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martedì 30 dicembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 30 dicembre.

Il 30 dicembre 2011 non è mai esistito per le isole Samoa, che sono passate direttamente dal 29 al 31.

Le Isole Samoa, piccolo arcipelago in mezzo all’Oceano Pacifico, hanno scelto di “abolire” il 30 dicembre 2011: alla mezzanotte di giovedì 29, sono entrate direttamente nell’ultimo giorno dell’anno, sabato 31.

Ma perchè questa scelta?

Le Samoa erano tra gli ultimi Paesi del mondo in cui inizia la giornata, dato che si trovavano a est del 180° meridiano, linea convenzionalmente utilizzata per segnare il confine tra un giorno e l’altro nei diversi fusi orari. Il problema è che i principali Paesi vicini alle Samoa, come Australia e Nuova Zelanda che sono partner commerciali privilegiati, si trovano a ovest di questa linea. Accadeva così che con i “vicini” ci fossero oltre 20 ore di fuso orario, a distanza di pochi chilometri. Una situazione che diventa problematica quando ci sono di mezzo gli affari. Basti pensare che quando in Australia o in Nuova Zelanda iniziava la settimana con un lunedì di duro lavoro, sulle Isole Samoa era ancora domenica.

Tutto questo perché la Linea di Cambiamento di data non è geografica, ma politica, quindi lascia facoltà a ogni amministrazione di scegliere a quale giorno appartenere in base alla scelta del fuso orario di riferimento.

In sintesi, durante l'epoca del colonialismo si pose il problema di fissare le date in modo uniforme, così nel corso della Conferenza Internazionale dei Meridiani di Washington del 1884 venne istituita la Linea del cambio di data lungo il meridiano opposto al meridiano di Greenwich.

La denominazione di "Linea Internazionale del cambio di data" è tuttavia ingannevole, perché nessun documento o trattato ufficiale fissa l'effettivo percorso odierno della linea. La linea oggi indicata nelle mappe e negli atlanti si basa sostanzialmente sulle indicazioni della marina militare degli Stati Uniti.

Infine, alcuni esempi per ribadire il concetto di “politicità” dei fusi orari. La Russia, continente di fatto e attraversata da 11 fusi orari, ha deciso di abolire l'ora legale (che non dava alcun beneficio), oppure la Cina, da sempre caratterizzata da una forte autorità centrale e il cui territorio si estende su quattro fusi, ha scelto di adottarne uno solo (quello di Pechino) per unificare il Paese.

Anche in Italia, prima dell'unificazione, ogni città aveva il suo fuso orario di riferimento. Era dunque normale che un messaggio spedito via telegrafo da Venezia alle 10 arrivasse a Torino alle 9:42...

E così le Isole Samoa hanno deciso di fare un “salto”, passando a ovest della linea che convenzionalmente divide i giorni. E dato che il passo è stato fatto alla mezzanotte di giovedì 29, i samoani sono passati direttamente dal 29 dicembre al 31 dicembre. Un motivo di gioia per chi lavora, dato che non ha dovuto presentarsi in ufficio venerdì. Un po’ meno per chi si trovava in ferie, dato che ha saltato un giorno di vacanza.

Inevitabili i disagi, soprattutto per chi ha prenotato voli o viaggi proprio il 30 dicembre. Fastidi e difficoltà che i samoani hanno dimenticato, festeggiando per primi al mondo l’arrivo del 2012.


lunedì 29 dicembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 29 dicembre.

Il 29 dicembre si celebra in Mongolia la festa dell'Indipendenza dalla Cina.

Gli scavi archeologici effettuati nel Gobi e in altre regioni della Mongolia hanno portato alla luce alcuni resti umani risalenti a circa 500.000 anni fa. La Mongolia fu infatti popolata fin dall’antichità da popolazioni nomadi che vivevano di allevamento ed agricoltura e che in più di un’occasione, organizzate in potenti federazioni politiche, invasero la Cina.

Il termine “mongolo” fu utilizzato per la prima volta proprio dai cinesi all’epoca della dinastia Tang (618-907). Tra il IV° e il XII° sec. d.C. non ci sono però molte notizie sulle tribù, prevalentemente unne, che si trovavano in questa vaste prateria dell’Asia centro-settentrionale.

I mongoli non erano molto inclini a stringere alleanze con le altre popolazioni nomadi dell’Asia settentrionale. Rimasero poco più che una confederazione disgregata di clan rivali fino alla fine del XII secolo, quando, più precisamente nella primavera del 1206 d.C., un’assemblea generale delle popolazioni di stirpe mongola si riunì per eleggere una guida comune. La scelta cadde su un mongolo di appena 20 anni chiamato Temujin (“il fabbro”), che passerà poi alla storia con il titolo onorifico di Genghis Khan, “Sovrano Universale”. Per i mongoli la sua figura incarna gli ideali di forza, unità, legge e ordine. Genghis Khan nominò l’odierna Kharkhorin capitale del suo regno e lanciò la sua coraggiosa cavalleria contro Cina e Russia. Alla sua morte, che avvenne nel 1227, era riuscito ad unificare le numerose etnie che coesistevano nel Paese, creando un vero e proprio impero.

Il nipote di Gengis Khan, Kublai Khan, portò a compimento la conquista della Cina, ponendo fine alla dinastia Song e divenendo il capostipite della dinastia Yuan (1271-1368). È in questo periodo che si registra il massimo fulgore della Mongolia: l’Impero Mongolo, il più vasto che il mondo avesse mai conosciuto, si estendeva dalla Corea all’Ungheria e, a sud, fino al Vietnam.

Dopo la morte di Kublai Khan, avvenuta nel 1294, i mongoli presero però a dipendere sempre più dalle popolazioni che essi avevano assoggettato e si guadagnarono il disprezzo generale creando una classe elitaria e privilegiata, mentre tutto l’impero era preda di fazioni rivali in lotta per il potere. I mongoli furono cacciati da Pechino alla metà del XIV° secolo dal primo imperatore della dinastia Ming. Alla disgregazione dell’impero seguirono anni di declino segnati da guerre fra clan rivali.

Nel XVII° secolo, il Paese divenne dominio della dinastia Manciù che regnava sulla Cina, andando a costituire due province cinesi, la Mongolia Interna ed Esterna. Nel frattempo, alla fine del XVII° secolo, la Mongolia perse la sua parte settentrionale ed il lago Bajkal a seguito dell’invasione russa.

La storia della Mongolia moderna inizia con la caduta della dinastia cinese Manciù (1911). La Mongolia, approfittò infatti di questa occasione per dichiarare la propria indipendenza dalla Cina, diventando un protettorato russo governato da una monarchia teocratica. Nel 1915, Mongolia, Cina e Russia firmarono il trattato di Kyakhta, che sanciva il riconoscimento di una limitata autonomia della Mongolia.

Nel 1919 però la Cina, approfittando della debolezza russa dovuta alla rivoluzione bolscevica del 1917, occupò la capitale. Nel luglio del 1921 un giovane ufficiale, Sükhe-Bator (1893-1923), riunì intorno a sé l’opposizione nazionalista mongola, alleandosi con i bolscevichi, e l’asse russo-mongolo riuscì così a riconquistare Ulaan Baatar. La condotta brutale tenuta sia dai cinesi sia dai russi aveva però alimentato il desiderio di indipendenza da parte dei mongoli. Lo stesso anno venne dunque costituito il nuovo Partito Popolare Mongolo (il primo partito politico della storia della Mongolia, nonché l’unico per i successivi 69 anni) le cui milizie, sostenute dall’Armata Rossa, cacciarono dal Paese le residue truppe cinesi e quelle antibolsceviche. Il partito salì così al governo del Paese e, il 26 novembre 1924, fu proclamata la Repubblica Popolare di Mongolia, la seconda nazione comunista del mondo.

Allineati all’Unione Sovietica, i dirigenti della Repubblica Popolare intrapresero una radicale trasformazione del Paese. La collettivizzazione delle terre e degli allevamenti e la confisca dei monasteri causarono agli inizi degli anni Trenta frequenti rivolte, soffocate nel sangue dalle autorità bolsceviche.

Nel 1936 poi, a seguito della perdita della Cina, l’impero mongolo conobbe un forte declino. A partire dal 1937 conobbe una stagione di lotte interne al partito e iniziarono le purghe staliniste che catapultarono la Mongolia in un vero e proprio incubo totalitarista. La campagna antireligiosa del governo fu particolarmente brutale: ebbe inizio una cruenta lotta contro i monasteri, che vennero rasi al suolo e migliaia di monaci furono sterminati.

Nel 1945 la conferenza di Jalta confermò il protettorato sovietico sulla Mongolia e l’anno seguente la Repubblica Popolare Mongola venne riconosciuto dalla Cina (dal 1949 i due paesi stabilirono normali relazioni diplomatiche). Accolta nel 1961 nelle Nazioni Unite, la Mongolia riprese a coltivare stretti rapporti politici ed economici con i sovietici, al punto da essere considerata una repubblica organica all’Unione Sovietica e tanto da aver ospitato molte basi URSS durante la Guerra fredda ed un contingente di circa 65.000 uomini. Dal 1966 i due paesi sono legati da un trattato di amicizia e di mutua assistenza.

Nella seconda metà degli anni Ottanta l’ascesa di Michail Gorbaciov alla guida dell’Unione Sovietica determinò anche in Mongolia l’inizio di un processo di democratizzazione, sotto la guida di Jambyn Batmonkh, che nel 1986 avviò anche in Mongolia un cauto tentativo di perestroika (ristrutturazione economica, politica e sociale) e glasnost (trasparenza politica). Il disfacimento dell’Unione Sovietica portò poi, per forza di cose, alla decolonizzazione, che culminò nel luglio 1990 con le prime elezioni multipartitiche. Solo poche persone erano preparate ad affrontare la velocità del cambiamento e il Paese si è trovato ad affrontare una difficile transizione dopo 75 anni di ininterrotto regime comunista, che ha visto alternarsi al governo il Partito Popolare Rivoluzionario Mongolo (PPRM), nato dalla trasformazione dell’ex partito comunista al potere, e una coalizione di forze di vaga ispirazione democratica.

I vari governi che si sono susseguiti hanno cercato di attirare investimenti esteri e di attuare una politica di riforme e privatizzazioni basata sul modello occidentale, ma non ciò è bastato a evitare l’espandersi di miseria e carestia su vasta scala. Il Paese è peraltro afflitto da una diffusa corruzione degli apparati statali e, dopo il 2000 in seguito a un periodo di freddo intenso che ha causato la morte di milioni di capi di bestiame, da una crisi economica ancora più grave.

Nel maggio 2005 le elezioni presidenziali sono state vinte dall’ex-comunista Nambaryn Enkhbayar con il 53,4% dei voti.

domenica 28 dicembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 28 dicembre.

Il 28 dicembre 1870 si verifica a Roma una grandissima inondazione dovuta allo straripamento del Tevere.

Quando Roma fu colpita da una violenta alluvione, nel dicembre 1870, l’opinione pubblica rimase particolarmente impressionata dall’evento. Addirittura il Re, Vittorio Emanuele II, arrivò in treno per ispezionare personalmente la Città Eterna e visitarla per la prima volta.

Roma però non era nuova a episodi simili: infatti ha sempre dovuto fare i conti con le piene del Tevere, sin dalla sua fondazione, anche se storicamente furono documentate solo dalla fine del V secolo a.C.

