazione di Diabolik e si appassiona indissolubilmente all'avventura letteraria di Angela.

Luciana dirige la casa editrice dopo la scomparsa di Angela e firma le pagine di Diabolik fino alla sua dipartita, avvenuta a Milano il 31 marzo 2001.

Il primo numero di Diabolik esce il 1° novembre 1962. Costa 150 lire e si intitola "Il re del terrore". Il personaggio di Diabolik possiede da subito le caratteristiche per cui è celebre: ladro ingegnoso, capace di mirabolanti travestimenti supportati da maschere sottilissime inventate da lui stesso.

Nel primo numero c'è anche il suo alter ego, l'ispettore Ginko: integerrimo e professionale.

Il giorno che Diabolik deciderà di uccidermi, nessuno potrà venirmi in aiuto. Saremo io e lui da soli.

(Ginko, da Atroce vendetta, 1963)

Innovativo, inoltre, anche il formato dell'albo: tascabile. Pare che le sorelle Giussani scelsero questa misura pensando in modo particolare ai viaggiatori in treno, che vedevano affrettarsi tutti i giorni sotto la loro finestra, in zona stazione centrale a Milano.

Diabolik è un ladro di professione. Si lancia in furti di preziosi e ingenti somme di denaro. A fronte dell'attività criminosa, Diabolik è ligio ad un codice d'onore molto ferreo che premia amicizia, riconoscenza e tutela dei più deboli a sfavore, invece, di mafiosi e malavitosi.

Della biografia di Diabolik si apprende, come fosse un prequel, in "Diabolik, chi sei?" del 1968. Salvato da un naufragio, il piccolo Diabolik viene allevato da una banda internazionale facente capo a un certo King.

In questo contesto apprende lingue e tecniche criminose. Diventa un esperto nel campo della chimica: da qui le note maschere, asso nella manica dei memorabili travestimenti.

Sono proprio queste maschere che gli rendono nemico King: quando gliele vuole sottrarre, Diabolik lo affronta, lo uccide e fugge. Ancora in fatto di "prequel", nell'episodio "Gli anni perduti nel sangue" del 2006 si legge di una stagione di apprendimento di tecniche di combattimento in Oriente, prima di trasferirsi definitivamente a Clerville, città in cui abita nella saga.

Al fianco di Diabolik, compagna di vita e di misfatti è Eva Kant, conosciuta nel terzo episodio, dal titolo "L'arresto di Diabolik" (1963). Questo episodio inoltre, fu causa di una prima serie di denunce e processi penali dei quali furono oggetto Diabolik e altri epigoni negli anni sessanta. Angela Giussani, al fine di promuovere la nuova testata, aveva avuto l'idea di distribuirne copie omaggio ai ragazzi delle scuole medie e questo venne visto come un tentativo di traviamento della gioventù. Ne seguì un processo che, il 6 luglio 1964, assolse Angela Giussani dal reato di incitamento alla corruzione anche perché, si legge nella motivazione della sentenza, nella copertina il personaggio compariva con le manette ai polsi e sullo sfondo di una lugubre ghigliottina, la qual cosa induceva a pensare che il criminale avrebbe pagato per le sue colpe.

Bionda e bellissima, Eva Kant è vedova di Lord Anthony Kant, morto in circostanze sospette. È fredda e determinata ma, al contempo, sensuale e raffinata.

Lo storytelling di questa partner è stato sempre più approfondito nel tempo al punto che Eva è divenuta protagonista di alcuni numeri e altre iniziative editoriali legate al personaggio. Questa sorta di spin off è culminato nell'albo "Eva Kant - Quando Diabolik non c'era" uscito nel 2003.

La grande notorietà del personaggio ha fatto sì che non vivesse più esclusivamente nel regno dei fumetti. Diabolik, infatti, è apparso per 5 volte come protagonista sul grande schermo: nel 1968 in "Diabolik" di Mario Bava, nel 2019 nel primo di tre lungometraggi firmati dai Manetti Bros e, infine, nel documentario "Diabolik sono io", sempre del 2019, diretto da Giancarlo Soldi.

Al ladro gentile delle sorelle Giussani, poi, è stata anche dedicata una serie tv, nel 2000, intitolata sempre "Diabolik". In fatto di letteratura, sono stati pubblicati una collana intitolata "Romanzi di Diabolik" e quattro libri firmati da Andrea Carlo Cappi. Infine, è apparso in spot pubblicitari, nel radiofumetto di RaiRadio2 ed è stato al centro di alcuni videogames.

venerdì 31 ottobre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 31 ottobre.

Il 31 Ottobre dell’anno del Signore 2002 in molte parti del mondo si sta festeggiando Halloween, la festa delle streghe, ma non qui dove si svolge la nostra storia.

Qui Halloween non si festeggia, le streghe non sono viste tanto di buon occhio, anzi, essere tacciati di stregoneria può voler dire anche fare una brutta fine.

Siamo ad Antananarivo, capitale del Madagascar, più precisamente allo Stade Mahamasina, un impianto in grado di ospitare diverse discipline sportive ed eventi di vario genere.

Qualcuno probabilmente se lo ricorda in quanto nel 2005, durante una partita tra Kaizer Chiefs e USJF Ravinala, è stato teatro di violenti scontri che hanno portato alla morte di due persone. Altri non lo hanno mai sentito nominare.

Eppure nel 2002, in quel già citato 31 Ottobre, lo stadio Mahamasina è stato il teatro di una partita consegnata alla Storia, uno di quegli eventi poco conosciuti e quasi impossibili da considerare realmente accaduti, se non fosse che nel 2002 c’era già abbastanza tecnologia da consegnarci alcune prove, inconfutabili, dell’accaduto.

Si deve disputare l’ultima giornata del campionato delle Isole dell’Oceano Indiano, che però non ha più alcun significato dal punto di vista della classifica: l’ha già vinto, con una giornata di anticipo, l’As Adema, una delle due squadre protagoniste di questa assurda vicenda.

Nella penultima giornata, infatti, l’altra squadra protagonista di questa storia, l’SO de L’Emyrne, ha pareggiato per 2-2 contro il il DSA Antananarivo, dicendo così addio ai suoi sogni di gloria e consegnando il campionato ai rivali dell’As Adema. L’ha fatto nella maniera peggiore possibile, ovvero vedendosi fischiare contro un rigore dubbio negli ultimi secondi della partita, una decisione sciagurata che proprio non è andata giù ad allenatore e giocatori.

Da qui l’idea di una protesta, clamorosa, che potesse avere quanto più risalto possibile. Immaginiamo che il conciliabolo tra allenatore e giocatori possa essere andato all’incirca in questo modo: “Bè, cosa ci possiamo inventare? Non ci presentiamo? Iniziamo a menare come degli ossessi?”

Mandare la primavera non credo che sia un’opzione plausibile, a quelle latitudini. Poi a qualcuno viene in mente un’idea geniale “Potremmo farci un autogol, per protesta“, accolta subito con entusiasmo dall’allenatore che, anzi, rincara la dose “Perché solo uno, cerchiamo di farne il più possibile, vediamo a quanti autogol arriviamo, così entriamo anche nel Guinness dei primati per la partita con il maggior numero di gol realizzati ed il più largo scarto“.

Detto fatto.

