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venerdì 14 novembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 14 novembre.

Il 14 novembre 1951 il Po rompe gli argini e il Polesine viene travolto dall'alluvione.

Il 1951 fu un anno particolare. Da gennaio a ottobre su tutto il territorio nazionale si susseguirono piogge, inondazioni e frane che complessivamente causarono oltre 150 morti, 90 dei quali nel solo mese di ottobre in Calabria (72), Sicilia (12) e Sardegna (6). Nei primi giorni di novembre il nord Italia venne colpito da piogge intense e persistenti che in val Padana raggiunsero l’apice tra il 6 e il 12. In questi sei giorni sul bacino del Po vennero misurati mediamente circa 30 millimetri di pioggia al giorno, con picchi che superarono anche di quattordici volte la media mensile dei cinque anni precedenti. Una tale quantità di acqua, caduta su terreni già saturati dalle piogge del mese di ottobre, determinò la piena di tutti i corsi d’acqua del bacino. I primi fenomeni di dissesto geo-idrogeologico si verificarono in Piemonte e in Lombardia, dove si registrarono anche alcune vittime. Il Po crebbe velocemente, ingrossato dalle acque di tutti i suoi affluenti di destra e sinistra e col deflusso verso il mare ostacolato da venti di Scirocco. Tra l’11 e il 12 novembre il fiume ruppe nella zona del parmense, sommergendo migliaia di ettari di terreno. Due giorni dopo la piena raggiunse il Polesine. Con questo nome si identifica l’area del Veneto compresa tra i corsi inferiori dell’Adige e del Po, e comprende l’intera provincia di Rovigo e la zona del cavarzerano in provincia di Venezia. Questo territorio pianeggiante è caratterizzato da ampie depressioni, con molti ettari a quote inferiori al livello del mare. Per fronteggiare i ripetuti allagamenti nel tempo erano stati costruiti canali e argini che, danneggiati durante il periodo bellico e malridotti per la scarsa manutenzione, si trovavano in precarie condizioni. Particolarmente critica era la situazione nel tratto fra Santa Maria Maddalena e Occhiobello, e fu proprio in questa zona che il giorno 14 novembre l’argine cedette, dando inizio alla più estesa alluvione del XX secolo in Italia. Le rotte furono tre, in rapida successione: la prima, che raggiunse i 220 metri di lunghezza, si verificò nel tardo pomeriggio nel territorio di Canaro, a Paviole; le altre due, lunghe rispettivamente 312 e 204 metri, si aprirono nel comune di Occhiobello, a Bosco e a Malcantone. In poche ore le acque dilagarono e raggiunsero, rimanendovi bloccate, l’argine della Fossa Polesella, un canale navigabile di comunicazione tra il fiume Po e il Canalbianco che produsse una sorta di effetto diga. Per favorire il deflusso verso il mare, sarebbe stato opportuno aprire dei varchi nell’argine, ma le autorità tergiversarono e così le acque iniziarono a risalire anche verso monte. L’enorme quantità di acqua proveniente dalle rotte ben presto superò la quota dell’argine della Fossa e si riversò anche nel Canalbianco, dove si aprirono alcune rotte in sinistra mettendo a rischio i due maggiori centri del Polesine, Adria e il capoluogo Rovigo. Adria venne completamente inondata. Oltre 20 mila persone rimasero bloccate in città e isolate per diverse ore, prima di essere tutte evacuate. A Rovigo, dove era stato organizzato il quartier generale dei soccorsi ed erano stati ospitati molti sfollati, le acque furono in parte trattenute dall’argine del canale Adigetto che, fungendo da diga, salvò il centro storico.

Difficile quantificare il volume delle acque che per undici giorni sommersero almeno 1.170 chilometri quadrati di terreno, raggiungendo in alcuni punti la profondità di sei metri; le stime oscillano fra i tre e gli otto miliardi di metri cubi. Dopo circa una settimana dalle rotte del Po le acque raggiunsero finalmente l’Adriatico e il livello dell’esondazione iniziò a scendere. Tuttavia gli argini della Fossa Polesella costituivano ancora un ostacolo al deflusso e si decise di farli saltare. L’operazione venne portata a termine tra il 24 e il 26 novembre, dopo alcuni tentativi e con oltre 70 quintali di tritolo. I tre varchi di Canaro e Occhiobello furono chiusi poco più di un mese dopo le rotte, mentre le strutture arginali vennero ricostruite nel corso del 1952. Il numero totale delle persone coinvolte fu molto alto: 101 morti, sette dispersi e circa 180.000 tra sfollati e senzatetto. La maggior parte delle vittime si registrò a Frassinelle, nella notte fra il 14 e il 15 novembre. La dinamica dell’accaduto è ancora oggi non del tutto chiara. Di sicuro si sa che un camion adibito al trasporto degli sfollati, inadeguato ad accogliere il gran numero di persone che vi erano salite, finì per impantanarsi e venne completamente sommerso dalle acque. Alla fine persero la vita 84 persone, molti annegati, altri per sfinimento e per il freddo. Dei 180.000 che dovettero lasciare la propria casa, 80.000 non vi fecero più ritorno, con un conseguente impatto sociale ed economico negativo di lungo periodo in un’area geografica già prima dell’alluvione economicamente depressa. I danni materiali furono ingentissimi: 60 km di argini e oltre 950 km di strade distrutti o danneggiati, 52 ponti crollati o danneggiati; 4100 abitazioni, 13.800 aziende agricole, 5.000 fabbricati e 2.500 macchinari agricoli distrutti o danneggiati. Furono allagati 1.130 chilometri quadrati di terreno agricolo, che sebbene prosciugati nel tempo relativamente breve di sei mesi, rimasero sterili per molto più tempo a causa dei consistenti depositi sabbiosi. Andarono persi oltre 16.000 capi di bestiame e due milioni di quintali di derrate. Secondo quanto riportato da Botta, i danni causati dell’alluvione del Polesine del 1951 furono stimati (ex-post) in 400 miliardi di Lire, corrispondenti a più di 6,5 miliardi di Euro di oggi. Immediatamente dopo l’evento, lo Stato stanziò 35 miliardi di Lire (quasi 600 milioni di Euro) per gli interventi urgenti. A meno di un anno dall’accaduto, l’ingegner Tortarolo, presidente del Magistrato delle Acque, dichiarò che “il problema di fondo poteva dirsi ormai risolto” e che “alla completa ricostruzione del Polesine” mancava “la soluzione di pochi marginali problemi”. Una dichiarazione a dir poco ottimistica in quanto fra il 1952 e il 1981 (30 anni) lo Stato ha complessivamente erogato 1.868 miliardi di Lire (più di 30,5 miliardi di Euro) attraverso undici diverse Leggi nazionali.

giovedì 13 novembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 13 novembre.

Il 13 novembre 1960 desta grandissimo scalpore in USA il matrimonio interrazziale tra Sammy Davis Jr e May Britt.

May Britt Wilken ha 25 anni, è svedese di Stoccolma e ha iniziato la carriera in Italia, grazie a Carlo Ponti. Ha recitato anche a Hollywood, pure con due grandissimi: Marlon Brando e Montgomery Clift (l'anti James Dean) in "I giovani leoni". Si ritirerà dalla carriera proprio per il matrimonio.

Sammy Davis Jr ha 33 anni ed è nato ad Harlem, ma è di origini portoricane: cantante, ballerino, batterista e soprattutto membro del clan artistico forse più famoso della storia, i Rat Pack composto da Frank Sinatra, Dean Martin, Peter Lawford, Joey Bishop.

Non risultano fino a ora matrimoni interrazziali, almeno da prima pagina, anche perché negli USA sono vietati in 31 dei loro 50 stati: ci saranno quindi conseguenze, ma credo che loro lo sappiano bene. Sono forse le star ad aprire la strada al cambiamento, più di altri riescono nella rottura degli schemi, un po' perché si finisce per perdonare loro tutto o quasi o, almeno, è più difficile combatterli. I due non eviteranno minacce e si dice pure che Frank Sinatra, seppur amico e testimone, non sarà troppo entusiasta della cosa. Sinatra è il "capo" dei Rat Pack ed è amico dei Kennedy e in particolare di John Fitzgerald, che è in corsa per la Casa Bianca. JKF, l'anno prossimo sarà, seppur brevemente e con un'interruzione traumatica, il primo Presidente cattolico della storia statunitense e artefice di un rilevante appoggio ai diritti degli afroamericani.

Sammy Davis Jr deve avere un debole per le bionde: ma se questa volta la conclusione è felice, la relazione con Kim Novak, una delle attrici in ascesa e destinata a diventare un mito del cinema, si era interrotta bruscamente. In proposito attorno a Sammy Davis Jr vi sono due storie interessanti e che finiscono con il legarsi: la conversione all'ebraismo e il motivo per il quale ha un occhio di vetro. L'approdo alla religione ebraica sarebbe a seguito di un incidente stradale nel quale sarebbe uscito miracolato, seppur con la perdita dell'occhio sinistro. A salvarlo, dice Sammy, un portafortuna dimenticato al collo e regalatogli da un amico ebreo. Fin qui la versione ufficiale.

I maligni, invece, dicono che quell'occhio di vetro, con l'incidente tra Los Angeles e Las Vegas non c'entri nulla. Sarebbe invece dovuto a un intervento tutt'altro che gentile da parte di due scagnozzi ingaggiati dalla casa cinematografica di Kim Novak e che non gradiva la relazione. Questa è la versione che qui definirebbero dei rumors. 

Un altro pettegolezzo, che uscirà molti anni dopo sarà quello che Sammy Davis Jr, oltre ad essere un conquistatore di belle donne, sarebbe stato bisessuale.

Tornando al 13 novembre, entrambi sono al secondo matrimonio. Non sanno ancora che l'anno prossimo nascerà Tracey Hillivi, mentre nel 1962 adotteranno Mark e, infine, Jeff nel 1965. Il loro matrimonio non facile si concluderà nel 1968 e a May Britt verranno affidati i tre figli.

Storicamente in questo decennio anche cinema e Tv romperanno con il tabù delle coppie miste: quanto sarà storico nel 1967 "Indovina chi viene a cena" con Katharine Hepburn, Spencer Tracy, Sidney Poitier e Katharine Houghton, quando una figlia bianca presenta un fidanzato nero a un padre apparentemente di idee liberal. E il 22 novembre dell'anno dopo sarà il capitano Kirk di Star Trek nell'episodio "Umiliati per forza maggiore" a baciare il Tenente Uhura, l'addetto alle comunicazioni che arriva dall'Africa.

E mentre si sta rompendo il bicchiere, come prevede il rito ebraico, si sta compiendo un altro passo verso i diritti civili.

Sammy Davis Jr morirà nel 1990 per un tumore alla gola, a dimostrazione di quanto il destino sia beffardo nel colpire proprio nell'arte chi ha saputo regalare emozioni al mondo dello spettacolo.

May Britt dopo il divorzio si è dedicata principalmente alla pittura.

mercoledì 12 novembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 12 novembre.

Il 12 novembre 1918 l'Austria diventa una Repubblica.

A.E.I.O.U.: le 5 vocali sono le iniziali delle parole latine che formano un famoso motto austriaco: “Austriae Est Imperare Orbi Universo”, cioè “è destino dell’Austria comandare al mondo intero”.

Alcune tracce di capanne costruite su  palafitte, scoperte nei laghi alpini, dimostrano che la regione austriaca era abitata fin dall’età della pietra. I villaggi sorgevano soprattutto vicino ai laghi ed alle miniere di sale, fonti di ricchezza e di commerci.