Se nell’antichità le piene erano viste come un fenomeno cui adattarsi più che da combattere, nei secoli successivi, la decadenza dell’impero, le invasioni barbariche e la crisi generale di Roma produssero gravi danni dovuti all’abbandono di ogni forma di controllo del fiume. In particolare dal 1450 al 1700 si verificarono una dozzina di piene eccezionali, che causarono migliaia di morti e feriti. Fu però l’inondazione del 1870 a creare un decisivo spartiacque nella storia di Roma e nel suo rapporto con il Tevere.

L’alluvione del 1870 rimase negli annali non solo per la portata eccezionale dell’evento, ma anche per la sua natura simbolica. Roma infatti fu sottratta al Papa il 20 settembre 1870, creando così un’aura di fatalismo intorno all’avvenimento.

Ancora oggi però viene ricordata perché fu più violenta rispetto alle precedenti, in quanto il Tevere superò abbondantemente i 17 metri, allagando diverse zone. Ad esempio via del Corso, Piazza del Popolo e Piazza Navona si ritrovarono sommerse dall’acqua. Nemmeno il quartiere di Trastevere e il Ghetto furono risparmiati, causando vittime e disagi ingenti alla popolazione.

Il fango ingombrò strade e scantinati e in alcuni casi furono inondati anche i primi piani delle case. L’acqua paralizzò la città devastando abitazioni e botteghe, arrecando danni consistenti a monumenti, affreschi, arazzi e opere architettoniche.

I soccorsi furono immediati, anche se improvvisati, tanto è vero che le istituzioni si attivarono immediatamente per trovare soluzioni adeguate.

Subito dopo l’alluvione, lo Stato italiano infatti decise di intervenire nominando una commissione, a cui affidò particolari compiti. Innanzitutto bisognava esaminare le condizioni del Tevere e dei principali affluenti, quindi indicare provvedimenti da attuare per difendere la città dalle piene. Nel febbraio 1871 la commissione approvò un progetto che prevedeva la realizzazione di muraglioni, ovvero argini in grado di controllare il fiume.

Tutto ciò non ebbe però seguito. Così nel 1875 Giuseppe Garibaldi, allora deputato di Roma, presentò dapprima un disegno di legge e poi un progetto vero e proprio. Il Generale avvertì la necessità di proteggere la città dalle inondazioni convertendo il Tevere in canale navigabile fino al mare e di risanare l’Agro Romano.

Nel dettaglio, il Progetto Garibaldi avrebbe deviato il Tevere verso nord, nei pressi dell’odierno aeroporto dell’Urbe. Quindi lo avrebbe canalizzato girando attorno alla città verso sud, in zona Magliana. Attraverso il centro storico e sotto gli antichi ponti sarebbe invece rimasto un piccolo rio inserito in un parco cittadino.

Nonostante i lunghi dibattiti, il progetto non vide mai la luce, forse per i costi elevati.

Tuttavia il governo italiano capì l’importanza di costruire opere idrauliche necessarie, in modo definitivo, a preservare Roma dalle alluvioni. Nel luglio 1875 promulgò una legge in tal senso e venne coinvolta nuovamente una commissione insediata presso il Ministero dei Lavori Pubblici.

La commissione esaminò diverse proposte, tra cui quella del professor Alessandro Betocchi, che consisteva nella costruzione di un canale da Ponte Milvio fino all’ospedale di Santo Spirito. L’ingegnere Raffaele Canevari propose di allargare il Tevere dandogli una larghezza uniforme, eliminando gran parte degli ingombri presenti, tra cui l’Isola Tiberina. L’idea di Carlo Possenti, presidente della commissione, prevedeva invece la realizzazione di alcuni canali a valle di Roma.

Alla fine la spuntò il progetto di Canevari, secondo cui si sarebbe regolarizzato il corso del fiume demolendo case, palazzi e persino antiche rovine per far posto ai muraglioni, salvando almeno l’Isola Tiberina. I lavori iniziarono nel 1876 e già all’inizio del 1900 la zona centrale della città era difesa dagli argini. L’opera in tutto il territorio urbano fu completata definitivamente nel 1925.

Parallelamente vennero realizzati anche due grandi collettori fognari per lo smaltimento delle acque, risolvendo così il problema degli allagamenti.

La costruzione dei muraglioni ha certamente ridotto i rischi di inondazione, ma ha privato Roma di alcune opere, tra cui il Porto di Ripetta. Proprio a Ripetta, alla fine del ‘700, venne installato l’unico idrometro, utile per monitorare regolarmente i livelli del Tevere. Prima di allora era usanza apporre una targa sugli edifici per indicare il livello massimo raggiunto dalle acque.

A partire dal 1871 poi vennero impiantate ulteriori stazioni idrometriche sul Tevere, utili per comprenderne l’attività. L’obiettivo infatti era quello di ottenere dati scientifici abbastanza attendibili dalle osservazioni sistematiche effettuate lungo il fiume. Tali osservazioni potevano essere giornaliere in condizioni normali, oppure orarie in caso di piena.

Il nuovo sistema di contenimento e le frequenti osservazioni idrometriche si sono quindi rivelati strumenti utili per evitare nuove inondazioni, come quella del 1870. Nel corso degli anni infatti, come pure in tempi recenti, le piogge abbondanti hanno messo a dura prova la città, creando però danni contenuti rispetto al passato.

sabato 27 dicembre 2025

Musica rom a Paglieta

 È in programma per il 30 dicembre 2025 alle 21:00 al Teatro Comunale di Paglieta il Concerto di Musica Rom. Sul palco l’Alexian Trio con Alexian Santino Spinelli alla fisarmonica, Gualtiero Lamagna al bouzouki e alla chitarra e Federico Binetti alle percussioni etniche. L’iniziativa, a ingresso libero, è patrocinata dal Comune di Paglieta e organizzata con l’associazione Them Romanò di Lanciano. 

 “La musica rom – dichiara Alexian Santino Spinelli – è una musica dell’anima, nata dal viaggio, dall’incontro tra i popoli e dalla capacità di trasformare il dolore e la gioia in suono. Portarla in teatro significa offrire al pubblico non solo un concerto, ma un momento di conoscenza, dialogo e condivisione culturale. Eventi come questo sono fondamentali per abbattere stereotipi e costruire ponti attraverso l’arte. Ringrazio l’Amministrazione Comunale di Paglieta per l’organizzazione e quanti interverranno per vivere una serata unica”.

 Siamo onorati di partecipare anche a quest'evento, in particolare con l'esibizione nell'Alexian Group del presidente dell'Accademia Gualtiero Lamagna, che da anni affianca Alexian Santino Spinelli per l'emancipazione della dignità e della cultura rom: "La discriminazione che subiscono le popolazioni romanì – afferma Gualtiero Lamagna – è tra le più aspre, durature e disumanizzanti della storia occidentale. La condizione che vivono i Rom è indice della persistente disuguaglianza nella nostra società che pure si basa sul principio dei diritti umani. Resta uno stridente monito del pericolo che ognuno di noi corre nel ricadere nella stessa condizione di questi popoli".

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 27 dicembre.

Il 27 dicembre 1796 si apre a Reggio Emilia il Congresso Cispadano al termine del quale il tricolore viene adottato come bandiera nazionale della Repubblica.

Il tricolore italiano quale bandiera nazionale nasce a Reggio Emilia il 7 gennaio 1797, quando il Parlamento della Repubblica Cispadana, su proposta del deputato Giuseppe Compagnoni, decreta "che si renda universale lo Stendardo o Bandiera Cispadana di Tre Colori Verde, Bianco, e Rosso, e che questi tre Colori si usino anche nella Coccarda Cispadana, la quale debba portarsi da tutti". Ma perché proprio questi tre colori? Nell'Italia del 1796, attraversata dalle vittoriose armate napoleoniche, le numerose repubbliche di ispirazione giacobina che avevano soppiantato gli antichi Stati assoluti adottarono quasi tutte, con varianti di colore, bandiere caratterizzate da tre fasce di uguali dimensioni, chiaramente ispirate al modello francese del 1790.

E anche i reparti militari "italiani", costituiti all'epoca per affiancare l'esercito di Bonaparte, ebbero stendardi che riproponevano la medesima foggia. In particolare, i vessilli reggimentali della Legione Lombarda presentavano, appunto, i colori bianco, rosso e verde, fortemente radicati nel patrimonio collettivo di quella regione: il bianco e il rosso, infatti, comparivano nell'antichissimo stemma comunale di Milano (croce rossa su campo bianco), mentre verdi erano, fin dal 1782, le uniformi della Guardia civica milanese. Gli stessi colori, poi, furono adottati anche negli stendardi della Legione Italiana, che raccoglieva i soldati delle terre dell'Emilia e della Romagna, e fu probabilmente questo il motivo che spinse la Repubblica Cispadana a confermarli nella propria bandiera. Al centro della fascia bianca, lo stemma della Repubblica, un turcasso contenente quattro frecce, circondato da un serto di alloro e ornato da un trofeo di armi.

La prima campagna d'Italia, che Napoleone conduce tra il 1796 e il 1799, sgretola l'antico sistema di Stati in cui era divisa la penisola. Al loro posto sorgono numerose repubbliche giacobine, di chiara impronta democratica: la Repubblica Ligure, la Repubblica Romana, la Repubblica Partenopea, la Repubblica Anconitana.

La maggior parte non sopravvisse alla controffensiva austro-russa del 1799, altre confluirono, dopo la seconda campagna d'Italia, nel Regno Italico, che sarebbe durato fino al 1814. Tuttavia, esse rappresentano la prima espressione di quegli ideali di indipendenza che alimentarono il nostro Risorgimento. E fu proprio in quegli anni che la bandiera venne avvertita non più come segno dinastico o militare, ma come simbolo del popolo, delle libertà conquistate e, dunque, della nazione stessa.

Nei tre decenni che seguirono il Congresso di Vienna, il vessillo tricolore fu soffocato dalla Restaurazione, ma continuò ad essere innalzato, quale emblema di libertà, nei moti del 1831, nelle rivolte mazziniane, nella disperata impresa dei fratelli Bandiera, nelle sollevazioni negli Stati della Chiesa.

Dovunque in Italia, il bianco, il rosso e il verde esprimono una comune speranza, che accende gli entusiasmi e ispira i poeti: "Raccolgaci un'unica bandiera, una speme", scrive, nel 1847, Goffredo Mameli nel suo Canto degli Italiani.

E quando si dischiuse la stagione del '48 e della concessione delle Costituzioni, quella bandiera divenne il simbolo di una riscossa ormai nazionale, da Milano a Venezia, da Roma a Palermo. Il 23 marzo 1848 Carlo Alberto rivolge alle popolazioni del Lombardo Veneto il famoso proclama che annuncia la prima guerra d'indipendenza e che termina con queste parole:"(…) per viemmeglio dimostrare con segni esteriori il sentimento dell'unione italiana vogliamo che le Nostre Truppe(…) portino lo Scudo di Savoia sovrapposto alla Bandiera tricolore italiana."

Allo stemma dinastico fu aggiunta una bordatura di azzurro, per evitare che la croce e il campo dello scudo si confondessero con il bianco e il rosso delle bande del vessillo.

Il 17 marzo 1861 venne proclamato il Regno d'Italia e la sua bandiera continuò ad essere, per consuetudine, quella della prima guerra d'indipendenza. Ma la mancanza di una apposita legge al riguardo - emanata soltanto per gli stendardi militari - portò alla realizzazione di vessilli di foggia diversa dall'originaria, spesso addirittura arbitrarie.

Soltanto nel 1925 si definirono, per legge, i modelli della bandiera nazionale e della bandiera di Stato. Quest'ultima (da usarsi nelle residenze dei sovrani, nelle sedi parlamentari, negli uffici e nelle rappresentanze diplomatiche) avrebbe aggiunto allo stemma la corona reale.