Benjamina Razafintsalama, l’arbitro designato per questa partita-farsa, da il via alle ostilità e subito si capisce che qualcosa di strano bolle in pentola. L’allenatore dell’SO de L’Emyrne è seduto tra gli spettatori, sugli spalti, in quanto squalificato dopo la partita precedente e orchestra il tutto dall’alto. Subito i suoi giocatori si precipitano come indemoniati verso la propria porta ed iniziano a scagliare dentro alla rete quanti più palloni possibili, senza che nessuno faccia nulla per fermarli.

Né l’arbitro né i giocatori avversari si oppongono a questo teatro dell’assurdo che sta andando in scena, si limitano ad assistere, impotenti. Gli unici che provano a fare qualcosa sono gli spettatori, ignari e increduli di ciò a cui stanno assistendo. Si precipitano giù dalle tribune fino ad arrivare a bordocampo, per chiedere il risarcimento del prezzo del biglietto.

La partita nel frattempo va avanti, per tutti i canonici 90 minuti, e termina con il roboante risultato di 149-0 in favore dell’AS Adema, frutto di altrettanti autogol realizzati dalla squadra avversaria.

Ovviamente le radio locali, avvisate dagli spettatori, danno subito la notizia che in breve tempo fa il giro del mondo: si vanno a cercare le partite ufficiali finite con il più ampio scarto tra le due squadre e la ricerca produce un 36-0 del 1885 tra l’Arbroath ed il Bon Accord di Aberdeen. Una bazzecola al confronto.

La federazione malgascia non può rimanere però con le mani in mano, ed infatti annuncia subito dopo la partita che prenderà importanti provvedimenti, inaccettabile una protesta di questo tipo.

Viene colpito l’allenatore della squadra, Zaka Be, accusato di essere la mente che ha orchestrato il tutto, al quale vengono comminati 3 anni di squalifica. Inoltre vengono puniti con due mesi anche quattro giocatori, tra cui Mamisoa Razafindrakoto, capitano del Madagascar che qualche tempo prima aveva realizzato il gol vittoria, storico, contro l’Egitto, in un incontro valevole per le qualificazioni alla coppa d’Africa.

Squalifiche e sanzioni che comunque non hanno il potere di cancellare una partita che, da insignificante come doveva essere razionalmente, si è trasformata in storica. A dimostrazione che nel calcio, qualsiasi partita, in qualunque parte del globo, ha sempre almeno un motivo per essere seguita.

giovedì 30 ottobre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 30 ottobre.

Il 30 ottobre 130 d.C. muore Antinoo, il giovane amante dell'imperatore Adriano.

Siamo nel II secolo d.C. e i protagonisti della nostra storia sono il celebre imperatore Adriano e l’affascinante giovane Antinoo. Sembra che i due si siano incontrati durante un viaggio di Adriano in Oriente più o meno intorno al 123 d.C. (Antinoo aveva 13 anni e Adriano 47) e che da quel momento non si siano più separati. Antinoo infatti seguì l’imperatore in tutti i suoi spostamenti, entrando a far parte del suo personale seguito.

Una vicinanza che fece subito pensare ad un amore non certo platonico: Adriano stimava il ragazzo per la sua bellezza ed intelligenza, Antinoo ammirava invece l’imperatore come un saggio. Si è molto discusso sul loro rapporto e molti hanno ipotizzato che potesse trattarsi della pederastia greca, quando cioè un uomo maturo intratteneva una relazione sentimentale con un fanciullo, assumendone un ruolo fondamentale ed attivo nella sua educazione e istruzione, istituzione questa non estranea alla cultura romana.

Tra loro vi era un rapporto profondo, di puro affetto e stima, di reciproco rispetto e forte complicità. E come tutte le storie più romantiche, non vi fu un lieto fine. Antinoo infatti nel 130 d.C. , mentre accompagnava l’imperatore in Egitto, morì in circostanze misteriose. C’è chi ritiene che il giovane sia caduto in acqua, chi parla di suicidio, chi di omicidio per gelosia e chi addirittura di morte per un sacrificio umano. Ciò che è certo è l’immenso dolore che Adriano provò per la prematura scomparsa del suo più fidato e amato compagno.

Fu così che decise di divinizzarlo, istituendo nel suo giorno natale una apposita festa che lo celebrasse e ne ordinò il culto in tutto l’impero, assimilandolo di volta volta a differenti divinità come per esempio Hermes, Dionisio, Osiride, Silvano, Aristeo e molti altri ancora. 

Adriano volle inoltre fondare in suo onore una nuova città che chiamò Antinopoli, posta sulla riva est del Nilo, dove verosimilmente il suo amato era venuto a mancare. L’immagine del giovane iniziò ad essere riprodotta sulle monete e Adriano ordinò la costruzione di un numero impressionante di statue, busti e rilievi del giovane da posizionare in tutte le città dell’impero.

Ma dove trovò eterno riposo il nostro Antinoo? Sembra che Adriano abbia fatto costruire all’interno della propria villa di Tivoli un imponente monumento funerario detto appunto Antinoeion, un edificio identificato nel 2005 con la tomba-tempio progettata per onorare la memoria del ragazzo. 

Un amore eterno quindi che ha attraversato il corso dei secoli, affascinando di volta in volta scrittori, poeti ed artisti che proprio Antinoo hanno considerato come l’immagine che più incarna l’idea assoluta di eterna bellezza.

mercoledì 29 ottobre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 29 ottobre.

Il 29 ottobre 1923 si completa il crollo dell'impero ottomano, con la nascita della repubblica in Turchia.

Alla fine dell’Ottocento l’Impero Ottomano, che per più di cinque secoli aveva dominato su un territorio vastissimo che si estendeva dalla Serbia fino allo Yemen, dall’Algeria all’Azerbaigian, comincia a entrare in profonda crisi. L’Impero russo è giunto a controllare la riva nord del mar Nero e punta, attraverso i Balcani, a raggiungere uno sbocco sul Mediterraneo, dove esercitano la loro influenza Francia e Inghilterra.

Nel corso del diciannovesimo secolo l’impero ottomano ha avviato un profondo processo di modernizzazione: lo stato si è centralizzato, è nata una costituzione e nel 1876 un Parlamento. Il rafforzamento dello stato ha però innescato reazioni contrarie, specie nei Balcani, dove si sono affermati movimenti locali che rivendicano l’indipendenza da Istanbul. Proprio l’appoggio della Russia alle sollevazioni degli slavi cristiani, all’interno dei possedimenti ottomani, fa scoppiare nel 1877 la guerra russo-turca. Nell’anno successivo la vittoria russa è sancita dal Trattato di pace di Santo Stefano: Serbia, Montenegro, Romania e Bulgaria, che fino a quel momento sono state sotto il dominio ottomano, diventano indipendenti.

In giugno al Congresso di Berlino, cercando di ridimensionare le ambizioni dell’impero zarista sull’area, le potenze europee definiscono i nuovi equilibri. L’impero ottomano perde buona parte dei territori balcanici, circa 200mila km.² di territorio abitato in maggioranza da popolazioni cristiane. La drastica riduzione demografica e territoriale ha gravi conseguenze sul piano economico e sociale; l’impero si trova così, per la prima volta, sbilanciato verso l’Asia e con una popolazione sempre più musulmana. Uno dei pilastri su cui si fonda l’impero, cioè la convivenza tra cristiani e musulmani, si sgretola definitivamente.