Attratti da quelle risorse naturali, molti popoli invasero la regione austriaca: dapprima i Celti, nel IV secolo avanti Cristo, poi i Romani, nel 113 avanti Cristo, che vi crearono fiorenti colonie, quali Vindobona (oggi  Vienna) e Juvavum (oggi Salisburgo). Nell’anno 15 dopo Cristo il territorio fu annesso a Roma.

Nel IV secolo dopo Cristo i territori del bacino danubiano subirono l’invasione di popolazioni tedesche, provenienti da est e da nord: Unni, Vandali, Goti e Slavi. Essi annientarono la civiltà latina ed imposero la loro dominazione barbarica.

Successivamente, all’arrivo di Carlo Magno, il territorio entrò a far parte del Regno Franco.  Fu chiamato “Ostmark”, cioè “marca”, (regione di confine) orientale dell’impero, da cui derivò la parola “Osterreich”, nome germanico dell’Austria (in tedesco: Regno di Oriente).

Altre lotte per il predominio portarono nel paese gli Ungheresi, sconfitti a loro volta dall’imperatore Ottone I il Grande, re di Germania. Infine, quest’ultimo donò la “marca” al conte Leopoldo di Badenberg, nel 976, la cui famiglia governò il paese per circa tre secoli, creando uno stato indipendente. Il dominio, poi, si allargò ad est, fino al Danubio ed all’Ungheria: dopo poco più di un secolo l’estensione del territorio era raddoppiata.

Nel 1246, con la morte di Federico il Battagliero, si estinse la dinastìa dei Badenberg. Ottocaro II, re di Boemia, ne approfittò per impadronirsi dell’Austria, della Stiria e della Carinzia. Ma il suo dominio durò poco:  nel 1273 venne eletto imperatore di Germania Rodolfo d’Asburgo, che sconfisse Ottocaro II e si impossessò del territorio e si stabilì a Vienna. Da quel momento e fino al 1918 la Casa di Asburgo fu a capo dell’Austria, con i due rami di Asburgo e Asburgo-Lorena.

Nel 1382, prendendo Trieste sotto la sua protezione, l’Austria si assicurò uno sbocco al mare, indispensabile per i suoi commerci.

Con Massimiliano I, che regnò dal 1493 al 1519, l’Austria entrò in possesso della Borgogna e dei Paesi Bassi portati in dote dalla moglie Maria di Borgogna, figlia di Carlo il Temerario.

Per assicurare altri domini alla casa d’Austria, Massimiliano I combinò i matrimoni dei suoi discendenti: il figlio Filippo il Bello sposò Giovanna la Pazza, figlia del re di Spagna, che ereditò nel 1500 i troni di Castiglia e di Aragona. Due nipoti, inoltre, sposarono i figli dei re di Boemia e di  Ungheria.

Alla sua morte, nel  1519, fu eletto imperatore Carlo V, figlio di Filippo il Bello e di Giovanna la Pazza, che era già re di Spagna. Egli divise l’impero ed affidò il governo dell’Austria al fratello Ferdinando I, che nel 1526 ereditò anche i regni di Boemia e di Ungheria. Tutta la regione carpato-danubiana era così riunita sotto un solo governo, che comprendeva popolazioni diverse fra loro; austriaci, boemi, ungheresi, slavi. Una fede comune li riuniva: la religione cattolica, particolarmente minacciata in quel periodo dai musulmani e dalla Riforma.

La necessità di difenderla avvicinò tutti questi popoli e contribuì a legarli alla casa d’Austria, che divenne così il baluardo del Cattolicesimo. Fu in Austria che si  sviluppò la Controriforma; a Trento, allora città austriaca, si tenne il famoso Concilio e si diffuse la predicazione dei Gesuiti.

Altre vicende minacciarono l’Austria: nel 1683 fu attaccata dai Turchi, ma poté respingerli con l’aiuto del re di Polonia.  La morte del re Carlo II di Spagna, ultimo Asburgo del ramo spagnolo, portò ad una lunga guerra di successione con la Francia. L’Austria perse la Spagna, ricevendo in cambio Napoli, Milano, la Sardegna, che scambiò poi con la Sicilia. Più tardi, con la guerra di successione polacca, perse anche Napoli e la Sicilia, ottenendo però il Ducato di Parma e Piacenza ed il Granducato di Toscana.

Nel 1740 salì al trono Maria Teresa, del ramo Asburgo-Lorena. Ella fu una grande imperatrice; cercò, fra l’altro, di migliorare i rapporti con la Francia, dando in sposa la figlia Maria Antonietta al Delfino di Francia. Sotto il suo governo lo Stato assunse un nuovo sviluppo. Attraverso i porti di Fiume e di Trieste aumentarono gli scambi commerciali; fece modificare le leggi in favore dei più poveri e promosse l’istruzione fra il popolo.

Verso la fine del XVIII secolo molti popoli soggetti all’Austria cominciarono a rivendicare le loro libertà: il primo di questi popoli ad ottenere l’indipendenza fu il popolo belga.

Dopo la caduta di Napoleone fu indetto il Congresso di Vienna nel 1815. Il Congresso ebbe il compito di ristabilire l’equilibrio rivoluzionato dalle guerre napoleoniche: all’Austria fu affidato il compito di guidare l’Europa verso la restaurazione.

Ma ormai tutti i popoli aspiravano all’indipendenza; a Vienna, a Praga, a Venezia, a Milano, a Budapest si ebbero moti rivoluzionari. L’Austria si avviava a restringere i suoi confini. Con le guerre di indipendenza italiane perse la Lombardia ed il Veneto; nel 1867 fu costretta a riconoscere l’indipendenza dell’Ungheria.

Gravi disgrazie familiari indebolirono il regno di Francesco Giuseppe: il suicidio del figlio Rodolfo, la fucilazione in Messico del fratello Massimiliano, l’uccisione della moglie Elisabetta ed infine l’assassinio del nipote, erede al trono, Francesco Ferdinando, avvenuto a Sarajevo (Bosnia) nel 1914, ad opera di due studenti serbi. Per vendicarlo Francesco Giuseppe attaccò la Serbia: altre nazioni europee intervennero e quello fu l’inizio della prima guerra mondiale.

Nel 1916 Francesco Giuseppe morì. Il suo successore Carlo I tentò invano di promettere l’autonomia ai popoli dell’impero: l’Austria fu sconfitta ed il suo impero fu distrutto.

Il 12 novembre 1918 fu proclamata la Repubblica Austriaca. L’impero che nel 1914 si estendeva per 670.000 Kmq. e contava 51 milioni di  abitanti, era ridotto a 84.000 Kmq. e 6 milioni e mezzo di abitanti. La fame, la miseria, lasciate dalla guerra, opprimevano il paese che faticosamente iniziò la sua ricostruzione, aiutato anche da un prestito concesso dalle altre nazioni europee.

Ma l’Austria dovette subire una nuova catastrofe: nel 1938 i nazisti la invasero e la ridussero a semplice provincia del Reich, trascinandola nella nuova gravissima sconfitta della seconda guerra mondiale.

Il 15 maggio 1945 venne firmata la pace fra l’Austria e le 4 grandi potenze, Inghilterra, Francia, Stati Uniti ed Unione Sovietica. Dopo un periodo di occupazione alleata, la repubblica austriaca poté ritornare indipendente.

Il 25 novembre 1945 ci furono le elezioni per il Parlamento. Le vinse il Partito Popolare col 51% dei voti ma si formò un governo di coalizione  presieduto dal cancelliere popolare Leopoldo Figl, mentre Presidente della Repubblica era il socialista Karl Renner. Sebbene governo indipendente, quello austriaco non poté per circa un anno deliberare senza il placet del Consiglio Alleato. Questo, nel giugno 1946, dietro proposta degli Stati Uniti, autolimitò le sue prerogative cosicché il governo poté decidere per proprio conto la linea di condotta da tenere e siccome nel frattempo anche alcune frontiere con gli altri paesi erano state abbattute, l’Austria poté ripristinare il libero commercio ed il movimento dei viaggiatori. Rimasero in piedi solo le frontiere fra la zona russa e quella degli altri alleati.

I sempre crescenti contrasti fra Unione Sovietica ed Occidente impedirono di ratificare una volta per tutte il trattato di pace. Solo un punto trovò la definitiva soluzione: quello con l’Italia a proposito dell’Alto Adige, che si costituì Regione Autonoma e con tutte le libertà linguistiche, culturali, religiose e commerciali.

Rimasero invece insolute le questioni relative alle rivendicazioni della Jugoslavia sulla Carinzia e la Stiria Meridionale, nonché quelle russe sulla zona comprendente i pozzi di petrolio di Zisterdorf, che tuttora fanno dell’Austria il terzo produttore europeo, dopo Polonia e Romania.

Il 31 dicembre 1950 Renner morì e furono necessarie nuove elezioni il 27 maggio 1951 per nominare il nuovo presidente, che fu il socialista Theodor Korner. Intanto, però, fra i due principali partiti che formavano il governo di coalizione, e cioè quello cattolico della Volkspartei e quello socialista, erano sorti forti contrasti sul modo di condurre la politica, specialmente quella economica, così fu necessario anticipare le elezioni generali, previste per il novembre 1953, a febbraio.

Ma i due partiti ottennero lo stesso numero di seggi, con la differenza di uno fra loro, e quindi si dovette formare un governo uguale a quello precedente presieduto dal cattolico Julius Raab. Ed intanto, perdurando gli attriti fra i due blocchi, quello occidentale e quello sovietico, il trattato di pace per la restituzione della totale sovranità dell’Austria non ebbe mai conclusione. Cosicchè sul territorio austriaco rimanevano ancora le truppe d’occupazione. Anzi, con la Conferenza dei Ministri degli Esteri, tenuta a Berlino nel gennaio-febbraio 1954, il ministro sovietico Molotov propose di rinviare ancora il ritiro delle stesse. Si giunse, quindi, all’8 febbraio 1955 allorchè Molotov, recedendo dalle sue rigide precedenti posizioni, dichiarò che per la firma del trattato sarebbe bastata una firma con l’impegno solenne che l’Austria non avrebbe mai più operato ricongiungimenti con la Germania e non avrebbe mai concesso la formazione di basi militari sul suo territorio, a favore di qualsiasi altra nazione che glielo avesse chiesto.

Raab fornì ampie assicurazioni; fece persino un viaggio a Mosca per ribadire la ferma intenzione dell’Austria di mantenere tutti gli accordi e nell’ottobre dello stesso anno si completò lo sgombero delle forze d’occupazione. Subito si riunì una Assemblea Nazionale e la prima deliberazione fu quella di dichiarare per il paese la neutralità permanente.

Poi si cercò di risolvere tutti i problemi aperti con i  paesi vicini, pur mantenendo buone relazioni con ambedue i blocchi.

Le divergenze fra i due partiti di governo rimasero sempre forti per cui si dovette ricorrere ad elezioni anticipate per altre due volte. La prima nel maggio 1956 e la seconda nel maggio del 1959. Nessuno dei due partiti ebbe la maggioranza assoluta e Raab dovette sempre presiedere governi di coalizione mentre alla Presidenza della Repubblica, alla morte di Korner, avvenuta nel gennaio 1957, salì un altro socialista: A. Sharf.

Per le elezioni del 1962 si verificò la stessa cosa tanto che il governo si chiamò di “coalizione permanente”. Questa non dette alcun incentivo allo sviluppo ed al progresso del paese che anzi soffrì di un prolungato immobilismo finchè nelle elezioni del 1966 trovò la maggioranza la Volkspartei.

La possibilità di leadership di un partito, o di un altro, aprì finalmente la via alla prospettiva di alternanza di potere. E questo si verificò fino al 4 ottobre del 1975 quando le elezioni tenutesi in quel giorno diedero la maggioranza assoluta ai socialisti, governati da Kreisky.