Dopo la nascita della Repubblica, un decreto legislativo presidenziale del 19 giugno 1946 stabilì la foggia provvisoria della nuova bandiera, confermata dall'Assemblea Costituente nella seduta del 24 marzo 1947 e inserita all'articolo 12 della nostra Carta Costituzionale. E perfino dall'arido linguaggio del verbale possiamo cogliere tutta l'emozione di quel momento. 

PRESIDENTE [Ruini] - Pongo ai voti la nuova formula proposta dalla Commissione: "La bandiera della repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a bande verticali e di eguali dimensioni". (E' approvata. L'Assemblea e il pubblico delle tribune si levano in piedi. Vivissimi, generali, prolungati applausi.)

venerdì 26 dicembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 26 dicembre.

Il 26 dicembre 1945 vengono creati il Franco CFA e il Franco CFP.

 Il Franco CFA è una moneta istituita nel 1945, che ha una storia particolare, a partire dal significato stesso di quell’acronimo. Infatti, in origine CFA era l’accostamento delle iniziali di “Colonie Francesi d’Africa” e identificava appunto la moneta, diversa da quella della madrepatria, ma sempre assoggettata al controllo della Banca Centrale di Parigi, adottata nelle colonie africane dell’impero francese, che si affiancava anche al Franco CFP, la moneta analoga utilizzata nelle Colonie Francesi del Pacifico. Tutte queste monete aderivano agli accordi di Bretton Woods, ratificati dalla Francia il 26 dicembre 1945. Successivamente, con la disgregazione degli imperi coloniali europei e la progressiva conquista dell’indipendenza da parte di tutti i paesi africani che ne facevano parte, l’acronimo CFA è passato a significare prima Comunità Francese d’Africa e infine Comunità Finanziaria Africana.

Al giorno d’oggi, si hanno due diversi franchi CFA, associati a due diverse aree del continente africano, costituite in totale da 14 paesi, nei quali sono adottati come moneta ufficiale. Si tratta dell’UEMOA, l’Unione Economica e Monetaria Ovest Africana, costituita da: Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Guinea-Bissau, Mali, Niger, Senegal e Togo. L’altra area è invece rappresentata dalla CEMAC, la Comunità Economica e Monetaria dell’Africa Centrale, che è costituita da: Camerun, Ciad, Gabon, Guinea Equatoriale, Repubblica Centrafricana e Repubblica del Congo. I suddetti paesi appartenevano tutti all’impero coloniale francese, ad eccezione della Guinea Equatoriale, ex-colonia spagnola e della Guinea Bissau, ex- colonia portoghese. Nella prima area indicata viene adottato il Franco della Comunità Finanziaria dell’Africa, mentre nella seconda viene adottato il Franco della Cooperazione Finanziaria dell’Africa centrale. Le due monete non sono intercambiabili e sono emesse e controllate da due autorità monetarie diverse: nell’UEMOA la banca centrale di riferimento è la BCEAO (Banque centrale des États de l’Afrique de l’Ouest), mentre nella CEMAC l’autorità monetaria è la BEAC (Banque des États de l’Afrique centrale).

L’adesione alle aree di adozione del Franco CFA è volontaria e non vincolante. Per questo motivo molti paesi ne sono usciti o vi sono entrati nel corso degli anni. Il caso più particolare è rappresentato dal Mali, che nel 1962 uscì, iniziando ad emettere una propria moneta autonoma denominata franco maliano, ma che poi nel 1984 è rientrato all’interno dell’area monetaria comune. Le altre ex colonie che inizialmente adottavano il Franco CFA perché facenti parte dell’impero francese, ma che poi hanno iniziato a emettere una moneta propria sono la Guinea (nel 1960), la Mauritania (nel 1973) e il Madagascar (nel 1973), che sono passate rispettivamente ad emettere il Franco guineano, il Franco malgascio e l’Ouguiya mauritana. Il fenomeno opposto è quello che ha caratterizzato la Guinea Equatoriale e la Guinea-Bissau, che non facevano parte dell’impero coloniale francese e quindi per questo motivo non adottavano come moneta il Franco CFA, ma che rispettivamente nel 1985 e nel 1997 sono entrate a far parte delle due diverse aree monetarie comuni.

L’accordo che lega le due monete africane e le rispettive banche centrali di riferimento con la moneta francese e la sua autorità monetaria è rimasto negli anni sempre lo stesso. Il rapporto di cambio tra il franco francese e il franco CFA era fisso e la convertibilità delle divise valutarie era garantita dalla Banca di Francia. A seguito dell’adozione dell’euro, il 1° gennaio 1999 è stato fissato il nuovo rapporto di cambio con la moneta unica europea, in base al quale 1 euro equivale a 656 franchi CFA. Rimangono comunque l’autorità bancaria e il Tesoro di Parigi a svolgere il ruolo di garante della convertibilità della moneta africana, mentre la Banca Centrale Europea ne resta completamente al di fuori. Senza dubbio quello appena descritto rappresenta un unicum nell’area euro. Inoltre, è stato costituito un fondo di riserva di moneta estera a cui partecipano tutti i paesi che adottano il Franco CFA e, a garanzia del cambio monetario, almeno il 65% delle posizioni di tale fondo sono depositate presso il Tesoro francese. Risulta evidente come l’importanza del ruolo di garanzia svolto e il conseguente forte potere contrattuale permettano alle autorità di Parigi di partecipare, direttamente o indirettamente, alla definizione della politica monetaria dell’area CFA.

Oltre agli aspetti monetari e politici, l’adozione del franco CFA comporta conseguenze economiche e sociali non irrilevanti. Tra i più grandi sostenitori della ex moneta coloniale vi sono le élite dei paesi africani, che infatti sono notevolmente avvantaggiate dall’adozione di una moneta a cambio fisso, perché permette loro di spendere le grandi quantità di denaro di cui sono in possesso (spesso frutto di corruzione o di traffici illeciti) acquistando agevolmente i beni di lusso prodotti in Europa. A trarre grandi benefici dal franco CFA sono anche le multinazionali francesi, che possono investire a condizioni molto vantaggiose in quei paesi africani che l’adottano, poiché sono protette dal rischio di forti svalutazioni monetarie. Dall’altro lato, i soggetti economici più svantaggiati da questo sistema sono i produttori africani che vorrebbero esportare i loro prodotti in Europa, poiché il cambio fisso rende loro molto costoso l’approvvigionamento delle merci e agevola gli esportatori francesi, che a causa di questo gap non devono temere la concorrenza africana.

giovedì 25 dicembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 25 dicembre.

Il 25 dicembre 274 d. C. l'Imperatore Aureliano introduce la festività del Dies Natalis Solis Invicti.

Nel Rinascimento si formò l'idea che il cristianesimo sia stato pesantemente influenzato dal mitraismo e dal culto del Sol Invictus, o addirittura che trovi in loro la sua radice vera.

Esistono fonti che ci permettano di comprendere l'influenza del culto solare nei confronti del cristianesimo? 

Papa Leone I (V secolo) scriveva: «È così stimata questa religione del Sole che alcuni cristiani, prima di entrare nella Basilica di San Pietro in Vaticano, dopo aver salito la scalinata, si volgono verso il Sole e piegando la testa s’inchinano in onore dell’astro fulgente. Siamo angosciati e ci addoloriamo molto per questo fatto che è ripetuto per mentalità pagana. I cristiani devono astenersi da ogni apparenza d’ossequio a questo culto degli dei.» 

Il Sol Invictus, per esteso Deus Sol Invictus, era un appellativo religioso usato per diverse divinità nel tardo impero romano, tra cui Helios, El-Gabal e Mitra, che finirono per essere assimilate in un monoteismo solare.

Il culto del Sol Invictus ebbe origine in Oriente, dove le celebrazioni del rito della nascita del Sole prevedevano che i celebranti, ritiratisi in appositi santuari, uscissero a mezzanotte annunciando che la Vergine aveva partorito il Sole, raffigurato come un infante. Questi riti si celebravano in Egitto e Siria.

L’usanza sparì con la diffusione della nuova religione?

Cosma da Gerusalemme testimonia che ancora nel VII secolo s’effettuavano tali cerimonie nella notte tra il 24 ed il 25 dicembre.

Possiamo affermare che ancora nel 600 le celebrazioni della vergine che partorisce il Sole si effettuavano in paesi dell’Oriente.

Una domanda sorge spontanea: quando il Dio Sole Invitto entrò nelle celebrazioni dei romani?

Il culto acquisì importanza nella città di Roma grazie all’imperatore Eliogabalo che tentò d’imporre il culto d’Elagabalus Sol Invictus, il Dio Bolide della propria città natale, Emesa in Siria. L’imperatore fece costruire un tempio dedicato al nuovo Dio sul Palatino. La morte violenta dell’imperatore, nel 222, comportò la cessazione delle celebrazioni. Tale avvenimento ricorda gli accadimenti dell’Antico Egitto dove il faraone Akhenaton cercò d’imporre il monoteismo, tramite la sostituzione dei culti precedenti con quello relativo al Dio Aton. Alla morte del faraone, il dio e la rivoluzione religiosa d’Akhenaton furono coperti da damnatio memoriae. Una piccola differenza esiste: le celebrazioni continuarono fuori delle mura di Roma, ma all’interno dei confini dell’impero. 

Nel 272, Aureliano riuscì a sconfiggere la Regina Zenobia del Regno di Palmira grazie all’intervento, provvidenziale, delle truppe della città stato d’Emesa. L’imperatore ammise d’aver avuto la visione del dio Sole d’Emesa che interveniva in aiuto delle truppe. L’imperatore fece ritorno a Roma con le truppe ed i sacerdoti del Dio Sol Invictus, ufficializzando così il culto solare d’Emesa. Edificò un tempio sul Quirnale e creò un nuovo corpo di sacerdoti, i pontifices solis invicti.

Possiamo pensare che Aureliano cercò di unificare, sotto le sembianze del Sol Invictus, varie divinità presenti nell’impero?

Si ricordi che Giove e Apollo erano identificati con il sole.

Tertulliano asserì che molti romani pensavano che i cristiani adorassero il Sole.

Aureliano fece del Dio Sole la principale divinità dell’impero romano. Risale proprio al periodo dell’imperatore la nascita della festa solstiziale del Dies Natalis Solis Invicti, in altre parole il giorno di nascita del Sole Invitto. 

La data che fu scelta s’innestava con la festa più antica ed importante dell’impero, i Saturnali.

Quale data fu scelta?

Il 25 dicembre come data per la celebrazione del Sole Invitto è riportata solo nel Cronografo del 354.

Nel regno di Licinio la celebrazione del Sol Invictus si svolse il 19 dicembre. 

La celebrazione avvenne in date diverse dal 19 o dal 25 dicembre: vi sono esempi che avvenisse dal 19 al 22 d’ottobre.

Le celebrazioni legate al Dio Sole come s’intersecano con la nuova religione?

Legami tra il Sole e la figura del Messia compaiono in una profezia biblica di Malachia: « la mia giustizia sorgerà come un Sole e i suoi raggi porteranno la guarigione...il giorno in cui io manifesterò la mia potenza, voi schiaccerete i malvagi.»

Le associazioni tra il Sole e il Messia appaiono anche nei manoscritti del Mar Morto: « La sua parola è come parola del cielo; il suo insegnamento è secondo la volontà di Dio. Il suo eterno Sole splenderà e il suo fuoco sarà fulgido in tutti i confini della terra; sulla tenebra splenderà. Allora la tenebra sparirà dalla terra, l'oscurità dalla terraferma. »

La prima testimonianza del Natale cristiano, successiva al Cronografo del 354, risale al 380, grazie ai sermoni di Gregorio di Nissa.