Nel frattempo, nel 1876 l’impero ottomano ha sospeso la Costituzione, inaugurando una fase di governo più autoritaria, senza però rinunciare a rafforzare e modernizzare lo stato. Per fare questo l’impero ha bisogno di finanziamenti esteri che lo porteranno a indebitarsi, dipendendo sempre più dalle grandi banche europee.

Agli inizi del ‘900, in Macedonia, ultimo avamposto ottomano in Europa, le élite musulmane temono che l’impero non riesca a difendere il vasto territorio dalle mira di Grecia, Serbia e Bulgaria. In questo contesto emerge una nuova generazione di giovani che si sono formati nelle moderne scuole imperiali, funzionari statali e ufficiali dell’esercito che danno vita a un movimento organizzato per difendere l’unità e integrità dell’impero: il comitato unione e progresso, meglio noto come i Giovani turchi. Il loro centro è a Salonicco e tra loro c’è anche il giovane Mustafa Kemal, futuro fondatore della Repubblica di Turchia. Nel luglio 1908, il comitato passa all’azione, occupa città e villaggi macedoni e costringe il sultano a ristabilire la costituzione. Da lì ha inizio una nuova fase della storia ottomana che vede la graduale ascesa dei giovani turchi al potere imperiale.

1914, scoppia la prima guerra mondiale. Nei primi mesi di guerra l’impero ottomano rimane neutrale, per poi schierarsi a fianco degli imperi centrali. La Germania è l’unico paese rimasto a supportare gli Ottomani contro la minaccia dell’impero russo e il sultano ha da tempo affidato ai generali tedeschi la ristrutturazione del proprio esercito.

Il 28 ottobre 1914 navi turche bombardano il porto russo di Odessa: Gran Bretagna, Francia e Russia dichiarano ufficialmente guerra a Istanbul. La prima vera prova dell’esercito ottomano avviene nella primavera del 1915, quando truppe britanniche e australiane giungono in massa per conquistare i Dardanelli e liberare la via degli stretti. L’esercito ottomano però, grazie alle navi, alla strategia difensiva e ai consigli dei generali tedeschi, riesce a conseguire a Gallipoli una delle sue poche vittorie della grande guerra. I turchi però devono cedere di fronte all’avanzata russa ad est, al confine con il Caucaso: preoccupato che la popolazione armena (cristiana) sostenga le armate russe, il governo ottomano decide la deportazione totale dei cristiani dall’Anatolia orientale. Alle deportazioni si associano massacri e violenze sui civili: è l’inizio dello sterminio di circa 1 milione di armeni e di altri cristiani, il primo genocidio dell’età contemporanea. La secolare convivenza tra cristiani e musulmani entra in crisi. A decretarla sono ragioni politiche, ovvero l’idea che le comunità cristiane non siano più fedeli all’impero.

A partire dal 1916, gli Ottomani cominciano a subire sconfitte su diversi fronti: gli alleati avanzano in Mesopotamia, nella penisola araba e in Palestina. Nel dicembre del ’17 viene liberata Gerusalemme e poco dopo anche Damasco. Il 31 ottobre 1918 viene firmato l’Armistizio di Mudros: i delegati ottomani accettano condizioni molto dure. L’impero è fortemente ridimensionato ma non è finito: i suoi leader politici fuggono all’estero grazie al supporto tedesco e il Paese è allo sbando mentre le truppe alleate entrano trionfanti a Istanbul.

Il 18 gennaio 1919 si apre a Parigi la Conferenza di pace, dove si comincia a decidere il destino ottomano. Mustafa Kemal, brillante generale distintosi nella battaglia di Gallipoli, organizza la resistenza contro la spartizione dell’impero, radunando uomini e mezzi nei distretti orientali dell’Anatolia. Nel 1920 il trattato di Sevrès decreta lo smembramento dell’impero: l’Anatolia è divisa tra Grecia, francesi e italiani, con la formazione di uno stato armeno e uno curdo a oriente. Il movimento di Mustafa Kemal reagisce al trattato di pace in nome dei diritti nazionali ottomani.

Cominciano due anni di guerra per la riconquista del territorio anatolico. I kemalisti all’inizio prendono il controllo dell’Anatolia orientale e centrale, poi nel corso del 1922 avviano la controffensiva per liberare l’Asia minore dall’occupazione greca. Ogni strato della popolazione, comprese le donne, è coinvolto in questo sanguinoso conflitto contro i greci. Dopo le prime difficoltà, l’esercito di Kemal prende il sopravvento. Nell’agosto 1922, i nazionalisti di Kemal lanciano la grande offensiva per riprendere Smirne: la città è messa a ferro e fuoco e la popolazione greca è costretta alla fuga, insieme all’esercito ellenico in rotta. Il 10 settembre 1922 l’esercito turco entra vittorioso a Smirne.

Ora Mustafa Kemal punta a riprendersi la Siria, porta del medio Oriente, sostenuto da molti funzionari e ufficiali arabi ancora fedeli all’impero. In difficoltà, Francia e Gran Bretagna, che avevano già pianificato di spartirsi le regioni arabe, preferiscono trattare con Kemal. Il 24 luglio 1923, con il trattato di pace di Losanna, si afferma l’esistenza di un nuovo Stato, su un territorio composto da tutta l’Anatolia e la Tracia. Sulle ceneri dell’impero ottomano è nata la Turchia.

Tramontata ogni prospettiva imperiale, Mustafa Kemal si dedica a realizzare uno stato nuovo, laico e repubblicano. La nuova Repubblica sarà costruita attorno all’identità turca e dovrà rompere radicalmente con l’integralismo del passato. Le minoranze, come i curdi, non vengono riconosciute. La religione musulmana non ha più il ruolo centrale di un tempo. La nuova Turchia guarda verso Occidente: si sceglie l’adozione dell’alfabeto latino per la lingua turca, si procede alla riforma del diritto di famiglia, con l’abolizione dei matrimoni religiosi e della poligamia, e viene reso obbligatorio l’uso del cognome. Nel 1934 la grande assemblea nazionale assegna a Mustafa Kemal, con apposito decreto, il cognome esclusivo di Ataturk, padre dei turchi.

martedì 28 ottobre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 28 ottobre.

Il 28 ottobre 1891 nacque a Genova Giacomo Lercaro.

Compì studi biblici, patristici e liturgici al Seminario arcivescovile, dove insegnò dopo l' ordinazione sacerdotale, avvenuta nel 1914 e gli anni del conflitto mondiale, durante i quali fu Cappellano militare.

Prevosto della parrocchia di Maria Immacolata dal 1937, durante il periodo dell'occupazione tedesca nella seconda guerra mondiale, si prodigò a favore dei perseguitati, tanto che dovette rifugiarsi, sotto uno pseudonimo, in una casa religiosa: qui scrisse "I metodi dell' orazione mentale", un volume tradotto in diverse lingue. Nel dopoguerra fondò nella sua città un istituto di teologia per laici.

Nel dicembre del 1946 fu nominato Prelato domestico di Sua Santità e nel Concistoro del 10 marzo 1947 preconizzato da papa Pio XII Arcivescovo di Ravenna. Il motto che scelse "Mater mea, fiducia mea" rispecchia il riferimento costante del suo episcopato (ravennate prima, bolognese poi): l' intensa devozione a Maria. Dopo l'alluvione del Polesine nel 1951, accolse nella sua casa alcuni ragazzi senza tetto che lo seguirono anche a Bologna; fu questo il primo germe dell' Opera "Madonna della fiducia" per i giovani studenti italiani ed esteri.