In politica estera l’Austria tornò a discutere con l’Italia per l’Alto Adige fino alla firma di un trattato ad opera dei due ministri Moro-Waldheim. E con la Jugoslavia per la minoranza slovena in Carinzia.

Nonostante i  limiti imposti dal lento processo di integrazione europea, anche a causa della propria neutralità, l’Austria chiese la piena adesione alla Comunità Europea, voluta fortemente dagli imprenditori, ma altrettanto fortemente avversata sia dai socialisti che dall’Unione Sovietica.

Ma finalmente nel 1972 si arrivò ad un accordo di libero scambio. Nel maggio 1979 si ebbero nuove elezioni  ma la maggioranza del governo socialista fu riaffermata. Quelle del 1983 registrarono, però, una variazione di  tendenza. I socialisti persero la maggioranza assoluta, pur rimanendo il partito principale. Avevano incrementato i loro voti altre formazioni politiche.

In questo periodo si registrò una congiuntura internazionale ed anche l’Austria naturalmente ne sentì le conseguenze. La crescita del paese si fermò e la disoccupazione aumentò, anche rimanendo a bassi livelli. Kreisky rassegnò le dimissioni ed il paese conobbe un periodo di instabilità.

Poi sull’Austria si appuntò l’attenzione di tutto il  mondo quando nel giugno del 1986 fu eletto presidente K. Waldheim. Egli fu accusato di essere stato coinvolto, come ufficiale dell’esercito tedesco, in crimini contro l’umanità, perpetrati in combutta con i nazisti. I rapporti con gli Stati Uniti e con Israele conobbero una grande tensione e l’immagine dell’Austria,  di tutta la nazione, subì danni gravissimi. Sinowatz, il capo del governo, si dimise. Al suo posto fu eletto il socialista F. Vranitzky. Sopraggiunse in pochi mesi una crisi; si effettuò in settembre un “Congresso straordinario” in cui prevalse la destra nazionalista,  alla cui guida pervenne J. Haider.

Le nuove elezioni anticipate del novembre 1986 diminuirono i voti ai socialisti ed ai popolari ed incrementarono quelli nazionalisti e quelli dei verdi. E nel gennaio del 1987 si tornò ad un governo di coalizione. Vranitzky basò la sua politica sul raggiungimento della diminuzione del debito pubblico, privatizzando parzialmente le aziende, e sulla situazione ambientale e sociale.

Nel 1989 l’Austria inoltrò alla Comunità Europea una richiesta di ammissione, pronta a ridefinire i limiti della sua neutralità in politica estera.

Nell’ottobre del 1990 le elezioni riportarono al governo di coalizione. Per l’ingresso del paese nella Comunità Europea fu istituito nel 1994 un referendum, vinto dal partito del “si”. Ma le conseguenze che derivarono da questa entrata nella Comunità Europea non furono motivo di soddisfazione per gli austriaci che si videro costretti ai livelli degli altri paesi europei, alla privatizzazione in tutti i settori e, comunque, ad una politica di sacrifici e di austerità.

Haider invece perseguì il suo programma annunciato nella campagna elettorale: ovverosia principalmente lotta alla corruzione e restrizioni all’immigrazione.

Le elezioni dell’ottobre 1996  assegnarono ad Haider il miglior risultato mai conseguito fino ad allora. Nel gennaio 1997 Vranitzky si dimise e la carica di cancelliere-presidente fu assunta dall’ex Ministro delle Finanze V. Klima, fino alle nuove elezioni dell’aprile 1998 che, invece, la assegnarono a Klestil.

Nel corso degli anni 90, comunque, sotto la direzione di Haider in Austria c’era stata una ampia recrudescenza della xenofobia a sfondo nazista. Molti furono gli episodi terroristici compiuti specialmente verso gli immigrati e gli zingari. Le elezioni dell’ottobre del 1999 confermarono la stragrande maggioranza al partito di Haider.

E sempre per ciò che concerneva la questione con l’Italia per l’Alto Adige, nel 1992 si era definitivamente stabilita la piena autonomia della minoranza di lingua tedesca all’interno, però, del sovrano Stato Italiano.

 

martedì 11 novembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è l'11 novembre.

L'11 novembre 1887 vengono impiccati quelli che in seguito verranno chiamati I martiri di Chicago.

Si chiamavano August Spies, Albert Parsons, Adolph Fischer, George Engel, Louis Lingg, Michael Schwab, Samuel Fielden e Oscar Neebe. Furono tedeschi e americani, socialisti e anarchici. Ma più di tutto lavoratori e uomini liberi, e la storia li ricorda come "martiri di Chicago". Era a Haymarket Square, il 4 maggio 1886. Lì, in pieno centro di Chicago, si stava svolgendo un presidio di lavoratori in segno di protesta contro le violenze della polizia, che erano seguite agli scioperi dei giorni precedenti. Quel 4 maggio era sabato; e cadeva nel tempo in cui il sabato era ancora un giorno lavorativo come un altro, in fabbrica si restava anche quattordici ore e il diritto sindacale era parola di rivoluzionari.

Il raduno aveva avuto inizio nel pomeriggio ed era filato tutto liscio quando, finito il discorso di S.Fielden, una delegazione della polizia si avvicinò al palco e decise di disperdere la folla. A quel punto il finimondo: un ordigno esplose a pochi passi dalla prima fila e immediatamente la polizia iniziò a sparare. Sul terreno rimasero decine di morti e di feriti. Tempi duri erano quelli per i lavoratori statunitensi. Erano gli anni del cosiddetto "crony capitalism", dello sfruttamento monopolistico e delle connivenze imprenditoriali col sistema giuridico. Ma ancor più duri erano i tempi per i socialisti e gli anarchici: colpevoli di denunciare i soprusi, rei di rivendicare un'esistenza migliore e responsabili di scioperare.

Meschina la penna di quei giornali che li dipingevano come sovversivi, vile la mano di quella giustizia che li perseguitava come criminali. Subito dopo i fatti di Haymarket Square, le autorità locali arrestarono August Spies, Albert Parsons, Adolph Fischer, George Engel, Louis Lingg, Michael Schwab, Samuel Fielden e Oscar Neebe, accusati di aver organizzato l'attentato. Nonostante l'assenza di prove, vennero condannati e il governatore dell'Illinois Richard James Oglesby aprì loro le porte del patibolo. Solo uno di loro, Oscar Neebe, venne condannato a 15 anni di carcere, mentre la pena di Michael Schwab e Samuel Fielden fu tramutata in ergastolo. Agli altri spettava l'impiccagione. Fischiavano le corde della forca e si scaldavano le mani del boia il 10 novembre 1887, la notte prima dell'esecuzione. Di quella notte e di quelle ore di pena e di dignità incalza ancora la cronaca redatta da José Martì, nei suoi anni nordamericani. Si sa che Louis Lingg, il giovane falegname, si uccise nella sua cella con una capsula di dinamite nascosta in un sigaro. Si sa che Albert Parsons, l'invincibile oratore, imprecò contro l'ingiusto mondo che stava per condannarlo a morte e bevve, alla salute della loro lotta, tre bicchieri di vino di Porto.

Si sa che August Spies, come ai tempi in cui era direttore dell' "Arbeiter-Zeitung", scrisse lunghe lettere di denuncia e riempì l'aria con dense boccate di fumo. Si sa infine che Albert Fischer ruppe l'angoscioso silenzio della cella, intonando col volto verso il cielo i versi de "la Marsigliese". Furono tedeschi e americani, socialisti e anarchici, lavoratori e uomini liberi. Divennero i "martiri di Chicago". Pochi anni dopo, nell'estate del 1889, durante il congresso della Seconda Internazionale, in memoria degli scioperi per il raggiungimento delle otto ore che anticiparono i fatti di Haymarket Square, si decise di proclamare il 1° maggio giornata internazionale dei lavoratori. Poco prima di morire, l'11 novembre 1887, sulla forca August Spies gridò: "Verrà il giorno in cui il nostro silenzio sarà più potente delle voci che strangolate oggi".

Da allora, ogni primo maggio, quando le macchine delle fabbriche si fermano, le ciminiere smettono di fumare e le braccia riposano, la voce di Spies pare riecheggiare le medesime parole. Sussurrando nelle orecchie dei profittatori di ogni tempo e augurando buon primo maggio a quelli di ieri, a quelli di adesso e a quelli che scriveranno altre storie di libertà.

lunedì 10 novembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 10 novembre.

Il 10 novembre 1775 viene creato negli Stati Uniti un corpo militare che divenne successivamente il Corpo dei Marines.

Il Corpo dei Marines degli Stati Uniti  – Usmc – è una delle più famose forze armate del mondo. La sua fondazione risale al periodo nella guerra d’Indipendenza americana quando, nel 1775, il Congresso decise di formare un corpo di fanti di Marina (sul modello dei Royal Marines britannici) con il compito esclusivo di difendere le navi americane dagli attacchi di altre imbarcazioni da guerra – soprattutto inglesi e corsare -, sparando con moschetti e cannoncini sull’equipaggio nemico durante l’abbordaggio, e quello di compiere le prime operazioni “anfibie” della storia: come il celebre raid di Fort Nassau del 1776.

Nato come corpo autonomo, anche se strettamente dipendente all’Us Navy, nella sua evoluzione è divenuto uno dei punti di forza dell’apparato militare americano, specializzato nel compiere operazioni anfibie, quali sbarchi e incursioni rapide, e nel prendere parte ad ogni tipo di missione all’estero in veste di “expeditionary force”. Per le sue peculiarità e il suo speciale addestramento che ne garantisce l’efficienza, spesso è tra le prime unità ad essere mobilitate nei conflitti “convenzionali”: mettendo gli “scarponi a terra” a Grenada, in Iraq e Afghanistan.

Nel motto “Semper fidelis“, i marines si sono distinti in particolare durante la Seconda guerra mondiale per il loro impiego sul fronte del Pacifico (impegno che ne ha consacrato il successo), ma condussero le prime operazioni nell’America continentale, sbarcando alle Bahamas, e compiendo importanti incursioni che permisero l’annessione dello stato del Texas e della California. Il loro impiego successivo fu quello di combattere la pirateria, e proteggere le imbarcazione che battevano bandiera americana nell’Atlantico e nel Mediterraneo, come già avvenne nelle Guerre Barbaresche del XVI secolo. Allora venivano soprannominati dai marinai “Leathernecks”, per via di un particolare colletto di cuoio che faceva parte della loro divisa.

Oggi i marines, che hanno dovuto difendere più volte il loro status di corpo autonomo con la sua storia secolare, possono contare su oltre 200mila uomini (compresi 30mila riservisti). Le dotazioni di armi e mezzi dei marines sono le stesse dell’esercito americano; con armamenti leggeri e pesanti, mezzi corazzati/utility di varie tipologie; e su un proprio corpo aereo, imbarcato sulle Lhd o operante dalle basi di terra – lo United States Marine Corps Aviation  – che comprende squadroni di elicotteri da combattimento AH-1 Super Cobra, convertiplani per il trasporto truppe Mv-22 Osprey, ma anche cacciabombardieri F/A 18 Hornet, AV-8 Harrier e una flotta di caccia di ultima generazione F-35: primi ad aver ricevuto il battesimo del fuoco in Afghanistan.

Durante il primo conflitto mondiale, i marines divennero noti tra gli avversari tedeschi come “Devil Dogs”, per la loro tenacia nel combattimento all’arma bianca che si consumò nel bosco di Balleau; ma forse la vittoria più emblematica del corpo rimane quella ottenuta sulla piccola isola vulcanica di Iwo Jima, nella Seconda guerra mondiale, dove i cosiddetti “jarhed” stanarono i giapponesi sapientemente trincerati sul monte Suribachi, in una battaglia sanguinosa che permise di installare le decisive basi che lanciarono i bombardieri B-29 sul Giappone.