La festa del Natale di Cristo non è riportata negli antichi calendari delle feste cristiane: gli adepti della nuova religione prediligevano altre festività quali la Pasqua, l’Epifania e il concepimento. 

Il 380 lo possiamo definire uno spartiacque: la religione del Sol Invictus restò in uso sino all’editto di Tessalonica del 27 febbraio, con cui Teodosio stabiliva che l’unica religione di Stato era il Cristianesimo di Nicea.

Le religioni imposte per legge con gran difficoltà attecchiscono immediatamente.

Il culto del Sole continuò ad attraversare i secoli.

Verso la fine del XII secolo, un vescovo siriano ammette: «Era costume dei pagani celebrare al 25 dicembre la nascita del Sole, in onore del quale accendevano fuochi come segno di festività. Anche i Cristiani prendevano parte a queste solennità. Quando i dotti della Chiesa notarono che i Cristiani erano fin troppo legati a questa festività, decisero in concilio che la "vera" Natività doveva essere proclamata in quel giorno.»

Jacob bar-Salibi, vescovo siriano, permette di comprendere come alla fine del XII secolo ancora si ricordava la sovrapposizione del culto solare con il cristianesimo delle origini.

mercoledì 24 dicembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 24 dicembre.

Il 24 dicembre 1914, durante la Grande Guerra, ha luogo la cosiddetta "Tregua di Natale".

Fu un’iniziativa presa dal basso, dai soldati in trincea, che il giorno di Natale uscirono spontaneamente allo scoperto in alcune zone del fronte occidentale per andare a salutare e a fare gli auguri ai «nemici» senza che ci fosse, da parte dei comandi, alcun via libera. Anzi, proprio il contrario. Quando la notizia si diffuse grazie alle lettere dei soldati alle famiglie, i vertici militari di entrambi i contendenti si affrettarono a proibire altre iniziative simili: il generale Horace Smith Dorrien, comandante del secondo corpo d’armata della Bef, la forza di spedizione britannica in Francia, arrivò a minacciare la corte marziale per chi si fosse reso colpevole di fraternizzazione.

Il «miracolo» del Natale 1914, di due avversari che dimenticano l’odio per unirsi in un abbraccio fraterno, rimase un fatto quasi isolato (ci sono poi stati altri episodi di «vivi e lascia vivere» ma mai più così eclatanti) e ben presto trascolorò nel mito, tanto più quando il sentimento popolare degli europei nei confronti della Grande Guerra cambiò di segno: non più glorioso fatto d’arme ma massacro insensato, che aveva spazzato via una generazione. La tregua di Natale venne quindi vista come la dimostrazione che gli uomini sono fondamentalmente buoni e che erano stati spinti alla guerra da governi stupidi e irresponsabili, tanto che appena liberi di farlo avevano scelto la pace e la fratellanza.

Ma come andarono realmente le cose? Facciamolo raccontare a chi ne fu testimone diretto, il caporale Leon Harris del 13esimo battaglione del London Regiment in una lettera scritta ai genitori che stavano a Exeter: «È stato il Natale più meraviglioso che io abbia mai passato. Eravamo in trincea la vigilia di Natale e verso le otto e mezzo di sera il fuoco era quasi cessato. Poi i tedeschi hanno cominciato a urlarci gli auguri di Buon Natale e a mettere sui parapetti delle trincee un sacco di alberi di Natale con centinaia di candele. Alcuni dei nostri si sono incontrati con loro a metà strada e gli ufficiali hanno concordato una tregua fino alla mezzanotte di Natale. Invece poi la tregua è andata avanti fino alla mezzanotte del 26, siamo tutti usciti dai ricoveri, ci siamo incontrati con i tedeschi nella terra di nessuno e ci siamo scambiati souvenir, bottoni, tabacco e sigarette. Parecchi di loro parlavano inglese. Grandi falò sono rimasti accesi tutta la notte e abbiamo cantato le carole. È stato un momento meraviglioso e il tempo era splendido, sia la vigilia che il giorno di Natale, freddo e con le notti brillanti per la luna e le stelle». Il riferimento al tempo non è di poco conto: «La vigilia — scrive Alan Cleaver nella prefazione al libro La tregua di Natale,  che raccoglie molte lettere dei soldati dell’epoca — segnò la fine di settimane di pioggia battente, e una gelata rigida e tagliente avvolse il paesaggio. Gli uomini al loro risveglio si trovarono immersi in un Bianco Natale».

Non si sa dove fosse schierata l’unità del caporale Harris ma gli eventi da lui descritti con tanta vivacità si ripeterono più o meno identici in molti punti del fronte. In una lettera alla famiglia del 28 dicembre, il bavarese Josef Wenzl racconta di essere rimasto incredulo quando uno dei soldati cui la sua unità stava dando il cambio gli disse di aver passato il giorno di Natale scambiando souvenir con gli inglesi. Ma quando spuntò l’alba del 26 dicembre vide con i suoi occhi i soldati britannici uscire dalle trincee e cominciare a parlare e scambiarsi oggetti ricordo con lui e con i suoi compagni. Poi ci furono canti, balli e bevute. «Era commovente — si legge nella lettera — tra le trincee uomini fino a quel momento nemici feroci stavano insieme intorno a un albero in fiamme a cantare le canzoni di Natale. Non dimenticherò mai questa scena. Si vede che i sentimenti umani sopravvivono persino in questi tempi di uccisioni e morte».

Scene simili si verificarono anche tra tedeschi e francesi e tra tedeschi e belgi, pur se in misura molto minore: dopo cinque mesi di guerra sanguinosissima (era iniziata il primo agosto)con circa un milione di vittime, con molte zone del Belgio e della Francia orientale occupate e dopo i massacri di civili compiuti dai soldati tedeschi, i sentimenti di fraternità erano parecchio meno diffusi. E comunque anche nelle zone inglesi ci furono morti e feriti per il fuoco nemico perfino nel giorno di Natale: alcuni soldati che avevano cercato di prendere contatto con il nemico sporgendosi dai parapetti delle trincee furono fulminati dai cecchini avversari. «A Natale — racconta lo storico Max Hastings in Catastrofe 1914  — il Secondo granatieri inglese ebbe tre uomini uccisi, due dispersi e 19 feriti; un altro soldato fu ricoverato in ospedale con sintomi di congelamento, come altri 22 la mattina dopo».

Ovviamente queste storie finirono rapidamente sui giornali dell’epoca, con titoli abbastanza sensazionali. Il Manchester Guardian del 31 dicembre 1914 titolava: «Tregua di Natale al fronte — I nemici giocano a calcio — I tedeschi ricevono un amichevole taglio di capelli». E il 6 gennaio lo stesso quotidiano strillava: «Nuove notizie sullo straordinario armistizio ufficioso — I Cheshires (un’unità inglese, ndr) cantano Tipperary a un pubblico di tedeschi». Fu sui quotidiani britannici che fu raccontata la vicenda della partita di calcio giocata nella terra di nessuno da inglesi e tedeschi in una zona imprecisata del fronte, che sarebbe finita 3-2 per i tedeschi. Per molto tempo fu una storia considerata non sufficientemente provata dagli storici (tutte le fonti erano indirette, qualcuno che raccontava che qualcun altro gli aveva detto che c’era stata una partita…), ma che entrò prepotentemente nel mito: la si ritrova nel film ferocemente antimilitarista Oh che bella guerra di Richard Attenborough (1969) e anche nel videoclip di Pipes of Peace di Paul Mc Cartney del 1983. E l’11 dicembre 2014, nella cittadina belga di Ploegsteert, l'allora presidente dell’Uefa Michel Platini ha inaugurato un monumento a ricordo del giorno in cui il calciò unì i giovani di due nazioni nemiche.

Alla fin fine, comunque, pare che il mito avesse ragione e gli storici scettici torto: è stata scoperta una lettera del generale Walter Congreve (decorato con la Victoria cross, la più alta decorazione britannica al valor militare) che racconta alla moglie della tregua e della partita di calcio anche se ammette di non averla vista con i propri occhi ma di averlo saputo da testimoni oculari. Ma poiché era un generale, non si faceva illusioni e sapeva che i bei momenti sarebbero finiti. Ne dà conto, con una battuta piuttosto macabra, nella stessa lettera: «Uno dei miei ha fumato un sigaro con il miglior cecchino dell’esercito tedesco, non più che diciottenne. Dicono che ha ucciso più uomini di tutti, ma ora sappiamo da dove spara e spero di abbatterlo domani». Sì, la guerra sarebbe continuata.

 

martedì 23 dicembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 23 dicembre.

Il 23 dicembre 179 a.C. il console Marco Emilio Lepido dedica un tempio a Roma a Giunone Regina.

Lepido fu nominato edile nel 193 a.c. insieme a L. Emilio Paolo, promuovendo la costruzione del nuovo porto fluviale a sud del colle Aventino. Questa nuova costruzione, chiamata Emporium, prevedeva una banchina di circa 500 m e un grosso edificio di 50 vani, i Navalia.

Lo spazio retrostante i Navalia era occupato da diversi horrea, magazzini per lo stoccaggio delle merci, di cui i più noti sono gli horrea Galbana. Nel 174 a.c. l'Emporium venne lastricato in pietra e fu suddiviso in vari settori per lo stoccaggio da barriere con scalinate che scendevano fino al Tevere. Contemporaneamente alla costruzione del porto c'era quella della Porticus Aemilia.

Divenne pontefice dal 199 a.c. Venne anche eletto pretore nel 191 a.c.

Divenne console romano nel 187 a.c.,  in cui ebbe come collega Gaio Flaminio, ucciso dall'esercito di Annibale nella battaglia del Trasimeno, e in quell'anno riportò la vittoria sui Liguri, facendo voto di erigere un tempio a Giunone.

È noto per aver dato il nome alla via Emilia,  che venne costruita dal 189 al 187 a.c., per 177 miglia romane in meno di due anni.

La via doveva collegare Piacenza con Rimini, e il suo nome dette nome all'Emilia che a sua volta ha dato nome alla regione Emilia-Romagna. La città di Reggio Emilia si chiamava in età romana Regium Lepidi in suo onore.

Con l'invasione dell'Italia da parte dei cartaginesi guidati da Annibale (218-203 a.c.) Roma perse il controllo della Pianura Padana; molte tribù già sottomesse (come i Boi e gli Insubri) si ribellarono e si unirono ad Annibale per riacquisire la loro indipendenza.

Solo nel 189 a.c. l'ultima resistenza dei Galli fu vinta con la conquista di Bona, l'odierna Bologna, e nello stesso anno Roma avviò la costruzione della strategica via Emilia, che venne completata nel 187 a.c.

La gens cui apparteneva era tradizionalmente vicina alle posizioni politiche dei Cornelii: egli fu sempre ostile al conservatorismo catoniano, oltre che avversario personale di M. Fulvio Nobiliore, l'eroe di Ambracia, che Emilio nel 187, l’anno appunto del suo consolato, cercò di ostacolare in ogni modo, circa la grave opposizione in precedenza fatta dal Nobiliore all’elezione a console di Lepido.

Nel 180 a.c. dovette però scendere a patti con i Fulvii e con lo stesso Nobiliore per conseguire i suoi obiettivi politici, tra i quali il pontificato massimo. 

Divenne censore nel 179 a.c, e dedicò (23 dicembre) il tempio di Giunone Regina al Campo Marzio. Dedicò inoltre, sempre durante la censura, il tempio D dell'Area sacra di Largo Argentina ai Lari Permarini.

Il tempio di Giunone Regina (in latino: templum o aedes Iuno Regina) era un tempio dedicato alla Dea Giunone nel Circo Flaminio, nella zona meridionale del Campo Marzio.