Il 19 aprile 1952 papa Pacelli lo trasferì alla sede metropolitana di Bologna e il 12 gennaio 1953 fu creato e pubblicato cardinale. Egli individuò come fulcro della vita cristiana la Santa Messa e da qui scaturì anche il suo lavoro episcopale che, oltre alle iniziative spiccatamente religiose come la missione mariana del 1954, la missione triennale sulla Messa 1962-65, la visita pastorale e i piccoli sinodi, ne annoverò moltissime altre di generi diversissimi: il Villaggio per i giovani sposi, la Consulta per l' apostolato dei laici, il Centro studi per l' architettura sacra, il Centro di documentazione per le scienze religiose, le opere sociali e assistenziali per gli operai, il carnevale dei bambini. Furono 34 le parrocchie di periferia da lui volute per rispondere all'ampliamento urbano. Fu anche un indiscusso protagonista del Concilio Vaticano II, prima come animatore e moderatore della Commissione liturgica, poi come Moderatore del Concilio e Presidente del "Consilium ad exsequendam constitutionem liturgicam".

Il 5 maggio 1956 inaugurò, insieme a Padre Pio da Pietrelcina l'ospedale "Casa Sollievo della Sofferenza" e nell'aprile del 1957 prese parte ai festeggiamenti in onore della patrona di Castrocaro, la Beata Vergine dei Fiori.

Cittadino onorario di Bologna dal 1966, consegnò il Vangelo agli amministratori della città. Il 12 febbraio 1968 lasciò la cattedra di San Petronio senza però abbandonare la scena ecclesiastica: infatti, fu Legato di Paolo VI al Congresso Eucaristico Internazionale di Bogotà e, fino al 1973, svolse un'intensa opera evangelizzatrice in Italia ed all'estero. Costretto al riposo dal 1974 a causa delle precarie condizioni di salute, si è spento a Bologna il 18 ottobre 1976.

lunedì 27 ottobre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 27 ottobre.

 Il 27 ottobre 1986, papa Giovanni Paolo II convocava ad Assisi  la prima Giornata mondiale di preghiera per la pace, cui presero parte i rappresentanti di tutte le grandi religioni mondiali. 

Vi parteciparono, oltre ai cattolici, 50 rappresentanti delle Chiese cristiane e 60 rappresentanti delle altre religioni mondiali. Per la prima volta nella storia si realizzava un incontro come questo. Un’intuizione semplice e profonda quella del Papa: riunire i credenti di tutte le religioni mondiali nella città di San Francesco, ponendo l’accento sulla preghiera per la pace, l’uno accanto all’altro, di fronte all’orrore della guerra. Disse il Papa in quell’occasione: “E’ in sé un invito fatto al mondo per prendere coscienza che esiste un’altra dimensione della pace e un altro modo di promuoverla, che non sono il risultato di trattative, di compromessi politici, economici”. La convinzione era che “la preghiera e la testimonianza dei credenti, a qualunque tradizione appartengano, può molto per la pace nel mondo”. 

L’appello fu ascoltato, tra l’altro, anche dal “mondo”: per un giorno intero tacquero le armi. Nel suo discorso conclusivo, Giovanni Paolo II esortava: “Continuate a vivere il messaggio della pace, continuate a vivere lo spirito di Assisi!”. Appello raccolto dal successore , il Papa Benedetto XVI, che per il 25° anniversario ha presieduto la giornata di dialogo e preghiera per la pace sempre con i leaders religiosi e, idealmente, con tutti gli uomini di buona volontà provenienti da tutto il mondo proprio ad Assisi. Spirito di Assisi raccolto con particolare impegno e fedeltà dalla Comunità di Sant’Egidio, che ne ha fatto un appuntamento annuale negli Incontri internazionali di Preghiera per la Pace, dal 1987 ad oggi, raccogliendo, in questo pellegrinaggio di pace, sempre più uomini e donne di religione diversa, uniti dal desiderio di costruire insieme vie di pace.

domenica 26 ottobre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 26 ottobre.

Il 26 ottobre 1896 viene siglata la pace tra Italia ed Etiopia, chiudendo così la prima guerra tra i due paesi, detta anche Guerra d'Abissinia.

I primi rapporti con l’Etiopia in Italia furono messi in atto per via della fede. Infatti, dal XIII al XVII secolo, coraggiosi francescani fecero di queste terre una meta interessante al fine di portarvi la fede cattolica. A lungo missionari italiani percorsero quelle regioni, istituendovi un continuo contatto, tracciando itinerari, annotando una miriade di dati e ottenendo perfino la partecipazione di delegati abissini al Concilio di Firenze.

Fu proprio grazie ad un missionario, il savonese Giuseppe Sapeto, già famoso in Patria per le sue eccezionali doti d’esploratore, che l’Italia (gli italiani l’avevano fatto molto prima) mise piede in terra d’Africa. Era il 1869 quando il missionario di Savona sbarcò ad Aden per acquistare, per conto della compagnia di navigazione Raffaele Rubattino, una striscia di territorio. Purtroppo inglesi e francesi vi si erano già insediati. Non dandosi per vinto, il coraggioso esploratore navigò in lungo e in largo per giorni, finché attraccò nella baia di Assab, in Dancalia, comprando questo piccolo villaggio di pescatori dai capi locali. Assab verrà ricomprata anni dopo dal governo italiano che fino ad allora sembrava disinteressato a quella stazione marittima, ma tempo dopo, con l’invasione inglese e francese negli ambiti territori dell’Africa mediterranea, lo Stato prese in seria considerazione il territorio acquistato da Sapeto per trovare quello “spazio vitale” già trovato dalle altre potenze europee. “I missionari e gli esploratori consapevoli o no, fecero infatti da battistrada al colonialismo ottocentesco e la società gliene rese grande merito. Anche le truppe quando partivano per le imprese d’oltremare venivano osannate dalle folle, cantate dai poeti e benedette dai vescovi.”(Arrigo Petacco). 

L’Italia entrava così nella corsa alle colonie. Per la prima volta si cominciò a parlare della “missione di Roma” di civilizzazione della barbara Africa. Senza volerlo fu un altro esploratore a procurare al governo di Roma l’occasione per allargare i confini africani senza sganciare altri soldi: Gustavo Bianchi, così si chiamava, spintosi nelle sue ricerche nella vasta regione del Tigrè, nello sconosciuto Impero d’Abissinia, fu assalito da predoni dancali che trucidarono i suoi accompagnatori. Bianchi si salvò per miracolo. La notizia dell’assalto addolorò l’Italia intera che, bramando vendetta, decise di reagire, inviando in Africa ottocento bersaglieri al comando di Tancredi Saletta. Era il 5 febbraio del 1885.