Successivamente, il corpo dei marines prese parte alla guerra di Corea, e quella del Vietnam, confermando il proprio status di forza terrestre altamente efficace e addestrata: la prima ed essere inviata in battaglia dopo le unità dell’élite della marina e dell’esercito – Navy Seal, Berretti verdi e Rangers. Recentemente l’Usmc ha preso parte alle operazioni Desert Storm (Iraq 1991), Enduring Freedom (Afghanistan 2001), e al conflitto dell’Iraq iniziato nel 2003, con un particolare coinvolgimento nelle battaglie per la liberazione di Fallujah.

L’Usmc,  nato durante il primo conflitto mondiale con il “First Marine Air Squadron”, venne sensibilmente ampliato durante il Secondo conflitto (145 squadriglie), per “fornire un supporto aereo diretto” adeguato alle truppe impegnate negli sbarchi nel teatro del Pacifico. I piloti dei marines venivano addestrati appositamente per fornire il supporto aereo ravvicinato e offrire una difesa dalla caccia nemica. Spesso a bordo di cacciabombardieri F4U Corsair, decollavano dalla basi strategiche avanzate per fornire supporto tattico nelle decisive battaglie di Guadalcanal, Bougainville e Okinawa. Tra questi va annoverato uno dei più famosi assi da caccia americani di tutti i tempi: Pappy Boyington. Tuttora gli elicotteri d’attacco e i cacciabombardieri imbarcati dell’Usmc intervengono direttamente nel supporto aereo delle operazioni condotte a terra dal corpo. Alla componente aerea dei marine è affidato la sicurezza del presidente degli Stati Uniti durante gli spostamenti aerei di corto e medio raggio a bordo del “Marine one“.

Lʼaddestramento dei marines ha una durata di tre mesi circa e si svolge in gran parte presso il Marine Corps Recruit Depot di Parris Island. Successivamente le reclute vengono inquadrate dai celebri “Drill instructor” (sergenti istruttori, ndr). Diviso in tre fasi, durante le quali la recluta affronta prove fisiche, percorsi e simulazione di guerra, corsi teorici sulla strategia militare, l’aspirante marine impara ad usare il celebre il fucile M14 e l’M16, a sbarcare su una spiaggia e stabilire una testa di ponte, a compiere missioni tattiche e di sopravvivenza. Obiettivo focale nell’addestramento del marine, è quello di renderlo un buon tiratore da grandi distanze. Al termine del corso, se concluso con successo, i candidati vengo insigniti del distintivo del corpo dei marines degli Stati Uniti: l’aquila che sormonta il globo e l’àncora. Il resto del loro addestramento, e l’avvicinamento alle diverse specialità, viene effettuato presso Camp Lejenue. Lì si deciderà se un marine entrerà a far dell’equipaggio di un tank M1, diverrà un sabotatore o un geniere o un tiratore scelto. Al corpo di sicurezza dei marines è affidata la sicurezza di tutte le ambasciate americane all’estero, dove potrete facilmente riconoscere la celebre divisa formale del corpo: la “blue dress”.

La statua che troneggia sul cimitero di Arlington – rappresentante un drappello di marine dalle divise tropicali logore, intenti a issare la “Stars and stripes” sulla cima di quel monte Suribachi, crivellato dall’artiglieria e ancora pieno di combattenti devoti al Sol Levante, come lo scenografico plotone “silent drill”, che si esibisce nella perfetta esecuzione di marcia e figure – sono divenuti simboli indelebili dello spirito di corpo dell’Usmc,  destinato a rimanere per sempre nell’immaginario del mondo intero.

domenica 9 novembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


Buongiorno, oggi è il 9 novembre.

Il 9 novembre 1989 viene abbattuto il Muro di Berlino.

«Nessuno ha intenzione di costruire un muro». Queste le proverbiali "ultime parole famose" pronunciate da Walter Ulbricht, Presidente del consiglio di Stato della Repubblica Democratica Tedesca (DDR), durante una conferenza stampa del 15 giugno 1961. Eppure, appena due mesi dopo, nella notte tra il 12 e il 13 agosto, il regime comunista iniziò la costruzione di una barriera che per i successivi 28 anni avrebbe separato fisicamente e ideologicamente la città di Berlino. Così come già da tempo la lunga linea di confine nota come "cortina di ferro" separava i paesi sotto influenza sovietica da quelli dell'orbita occidentale.

Nonostante la divisione del territorio tedesco in due Stati (Germania Est e Germania Ovest, con capitali Berlino e Bonn) risalisse al 1949, il Muro fu costruito solo 12 anni dopo. La ragione principale fu quella di bloccare l'esodo di cittadini da Berlino verso i territori occidentali (la città, divisa in quattro settori di occupazione, ricadeva nella Germania Est). Tale fenomeno aveva già visto coinvolti oltre due milioni e mezzo di individui, soprattutto giovani con livello di istruzione medio-alto, intellettuali e lavoratori specializzati, tutti in cerca di condizioni di vita più favorevoli. Una vera fuga di cervelli e di manodopera oltremodo deleteria per la parte orientale, privata gradualmente della sua futura classe dirigente, formata oltretutto a proprie spese. È dunque per tamponare tale emorragia che si decise di "bloccare" i cittadini della zona Est.

Fu sufficiente una sola notte per dividere la città, e così, la mattina del 13 agosto 1961 i berlinesi si svegliarono con centinaia di strade sbarrate e molte linee del trasporto pubblico interrotte. All'inizio fu solo una recinzione di filo spinato, ma nell'arco di pochi mesi il progetto si concretizzò in una vera cortina di cemento lunga 155 chilometri e alta in media oltre tre metri. Non si trattava peraltro di un muro che tagliava la città in due, ma di un sistema divisorio che accerchiava solo Berlino Ovest, facendone di fatto un'enclave della Germania Est.

Oltre al Muro propriamente detto, erano presenti altri recinti fortificati, tratti di filo spinato, fossati, campi minati, bunker e centinaia di torri di guardia. Il tutto, intervallato da posti di blocco come il famigerato "Checkpoint Charlie" (che rimarrà formalmente in esercizio fino al 30 giugno 1990). La Germania Est legittimò la neonata barriera definendola un "muro di protezione antifascista" (Antifaschistischer Schutzwall), ma dall'altra parte della barricata passò alla storia come "muro della vergogna", termine coniato dall'allora sindaco di Berlino Ovest, Willy Brandt.

Nel 1962, nel territorio della Germania orientale, fu eretto un secondo muro parallelo al primo, creando in tal modo un'area denominata "striscia della morte": i vopos, ossia le guardie di frontiera, avevano infatti il permesso di sparare a vista a chiunque tentasse di oltrepassare il confine. Si stima che furono circa 100.000 coloro che tentarono nell'impresa (spesso con metodi rocamboleschi e assai ingegnosi), e almeno 138 di loro vennero uccisi.

Ma le "vittime del muro di Berlino" furono in realtà molte di più: tra il 1961 e il 1988 morirono complessivamente più di 600 persone, perché oltre ai caduti per mano dei soldati di frontiera si verificarono diversi casi di suicidio e innumerevoli incidenti mortali. Molti, per esempio, morirono annegati nel tentativo di oltrepassare i fiumi Spree e Havel, entrambi a cavallo del confine tra Est e Ovest.

La prima tappa della riunificazione andò in scena nell'agosto 1989, quando l'Ungheria eliminò le restrizioni alla frontiera con l'Austria, creando così la prima "breccia" nella cortina di ferro. Dalla metà di settembre dello stesso anno, migliaia di tedeschi orientali tentarono quindi di raggiungere l'Ovest attraverso l'Ungheria, ma vennero respinti. Di lì in poi fu un crescendo di dimostrazioni e proteste che costrinse il governo della Germania Est, nella persona di Egon Krenz, ad allentare i controlli di frontiera.

Tali disposizioni sarebbero dovute entrare in vigore a partire dal 10 novembre 1989, ma ci fu un clamoroso malinteso: alla conferenza stampa internazionale del 9 novembre 1989, il portavoce del governo di Berlino Est, Gunter Schabowski, evidentemente malinformato, annunciò in diretta che a tutti i berlinesi sarebbe stato permesso di attraversare il confine "immediatamente".

Fu allora che la popolazione si riversò contro il muro. Fu una massa impossibile da arginare. Le frontiere furono così aperte e la città si ritrovò finalmente unita. Nell'arco delle settimane successive, migliaia di berlinesi demolirono quel muro che li aveva tenuti in ostaggio per quasi trent'anni, abbattendo di fatto l'ultimo simbolo della Guerra Fredda e anticipando di un anno la riunificazione della Germania (suggellata il 3 ottobre 1990). 

sabato 8 novembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è l'8 novembre.

L'8 novembre 1939 a Monaco di Baviera, Adolf Hitler sfugge per un soffio ad un tentativo di omicidio.

Gli attentati contro Hitler furono molto più numerosi di quelli organizzati contro Benito Mussolini. Malgrado la tendenza a sminuire la resistenza tedesca, si ricordano oltre 40 eventi diretti ad interrompere la vita di Hitler. 

Tra tutti gli attentati quello maggiormente coinvolgente riguarda Johann Georg Elser, di professione falegname. Georg nacque nel Wurttemberg agli inizi del 1903. Frequentando la scuola elementare, gli insegnanti si accorsero che il bimbo era dotato nel disegno e nei lavori manuali. Il padre, commerciante di legname, si aspettava che il figlio gli succedesse nell'attività ma il ragazzo decise di perseguire autonomi interessi. Iniziò un apprendistato come operatore di tornio in una fonderia ma, dopo due anni, dovette desistere per motivi di salute. Decise di apprendere il mestiere del carpentiere, lavorando per diverso tempo come falegname d'interni. 

Dopo un breve periodo si occupò in una fabbrica di orologi a Costanza. Agli inizi degli anni trenta fece ritorno al paese d'origine per lavorare nell'impresa di famiglia. Dal 1936 lavorò in una fabbrica di montaggio, prendendo consapevolezza del programma di riarmo nazista. Elser iniziò a frequentare circoli socio-culturali. Nel tempo libero suonava la cetra ed il contrabbasso per il coro locale. Le varie esperienze lavorative lo convinsero che si dovesse aderire ad un sindacato. Nel 1926 entrò in un'organizzazione paramilitare del Partito Comunista Tedesco. Georg era un fiero oppositore del nazismo sin dai suoi esordi. Dopo il 1933 rifiutò di compiere il saluto nazista e di riunirsi ad altri per ascoltare i proclami radiofonici di Hitler. La sua iniziale opposizione era motivata dalla sensibilità verso la condizione operaia e la compressione dei salari dei lavoratori. Elser era disgustato dalla propaganda nazista e dal controllo che il regime imponeva sul sistema educativo e lavorativo. Non sopportava le limitazioni che i nazisti imponevano agli operai, soprattutto quella relativa al diritto di associarsi. Nell'autunno del 1938 l'Europa si trovò sull'orlo della guerra a causa della Crisi dei Sudeti. A placare, momentaneamente, le armi fu la Conferenza di Monaco, dove i capi di governo di Regno Unito, Francia, Germania ed Italia conclusero un accordo che portò all'annessione di vasti territori della Cecoslovacchia, la zona dei Sudeti, da parte dello stato tedesco. Occorre ricordare che nessun rappresentante della Cecoslovacchia fu invitato alle trattative. Dopo i patimenti della Grande Guerra, i tedeschi, ed Elser per primo, erano fortemente preoccupati per l'eventualità di un altro conflitto. 