Il console Marco Emilio Lepido aveva fatto voto di costruire un tempio nel 187 a.c., durante la sua ultima battaglia contro i Liguri, e lo dedicò nel 179 a.c., mentre era censore, il 23 dicembre.

Un portico metteva in comunicazione il tempio di Giunone Regina e un tempio della Fortuna, forse il tempio della Fortuna Equestre. Si trovava probabilmente a sud del portico di Pompeo, sul lato orientale del circo Flaminio.

Il tempio D dell'area sacra di Largo Argentina è il più grande dei quattro templi di quest'area e il terzo in ordine cronologico. Si fa risalire al II sec. a.c. e si presume fosse dedicato ai Lares Permarini, votato nel 190 a.c. da Lucio Emilio Regillo, venne dedicato nel 179 a.c. dal censore Marco Emilio Lepido.

Secondo i Fasti Prenestini il tempio dei Lari Permarini si trovava infatti presso la Porticus Minucia.

Solo una parte di questo tempio è stata scoperta, restando la maggior parte di questo sotto il piano stradale di via Florida.

La parte più antica del tempio è in opera cementizia e venne rifatta nel I sec. a.c. in travertino. La pianta è piuttosto arcaica, con una grande cella rettangolare preceduta da un pronao esastilo (a sei colonne), che è profondo quanto tre moduli intercolumni. Oggi si vede solo il podio di travertino del I sec., con le sagome taglienti e non molto sporgenti, per un'altezza di circa tre m.

Sempre nel 179 a.c. venne nominato princeps senatus, era colui che aveva la prima parola in senato ed era il più influente tra tutti i senatori. Venne ancora eletto console nel 175 a.c..

Negli ultimi decenni di vita, che furono i più luminosi della sua carriera, Marco Emilio Lepido esercitò ininterrottamente la carica di princeps senatus. Fino alla fine restò anche Pontefice Massimo (180-152). Quando morì, probabilmente nel 152, dispose che i figli gli celebrassero un funerale il più semplice possibile, perché, diceva, "i grandi uomini si riconoscono dalla fama dei loro antenati e non dallo sfarzo".

lunedì 22 dicembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 22 dicembre.

Il 22 dicembre 1522, dopo 6 mesi di assedio, i cavalieri ospitalieri si arrendono e Rodi cade, conquistata dall'Impero ottomano.

I Cavalieri avevano catturato Rodi all'inizio del XIV secolo, dopo aver perso San Giovanni d'Acri, ultima fortezza crociata in Palestina, nel 1291. L'Impero Ottomano aveva già lanciato un primo assedio all'isola di Rodi nel 1480, ma i Cavalieri riuscirono a respingerli.

Nel 1520 sul trono degli Ottomani salì Solimano il magnifico. La presenza dei Cavalieri a Rodi, così vicina alla costa meridionale dell'Anatolia, non gli permetteva di consolidare la supremazia della sua flotta ed era il principale ostacolo per la sua espansione, per questo doveva cercare di conquistarla.

Nel 1521, Philippe Villiers de L'Isle-Adam venne eletto Gran Maestro dell'Ordine. Aspettandosi un nuovo attacco Ottomano, inviò richieste di aiuto a tutti i sovrani cattolici, ma nessuno rispose.

L'Ordine era solo di fronte all'impero ottomano; il Gran Maestro continuò allora a rinforzare le fortificazioni della città (lavoro che già i suoi predecessori avevano iniziato prima dell'invasione ottomana del 1480 e dopo il terremoto del 1481) e richiamò da tutta l'Europa tutti i Cavalieri dell'Ordine per difendere l'isola.

Gli Altri paesi europei invece ignorarono la sua richiesta d'aiuto, ottenne solo alcune truppe veneziane stanziate a Creta.

La mattina del 6 giugno del 1522, la flotta di Solimano era all'orizzonte; 280 navi si avvicinavano lentamente. La vista delle fortificazioni di Rodi dava forti preoccupazioni agli attaccanti: una doppia cinta di mura e ovunque cannoni pronti a far fuoco; intanto il Gran Maestro aveva già ordinato di incendiare le case per evitare che i nemici vi potessero trovare rifugio.

Le navi degli Ottomani erano guidate dal cognato del Sultano e secondo Visir, Mustafa Pasha; il suo esercito comprendeva circa 100.000 uomini, compresi 10.000 Giannizzeri. Migliaia di giannizzeri sbarcarono dalle navi e le colline circostanti si coprono di vessilli e di tende. Quando i turchi aprirono il fuoco, l'isola parve incendiarsi. Dalla città i cannoni risposero.

La città di Rodi era protetta da due, e in alcuni punti anche tre, anelli di mura e diversi grossi baluardi. La difesa delle mura e dei bastioni venne assegnata in sezioni alle varie “Lingue”. In tutto un totale di 6-7.500 uomini, di cui solo 290 circa erano Cavalieri, mentre il resto erano quasi tutti mercenari.

Tutti i contadini che non si erano rinchiusi nei castelli di Lindos, Faraclos e Monolitos, affluirono nella città con le loro famiglie e gli animali e durante l'assedio aiutarono come possibile. L'ingresso nel porto venne bloccato da una pesante catena di ferro, dietro la quale era ancorata la flotta dell'Ordine.

La tattica offensiva degli Ottomani fu diversa da quella del 1480. L'attacco avvenne sostanzialmente contro la fortificazione sulla terraferma, mentre l'enorme flotta turca dalla parte del mare sbarrava i porti.

L'artiglieria degli Ottomani iniziò a bombardare a ritmo serrato le postazioni delle “lingue” di Spagna, Inghilterra e Provenza, nel frattempo cercavano di oltrepassare le fortificazioni scavando tunnel o provando a farle saltare con delle mine.

La fanteria Ottomana sferrò attacchi ad ondate successive che però non ebbero successo; al contrario, anzi, oltre al fuoco micidiale che ricevettero dalle mura, i contrattacchi dei Cavalieri seminarono la morte.

L'esercito Ottomano, fino ad allora famoso per la combattività e disciplina, iniziò a demoralizzarsi e nei suoi ranghi si manifestarono segni di insubordinazione.

Di fronte a questa situazione l'ammiraglio Ottomano Piri Reìs avvisò il Sultano di affrettare il suo arrivo a Rodi. Solimano arrivò il 28 luglio con 120 navi ed un esercito di rinforzo di ulteriori 100.000 uomini. In totale le navi raggiunsero il numero di 400, grandi e piccole, mentre l'esercito Ottomano raggiunse le 200.000 unità.

La lotta continuò da allora giorno e notte a ritmo incessante e con lo stesso vigore da parte dei due avversari. Gli Ottomani scavarono dei cunicoli per penetrare in città o per far saltare in aria sezioni della cinta e far passare di lì la fanteria.

I Cavalieri riuscirono quasi sempre a neutralizzarli. Un poderoso attacco contro la “lingua” d'Inghilterra si risolse in una strage per l'esercito Ottomano. Quel giorno morirono circa 2.000 Turchi.

In un successivo attacco alla postazione della “lingua” d'Inghilterra gli Ottomani persero 3.000 uomini. Le mura della postazione della lingua d'Italia si trasformarono in un ammasso informe a causa dei cannoni del Pascià. Agli inizi di Settembre si presentarono spontaneamente nell'accampamento di Solimano dei rappresentanti delle isole di Nissiros e Tilos e gli consegnarono le chiavi dei loro castelli.

Il fuoco dell'artiglieria turco sino ad allora era stato troppo debole per danneggiare seriamente le massicce mura, ma il 4 settembre, dopo 5 settimane d'assedio, due mine esplosero sotto la postazione della “lingua” d'Inghilterra. Circa 18 metri di mura crollarono riempiendo il fossato, l'altissimo campanile di S. Giovanni crollò e la torre di San Nicola venne semidistrutta.

Gli invasori si lanciarono all'assalto attraverso quell'apertura, ma appena presero il controllo, subirono il contrattacco degli inglesi di Frà Nicholas Hussey e del Gran Maestro Villiers de L'Isle-Adam che li respinsero fuori le mura. Gli ottomani nello stesso giorno attaccarono un altro paio di volte ma grazie anche ai rinforzi dei Cavalieri tedeschi, gli inglesi riuscirono a proteggere quell'apertura.

Il 24 settembre, Mustafa Pascià ordinò un nuovo massiccio assalto contro le postazioni di difesa delle “lingue” di Spagna, Inghilterra, Provenza ed Italia. Gli avversari lottarono corpo a corpo. Gli attacchi si succedettero ai contrattacchi.

La postazione della “lingua” di Spagna cambiò mano due volte. Ma, dopo un giorno di duri combattimenti, i turchi non riuscirono a sconfiggere i Cavalieri che si impadronirono di 40 stendardi Ottomani, mentre mucchi di cadaveri di turchi coprivano la zona attorno al castello.

Il mare vicino alla postazione dell'Italia si colorò di rosso per il sangue dei morti e dei feriti, come nell'assedio del 1480. Gli Ottomani lamentarono 15-20.000 morti. I cristiani più o meno 200, mentre i feriti furono 150. In questa battaglia tutti gli abitanti della città, compresi i bambini e i vecchi, lottarono senza risparmio per respingere l'attacco.

Alla fine di novembre un altro massiccio attacco venne respinto, ma entrambe le fazioni era diventate esauste: i Cavalieri perché non ricevevano rinforzi e la loro resistenza cominciava a diminuire, mentre i turchi perché erano completamente demoralizzati per via delle enormi perdite e delle malattie che si erano diffuse nel loro accampamento.

L'insuccesso sconcertò il Sultano. Ci furono momenti in cui, deluso, pensò di togliere l'assedio e di ritirarsi. Lo trattennero le informazioni di un fuggiasco albanese e il tradimento del gran cancelliere Andrè d'Amaral. Entrambi lo rassicurarono della grande scarsità di viveri, materiale bellico e soprattutto uomini di cui gli assediati soffrivano. Le fortificazioni erano praticamente rovinate e non c'erano più braccia per ripararle.

Il 27 ottobre fu scoperto il tradimento del gran cancelliere Andrè d'Amaral. Sorpresero il suo servitore Diez che mandava messaggi con delle frecce agli Ottomani e li informava da parte del suo padrone della situazione esistente nella città assediata. Gli interrogatori rivelarono che il traditore si era accordato con i Turchi per aprire una porta e farli entrare in città il 1° novembre, giorno di Tutti i Santi. Il 5 novembre i due complici furono giustiziati.

Alla fine di novembre i turchi sferrarono di nuovo un grande attacco contro le postazioni di Spagna e d'Italia, ma anche questo venne respinto e sul campo restarono 3.000 vittime Ottomane. L'assedio ininterrotto di quattro mesi aveva sfinito i soldati da ambo le parti.

Gli Ottomani astutamente, si rivolsero direttamente al popolo di Rodi. Sapendo quanto fosse a terra il morale della città a causa della fame, delle malattie, delle sofferenze e della paura della morte e, con alcune frecce, lanciarono dei messaggi in città promettendo alla gente comune, in caso di resa della città, la pace, il rispetto della religione e dell'onore ed altro e minacciando che, in caso di espugnazione con le armi, non sarebbero mancate stragi, saccheggi e schiavitù.

All'inizio Villiers de L'Isle-Adam non voleva sentir parlare di resa ma in seguito, viste anche le pressioni dei cittadini, deciso di accettare il negoziato. Venne pattuita una tregua di tre giorni (dal 11 al 13 dicembre), ma quanto i cittadini chiesero ulteriori rassicurazioni sulla loro vita, Solimano infuriato, ordinò di bombardare la città e riprendere gli attacchi.