Mentre la bella ma afosa Massaua si trasformava nella culla del colonialismo italiano, i coraggiosi bersaglieri si spinsero ad ovest, occupando Saati, Arkiko, Zula, Monkullo, Arafali, dove le innumerevoli tribù che popolavano quei territori, accettarono serenamente la nuova presenza italiana, che rappresentava una promessa di pace. Ma le località occupate confinavano con l’ignoto Impero d’Abissinia, dove l’imperatore, il negus Giovanni IV, vide in quella sgradita vicinanza una seria minaccia per il suo trono. Per suo conto, il bellicoso Ras Alula, signore dell’Hamasen, non rimase con le mani in mano, ed il 25 gennaio del 1887 attaccò con diecimila uomini il presidio italiano di Saati, ma fu respinto dagli eroici difensori dopo quattro ore di combattimento. Preoccupato dell’attacco abissino, il colonnello Saletta mandò sul posto una colonna al comando del tenente colonnello Tommaso De Cristoforis, composta da cinquecento bersaglieri e un centinaio di bashi-buzuk. Ma a metà strada, la colonna fu attaccata di sorpresa dagli uomini di Alula che, dopo averla circondata, vi si lanciarono agguerritamente. Ottomila abissini contro seicento italiani: fu un massacro. Prima di cadere, De Cristoforis, volgendo un ultimo pensiero alla Patria lontana, riunì i pochi soldati ancora in vita comandandovi di onorare i commilitoni caduti, presentando loro le armi. Il nome di quel colle, dove si salvarono solamente un’ottantina di soldati, abbandonati dal nemico che li credeva morti, resterà per decenni nella memoria italiana: Dogali. La disfatta produsse in Patria molto dolore, tanto che la Camera votò nuovi crediti inviando consistenti rinforzi. Comunque, seguirono due anni di relativa tranquillità, fino al giorno in cui giunse a Massaua il generale padovano Antonio Baldissera, “ l’austriaco ”, così chiamato per il suo passato da ufficiale nell’esercito asburgico. 

Si deve a lui il mutamento degli indisciplinati bashi-buzuk in soldati fieri e disciplinati, ribattezzandoli “ascari”. Scelse i migliori, selezionandoli tra le etnie più combattive, indipendentemente dalla loro fede religiosa. “Credano pure in ciò che vogliono – dirà – purché obbediscano e combattano.” Approfittando della morte del negus Giovanni IV, Baldissera, agevolato dalle guerriglie tra i vari ras che si contendevano l’ambito trono d’Abissinia, continuò l’avanzata verso ovest, allargando considerevolmente i confini italiani, sconfiggendo Alula ed occupando Asmara, che diventò la capitale della nostra prima colonia, l’Eritrea, annunciata dal capo del Governo italiano Francesco Crispi il 1 gennaio 1889.

A sud dell’Etiopia intanto, in Somalia, altri soldati erano sbarcati nella Costa dei Somali, conquistando il sultanato della Migiurtinia. Il trono del Leone di Giuda fu poi conquistato dal ras dello Scioà, che, grazie all’aiuto italiano, che lo avevano rifornito di denaro e munizioni, fu incoronato a Gondar mesi dopo, adottando il nome di Menelik II. Il nuovo negus firmò subito un trattato d’amicizia con gli italiani, che si impegnavano ad appoggiarlo nelle guerre contro gli altri ras (Trattato di Uccialli). Compiaciuto della situazione favorevole, Crispi, desideroso di trasformare l’Italia in una grande potenza coloniale, ordinò al generale Baldissera di continuare la sua marcia verso l’ovest. “L’austriaco” respinse più volte le richieste del presidente del Consiglio, finché quest’ultimo decise di sostituirlo e richiamarlo in Patria. Per un breve periodo l’Eritrea fu messa nelle mani del generale Baldassarre Orero, poi passò sotto la supervisione di Oreste Baratieri, un generale dal passato garibaldino amico personale di Crispi, che, approdato in Africa, si apprestò ad assecondare le ambizioni coloniali di Roma. “Il primo screzio tra Roma e Addis Abeba – scrive Arrigo Petacco nel suo lavoro Faccetta nera – si registrò con la controversia sull’interpretazione dell’articolo 17 del trattato di Uccialli. Secondo Menelik, l’articolo stabiliva che il negus “può farsi rappresentare in Europa dall’Italia”, secondo Crispi che il negus “deve e consente di farsi rappresentare”. In questo contesto le cose non poterono che peggiorare e non passò del tempo che i tamburi di guerra iniziarono a tuonare.

Come abbiamo già detto, il generale Baratieri non restò con le mani in mano: nell’autunno del 1894, dopo aver conquistato Cassala, in Sudan, mosse verso il Tigrè, la vasta regione abissina dove regnava Ras Mangascià, il ras che tempo prima aveva aiutato alcune tribù tigrine ad attaccare, in piccoli assalti, le postazioni italiane, distruggendo la sua armata e conquistando l’intera regione, guadagnandosi (e a ben merito) l’appellativo di “Napoleone d’Africa”. Gli echi del trionfo italiano provocarono non poche preoccupazioni ad Addis Abeba, dove il nuovo negus si vide costretto ad ordinare la mobilitazione generale. Fu in quegli anni che verranno scritte alcune delle pagine più gloriose della storia dell’esercito italiano, pagine che, purtroppo, non parleranno sempre di vittorie.

Una di queste pagine va dedicata al maggiore Pietro Toselli, coraggioso ufficiale piemontese, comandante di una colonna di ascari: un mattino d’inizio dicembre la sua colonna lasciò il villaggio di Maccalè, dove era acquartierata il resto dell’armata, per effettuare un giro di perlustrazione nelle vicinanze del lago Ascianghi, dove venne avvistata una grande armata nemica in avvicinamento. Gli abissini stavano rispondendo all’attacco. Il rapporto d’armi era impari, insostenibile per le forze italiane che ammontavano a milleseicento uomini. Gli abissini erano più di trentamila. Così il maggiore fu costretto ad arroccarsi sulle pendici di un amba, dove attese l’arrivo dei nemici. La battaglia iniziò il 5 dicembre 1895 e fu violentissima. Gli attaccanti, guidati da Ras Macconen, comandante dell’armata imperiale, al quale si erano aggiunti i soldati di ras Alula e ras Mangascià, attaccarono con estrema brutalità il presidio tenuto dalle nostre forze indigene, che tennero duro e si difesero con valore. Ma il fuoco delle mitragliatrici non riuscì a sostenere la violenza delle orde africane che si lanciava avanti urlando. Verso l’una del pomeriggio, quando la battaglia ancora infuriava, il coraggioso maggiore, afono e ferito, disse al suo aiutante: “Non ne posso più. Ora mi volto e lascio che facciano” e così dicendo scomparve nella mischia. Il monte dove avvenne l’eroica resistenza dei nostri ascari portava il nome di Amba Alagi, rimasto indelebile nella storia della nostra Patria per il maggiore Toselli ed il fiero IV Battaglione Eritreo, che vi trovarono la morte.