L'artigiano non credeva alle parole di Hitler, soprattutto in relazione alle affermazioni di voler mantenere la pace. Nella sua mente si delineò il proposito di decapitare il nazionalsocialismo uccidendo il leader. Johann Georg Elser si recò a Monaco il giorno 8 di novembre del 1938. Il motivo del viaggio? Assistere al discorso che il regimo proponeva annualmente nell'anniversario del fallito Putsch di Monaco, ovvero il tentativo, fallito, di colpo di stato – Putsch in tedesco è l'equivalente di questo termine – organizzato ed attuato da Hitler tra il giorno 8 ed il 9 di novembre del 1923 in una birreria di Monaco di Baviera. Quel giorno Elser si convinse circa il luogo e la data del suo futuro attentato. Il luogo fu scelto poiché la rievocazione appariva accompagnata da misure di sicurezza piuttosto blande. Sul piano emotivo la concomitanza, 9 e 10 novembre, della Notte dei Cristalli con le atrocità perpetrate su inermi ebrei convinse Elser che Hitler avrebbe precipitato la Germania in una nuova disastrosa guerra. Il 1 settembre del 1939 scoppiò la Seconda guerra mondiale, evento che forniva una conferma alle previsioni dell'umile falegname. Tra il novembre del 1938 ed il settembre del 1939, Elser decise d'interrompere ogni relazione con amici e parenti ad eccezione di Johann Lumen, conosciuto nel 1938 all'interno della birreria di Monaco. 

Per riuscire nel suo intento, si fece assumere in una cava dove, poco alla volta per non destare sospetti, asportò la quantità di esplosivo necessaria a confezionare la bomba. In seguito inscenò un incidente per poter lasciare il lavoro e trasferirsi a Monaco, dove aveva ipotizzato di compiere l'attentato ad Hitler. Il luogo scelto dal falegname era la birreria dove ogni anno Hitler si ritrovava con i fedelissimi. Per molte sere, 35 notti tra ottobre e novembre del 1939, Elser si nascose nel locale prima della chiusura: quando la birreria chiudeva iniziava a lavorare; ricavò una nicchia nella colonna dove sarebbe stato allestito il palco di Adolf Hitler. Il giorno fatidico, Elser collocò nello spazio ricavato 50 kg di esplosivo con un meccanismo a tempo da lui costruito e sperimentato; calcolò che gli necessitavano 144 ore per attraversare il lago di Costanza e riparare in Svizzera, per cui il meccanismo a tempo avrebbe ruotato per quel numero di ore. All'ora esatta, le 21 e 20, la bomba esplose, facendo cadere il tetto sul palco. I morti furono 8 ed i feriti 62. Ma Hitler, ansioso di rientrare a Berlino per seguire le operazioni belliche in Francia o – secondo altre fonti – a causa del maltempo che gli impediva di tornare in aereo nella capitale tedesca, aveva anticipato il discorso ed era uscito dalla birreria 13 minuti prima dell'esplosione – secondo altre fonti i minuti furono 20. A causa delle coincidenze il tentativo di mutare il corso della storia fallì. Alle otto vittime dell'attentato furono concessi i funerali di stato. Elser fu arrestato da due doganieri mentre cercava di oltrepassare il confine con la Svizzera. Dopo una veloce perquisizione, i militari trovarono una cartolina della birreria di Monaco. Elser fu immediatamente trasferito a Monaco di Baviera dove fu interrogato dalla Gestapo. 

Vi erano diversi elementi, oltre la cartolina, che lo incastravano: le escoriazioni sulle ginocchia ed il fatto che alcune cameriere lo riconobbero come cliente abituale della birreria. Dopo un brutale pestaggio, Elser confessò di essere l'autore dell'attentato. Fu tradotto al quartier generale della Gestapo, dove il falegname fu torturato senza pietà. Himmler, capo delle SS, non si capacitava che un artigiano con la licenza elementare avesse agito da solo. Elser fu imprigionato nel campo di concentramento di Sachsenhausen e, successivamente, in quello di Dachau. L'artigiano fu sottoposto ad un regime di detenzione speciale, fatto che creò maldicenze tra i compagni di sventura, tanto che dopo la guerra uno degli internati, Martin Niemoller, sostenne che Elser facesse parte delle SS e che tutta la questione relativa all'attentato fosse una messinscena dei nazisti per propagandare la leggenda della Provvidenza che vegliava su Hitler. Nell'aprile del 1945, quando le truppe alleate si aggiravano in prossimità di Dachau, Hitler decise di sbarazzarsi del prigioniero speciale e diede l'ordine al capo della Gestapo di uccidere Elser. Georg venne fucilato il 9 aprile del 1945 a Dachau, poche settimane prima della fine della guerra.

venerdì 7 novembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


Buongiorno, oggi è il 7 novembre.

Il 7 novembre 1929 viene inaugurato a New York il Museum of Modern Art.

Il MoMA di New York City è più di un museo, è un tempio dell’arte moderna e si trova proprio nel centro di Manhattan, nel cuore pulsante della Grande Mela. È stato inaugurato il 7 novembre 1929, quasi dieci giorni dopo il crollo della Borsa, simbolo della Grande Crisi, con una mostra molto importante dove, per la prima volta, furono esposte le opere di Van Gogh, Gauguin, Cézanne e Seurat.

Il Museum of Modern Art nasce dall’idea di tre donne: la moglie di John D. Rockefeller Jr, Abby Aldrich Rockefeller, Lillie P. Bliss e Mary Quinn Sullivan (soprannominate The Ladies). Il museo doveva essere la casa dell’arta moderna e contemporanea americana, ma nessuno nei primi anni Trenta poteva mai immaginare che sarebbe diventato nel corso della storia uno dei musei più importanti del mondo. All’inizio la signora Rockefeller coprì il ruolo di tesoriere, mentre A. Conger Goodyear, presidente del consiglio di amministrazione della Albright Art Gallery di Buffalo, fu il presidente del MoMA e riuscì con i suoi contatti a coinvolgere due prestigiosi membri:  Paul J. Sachs, condirettore del Fogg Art Museum,  e Frank Crowninshield.

Oggi il MoMA si trova sulla 53ª strada, tra la Quinta e la Sesta Avenue, ma l’anno dell’apertura era una semplice galleria di sei stanze al dodicesimo piano del Manhattan’s Heckscher Building. Lo splendido palazzo attuale è costruito su un terreno che Rockfeller regalò a sua moglie per edificarne la sede. Il MoMA fu ufficialmente trasferito nel Time & Life Building all’interno del Rockefeller Center, nel 1937, ma l’apertura al pubblico avvenne solo il 10 maggio del 1939, a dieci anni dalla prima inaugurazione. Per quest’occasione ci fu una grande festa cui parteciparono sei mila invitati e il nastro fu tagliato virtualmente alla radio della Casa Bianca dal Presidente Roosevelt in persona.

Nei primi 10 anni di attività, il museo ebbe da subito un grande richiamo internazionale. Il 4 novembre del 1935 ci fu una personale di Van Gogh con 66 dipinti a olio e 50 disegni, provenienti dall’Olanda e correlati dalle lettere dell’artista: fu un successo incredibile. Non si era mai visto nulla di simile a New York.  La nuova sede più ampia e più capiente, permise al MoMA di allargare la sua collezione: si susseguirono numerose mostre, tra cui una retrospettiva dedicata a Picasso a cavallo tra 1939 e il 1940.

La famiglia Rockefeller s’impegno in prima linea nella promozione del museo: i figli di Abby, Nelson e David dedicarono la loro vita al MoMA, considerato quasi un bene di famiglia, tanto che ancora oggi nel consiglio di amministrazione siedono David Rockefeller Jr. e Sharon Percy Rockefeller.

La sede del MoMA è stata restaurata diverse volte e l’ultimo lavoro si è concluso alla fine del 2004, con un progetto firmato dall’architetto giapponese Yoshio Taniguchi. Gli spazi del museo sono stati quasi raddoppiati, così come il costo del biglietto d’ingresso. Oggi il MoMA è il museo più caro della città, ma visitarlo è un viaggio straordinario all’interno degli ultimi due secoli e ne vale davvero la pena. Inoltre, come moltissimi musei americani, anche il MoMA ha una fascia oraria gratuita: il venerdì dopo le 16.

Questo tempio di cultura, visitato ogni anno da 2.1 milioni di persone, conta 150 mila opere, e  22 mila film, mentre la biblioteca e gli archivi raccolgono oltre 300.000 libri e periodici e sono più di 70.000 le schede personali degli artisti.

 

giovedì 6 novembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 6 novembre.

Ogni 6 novembre in Marocco si celebra l'anniversario della marcia verde.

Il Sovrano marocchino Hassan II organizzò una oceanica marcia per liberare il Sahara occidentale dalla presenza spagnola, come aveva promesso a suo padre, all’indomani dell’Indipendenza del Marocco. Il 6 novembre 1975, all’alba, la Marcia Verde o operazione Fath venne lanciata: i 350.000 volontari di questa armata pacifica si incamminarono verso il deserto per una dimostrazione che durò sino alla metà del mese. Ritratti del monarca marocchino, che volontariamente piazzò la Marcia sotto i colori dell’Islam, bandiere e migliaia di Corani vennero distribuiti a quella marea umana in sostituzione delle armi, che incrociò le prime guarnigioni spagnole che stavano evacuando la zona. Il Sahara occidentale era infatti colonia spagnolo, ma il dittatore Francisco Franco era morente e la Spagna decise di ritirare le proprie truppe senza combattere.

Il Marocco celebra questa festività come un avvenimento storico determinante che tradusse con forza la simbiosi tra il Trono e il Popolo, uniti da legami indistruttibili verso la causa della “marocchinità” del Sahara. Tuttavia questa si tratta di una versione edulcorata della realtà che considera la vicenda come un semplice conflitto tra Marocco e Algeria, dimenticando completamente che esiste un popolo saharawi che ha sostenuto una dura guerra di liberazione, che in gran parte è stato costretto all’esilio e che, in definitiva, è la vera e unica vittima di questa vicenda.

Dopo la cacciata degli Spagnoli, infatti, il Sahara occidentale fu spartito tra il Marocco (che annesse la regione settentrionale) e la Mauritania (che annesse la parte meridionale). Il 27 febbraio 1976, il Fronte Polisario, l’organizzazione indipendentista del popolo Saharawi, sostenuta dall’Algeria e già attiva dai tempi degli Spagnoli, si ribellò all’occupazione e proclamò la Repubblica Democratica Araba Sahrawi. Il Polisario iniziò una violenta guerriglia contro gli occupanti mauritani e marocchini.

La Mauritania, a fronte dei problemi procurati dalla guerriglia, nel 1979 rinunciò alla sovranità sul detto territorio, che fu annesso dal Marocco, militarmente più forte e in grado di respingere la guerriglia.

La guerriglia contro il Marocco è terminata nel 1991 quando Marocco e Repubblica Democratica Araba Sahrawi si accordarono per il cessate il fuoco e il Consiglio di sicurezza dell’ONU istituì una missione con il compito di sorvegliare che venisse rispettato, di facilitare il rientro dei profughi e di supervisionare un referendum di autodeterminazione, previsto per il 1992. Da allora le ostilità non sono cessate e il referendum è stato continuamente rinviato per la difficoltà di accordarsi sull’ammontare complessivo della popolazione avente diritto al voto, dato l’elevato numero di profughi sahrawi e i contingenti di coloni marocchini insediatisi nel Sahara Occidentale.