I bombardamenti ripresero il 17 Dicembre. Il baluardo della “lingua” di Spagna cadde il 17 dicembre e da un momento all'altro la città rischiava di cadere nelle mani musulmane.

Con gran parte delle mura distrutte i Cavalieri non avrebbero resistito ancora a lungo e infatti il 20 dicembre il Gran Maestro chiese una nuova tregua.

Philippe de Villiers de l'Isle-Adam si presentò a Solimano il 22 Dicembre e dichiarò di accettare le condizioni di pace che lui aveva proposto e che in breve, erano le seguenti: i Cavalieri entro dodici giorni potevano andarsene prendendo con sé le armi, tutti i simboli della loro religione e tutti i civili cristiani che volevano andarsene.

domenica 21 dicembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi  è il 21 dicembre.

Il 21 dicembre 1913 il New York World, giornale edito a New York dal 1860 al 1931, nel supplemento domenicale "Fun", pubblicò un nuovo gioco denominato word-cross puzzle realizzato da Arthur Wynne, giornalista inglese di Liverpool.

Come si può notare, rispetto alle parole crociate a noi note, quello aveva forma a losanga e non presentava caselle nere. Osservate anche come sia strana per noi la numerazione. Le definizioni infatti erano rappresentate dal numero iniziale e dal numero finale di ogni riga o colonna.

Solo agli inizi del 1920 anche altri giornali degli States pubblicarono il loro word-cross, pian piano il nome fu trasformato in crossword e solo dopo comparvero le caselle nere.

Creato da un inglese, sviluppato negli Stati Uniti, le parole crociate ritornarono in Inghilterra e nel febbraio del 1922 furono pubblicate dal Pearson's Magazine.

Il termine CROSSWORD comparve in un dizionario per la prima volta nel 1930.

Il termine CRUCIVERBA comparve in un dizionario per la prima volta nel 1927. Secondo alcuni invece fu una felice intuizione di Valentino Bompiani, noto editore, solo nel 1929.

In Italia i cruciverba avrebbero una precisa data di nascita. Infatti la Domenica del Corriere, l’8 febbraio 1925, pubblicò il primo “Indovinello delle parole crociate”.

C’era stato però un precedente: il 14 settembre 1890 il giornalista Giuseppe Airoldi aveva pubblicato sul Secolo illustrato un cruciverba (senza quadrati neri), che non aveva avuto successo.

Ma allora se ci riferiamo alle parole crociate senza caselle nere, la paternità di questo diffusissimo gioco diventa tutta italiana!

Nel 1961 alcuni enigmisti italiani avviarono un'operazione che metteva in discussione il primato anglosassone nell'invenzione dei cruciverba.

Ricorreva il centenario della nascita dell'enigmista Giuseppe Airoldi e approfittarono della commemorazione per diffondere un piccolo schema che quest'ultimo aveva pubblicato nel 1890. Airoldi, appena nove giorni prima dell'uscita del primo cruciverba di Wynne, era funzionario municipale e corrispondente del "Corriere della Sera", oltre che enigmista e musicologo e, per ovvie ragioni cronologiche, non seppe mai nulla di Wynne.

I primi cruciverba di Airoldi furono pubblicati con il nome di "Parole Incrociate" il 14 settembre 1890 sul numero 50 de "Il Secolo Illustrato della Domenica" edito a Milano da Edoardo Sonzogno. Precisamente nella rubrica "Per passare il tempo".

Era una griglia bianca di piccole dimensioni (4x4), perfettamente definita, le cui soluzioni  sono le seguenti: RIPA-ODER-SERA-AMEN in orizzontale e ROSA-IDEM-PERE-ARAN in verticale.

Ma un piccolo dettaglio gioca contro di lui: il minicruciverba di Airoldi non contiene nessun quadratino nero. Nemmeno il rombo di Wynne ne ha, ma la figura bianca centrale svolge la funzione di separazione tra le parole di una stessa riga che differenzia i cruciverba dai giochi geometrici classici.

Che sia di origine italiana oppure transoceanica, il cruciverba rimane uno dei giochi più belli mai inventati.

Sia che lo vogliate chiamare cruciverba o parole crociate o, più giustamente, parole incrociate.

Anche per i cruciverba vale il detto 'paese che vai usanza che trovi'.

Infatti nel Nord America i cruciverba sono di tipo simmetrico, l'inizio delle risposte alle definizioni è numerato per orizzontali e verticali, ogni risposta deve contenere almeno tre lettere e le caselle nere devono essere al massimo un sesto del totale.

Cruciverba simmetrico significa che, ruotando di 180 gradi lo schema, permane la simmetria delle caselle nere. Inoltre di solito sono di forma quadrata.

In Gran Bretagna e in Australia invece gli schemi delle parole crociate hanno un numero ben maggiore di caselle nere pur mantenendo le altre caratteristiche sopra riportate.

I cruciverba giapponesi invece non possono avere caselle nere ai quattro angoli e non possono essere contigue.

In Italia invece si ammettono definizioni con risposte di sole due lettere, le caselle nere possono anche essere contigue, la forma è spesso rettangolare anziché quadrata, si utilizzano molto spesso schemi non simmetrici detti a schema libero. Si è anche soliti inserire risposte composte da più parole al centro dello schema in modo da formare una piazza più grande.

In Francia i cruciverba sono di dimensioni più piccole: 8 o 10 colonne per righe.

Gli accenti sono ignorati sia in Italia che in Francia, così come gli apostrofi.

Le risposte nelle parole crociate in ebraico sono scritte da destra a sinistra.

sabato 20 dicembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 20 dicembre.

Il 20 dicembre 1987 il traghetto Doña Paz si scontra con la petroliera Vector. E' stato il più grave incidente navale per numero di vittime della storia moderna.

Quel giorno, alle 6,30 del mattino (ora di Manila), la Doña Paz lasciò Tacloban per Manila, con sosta a Catbalogan, nel Samar. Il vascello era atteso a Manila alle 04:00 del giorno successivo, l'ultimo contatto radio avvenne verso le ore 20:00. Intorno alle 22:30 il traghetto era al Dumali Point, vicino Marinduque. Un sopravvissuto riportò in seguito che il tempo quella sera era buono, ma il mare era mosso. Mentre la maggior parte dei passeggeri dormiva, il Doña Paz urtò la MT Vector, una petroliera in rotta da Bataan a Masbate. Il Vector trasportava 1.050.000 litri di benzina ed altri derivati del petrolio della Caltex Philipines. 

A seguito della collisione, la Vector prese fuoco e questo si propagò anche alla Doña Paz. I sopravvissuti ricordano l'incidente e la successiva esplosione, che provocò il panico sulla nave. Uno di essi ha raccontato che le fiamme si propagarono in fretta lungo tutta la nave, e il mare stesso intorno ai vascelli bruciava impetuoso. Un altro sopravvissuto sostenne che le luci si spensero pochi minuti dopo l'incidente, che non vi erano giubbotti di salvataggio sul traghetto e che l'equipaggio correva in preda al panico insieme ai passeggeri senza che qualcuno facesse un qualsiasi tentativo di organizzare i soccorsi. Più tardi si venne a sapere che i giubbotti erano riposti in armadi chiusi a chiave. I passeggeri furono costretti a saltare in mare e nuotare tra le fiamme e i corpi di altri che li avevano preceduti, a volte usando porte o mobilio come zattere di fortuna. La Doña Paz si inabissò in due ore, il Vector ne impiegò quattro. Entrambe le navi si adagiarono su un fondale di 545 metri nelle acque dello Stretto di Tablas, infestate dagli squali. 

La motonave Don Claudio fu testimone dell'esplosione e raggiunse il luogo del naufragio in un'ora, trovando i sopravvissuti: in tutto 24 passeggeri della Doña Paz e due dei 13 membri dell'equipaggio della Vector. Una venticinquesima sopravvissuta della Doña Paz, originalmente non iscritta tra i passeggeri, fu la 14enne Valeriana Duma, la più giovane superstite della tragedia. Nessun membro dell'equipaggio del traghetto sopravvisse. 

Secondo le prime investigazioni condotte dalla Guardia Costiera filippina, vi era un solo membro dell'equipaggio del Doña Paz in plancia al momento dell'incidente, per di più un apprendista. Tutti gli altri membri dell'equipaggio erano a bere birra o a guardare la televisione nelle zone ricreative, mentre il capitano stava guardando un film in videocassetta nel suo alloggio. 

I superstiti dichiararono che la nave poteva star trasportando da 3000 a 4000 passeggeri, ben più del massimo consentito, con molti di essi che dormivano nei corridoi, sui ponti o in in tre o quattro all'interno di cuccette singole.

I documenti ufficiali riportavano 1493 passeggeri e 59 membri dell'equipaggio, ma un dirigente della compagnia di navigazione che ha voluto restare anonimo ha dichiarato che nell'approssimarsi del Natale molti biglietti venivano venduti illegalmente sulla nave e che i passeggeri sotto i 4 anni di età, non paganti, non venivano registrati nei diari di bordo. 

Dei 21 corpi recuperati ed identificati come passeggeri della nave, solo uno di loro era registrato nella lista ufficiale. Dei 24 sopravvissuti, solo cinque. 

Il 28 dicembre 1987 le autorità del Samar dichiararono che almeno 2000 passeggeri del Doña Paz non erano nelle liste ufficiali, basandosi sulle liste fornite da parenti e amici dei dispersi. 

Nel febbraio 1988 il National Bureau of Investigation filippino dichiarò che, dopo numerose indagini, c'erano almeno 3099 passeggeri e 59 membri dell'equipaggio a bordo; nel gennaio 1999 una task force presidenziale stimò a seguito di una indagine che i passeggeri fossero 4341, quindi sottraendo i 27 superstiti, aggiungendo i 59 membri dell'equipaggio del Doña Paz e gli 11 del Vector, il totale dei morti del naufragio è 4384. 

Il Presidente Corazon Aquino descrisse l'incidente come "una tragedia nazionale di proporzioni strazianti. La tragedia è ancora più bruciante perché avvenuta in concomitanza con le feste natalizie". Il papa Giovanni Paolo II, il primo ministro giapponese Noboru Takeshita e la Regina britannica Elisabetta II porsero i propri messaggi ufficiali di condoglianze. Il magazine Time dichiarò il naufragio "il più grande disastro marittimo in tempo di pace del ventesimo secolo". 


venerdì 19 dicembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 19 dicembre.

La sera del 19 dicembre 2016, poco dopo le 20, un tir Scania da 38 tonnellate ha travolto le persone che stavano visitando il mercatino natalizio di Breitscheidplatz, una piazza nella zona ovest di Berlino. Secondo la ricostruzione degli eventi, l’autista del camion ha investito i passanti di proposito, per ucciderli.

L’attacco è avvenuto nel quartiere di Charlottenburg, una zona frequentata da molti turisti. L’attentatore ha scelto un orario in cui sapeva che ci sarebbero state molte persone al mercatino. La dinamica ricorda quindi quella dell’attacco sul lungomare di Nizza del 14 luglio 2016.

L’attentato ha causato 12 morti e 56 feriti. Sette morti sono di nazionalità tedesca, gli altri di varie nazionalità europee. Tra le vittime c’è un’italiana di 31 anni, Fabrizia Di Lorenzo, la cui morte è stata confermata il 22 dicembre dal ministero degli esteri. La giovane lavorava per la 4 flow di Berlino, un’impresa di logistica. Quella sera era uscita per comperare i regali da portare a Sulmona, sua città natale, per le vicine festività.