Eliminata la minaccia dell’Amba Alagi gli abissini puntarono su Maccalè, dove una piccola guarnigione, composta da circa milletrecento uomini tra italiani ed ascari, comandata da un altro coraggioso ufficiale piemontese, il maggior Giuseppe Galliano, era rimasta in presidio del villaggio. La massa scioana giunse innanzi al forte il 9 dicembre, ma non attaccò subito: restò immobile alle porte del villaggio, attendendo l’arrivo di altri uomini, aumentando consistentemente nel giro di pochi giorni. Nonostante i numerosi tentativi di Maconnen di indurre il piemontese ad arrendersi, Galliano non intendeva cedere il villaggio agli abissini che, la notte del 7 gennaio, iniziarono ad attaccare. L’assedio, che fu brutale, durò molti giorni, ma il peggior nemico degli italiani si rivelò la sete. Da giorni infatti il forte era a secco. Inviando inutilmente i suoi spericolati messaggeri per avvertire Baratieri dell’ostile situazione, Galliano si preparava ad affrontare la fine con onore. “E’ questione di ore, – dirà – poi il sacrificio.” Quella stessa sera, quando la situazione era ormai diventata insostenibile, riunendosi con i suoi ufficiali, decisero che il giorno successivo avrebbero fatto saltare il forte ed attaccato gli abissini. “Fu a questo punto – continua Arrigo Petacco – che entrò in scena un misterioso personaggio. Pietro Felter, un commerciante bresciano che viveva da tempo in Abissinia e godeva la piena fiducia di Maconnen. Felter si mise in contatto con Baratieri e si offrì come intermediario, poi, dopo complesse trattative, gli fece sapere che il ras, d’accordo con il suo negus, era disposto a liberare la guarnigione in cambio di un riscatto in denaro.” La cifra (esorbitante…) fu pagata personalmente dal Re Umberto I, all’insaputa dei difensori di Maccalè che continuavano ignari l’eroica resistenza. L’ordine di resa giunse al forte la sera del 19 gennaio. Nel leggere l’umiliante trattativa Galliano impallidì; altri ufficiali scoppiarono in lacrime. “Povera Italia” dirà lasciando il villaggio il fiero piemontese, che per l’eroismo dimostrato aveva ricevuto elogi dal re e dal Kaiser di Germania.

Sbaragliato anche il pericolo proveniente da Maccalè, gli abissini mossero verso l’Eritrea. Gli italiani, per contrastarli, si spinsero vero Adua. Fu proprio nei pressi di questo piccolo villaggio del Tigrè che si consumò la più grande sciagura dell’esercito italiano in terra d’Africa: la sera del 29 febbraio Baratieri spinse le sue armate, guidate da valorosi generali, quali Matteo Albertone, Giuseppe Arimondi, Vittorio Emanuele Dabormida e Giuseppe Ellena. Circa diciassettemila uomini in tutto, ma Menelik II era pronto a riceverlo. Fu all’alba del 1 marzo che iniziò la tragedia: la Brigata indigena guidata da Albertone, ingannata da una falsa indicazione topografica, capitò all’insaputa nel campo nemico, trovandosi imprigionata in un inferno abissino. Fu un massacro. Travolti gli ascari di Albertone, gli altri centomila guerrieri scioani si riversarono con violenza sulle altre brigate italiane. I combattimenti furono infuocati: italiani ed eritrei, benché inferiori di numero, si batterono da leoni, aprendo molti vuoti fra gli attaccanti, costringendo gli abissini a retrocedere. Solamente l’intervento della valorosa Guardia Imperiale lanciata dal negus sulle postazioni tenute dagli ascari mutò il corso della battaglia. Rimasta in piedi solamente la brigata del generale Arimondi, Baratieri vi inviò in soccorso il III indigeni di Galliano, gli eroici difensori di Maccalè. Ma ormai le sorti del combattimento erano decise. Questa catastrofe militare, passata alla storia come la “disfatta di Adua”, all’Italia costò cinquemila morti metropolitani, compresi gli impavidi ufficiali: Albertone fu fatto prigioniero; Arimondi, ferito al ginocchio, continuando il combattimento con la spada sguainata, perì sommerso da una violenta marea umana abissina; anche Dabormida era caduto; quanto a Galliano, non se ne seppe più nulla.

Come in precedenza per Toselli, la sua morte era destinata ad entrare nella leggenda. I due eroi piemontesi, divenuti simbolo dell’eroismo italiano in terra d’Africa, solennizzati durante il ventennio fascista, sono oggi dimenticati dalla memoria nazionale, cancellati dai libri di storia ed obliati dalla Patria per cui diedero coraggiosamente la vita. A Roma, in via Lepanto, innanzi alla caserma Nazario Sauro, due busti di bronzo eretti più di cento anni fa, posti l’uno di fronte all’altro e riportanti i visi dei due ufficiali, rappresentano l’unico gesto di riconoscimento presente nella capitale in ricordo dei due martiri. 

Agli ascari andò peggio, anche se le vittime riportate furono minori rispetto a quelle italiane (milleseicento morti). Il giorno successivo alla battaglia di Adua, il negus ordinò che agli ascari di provenienza tigrina catturati, considerati disertori della causa etiopica, subissero l’agghiacciante mutilazione della mano destra e del piede sinistro, in modo che non potessero mai più combattere. Di questi, solamente quattrocentosei riuscirono, trascinandosi faticosamente, a raggiungere l’Eritrea. La notizia della disfatta giunse in Italia la notte del 2 marzo, provocando chiaramente immensi clamori in Patria e all’estero: per la prima volta nella storia un esercito “bianco” veniva sconfitto da un esercito “nero”; per la prima volta nella storia una nazione europea aveva dovuto chinare il capo ad una nazione africana.

La pace tra Roma ed Addis Abeba fu firmata il 26 ottobre dello stesso anno, stipulando “[…] pace ed amicizia perpetua fra S. M. il Re d’Italia e l’Imperatore d’Etiopia, come tra i loro successori e sudditi – e precisando che – l’Italia riconosce l’indipendenza assoluta dell’Impero d’Etiopia come stato sovrano.” Al trattato seguiranno diversi accordi bilaterali che stabilivano il confine tra l’Abissinia e le colonie italiane (Eritrea e Somalia). Incomprensibilmente la linea di confine con i territori somali non venne mai tracciata ed un vastissimo territorio dell’Ogaden restò per anni terra di nessuno. Con convenzione aggiuntiva al trattato venivano liberati, dietro pagamento, i prigionieri trattenuti in Abissinia. Si dice che “l’africanista” Regina Margherita, in uno scatto d’orgoglio patriottico, dichiarò: “I prigionieri si riscattano con il piombo e non con l’oro.”

sabato 25 ottobre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 25 ottobre.

Il 25 ottobre 1955 Sadako Sasaki, una bambina sopravvissuta alla bomba di Hiroshima, muore per una grave leucemia dovuta all'esposizione alle radiazioni.

La piccola Sadako si trovava a casa, a circa 1,7 chilometri di distanza dal luogo dell’esplosione. Lo spostamento violento d’aria la scaraventò fuori dalla finestra. Sua madre corse a cercarla, e la trovò poco lontano dalla sua abitazione, nei pressi del Ponte Misasa: la bimba era apparentemente illesa. La nonna materna si precipitò fuori di casa e non fu più vista. Sadako e la madre furono esposte alla pioggia nera. Crescendo divenne forte e atletica, ma nel 1954, all’età di undici anni, mentre si stava allenando per un’importante gara di corsa, fu colta da vertigini e cadde a terra. Le sue gambe si arrossarono e si gonfiarono nel gennaio del 1955. Le fu diagnosticata una grave forma di leucemia, conseguenza delle radiazioni della bomba atomica. La ragazzina venne quindi ricoverata alla croce rossa di Hiroshima.