Attualmente Il Marocco domina la maggior parte del territorio, mentre il Fronte Polisario controlla una zona dell’entroterra ed una sottile striscia di terra al confine meridionale con la Mauritania. Le Nazioni Unite lo considerano un "territorio non autonomo".

mercoledì 5 novembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 5 novembre.

Il 5 novembre 1941 nasce a Forest Hills Art Garfunkel.

Art Garfunkel è un cantautore statunitense noto per aver scritto e cantato canzoni celeberrime insieme all'amico Paul Simon, con il quale ha formato un duo musicale folk per molti anni. 

Paul Simon nasce a Newark, nel New Jersey, il 13 ottobre dello stesso anno.

Tutti e due hanno origini ebraiche, e tutti e due vivono in una zona residenziale della periferia di New York, Forest Hills, a pochi isolati di distanza.

Frequentano la stessa scuola elementare, ed è proprio al periodo delle elementari che può essere fatto risalire il loro primo spettacolo in pubblico. Si tratta di una recita scolastica che riprende "Alice nel Paese delle Meraviglie", di Lewis Carroll, nel quale Paul Simon veste i panni del Bianconiglio, mentre Art Garfunkel interpreta lo Stregatto.

Successivamente i due si iscrivono alla Forest Hills High School e cominciano a suonare insieme, facendosi chiamare come Tom e Jerry, riprendendo il famoso cartone animato di Hanna e Barbera. Paul sceglie lo pseudonimo di Jerry Landis, mentre Art sceglie quello di Tom Graph.

La coppia prende dichiaratamente spunto dallo stile degli Everly Brothers, e inizia a scrivere canzoni originali a partire dal 1957. Riescono a incidere il primo brano, intitolato "Hey, schoolgirl", per l'etichetta Big Records. Il singolo si rivela un discreto successo, venendo pubblicato sia come 45 giri che come 78 giri (proponendo "Dancin' Wild" sul lato B). Entra nella top 50 delle classifiche di Billboard, vendendo più o meno 100mila copie.

Con lo stesso pezzo, per altro, Simon e Garfunkel prendono parte ad "American Bandstand", festival in cui suonano anche il celebre brano di Jerry Lee Lewis "Great Balls of Fire".

Sempre con il nome d'arte di Tom e Jerry, Simon e Garfunkel incidono tra il 1958 e la prima metà degli anni Sessanta diverse altre canzoni, ma non riescono a ottenere il successo fatto registrare con il primo disco.

Nel frattempo Art Garfunkel frequenta la Columbia University, mentre Paul Simon segue i corsi del Queens College di New York. Lo stesso Simon nel 1963 ha l'occasione di suonare prima con Bob Dylan e in seguito con Carole King, tornando alla ribalta nel mondo folk e facendo ascoltare all'amico Art alcuni suoi pezzi. Tra questi vi sono "He Was My Brother" e "Bleecker Street".

L'anno successivo Simon & Garfunkel pubblicano con la Columbia Records il loro primo disco, "Wednesday Morning, 3 A.M.". L'album comprende una versione acustica di una delle loro più celebri canzoni, "The Sound of Silence". Vi sono poi altre quattro canzoni originali.

C'è, inoltre, "He Was My Brother", che viene dedicata a Andrew Goodman, un amico della coppia di cantanti, già compagno di scuola di Simon e attivista per i diritti civili, ucciso quell'anno nella Contea di Neshoba.

Il disco, tuttavia, si rivela - almeno in un primo momento - un fallimento dal punto di vista delle vendite. Anche per questo motivo la coppia si separa di nuovo.

Paul Simon va in Inghilterra e registra nella primavera del 1965 "The Paul Simon Songbook", un disco da solista. Quell'estate, intanto, le stazioni radio di Gainesville e di Cocoa Beach, in Florida, ricevono sempre più richieste per trasmettere il brano "The Sound of Silence", che così viene conosciuto sempre di più, fino a Boston.

Con Simon al di là dell'Oceano Atlantico, il produttore del disco Tom Wilson decide di aggiungere la batteria e la chitarra elettrica alla registrazione del brano originale, per poi pubblicarlo di nuovo come singolo. Il pezzo raggiunge, così, la top 40 nelle classifiche di vendita Usa, fino ad arrivare al primo posto.

Saputo dell'imprevisto successo del suo brano, Paul Simon decide di tornare in America e di ricomporre il duo con Art Garfunkel. Da questo momento in avanti la coppia realizzerà diversi dischi destinati a entrare nella storia della musica americana e mondiale.

Si comincia il 17 gennaio del 1966, con la pubblicazione di "Sounds of Silence", album che riprende il nome del brano. L'LP tra l'altro comprende diversi pezzi provenienti da "The Paul Simon Songbook". Tra questi, "Leaves That Are Green" e "I Am A Rock", questa volta rielaborati con strumenti elettrici.

L'anno seguente il duo si occupa della composizione della colonna sonora di un film di Mike Nichols, "Il laureato". Grazie a questo lavoro Paul Simon si aggiudica un Grammy Award. La canzone "Mrs. Robinson", aiuta a rendere celeberrimo il film, che vede protagonisti un giovane Dustin Hoffman e Anne Bancroft.

Nel marzo del 1968 viene dato alle stampe il disco "Bookends", che include "Mrs. Robinson" e "America".

Poco dopo Art Garfunkel comincia a lavorare come attore. I film in cui appare sono "Comma 22" (1970) e "Conoscenza carnale" (1971), entrambe diretti da Mike Nichols (lo stesso regista de Il laureato). I suoi impegni in questo campo finiscono per infastidire Paul Simon. Il legame nella coppia inizia a deteriorarsi. Le ultime esibizioni di Simon & Garfunkel insieme risalgono alla fine degli Anni Sessanta, con i concerti di Oxford, nell'Ohio, e di Carbondale, nell'Illinois.

I filmati di tali show vengono mostrati in "Songs of America". Si tratta di uno speciale televisivo contrastato dagli sponsor. Il motivo del contrasto risiede nelle posizioni assunte dal duo di cantanti, contrari alla guerra degli Stati Uniti in Vietnam.

Il 26 gennaio del 1970 viene pubblicato l'ultimo album del duo, intitolato "Bridge over Troubled Water", con il singolo omonimo che diventa uno dei 45 giri di maggior successo commerciale dell'intero decennio. Nel disco sono presenti anche "El Còndor Pasa" e "The Boxer".

Così, Simon e Garfunkel si separano, anche se nel 1972 la compilation "Greatest Hits" fatta uscire dalla casa discografica ottiene un successo notevole.

Il duo Simon & Garfunkel non si ricostituirà mai ufficialmente, anche se non mancheranno le occasioni in cui i due cantanti torneranno sul palco di nuovo insieme. Accade, per esempio, nel 1972, con un concerto tenuto al Madison Square Garden per supportare George McGovern, candidato alla presidenza americana, o nel 1975, con la partecipazione al "Saturday Night Live", trasmissione comica della Nbc in cui verranno suonate "Scarborough Fair" e "The Boxer".

Sempre nello stesso periodo, inoltre, i due pubblicano insieme anche "My Little Town", singolo che sale subito in top ten.

Mentre Art Garfunkel si dedica sia alla recitazione che alla musica, Paul Simon si concentra solo nel secondo campo. Per altro la sua è una carriera da solista che gli regala più di una soddisfazione. Nel 1973 registra il disco "There Goes Rhymin' Simon". Questo è seguito un paio di anni più tardi da "Still Crazy After All These Years".

Il 19 settembre 1981 è una data storica per la carriera del duo. Simon e Garfunkel si riuniscono per un concerto gratuito a New York, a Central Park. All'evento partecipano oltre 500.000 persone. Pochi mesi più tardi, il 16 febbraio 1982, viene pubblicato un album live dell'evento. Si tratta probabilmente di uno dischi live più noti del XX secolo: The Concert in Central Park.

Nel 1983 Paul Simon registra l'album "Hearts and Bones". Nel 1986 tocca a "Graceland".

In questi anni Art Garfunkel recita nei film "Il lenzuolo viola" (1980), "Good to Go" (Short Fuse, 1986), "Boxing Helena" (1993) e "The Rebound - Ricomincio dall'amore" (2009).

Nel 1990 Simon e Garfunkel suonano insieme in occasione della cerimonia per l'inserimento dei loro nomi nella Rock and Roll Hall of Fame. Tre anni dopo, i due tengono a New York una ventina di concerti, oltre ad alcuni show di beneficenza tra cui quello al Bridge School Concerts.

Nel 2003 la coppia si riunisce di nuovo esibendosi all'apertura della cerimonia dei Grammy Awards con "The Sound of Silence". Nella circostanza i due ricevono il premio Grammy alla carriera, il Grammy Lifetime Achievement Award.

Negli anni anche Garfunkel ha registrato una serie di dischi da solista, con fortune alterne.

Art Garfunkel è sposato con Kim Cermack (vero nome Kathryn Cermack). Conosciuta nel 1985, si sono poi sposati nel settembre del 1988. Hanno un figlio, James Arthur, anch'egli cantante. A causa di un problema alle corde vocali avuto nel 2010, non ha potuto cantare per oltre un anno.

martedì 4 novembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 4 novembre.

Il 4 novembre 2011 un alluvione a Genova provocò la morte di sei persone: Shpresa Djala, 23 anni, e le sue figlie Gioia, 8 anni, e Janissa di un anno, Angela Chiaramonte, 40 anni, Evelina Pietranera 50 anni, e Serena Costa, di 19. Sei morti travolti dalle acque del torrente Fereggiano, uscito dagli argini intorno all’una. Esondò anche il torrente Bisagno, più grande del Fereggiano. La zona della stazione Brignole, compresi Borgo Incrociati, piazza della Vittoria e il tratto di via XX Settembre fino all’altezza di via Cesarea, rimasero sommerse dall’acqua per alcune ore. Centinaia i negozi allagati. I quartieri più colpiti furono Quezzi, Sturla, San Desiderio, San Fruttuoso, Marassi, Albaro, Quarto, Quinto, Nervi. Fu subito polemica sulle responsabilità dei morti e dei danni. La giunta venne prima accusata di non avere deciso la chiusura delle scuole, se le istituzioni lo avessero fatto forse le sei vittime si potevano evitare. 

Il sindaco di allora Marta Vincenzi parlò di una “tragedia assolutamente imprevedibile in questa forma”, di una “bomba d’acqua” che colse di sorpresa la città e l’amministrazione. L’alluvione del  2011 entrò negli annali statistici per la quantità di pioggia caduta in un’ora. La procura di Genova, dopo avere aperto un’inchiesta per disastro colposo e omicidio colposo plurimo contro ignoti, contestò la versione dei fatti fornita dall’amministrazione. Secondo l’accusa, i tempi dell’esondazione del Fereggiano erano stati riportati in modo falso per giustificare l’intempestività dell’intervento.

Il gup Carla Pastorini ha rinviato a giudizio per omicidio colposo plurimo, disastro, falso e calunnia Marta Vincenzi. Con il sindaco sono finiti a processo anche l’ex assessore alla Protezione Civile Francesco Scidone, i dirigenti comunali Gianfranco Delponte e Pierpaolo Cha, l’ex capo della protezione civile comunale Sandro Gambelli e l’ex coordinatore dei volontari Roberto Gabutti (a cui vengono contestati solo il falso e la calunnia).

 Il 28 novembre 2016 Marta Vincenzi viene condannata a 5 anni di reclusione venendo assolta solo dall'accusa di calunnia; il PM aveva chiesto 6 anni e 1 mese. Il Comune di Genova è stato condannato a pagare una provvisionale di alcuni milioni ai parenti delle vittime con provvedimento immediatamente esecutivo. La condanna a 5 anni di reclusione è stata confermata dalla Corte di Appello di Genova il 23 marzo 2018. Il 23 giugno 2020, in seguito al patteggiamento, la pena viene ridotta a 3 anni di reclusione.

lunedì 3 novembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il novembre.