Un polacco di 37 anni, Łukasz Urban, è stato trovato morto dentro il camion con ferite da taglio e da arma da fuoco. Urban era l’autista del tir, immatricolato in Polonia, e si trovava nella capitale tedesca per fare una consegna. Secondo gli inquirenti il veicolo è stato sequestrato e Urban ha cercato fino all’ultimo di fermare l’attentatore.

Poche ore dopo l’attentato, la polizia ha arrestato un uomo a due chilometri dalla strage, un richiedente asilo pachistano di 23 anni, che però è stato rilasciato poco dopo perché non c’erano prove del suo coinvolgimento.

In seguito gli inquirenti hanno identificato un altro sospettato, risultato in fuga e per il quale fu emesso un mandato di cattura in tutt’Europa. Si chiamava Anis Amri, 24 anni, nato in Tunisia e definito “armato e pericoloso”. La sua carta d’identità e le sue impronte digitali sono state trovate dentro il camion. La polizia ha diffuso il suo identikit e ha promesso centomila euro a chi avesse fornito informazioni utili ad arrestarlo.

Intorno alle 3:00 del mattino del 23 dicembre, Amri, appena giunto in Italia con un treno da Chambéry (Francia) - via Torino - alla stazione di Sesto San Giovanni è stato intercettato da una pattuglia della Polizia di Stato presso piazza Primo Maggio a seguito di un controllo di routine. Non appena i poliziotti gli hanno chiesto i documenti, il tunisino ha estratto dallo zaino una pistola calibro 22 (in seguito ritenuta la stessa arma usata a Berlino), sparando alla spalla di uno degli agenti. L'altro poliziotto inseguì il giovane sparando due colpi nella sua direzione: uno solo lo raggiunse, al costato. Nonostante l'intervento dei sanitari, il giovane attentatore spirò steso sull'asfalto. Dalle impronte digitali e dai tratti somatici, il giovane venne poi successivamente identificato senza ombra di dubbio in Anis Amri.

Si è poi scoperto che Amri poco prima dell'una di notte era passato davanti alla stazione Centrale di Milano, per recarsi in piazza Argentina; da lì, dopo aver chiesto informazioni a un giovane salvadoregno su come raggiungere Roma e Napoli, aveva preso l'autobus notturno sostitutivo della Linea M1 della metropolitana milanese, diretto a Sesto San Giovanni. Dalla Centrale di Milano era uscito, essendovi giunto, sempre in nottata, in treno da Torino, a sua volta raggiunta in treno in serata da Bardonecchia.

Si stima che nel suo percorso totale Amri abbia usato almeno quattordici nomi falsi e tre diverse nazionalità

Da gennaio era sotto osservazione da parte delle autorità perché potenzialmente capace di “gravi atti di violenza contro lo stato”. Anche le sue comunicazioni erano sotto controllo.

Nel 2011, secondo fonti investigative italiane, Anis Amri ha scontato quattro anni di carcere nel carcere Ucciardone di Palermo per aver appiccato un incendio in una scuola. Dopo aver scontato la condanna avrebbe dovuto essere espulso, ma la Tunisia non ha collaborato fornendo il riconoscimento ufficiale, e ad Anis Amri è stato semplicemente intimato di lasciare l’Italia.

Sarebbe arrivato in Germania nel giugno 2015, soggiornando prima nella Renania Settentrionale-Vestfalia e in seguito a Berlino. Anis Amri, secondo i giornali tedeschi, figurava in una lista delle 550 persone considerate pericolose dalle forze dell’ordine ed era sospettato di preparare un attentato. Citando una fonte vicina all’inchiesta, la Süddeutsche Zeitung ha scritto: “Ci sono molte persone pericolose nel paese, ma di pericolose come lui ce ne sono pochissime”.

A giugno Anis Amri aveva fatto richiesta d’asilo in Germania, ma la richiesta era stata respinta perché non aveva i documenti necessari. Amri, secondo la stampa tedesca, aveva legami con Ahmad Abdelaziz A., noto come Abu Walaa, un predicatore arrestato a novembre del 2016 per aver incitato i suoi seguaci ad andare in Siria per combattere a fianco del gruppo Stato islamico.


giovedì 18 dicembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 18 dicembre.

Il 18 dicembre 1993 viene inaugurato l'MGM Grand di Las Vegas, all'epoca l'Hotel più grande del mondo.

L’MGM Grand Las Vegas, oggi il terzo complesso alberghiero più grande del mondo, nonché il più grande hotel degli Stati Uniti d’America, possiede anche il casinò più grande in tutta Las Vegas. Un complesso enorme, set anche per numerosi film.

Oggi il resort è di proprietà della MGM Resort Inetrnational, ma la sua storia inizia con il magnante Kirk Krkorian, che nel 1990 comprò il Marina Hotel con l’obiettivo di ristrutturarlo e di chiamarlo appunto MGM Grand. Un nome non scelto a caso, dato che era quello di un suo hotel precedentemente posseduto. Il 30 novembre del 1991 il Marina Hotel fu così definitivamente chiuso e il 23 febbraio 1993 vennero completati i lavori del MGM Grand Las Vegas. Fu poi aperto al pubblico il 18 dicembre 1993.

Nei suoi primi anni di vita, come la maggior parte dei casinò di Las Vegas, anche l’MGM era a tema ed il suo era quello del Mago di Oz. La scelta dei pannelli di vetro vetri stava proprio ad indicare la città Esmeralda del noto film d’animazione. L’idea fu poi abbandonata e oggi non c’è più traccia di Dorothy o dell’uomo di latta al suo interno.

Non vi è nemmeno più l’entrata originale, che consisteva in una gigantesca bocca di leone, dove bisognava passare per accedere al casinò. Venne sostituita poiché alcuni giocatori, proveniente da altre culture, ritenevano quel tipo di passaggio presagio di sfortuna. La bocca fu quasi subito sostituita e al suo posto oggi vi è una statua di bronzo raffigurante un leone, simbolo del MGM, ed è la più grande statua di bronzo degli Stati Uniti d’America.

L’MGM Grand Las Vegas un tempo possedeva anche un habitat dove vivevano sei leoni, esposti al pubblico. Oggi è stato eliminato. Qui troviamo anche la casa dello spettacolo KÀ del Cirque du Soleil. E negli anni molti film sono stati girati fra le sue sale, come The Great White Hype o il più noto e spettacolare Ocean’s Eleven.

mercoledì 17 dicembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 17 dicembre.

Il 17 dicembre 1941 l'esercito tedesco iniziò l'assedio di Sebastopoli, in Crimea. La città resistette 7 mesi prima di capitolare.

Oltre 25.000 bombardamenti aerei per un totale di 13.000 tonnellate di bombe di grosso calibro e 47.500 tonnellate di proiettili di artiglieria di vario calibro: cannoni a media e lunga gittata, cannoni semoventi, lanciarazzi e mortai, nonché i cannoni antiaerei da 88 mm. Questo fu lo sforzo che le armate tedesche riversarono contro la città di Sebastopoli, vero e proprio porto-fortezza in Crimea e base per la flotta del Mar Nero: le stesse acque dove iniziò ad operare la 101a Squadriglia MAS del Capitano di Fregata Francesco Mimbelli. A partire dal 20 maggio 1942, volendo chiudere la partita al più presto, il Generale Erich von Manstein, comandante dell’11a Armata, utilizzò alcuni tra i pezzi d’artiglieria più grandi e più potenti: tra questi, il cannone ferroviario Schwerer Gustav, capace di sparare proiettili del peso di quattro tonnellate e mezzo a quasi 45 km di distanza dalla canna del calibro di 80 cm. Ma Gustav era capace di sparare anche granate di sette tonnellate, riducendo al contempo la gittata a 38 km: nel settore di Severnaja, uno di questi proiettili centrò, distruggendolo completamente, un deposito di munizioni ricavato in un bunker di cemento armato trenta metri sotto terra. Certi che non avrebbero trovato più un solo soldato russo vivo tra le macerie di Sebastopoli, il 7 giugno 1942 i Tedeschi mossero all’assalto della città: incredibilmente, però, i forti che cingevano la città erano pressoché intatti.

Il 3 luglio, ben ventisei giorni dopo il primo assalto, i forti di Sebastopoli, e l’intera città, resistevano ancora sotto l’incessante fuoco tedesco. Basti tra tutti ricordare la sorte del Forte Maxim Gorkij: per ventiquattro ore fu sottoposto al bombardamento dei pesanti mortai da 355 mm, in grado di sparare micidiali granate che non esplodevano all’impatto, ma in grado di penetrare la spessa corazzatura in acciaio delle cupole del forte, rimanervi conficcate ed esplodere qualche secondo dopo. A nulla, però, valsero gli sforzi degli artiglieri. Dovettero pensarci i genieri tedeschi che, nonostante il fuoco delle mitragliatrici russe, riuscirono a far detonare due enormi cariche di dinamite, in gallerie scavate sotto le fondamenta, prima che il Forte Gorkij fosse messo fuori combattimento. E di questi forti super-corazzati, a Sebastopoli, i Sovietici ne avevano costruiti quattordici, armati con un totale di 600 cannoni, 2000 mortai e grossi cannoni navali da 305 mm. Così, nonostante l’inferno di fuoco che continuava a riversarsi giorno e notte sulla città-fortezza del Mar Nero, nel Generale von Manstein si fece sempre più chiara l’idea che per espugnare Sebastopoli avrebbe dovuto combattere casa per casa, strada per strada, galleria per galleria.

Assaltando un forte dopo l’altro, con bombe a mano e lanciafiamme, i Tedeschi cominciarono progressivamente a penetrare dentro la città: il 13 giugno venne espugnato il Forte Stalin e quattro giorni più tardi il Forte Siberia, con l’annientamento completo delle intere guarnigioni poste a loro difesa. Negli ultimi giorni di combattimenti, i Sovietici riuscirono a far giungere a Sebastopoli anche 3000 fanti di marina come rinforzo, subito gettati nei combattimenti: a nulla, però, valsero questi sforzi. Quando, il 20 giugno 1942, le forze dell’Asse riuscirono a raggiungere il porto, le forze di difesa sovietiche vennero di fatto divise in due: per di più conquistando la zona portuale, i Tedeschi fecero in modo che nessun altro rinforzo potesse più giungere in città. Ormai, il destino di Sebastopoli era segnato. L’ultimo forte, Malakoff, cadde il giorno 29, cessando di fatto ogni resistenza, sebbene alcuni nuclei di soldati russi continuarono a combattere fino al 3 luglio. Tra i soldati russi che difesero strenuamente la città, vi fu anche il Tenente Ljudmyla Mychajlivna Pavlicenko, leggendaria tiratrice scelta dell’Armata Rossa con oltre trecento uccisioni confermate: sempre in prima linea a Sebastopoli, nel giugno 1942 rimase ferita dall’esplosione di una granata di mortaio, divenendo, a guarigione ormai completa, istruttrice, addestrando centinaia di tiratori scelti fino alla fine della guerra. Gli assalitori pagarono il prezzo della loro caparbietà con oltre 36.000 morti, a fronte degli 11.000 caduti lasciati sul campo dai difensori: questi ultimi, però, lamentarono anche quasi 90.000 prigionieri. 

Sebastopoli si arrendeva per la seconda volta in meno di 90 anni.


martedì 16 dicembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 16 dicembre.

Il 16 dicembre 1943 ha termine la Battaglia di Montelungo, la prima con l'esercito italiano a fianco degli Alleati.