La sua migliore amica, Chizuko Hamamoto, le parlò di un’antica leggenda secondo cui, chi fosse riuscito a creare mille gru – uccello simbolo di lunga vita – con la tecnica dell’origami avrebbe potuto esprimere un desiderio. Chizuko stessa realizzò per lei la prima, Sadako continuò nella speranza di poter tornare presto a correre. Comunque, il suo desiderio non era limitato a questo; Sadako stava dedicando al suo lavoro il massimo impegno, poiché credeva che così avrebbe posto fine a tutte le sofferenze, avrebbe curato tutte le vittime del mondo ed avrebbe portato loro la pace.

Poco dopo aver intrapreso il suo progetto, Sadako conobbe un bambino nelle sue stesse condizioni, a cui era rimasto poco da vivere. Ella cercò di convincerlo a fare la stessa cosa, ma la sua risposta fu: so che morirò stanotte. Durante i quattordici mesi trascorsi in ospedale, Sadako realizzò gru con qualsiasi carta a sua disposizione, comprese le confezioni dei suoi farmaci e la carta da imballaggio dei regali degli altri pazienti. Morì la mattina del 25 ottobre 1955. Le ultime parole che conosciamo della ragazzina sono “è buono” riferito al piatto di riso che le avevano fatto mangiare. Una versione della sua storia, vuole che Sadako fosse riuscita a completare 1000 gru, prima di morire; secondo un’altra, riferitaci da Eleanor Coerr nel suo romanzo Sadako and the Thousand Paper Cranes, Sadako sarebbe riuscita a completarne solo 644, mentre le restanti 356 sarebbero state aggiunte dai suoi amici. Infine, tutte le gru sarebbero state sepolte con lei.

Dopo la sua morte, i suoi amici e compagni di scuola pubblicarono una raccolta di lettere al fine di raccogliere fondi per costruire un monumento in memoria sua e degli altri bambini morti in seguito alla bomba atomica di Hiroshima. Nel 1958, fu collocata al Parco del Memoriale della Pace una statua raffigurante Sadako mentre tende una gru d’oro verso il cielo. Ai piedi della statua, una targa reca incisa la frase: “Questo è il tuo pianto. La nostra preghiera. Pace nel mondo”. È possibile, per i visitatori, come ricordo di Sadako e come simbolo di pace, lasciare una gru di carta in una grande urna, unitamente ad un messaggio. Le è stata dedicata anche un’altra statua, situata al Parco della Pace di Seattle.

venerdì 24 ottobre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 24 ottobre.

Il 24 ottobre 1922 a Napoli si tenne un raduno di camice nere, una sorta di prova generale per l'imminente Marcia su Roma.

Quando si parla comunemente di marcia su Roma si intende quella particolare spedizione militare avvenuta negli ultimi giorni dell’ottobre del 1922 con la quale i fascisti mossero verso la capitale. In realtà, l’espressione marcia su Roma può riguardare un avvenimento molto più ampio, di preparazione alla fase finale che si concluse il 28 ottobre.

Le vicende dell’ottobre 1922 ci sono note solo nei loro tratti principali, ma appena si cerca di approfondire emerge una complessità molto ampia di cui si possono notare due problemi centrali: il ruolo giocato dalla Corona e quello del Governo. Questa situazione fu molto complessa tanto che ancora oggi le stesse istituzioni, i giornali, i partiti non conoscono le proporzioni, i caratteri, le finalità complessive del movimento.

In quel periodo si era definitivamente manifestata, a partire dai primi mesi del 1922 la crisi dello Stato liberale, infatti i due Governi che si succedettero nel 1922, il Governo guidato da Ivanoe Bonomi e quelli guidati da Luigi Facta erano Governi estremamente deboli che si basavano su una maggioranza eterogenea composta dal Partito Liberale Italiano, Partito Popolare Italiano, Partito Democratico Sociale Italiano, Partito Socialista Riformista Italiano e Partito Agrario.

Il succedersi dei fatti è abbastanza conosciuto; Mussolini prepara la marcia su Roma, il Governo risponde con un mezzo non raro nella storia dell’Italia liberale, proclamando lo stato di assedio che consente l’impiego dell’esercito. Il re inizialmente accetta la scelta del Governo, ma il 28 ottobre, quando si tratta di passare ai fatti, si rimangia la parola e si rifiuta di avviare l’azione repressiva da parte dell’esercito del Governo. Il Presidente del Consiglio presenta le dimissioni, seguendo la consuetudine che fa capire come ancora nel 1920 la fiducia del sovrano sul Governo fosse ancora importante, il re accetta immediatamente. Questa è in estrema sintesi quello che è successo in quei giorni, ma gli svolgimenti e le implicazioni disegnano un quadro più complesso fin dall’organizzazione della marcia su Roma.

Per tutto il 1922 c’erano state già quelle che da molti storici sono considerate delle prove generali delle anticipazioni della marcia su Roma con l’occupazione di Bolzano, Trento, Bologna e altri centri minori che rinforzavano il ruolo politico militare del fascismo nel Paese. Il 26 settembre 1922 Mussolini si recò a Cremona tra l’entusiasmo delle camicie nere; dopo il consueto discorso introduttivo di Farinacci, parlò  il leader del fascismo: “È dalle rive del Piave che noi abbiamo iniziato una marcia che non può fermarsi fino a quando non abbiamo raggiunto la meta suprema: Roma”. Il 24 ottobre ci furono ulteriori prove generali con il grande concentramento di Napoli, il piano ormai consolidato era quello di conquistare prima la periferia come era stato su scala minore, ma questa volta l’obbiettivo era la capitale. Lo squadrismo voleva quindi forzare la mano a quella parte politica liberal-moderata monarchica, sostenuta dalla Confindustria che guardava con simpatia al fascismo, ma che avrebbe concesso in un Governo di centro-destra solo qualche ministero al fascismo. Divisa l’Italia in dodici territori, Mussolini e i quadrunviri lasciarono la grande manifestazione di Napoli, tutti avevano dei compiti precisi che dovevano svolgere in poco tempo tra il 25 e il 27 ottobre; inoltre il piano insurrezionale era stabilito in cinque tempi come ha  scritto  lo storico  Renzo De Felice:

1-Occupazione degli uffici pubblici delle principali città del Regno;

2-Concentramento delle camicie nere a Santa Marinella, Perugia, Tivoli, Monterotondo, Volturno;

3- Ultimatum al Governo di Facta per la cessione generale dei poteri dello stato;

4-Entrata a Roma e presa di possesso ad ogni costo dei ministeri. In caso di sconfitta le milizie fasciste avrebbero dovuto ripiegare verso l’Italia centrale, protette dalle riserve ammassate nell’Umbria;

5- Costituzione di un Governo fascista in una città dell’Italia centrale. Radunata rapida delle camicie nere della Vallata Padana e ripresa dell’azione su Roma fino alla vittoria ed al possesso.

Nel doloroso caso di un investimento bellico, la colonna Bottai (Tivoli e Valmontone) accerchierà il quartiere di S. Lorenzo entrando dalla Porta Tiburtina e da Porta Maggiore.  La colonna Igliori con Fara (Monterotondo) premerà da porta Salaria e da Porta Pia e la colonna Perrone (Santa Marinella) da Trastevere.