Il 3 novembre 1955 esce nelle sale americane il film Bulli e Pupe.

Dopo il clamoroso successo ottenuto a Broadway dall’omonimo musical, nel 1955 arriva nei cinema di tutto il mondo Bulli e pupe (Guys and Dolls in originale), per cui la Samuel Goldwyn Company arriva a sborsare una cifra astronomica all’epoca per i diritti (circa un milione di dollari) e a investire altri soldoni sonanti per assicurarsi la presenza nel film di grandi star come Marlon Brando, Frank Sinatra e Jean Simmons e per garantirsi l’operato del regista Joseph Mankiewicz, reduce dai grandi successi di Lettera a tre mogli ed Eva contro Eva. L’investimento si rivela azzeccato, e Bulli e Pupe, grazie anche alla strada aperta da musical di successo dell’epoca come Cantando sotto la pioggia, Un americano a Parigi e Spettacolo di varietà, conquista i botteghini, incassando nei soli  Stati Uniti circa 13 milioni di dollari e si ritaglia un ruolo di primo piano fra i classici del genere musical.

Nathan Detroit (Frank Sinatra) e “Sky” Masterson (Marlon Brando) sono due incalliti giocatori d’azzardo newyorkesi, amanti della bella vita e restii a impegni sentimentali seri e duraturi. Nathan in particolare non si è ancora deciso a convolare a nozze con la fidanzata Adelaide (Vivian Blaine), nonostante i due siano fidanzati da 14 anni. L’uomo è decisamente più interessato alla prosecuzione del suo vizio, e per procacciarsi i fondi per allestire una bisca clandestina propone a Sky una scommessa sulla carta già vinta con una posta di 1000 dollari: il suo socio dovrà riuscire a portare a cena con lui Miss Sarah Brown (Jean Simmons), fervente religiosa e arruolata nell’Esercito della Salvezza. Nel tentativo di portare a casa la vittoria, Sky userà tutte le sue migliori armi, ma dovrà fare i conti con un cambiamento interiore che non si sarebbe mai aspettato.

Bulli e pupe si propone fin dalle prime battute come un musical leggero e frizzante, puntando forte sulla classe e sul carisma dei propri formidabili interpreti. Il risultato finale è un prodotto a tratti ancora godibile, ma invecchiato decisamente male. Dopo aver offerto un ritratto cinico e disincantato del teatro e dello spettacolo nel suo capolavoro Eva contro Eva, Joseph Mankiewicz qui non riesce mai a staccarsi dal tema portante della pellicola, composto dal progressivo ribaltamento dei ruoli nella nascente storia d’amore fra una donna in partenza seriosa e calata con anima e corpo nella propria attività (Jean Simmons) e un uomo in apparenza guascone e immorale (Marlon Brando), che in realtà si rivela più profondo di quanto gli altri credano. Un contrasto lui spavaldo\lei “rigidina” che nel 1955 poteva ancora essere apprezzato, ma che visto oggi perde gran parte del proprio fascino. La trama lineare e ampiamente prevedibile viene ulteriormente indebolita da una durata della pellicola francamente spropositata (poco meno di 150 minuti), che riesce a mettere in difficoltà anche lo spettatore più allenato. Nonostante questi difetti, Bulli e pupe riesce però a non naufragare mai, soprattutto grazie alle ottime musiche di Frank Loesser (fra le altre meritano una citazione A Woman in Love, Adelaide’s Lament e If I Were a Bell) e a dialoghi freschi e vivaci, che sentiti oggi fanno sorridere, ma che riescono ancora nell’intento di ravvivare il film nei momenti meno efficaci. Per quanto riguarda gli interpreti, fra i due litiganti Marlon Brando (sempre ottimo sul fronte della recitazione, ma decisamente a disagio per quanto riguarda il lato cantato) e Frank Sinatra (al contrario superbo nelle canzoni, ma imprigionato in un ruolo bidimensionale e di scarso spessore) a emergere a sorpresa è la splendida Jean Simmons, che conferisce grande profondità a un personaggio che a conti fatti si rivela il più riuscito del film, rendendo alla perfezione la progressiva perdita dei freni inibitori di Sarah e il suo lento avvicinamento ai comportamenti che all’inizio della storia rigettava. Di grande effetto ancora oggi la fotografia, che ci mostra una New York fatta di luci al neon e colori sgargianti e che fece guadagnare a Bulli e pupe una delle sue quattro nomination all’Oscar, insieme a quelle per scenografia, costumi e colonna sonora.

Nonostante alcuni difetti, Bulli e pupe è comunque una pellicola da recuperare per i cinefili appassionati di musical e per tutti i fan di Marlon Brando e Frank Sinatra, che non offrono le migliori performance delle rispettive carriere ma illuminano comunque il film con la loro eccezionale presenza scenica. Anche se il gusto, gli usi e i costumi del pubblico con il passare del tempo sono inevitabilmente mutati, a volte un salto indietro nel tempo può servire per capire da dove arriviamo, cosa siamo e dove stiamo andando. Ben venga quindi Bulli e pupe a farci compiere questo tuffo nel passato, anche con la sua ingenuità e leggerezza.

domenica 2 novembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 2 novembre.

Il 2 novembre 1960 si conclude il caso giudiziario di oscenità per il romanzo "L'amante di Lady Chatterley".

Si tratta del caso più eclatante di censura della storia letteraria; ancora oggi non si può nominare il titolo L’amante di Lady Chatterley senza ritenerlo in qualche misura sconveniente o controverso. È un romanzo che porta su di sé la patina del proibito, una sorta di condanna sopravvissuta ai secoli che ne accompagna la fama ponendola in simbiosi con un’oscura perversione. Nel 1960 si apriva in Inghilterra il processo che poneva sotto accusa l’opera di David Herbert Lawrence, nonostante fossero passati quasi trent’anni dalla morte del suo autore.

Lady Chatterley’s Lover era il libro incriminato, posto sul banco degli imputati in un’edizione Penguin da tre scellini e mezzo spietatamente dissezionata dai commenti di Lady Dorothy Byrne, moglie del giudice incaricato di presiedere l’udienza. «Permettereste a vostra moglie di leggere un libro simile?» aveva domandato il Pubblico Ministero Griffith-Jones alla giuria in un’arringa epica; e a quanto pare venne preso in parola da Sir Lawrence Byrne che lo sottopose al giudizio insindacabile della sua signora.

Nel 2000, in occasione del quarantesimo anniversario del processo, la copia da due soldi vergata da Lady Byrne fu venduta all’asta con un prezzo di partenza di 15mila sterline – una volta divenuta la prova testimoniale di un verdetto storico il suo valore si era miracolosamente quintuplicato.

L’amante di Lady Chatterley è ormai considerato uno dei capolavori del Novecento; tuttavia il suo valore non si limita all’indiscutibile merito letterario, travalica lo splendore della prosa per intrecciarsi a un discorso sulla libertà in grado di sferrare un duro colpo alla morale puritana della Gran Bretagna di inizio secolo. Si tratta di un libro raro e prezioso, poiché rappresenta la prova storica che la letteratura può farsi diretta promotrice del cambiamento sociale.

Esiste un prima e un dopo la pubblicazione di L’amante di Lady Chatterley: il libro della discordia, che ha determinato una rivalutazione del concetto di morale, proprio come il fatidico morso al frutto proibito ha provocato la cacciata dell’uomo dal Paradiso Terrestre.

Come è risaputo, tutte le grandi riforme sociali si ottengono attraverso un piccolo atto di infrazione. Soltanto un anno prima il libro era stato protagonista di un analogo processo, negli Stati Uniti, che vedeva sul banco degli imputati la casa editrice americana Grove Press, accusata di pubblicazioni oscene. L’assoluzione non era bastata a impedire che un secondo processo si svolgesse nel Regno Unito, stavolta contro la Penguin Books che malauguratamente aveva deciso di ripubblicare tutte le opere di D.H. Lawrence in occasione del trentesimo anniversario dalla morte dell’autore, offrendo per la prima volta al pubblico l’edizione integrale di Lady Chatterley’s Lover.

Il romanzo era stato pubblicato per la prima volta a Firenze, nel 1928, dall’editore Giuseppe Orioli in un’edizione semi-clandestina di appena mille copie. Per l’occasione, la copertina venne realizzata da Lawrence stesso: rappresentava una fenice in fuga da un nido in fiamme, vi si poteva leggere una chiara allusione alla forza prorompente del libro destinato a risorgere dalle proprie ceneri malgrado i tentativi governativi di censurarne il contenuto.

D.H. Lawrence scrisse le tre stesure nella residenza fiorentina di Villa Miranda, e proprio in terra toscana vide la luce la prima edizione stampata del libro, sfuggendo così alle maglie della censura inglese. Nonostante fossero state prese le dovute precauzioni, le copie in circolazione vennero sequestrate più volte e ne fu proibita l’esportazione nel Regno Unito. In seguito alla morte di Lawrence, il romanzo venne diffuso in alcune versioni censurate, e nel 1947 persino tradotto in lingua italiana da Manlio Lo Vecchio Musti, che omise tutti i vocaboli ritenuti osceni attraverso un’opera di traslitterazione che ne edulcorava il contenuto.  Così «fuck» divenne «baciare»; «cock» divenne «coda» e tutti i riferimenti agli organi genitali furono tradotti con espressioni metaforiche, astratte, che creavano un’inevitabile ambiguità nella lettura.

Negli anni Sessanta una delle ragioni che posero l’opera nella posizione scomoda di essere processata pare fosse dovuta proprio all’irrisorio prezzo di copertina della nuova edizione tascabile Penguin, che l’avrebbe resa apertamente fruibile alle masse; una narrazione tanto sconveniente doveva rimanere assoluto privilegio dell’élite, come un sacro segreto da custodire, non poteva certo essere divulgata al popolo. Nel 1959 in Inghilterra era entrato in vigore l’Obscene Publications Act, il cui ordinamento stabiliva che un’opera fosse da considerarsi oscena solo se il suo effetto era «tale da tendere a depravare e corrompere le persone.» La prima vittima della legge appena approvata dal Parlamento fu proprio il romanzo di D.H. Lawrence, definito dalla società benpensante «volgare»; «disgustoso»; «osceno», come riportano le cronache di età vittoriana: «Un affronto disgustoso e volgare al comune senso del pudore».

Un processo letterario che può vantare un precedente illustre, quello affrontato da Gustave Flaubert in seguito alla pubblicazione di Madame Bovary, nel 1857. A un secolo di distanza le cose non sembravano affatto cambiate: se Flaubert aveva dovuto rispondere all’accusa di immoralità, a Lawrence – o meglio, alla sua opera postuma – spettava l’imputazione di oscenità. I romanzi risultavano accomunati dalla medesima caratteristica colpevolizzante: davano voce a una donna che praticava adulterio e si poneva in aperta sfida contro la società.

Entrambe le opere rappresentavano un manifesto contro l’ipocrisia borghese: Flaubert mostrava, senza finzioni né abbellimenti, la vita asfissiante nella provincia francese e una donna che vi si ribella nel tentativo di non soccombere; mentre Lawrence dava voce, attraverso la sua protagonista, a una storia d’amore illecita pervasa di sensualità. Constance Chatterley, proprio come Emma Bovary, è colta e piena di vitalità, imprigionata nella monotonia irriducibile di un matrimonio infelice, e alla disperata ricerca di una via di fuga.