Siamo nell’Alto Casertano, al confine tra la Campania, il Molise e il Lazio. Il paesaggio è segnato da alcuni caratteristici scogli rocciosi che si alzano sulla pianura a quote di 3-400 metri, ben visibili a chi viaggia sulla Casilina o sull’autostrada del Sole tra Cassino e Mignano. Si tratta del monte Trocchio, del monte Porchio, del monte Lungo e del monte Rotondo. Tra questi due ultimi la via Casilina è costretta a inerpicarsi in una “stretta”. Al di là del Monte Lungo scorre il fiume Peccia, affluente del Garigliano. Tutt’intorno si alzano i monti di Venafro e i contrafforti del vulcano di Roccamonfina. La presenza più imponente è quella del Monte Sambucaro, a nord, che supera i 1200 metri.  Segue una piccola catena montuosa laterale del crinale appenninico campano, che raggiunge la massima quota nei 1.180 metri del boscoso monte Cesima, designato dal Comune di Mignano "area wilderness" per la  conservazione perenne dei valori selvaggi del luogo. A sud è il monte Maggiore, ultimo contrafforte del Vulcano di Roccamonfina, protetto da una riserva naturale regionale. Il Monte Lungo è una collina che si allunga per circa tre km, marcata da alcune gobbe rocciose. Il versante nord è stato oggetto di un rimboschimento.

Su queste alture i tedeschi allestirono nell’autunno del 1943 una linea difensiva che aveva il compito di rallentare l’arrivo delle truppe alleate verso Cassino e di dar tempo di completare la ben più importante “linea Gustav”. Tra il Sambucaro e il Maggiore la linea Bernhard (o linea Reinhard) era stata attrezzata dai genieri dell’Organizzazione Todt con fortificazioni in calcestruzzo, postazioni trincerate in grotta o in buca per mitragliatrici e mortai, campi minati e una notevole massa d’artiglieria. Era occupata da alcune centinaia di uomini della XIV divisione Panzergrenadier. L’attacco alleato alla “linea d’inverno” (operazione Raincoat) iniziò ai primi di novembre del 1943 e si prolungò fino al Natale. In questa occasione fu impegnato in battaglia a fianco degli alleati il primo nucleo dell’esercito italiano ricostituito al sud dopo l’armistizio dell’8 settembre: il raggruppamento motorizzato.

La prima battaglia degli italiani si svolse l’8 dicembre. Il piano prevedeva un assalto simultaneo al monte Maggiore, a cura del 142° reggimento di fanteria statunitense, a Monte Lungo, a cura del  raggruppamento italiano, a San Pietro Infine e al Monte Sammucro, a cura del 143° reggimento fanteria statunitense e alla quota 950, a destra del Sammucro a cura di un battaglione Ranger.

L’esito fu in realtà disastroso, in particolare per gli italiani. I bersaglieri del LI battaglione, posti a sinistra del dispositivo d'attacco furono presi d'infilata dal fuoco tedesco che proveniva dai fianchi di Monte Maggiore. I fanti del 67° reggimento che avevano risalito la cresta del Monte Lungo protetti dalla nebbia, al sollevarsi di questa si trovarono allo scoperto di fronte alle mitragliatrici e furono costretti a ripiegare con forti perdite.

La seconda battaglia, con migliore preparazione e coordinamento da parte alleata, avverrà la settimana seguente, il 16 dicembre e sarà questa volta un successo. I fanti e i bersaglieri italiani, preceduti da 45 minuti di fuoco preparatorio della nostra artiglieria, ripartirono all'assalto del monte, questa volta con le spalle coperte dal 142° reggimento statunitense che aveva occupato il Monte Maggiore. I tedeschi, minacciati di fronte e di fianco, furono costretti al ripiegamento: alle ore 12,30 la vetta era definitivamente in mano italiana.

L’anello escursionistico qui descritto conduce sui luoghi delle battaglie del dicembre 1943 e consente di farsi un’idea completa delle postazioni tedesche, della linea Bernhardt e dell’ambiente naturale dell’alto casertano. L’itinerario ha una durata indicativa di un’ora e quaranta minuti. Può naturalmente essere abbreviato, se si sale in auto al piazzale della Madonnina e ci si limita alla passeggiata di cresta. Può anche essere proseguito a piacere, percorrendo integralmente la linea di cresta fino ad affacciarsi sulla stazione di Rocca d’Evandro. Il terreno sassoso, la fitta macchia e le numerose recinzioni rendono il percorso disagevole in più punti. Il rimboschimento ha coperto molte opere di guerra.

Il punto di partenza dell’itinerario è il Museo storico militare di Monte Lungo, al km 154,6 della Via Casilina. Parcheggiata l’auto nell’ampio piazzale, si visitano il piccolo ma interessante Museo e il Sacrario militare che custodisce i corpi dei caduti italiani. Appena oltre il Sacrario s’imbocca la strada asfaltata (indicazioni: SP 316 – Sacrario di Montelungo) che sale a mezza costa tra gli ulivi e il costone roccioso e in 1,1 km (25 minuti a piedi) conduce sul piazzale della Madonnina. La statua è collocata su  una colonna in direzione del Sacrario. La lapide dedicata al “Monte Lungo, Golgota del fante” ricorda i soldati italiani caduti. Un’opportuna pietra d’orientamento aiuta a individuare i principali riferimenti della “linea d’inverno” del 1943. L’ampio panorama circolare comprende, partendo da nord, il monte Sambucaro e San Pietro Infine, la catena di monte Cavallo e monte Cesima, il monte Rotondo in primo piano al di là della Casilina, la piana di Mignano con l’autostrada del Sole, la ferrovia e la nuova direttissima, la Defensa e il monte Maggiore.

Dal belvedere si torna indietro per pochi metri fino alla prima curva. Si lascia l’asfalto e si segue la linea di cresta del Monte Lungo, costeggiando il bordo superiore della pineta. Si scende a una selletta e si risale ripidamente una rampa rocciosa, cardine della difesa tedesca. In quest’area si riconoscono ancora nitidamente i trinceramenti, le buche dei mitraglieri, le postazioni a dominio della cresta e dei fianchi del monte, i ricoveri in buca sulla vetta. Le postazioni sono ancora perfettamente agibili. Si scende ora su terreno sassoso e scomodo per la fitta macchia ad una selletta dove si trova una strada forestale e un’invitante panchina (30 minuti dalla Madonnina).

Si segue ora verso nord la strada forestale in leggera discesa, all’ombra nell’odorosa pineta. Si trascura un primo bivio sulla sinistra e un secondo bivio sulla destra  e si continua (segnale stradale di divieto di accesso per le auto su un albero) fino al termine della strada, su uno spiazzo (20 minuti dalla panchina), oltre il quale la strada si trasforma in sentiero. Siamo su un eccellente balcone panoramico in direzione della “linea d’inverno” e dei luoghi della battaglia di Montelungo. Di fronte è il Monte Sambucaro (o Sammucro, secondo le cartine militari dell’epoca). Si riconoscono il nuovo e il vecchio abitato di San Pietro, la strada per Venafro e il Molise, la vecchia strada per il Passo dell’Annunziata Lunga. In basso sotto di noi la Casilina esce dalla stretta di Monte Lungo, costeggia i colli  Porchio e Trocchio e si allunga nella valle del Liri verso Cassino e la linea Gustav. Si torna indietro sulla sterrata, con vista ora sul sacrario militare. Si riconoscono tra gli alberi le postazioni dell’artiglieria tedesca. Al bivio si continua a sinistra in discesa (da destra scende la strada che abbiamo percorso all’andata). Si costeggia la condotta forzata che alimenta la centrale Enel di Monte Lungo e si raggiunge la Via Casilina, cinquecento metri a valle del parcheggio del Museo (25 minuti).

Il Sacrario di Montelungo è il cimitero italiano della guerra di liberazione 1943-45. É un luogo di mestizia, ma è anche un luogo di memoria. Dietro ognuna di quelle piccole lapidi tutte uguali c’è la storia di una giovane vita. Vogliamo liberare la memoria di almeno uno di quei giovani ventenni, cui in fondo siamo debitori di un pizzico della nostra libertà. I reparti italiani che assaltarono il Monte Lungo erano prevalentemente composti da giovani allievi ufficiali di complemento, freschi di addestramento militare e privi di qualsiasi esperienza di combattimento, arruolatisi volontari nei reparti destinati alla prima linea. Giuseppe Cèderle, sottotenente di complemento del 67° Reggimento di fanteria della Divisione Legnano, era un loro istruttore. Nasce a Montebello Vicentino il 16 agosto 1918, quinto di sette figli. Studi brillanti: abilitazione magistrale e licenza classica a pieni voti. Si iscrive all’Università Cattolica, Facoltà di lettere e filosofia. La sua adolescenza matura nei gruppi dell’Azione Cattolica. Diventa ben presto educatore di un gruppo di ragazzi e successivamente responsabile dei gruppi della Giac, la Gioventù Italiana di Azione Cattolica. A febbraio del 1940 è in grigioverde, chiamato a prestare il servizio militare. Diventa istruttore degli allievi ufficiali: l’addestramento militare si combina la testimonianza di una vita di fede e la condivisione di esperienze comunitarie di formazione con i giovani del suo reparto. Il giorno di Capodanno del 1943 scrive nel suo diario il programma per il nuovo anno: “Questa deve essere un’annata decisiva nella mia ascesi spirituale, e deve essere anche un lungo e sicuro passo nella via del sapere. Studiare indefessamente, attentamente, intelligentemente; leggere riviste e giornali; vedere cinematografi, interrogare colleghi e superiori, e soprattutto interrogare libri, forti, leggerli lentamente, riconnettendo, riassumendo. Costruire il mio carattere morale; e per questo smussare la mia rozzezza e vincere, domare, sorpassare il mio egoismo; formarmi ad una dirittura ed a una lealtà di pensiero e di parola tali da farmi specchio di dignitosità ed equilibrio; rendermi cordiale, aperto”. L’armistizio dell’8 settembre lo trova in Puglia, a Manduria, con i suoi allievi. Qui gli capita di ascoltare anche una conferenza del giovane prof. Aldo Moro. L’amore per la patria si scontra con la vergogna bruciante per i tradimenti istituzionali. Il senso dell’onore (“perché l’Italia potesse ritrovare tutta la sua grandezza spirituale e potesse ancora essere maestra al mondo di libertà e di civiltà”) fa rapidamente maturare la scelta di impegnarsi volontario nei reparti del nuovo esercito italiano. C’è anche la volontà di mostrare le qualità morali degli italiani ad alleati nuovi, largamente prevenuti e diffidenti dell’opportunismo degli italiani, scettici nei confronti delle loro qualità militari. Parte con i suoi compagni il 2 dicembre 1943: “io sono sull’autocarro con i miei allievi, e sventola alta, bella, scintillante la nostra bandiera, la bandiera del mio plotone, quella rubata da me ai fascisti di Mesagne”. Il seguito della sua storia s’intreccia con la battaglia di Monte Lungo. Cèderle ha meritato la Medaglia d’oro al valor militare alla memoria. Con questa motivazione: “Benché appartenente a reparto non impegnabile, otteneva di essere inquadrato in prima linea al comando di un plotone che conduceva all’assalto contro i tedeschi sistemati in caverne in terreno difficilissimo, sotto micidiale tiro di mitragliatrici e bombe a mano. Con un braccio fracassato, incitava i suoi uomini a contenere il contrattacco nemico gridando: “Ho dato un braccio alla Patria, non importa, avanti per l’onore dell’Italia!”. Colpito a morte trovava ancora la forza di trarre di sotto la giubba una bandiera tricolore che scagliava in un supremo gesto di sfida contro il nemico, additandola ai suoi soldati perché la portassero avanti”. E’ caduto l’8 dicembre 1943 sulla quota 343 di Monte Lungo. Chi vuole rendergli omaggio o semplicemente ricordarlo trova le sue spoglie nel sacrario militare sulla parete.  È al numero 49.

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