A partire dal 26 ottobre le squadre occuparono molte città dell’Italia settentrionale e centrale prendendo il possesso dei centri strategici come  le prefetture per poi muovere verso Roma. Le autorità dello Stato nelle diverse città non avevano disposizioni precise su come contrastare queste iniziative ed erano troppo abituate a lasciar correre:  gran parte cedettero pacificamente o vennero sopraffatte. L’azione vera e propria iniziò nella notte tra il 27 e il 28 ottobre. Alcuni dei comandanti di zona diedero le disposizioni attraverso delle apposite staffette ai comandanti locali e altri le diedero  in treno. L’ordine di mobilitazione comandava che questa avvenisse tra il 27-28 di notte, l’orario dipendeva dalla distanza dei vari luoghi dal capoluogo di provincia. Gli squadristi dovevano avere la tessera, dei viveri a secco per tre giorni ed essere  in assetto da guerra.

Il comportamento del re e del Governo in questa situazione mutò rapidamente; infatti se all’inizio sembrò a favore della proclamazione dello stato d’assedio e dette l’impressione di sollecitare Facta, in giro di breve tempo, come sostiene Renzo de Felice, rifiutò la firma del decreto. Questo cambiamento non è da ricercare in una preventiva intesa con Mussolini e si può escludere che i fascisti nella notte tra il 27 e il 28 ottobre abbiano fatto pressioni sul Re. La motivazione reale di questo cambiamento secondo Renzo de Felice bisogna ricercarla negli ambienti vicini a lui e sui quali riponeva fiducia tanto da influenzarlo, dato che il re era solo parzialmente a favore di Mussolini: inizialmente la sua idea era di non firmare lo stato d’assedio e di dare il governo a Salandra; è quindi ipotizzabile che avesse accettato solo metà della proposta suggeritagli.

Si arrivò quindi alla marcia su Roma con il Sovrano e il Governo senza una linea comune e questo creò solo confusione.

giovedì 23 ottobre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 23 ottobre.

Il 23 ottobre 2011, in un incidente durante una corsa di MotoGP, muore il pilota Marco Simoncelli.

Con la sua moto correva come un fulmine in pista, sempre con il gas al massimo, come tutti i suoi più illustri colleghi ed avversari. Tutti lo potevano riconoscere, senza casco, per quella sua irriverente folta e riccia capigliatura. Ma se c'era una caratteristica che lo faceva spiccare in mezzo a tutti, era proprio la simpatia, la grande amicizia che dimostrava con chiunque, fino ad arrivare a bucare radio e teleschermi per trasmetterla via etere. Ecco perché quando se n'è andato, in un tragico incidente occorso in gara il 23 ottobre 2011, ha lasciato sgomenti non solo colleghi e amici, ma anche ogni fan e ogni persona che l'aveva conosciuto attraverso i media. La sua ultima avventura in sella è stata quella di Sepang, circuito della Malesia che solo tre anni prima gli aveva regalato il titolo mondiale in classe 250.

Marco Simoncelli nasce a Cattolica (Rimini) il 20 gennaio 1987 e vive fin da piccolo a Coriano, un comune di circa diecimila abitanti sulle colline sopra Cattolica. Comincia a correre in tenerissima età, quando ha solo sette anni, in sella alle minimoto. A dodici anni è già campione italiano; l'anno dopo, nel 2000, gareggia per il titolo europeo arrivando secondo. A quattordici anni prende parte al Trofeo Honda NR (salendo in due occasioni sul podio) ed al campionato italiano 125 GP.

Nel 2002 si laurea campione europeo classe 125cc e lo stesso anno, dopo un buon apprendistato a livello nazionale ed europeo, debutta nel Motomondiale classe 125. Nel GP della Repubblica Ceca, con il team dell'Aprilia CWF - Matteoni Racing, corre al posto di Jaroslav Hule, passato alla classe 250. Termina la sua prima stagione al 33º posto con solo 3 punti.

E' il 2003 l'anno che vede Marco Simoncelli impegnato per un'intera stagione del motomondiale: corre in squadra con Mirko Giansanti, terminando la stagione al 21º posto.

Nonostante la stagione del 2004 si dimostri difficile dimostra grandi capacità nel gestire al meglio la moto sul bagnato: a Jerez ottiene la pole position e consegue la sua prima vittoria in carriera. Termina la stagione in 11ª posizione.

Dopo un altro gran premio vinto a Jerez e alti sei podi nel 2005, coglie l'opportunità di passare alla classe superiore e correre con le moto 250. Nel 2006 sale in sella alla Gilera RSV con capotecnico Rossano Brazzi, già tecnico in passato di campioni come Valentino Rossi e Marco Melandri, il quale però si ammala dopo le prime gare lasciandolo senza una vera "guida" durante tutta la stagione. Simoncelli si classifica decimo senza ottenere risultati eclatanti (il sesto posto in Cina è il miglior risultato).

Dopo un brutto 2007, povero di risultati il pilota romagnolo conosce finalmente una stagione esaltante: come sopra citato è Sepang, in Malesia, il circuito dove Marco Simoncelli, all'età di 21 anni, si laurea campione del mondo della 250; vince poi ancora a Valencia e corona una grande stagione, in cui totalizza 281 punti.

Durante la stagione 2009, partecipa alla quattordicesima prova del campionato mondiale Superbike sull'Aprilia RSV4 in sostituzione di Shinya Nakano. Il suo compagno di squadra è Max Biaggi.

Nel 2010 passa alla classe regina, la MotoGP, guidando la RC212V del team San Carlo Honda Gresini: il suo nuovo compagno di squadra è Marco Melandri. Ottiene come miglior risultato un quarto posto in Portogallo e termina la stagione all'8º posto con 125 punti.

Nel 2011 resta nello stesso team avendo però una fornitura uguale a quella ufficiale del team HRC, questa volta con compagno di squadra Hiroshi Aoyama. Ottiene due quinti posti e due pole position. Al GP della Repubblica Ceca arriva terzo e ottiene il suo primo podio nella classe regina. Al Gran Premio motociclistico di San Marino e della Riviera di Rimini 2011 Simoncelli ottiene un quarto posto dopo un finale di gara molto concitato durante il quale, negli ultimi 3 giri, lotta con il connazionale Andrea Dovizioso e con lo statunitense Ben Spies per mantenere la sua quarta posizione. In Australia "SuperSic" - così viene da tutti soprannominato - arriva secondo, registrando il suo miglior risultato in carriera in MotoGP.

Il 23 ottobre 2011 si corre il Gran Premio della Malesia: nel corso del secondo giro, la moto del pilota romagnolo perde aderenza alla ruota posteriore, cade e taglia trasversalmente la pista; i piloti che lo seguono da brevissima distanza non possono in alcun modo evitarlo: l'impatto delle moto con il corpo del pilota è di intensità tale che gli fa addirittura perdere il casco. Marco Simoncelli muore a causa del terribile colpo, che gli procura traumi a testa, collo e torace. Aveva 24 anni.

Dopo la sua morte tifosi e appassionati hanno promosso l'idea di intitolare la pista di Misano Adriatico alla memoria del pilota italiano, il quale viveva a pochi chilometri di distanza. Il 2 novembre 2011 il consiglio di amministrazione di Santamonica S.p.A., proprietaria del tracciato, ha deciso di accogliere la richiesta e di associare il nome del circuito romagnolo a quello di Simoncelli; il cambio di denominazione è stato ufficializzato il 9 giugno 2012, in occasione del Gran Premio di Superbike di San Marino. Inoltre, alla memoria di Simoncelli è stata realizzata a Coriano l'opera Ogni domenica dallo scultore Arcangelo Sassolino.

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