Non era la descrizione – peraltro aggraziata – degli amplessi sessuali a rendere scandaloso il romanzo di Lawrence, piuttosto il fatto che a praticare adulterio fosse una donna – di alto rango, per giunta – che tradiva il proprio nobile marito nientemeno che con un guardiacaccia, quindi un individuo di classe sociale inferiore. La storia narrata in L’amante di Lady Chatterley, a giudizio dell’accusa, rischiava di influenzare negativamente altre donne di buona famiglia, conducendole sulla strada della depravazione e dell’immoralità. A rendere il libro tanto scandaloso per i lettori dell’epoca era l’atteggiamento controcorrente della sua protagonista: Lady Chatterley, di fatto, si oppone alle condizioni opposte dalla sua condizione nobiliare e al potere maschile. In questa veste Connie, proprio come Madame Bovary, è un’eroina ante-litteram che appare in rivolta contro l’intera società, simbolo illuminante del risveglio culturale femminile che pervade l’Europa degli anni Trenta.

Il rapporto carnale per Connie rappresenta una riscoperta di sé, una totale aderenza all’istinto vitale, un mezzo per affermare la propria forza di volontà e lo stretto connubio tra mente e corpo. È giusto tuttavia osservare che il soggetto principale del romanzo non sono i rapporti sessuali tra i due protagonisti, ma l’analisi di un’intera società: Lawrence ci fa respirare l’atmosfera della provincia inglese, focalizza la propria attenzione sulle condizioni di vita dei minatori, sullo sfruttamento da parte dei nobili della manodopera contadina, sul rapporto artificiale tra uomo e natura conseguente allo sviluppo dell’industria; il tutto narrato nella prosa raffinata e dettagliatamente descrittiva, degna di un grande classico. L’amante di Lady Chatterley è un romanzo che offre innumerevoli spunti di riflessione, ancora oggi attualissimi, che di certo non meritano di essere svalutati per la fama quasi pornografica che l’opera ha assunto in seguito alle sue vicissitudini storiche.

Flaubert venne assolto da ogni accusa tramite lo stratagemma del «discorso indiretto libero» che poneva in luce la distinzione sottile tra voce narrante e personalità autoriale; nel caso dell’opera di Lawrence la faccenda si presentava più controversa poiché a essere posto sotto accusa non era l’autore in prima persona ma il contenuto “disdicevole” del libro.

Il caso giudiziario di L’amante di Lady Chatterley pose in discussione il concetto di censura in epoca moderna, un fatto di per sé eclatante nei primi anni Sessanta quando l’Era dell’Indice dei Libri Proibiti doveva teoricamente essersi conclusa da un pezzo.

Il processo durò ben sei giorni e vide avvicendarsi sul banco dei testimoni tutta l’élite letteraria dell’epoca, da E.M Forster a Rebecca West. La giuria stessa fu chiamata a valutare il romanzo leggendolo ad alta voce nel corso dell’udienza. Furono tenute oltre trentasei deposizioni da parte di esperti, scrittori, accademici e persino uomini di chiesa. Il Pubblico Ministero Mervyn Griffith-Jones si dimostrò particolarmente agguerrito, mantenne una linea d’accusa molto netta che ancora oggi viene ricordata in alcuni manuali processuali. Jones lesse le parti più scabrose del romanzo in aula, ponendo l’accento sui termini giudicati osceni, e interpellò direttamente la giuria con frasi minacciose: «Fareste leggere questo romanzo ai vostri figli? Alle vostre mogli?». Determinanti per l’assoluzione dell’opera furono le testimonianze degli scrittori e, in particolare, di un cardinale che affermò pubblicamente la sacralità dell’amore tra Connie e il guardiacaccia Mellors, ribadendo l’importanza dell’amore carnale tra esseri umani.

Il processo si concluse il 2 novembre 1960 con un verdetto inatteso; il giudice Byrne giudicò il contenuto del libro accettabile per la società dell’epoca sancendo così la fine del moralismo vittoriano. In seguito alla sentenza, l’opera di D.H. Lawrence fu esposta in tutte le librerie e vendette tre milioni e mezzo di copie. Alla fine dell’anno la casa editrice Penguin venne addirittura quotata alla borsa di Londra.

La pubblicazione di L’amante di Lady Chatterley rappresentò una clamorosa vittoria sociale, ebbe il merito indiscusso di ridefinire il concetto di «tabù»: la sessualità non era dunque più da considerarsi alla stregua di un atto segreto o osceno, faceva parte della vita e in quanto tale poteva essere raccontata senza censure.

Un’importante battaglia era stata vinta. La letteratura, attraverso la sua peculiare capacità di nominare l’indicibile, aveva comportato una ridefinizione del senso di pubblico pudore. Il verdetto di assoluzione di Lady Chatterley’s Lover assunse un valore emblematico: era l’inizio di una nuova Era di liberalizzazione dei costumi e della morale.

Gli anni Sessanta avrebbero in seguito portato molte altre innovazioni sulla strada dei diritti: sarebbero stati l’epoca della prima pillola contraccettiva, della legalizzazione dell’aborto, della depenalizzazione dell’omosessualità. È bello pensare che il cammino verso la modernità sia iniziato grazie a un romanzo: la gente lo leggeva ovunque, sulle panchine del parco, durante le pause in ufficio, in metropolitana, scoprendo un senso di rinnovata libertà. Lady Chatterley’s Lover ha rappresentato la necessità dello scandalo in letteratura: l’importanza di dire, di affermare, di nominare perché solo l’arte può valicare il confine del proibito e rendere l’osceno accettabile.  Come ha notato il premio Nobel J. M. Coetzee in un saggio dedicato all’opera di Lawrence: «Ogni volta che il libro viene riaperto, in epoche successive, anche quando i tabù hanno perso la loro forza, ogni volta che il libro viene riletto quei tabù si rianimano e riassumono la loro cupa forza.»

Leggere L’amante di Lady Chatterley oggi è un privilegio, una libertà conquistata, e ogni volta che sfogliamo questo libro – malgrado le tematiche trasgressive ci appaiano ormai superate alla luce della contemporaneità – dovremmo ricordarci l’importanza benefica dello scandalo, l’urgenza di nominare le cose per conferir loro il diritto di esistere.

sabato 1 novembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il primo novembre.

Il primo novembre 1962 esce nelle edicole il fumetto Diabolik.

È impossibile raccontare la storia del fumetto di Diabolik senza partire dalla particolarità della vicenda delle sue creatrici. Angela Giussani e Luciana Giussani sono due signore borghesi di Milano, belle e colte, che d'un tratto nella loro vita si lanciano in un'impresa senza precedenti.

Angela Giussani nasce a Milano il 10 giugno 1922. Delle due sorelle è la più forte e intraprendente. In contrapposizione al costume corrente, infatti, negli Anni Cinquanta, guida l'auto e ha addirittura il brevetto di pilota di aerei.

È modella, giornalista e redattrice. Sposata all'editore Gino Sansoni dedica tutta la sua vita a Diabolik e alla casa editrice Astorina che dirige fino alla morte, avvenuta il 10 febbraio 1987 a Milano.

Di sei anni più piccola, Luciana nasce a Milano il 19 aprile 1928: lei è razionale e concreta. Appena diplomata, lavora come impiegata presso una nota fabbrica di aspirapolveri. Presto, però, lavoro al fianco della sorella nella redazione di Diabolik e si appassiona indissolubilmente all'avventura letteraria di Angela.

Luciana dirige la casa editrice dopo la scomparsa di Angela e firma le pagine di Diabolik fino alla sua dipartita, avvenuta a Milano il 31 marzo 2001.

Il primo numero di Diabolik esce il 1° novembre 1962. Costa 150 lire e si intitola "Il re del terrore". Il personaggio di Diabolik possiede da subito le caratteristiche per cui è celebre: ladro ingegnoso, capace di mirabolanti travestimenti supportati da maschere sottilissime inventate da lui stesso.

Nel primo numero c'è anche il suo alter ego, l'ispettore Ginko: integerrimo e professionale.

Il giorno che Diabolik deciderà di uccidermi, nessuno potrà venirmi in aiuto. Saremo io e lui da soli.

(Ginko, da Atroce vendetta, 1963)

Innovativo, inoltre, anche il formato dell'albo: tascabile. Pare che le sorelle Giussani scelsero questa misura pensando in modo particolare ai viaggiatori in treno, che vedevano affrettarsi tutti i giorni sotto la loro finestra, in zona stazione centrale a Milano.

Diabolik è un ladro di professione. Si lancia in furti di preziosi e ingenti somme di denaro. A fronte dell'attività criminosa, Diabolik è ligio ad un codice d'onore molto ferreo che premia amicizia, riconoscenza e tutela dei più deboli a sfavore, invece, di mafiosi e malavitosi.

Della biografia di Diabolik si apprende, come fosse un prequel, in "Diabolik, chi sei?" del 1968. Salvato da un naufragio, il piccolo Diabolik viene allevato da una banda internazionale facente capo a un certo King.

In questo contesto apprende lingue e tecniche criminose. Diventa un esperto nel campo della chimica: da qui le note maschere, asso nella manica dei memorabili travestimenti.

Sono proprio queste maschere che gli rendono nemico King: quando gliele vuole sottrarre, Diabolik lo affronta, lo uccide e fugge. Ancora in fatto di "prequel", nell'episodio "Gli anni perduti nel sangue" del 2006 si legge di una stagione di apprendimento di tecniche di combattimento in Oriente, prima di trasferirsi definitivamente a Clerville, città in cui abita nella saga.

Al fianco di Diabolik, compagna di vita e di misfatti è Eva Kant, conosciuta nel terzo episodio, dal titolo "L'arresto di Diabolik" (1963). Questo episodio inoltre, fu causa di una prima serie di denunce e processi penali dei quali furono oggetto Diabolik e altri epigoni negli anni sessanta. Angela Giussani, al fine di promuovere la nuova testata, aveva avuto l'idea di distribuirne copie omaggio ai ragazzi delle scuole medie e questo venne visto come un tentativo di traviamento della gioventù. Ne seguì un processo che, il 6 luglio 1964, assolse Angela Giussani dal reato di incitamento alla corruzione anche perché, si legge nella motivazione della sentenza, nella copertina il personaggio compariva con le manette ai polsi e sullo sfondo di una lugubre ghigliottina, la qual cosa induceva a pensare che il criminale avrebbe pagato per le sue colpe.

Bionda e bellissima, Eva Kant è vedova di Lord Anthony Kant, morto in circostanze sospette. È fredda e determinata ma, al contempo, sensuale e raffinata.

Lo storytelling di questa partner è stato sempre più approfondito nel tempo al punto che Eva è divenuta protagonista di alcuni numeri e altre iniziative editoriali legate al personaggio. Questa sorta di spin off è culminato nell'albo "Eva Kant - Quando Diabolik non c'era" uscito nel 2003.

La grande notorietà del personaggio ha fatto sì che non vivesse più esclusivamente nel regno dei fumetti. Diabolik, infatti, è apparso per 5 volte come protagonista sul grande schermo: nel 1968 in "Diabolik" di Mario Bava, nel 2019 nel primo di tre lungometraggi firmati dai Manetti Bros e, infine, nel documentario "Diabolik sono io", sempre del 2019, diretto da Giancarlo Soldi.

Al ladro gentile delle sorelle Giussani, poi, è stata anche dedicata una serie tv, nel 2000, intitolata sempre "Diabolik". In fatto di letteratura, sono stati pubblicati una collana intitolata "Romanzi di Diabolik" e quattro libri firmati da Andrea Carlo Cappi. Infine, è apparso in spot pubblicitari, nel radiofumetto di RaiRadio2 ed è stato al centro di alcuni videogames.

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