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lunedì 15 dicembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 15 dicembre.

Il 15 dicembre 1974 esce nelle sale americane Frankenstein Junior.

Frankenstein Junior è con ogni probabilità il film più celebre (e, a distanza di oltre cinquant'anni dalla sua realizzazione, più attuale) della carriera di Mel Brooks. Entrato di diritto nella memoria collettiva, anche e soprattutto per le sue battute folgoranti e per il personaggio dell’assistente gobbo Igor, interpretato da un sublime Marty Feldman, il film è anche una sapiente rilettura satirica ma non priva di spirito filologico dell’horror classico, e del suo significato recondito nella messa in scena del deforme, del diverso.

Si… Può… Fare!

Nella New York degli anni Trenta del Ventesimo Secolo Victor Frankenstein è un giovane e brillante medico, apprezzato docente universitario e fidanzato con la bella Elizabeth. Nonostante faccia pronunciare il suo cognome Frankenstin per prendere le distanze dagli esperimenti medici del celebre nonno, non può rifiutare l’eredità che gli spetta al momento del decesso dell’avo. L’eredità è un castello in Transilvania, dove il dottore si reca con l’intenzione di tornare il prima possibile negli Stati Uniti… 

Non è facile dopo oltre 50 anni approcciarsi con buona volontà critica a un film come Frankenstein Junior. La difficoltà non è dettata dall’opera in sé, tra i parti più interessanti dell’ondivaga filmografia di Mel Brooks, ma dal fatto che in mezzo secolo sia sempre venuta meno una reale e compiuta storicizzazione del film. Una mancanza dovuta a fattori differenti, a partire proprio dal primo dato evidente anche per gli sguardi più miopi o distratti: Brooks filma una commedia parodistica e demenziale. Un terreno, questo, nel quale il regista newyorchese si muove con estrema naturalezza, ma che accende una spia automatica nei ranghi della critica, che lo guarda con malcelato sospetto fin da tempi antichi, quando il cinema non era di certo annoverabile tra le arti. A questo dato se ne aggiunge però un altro: nel corso dei decenni Frankenstein Junior è divenuto un oggetto di culto, cui approcciarsi non più come semplici spettatori, ma come devoti. Le battute vengono sciorinate a memoria, collettivamente, alla stregua di una vera e propria liturgia. Non che la rilettura sarcastica della storia gotica per eccellenza, quella che Mary Shelley ideò durante la celeberrima permanenza estiva (nel 1816, definito come “anno senza estate”) nella ginevrina Villa Diodati, ospite con il marito di Lord Byron, rappresenti un’unicità. Dopotutto come ogni arte anche il cinema è radicalmente politeista, e gli oggetti di culto possono essere molteplici. La critica, già poco propensa a interessarsi in una forma compiuta e approfondita di un’opera dichiaratamente frivola come quella di Brooks – sul fatto che manchi un’analisi strutturata della cinematografia del regista di Per favore, non toccate le vecchiette, Mezzogiorno e mezzo di fuoco e Balle spaziali si tornerà più avanti –, preferisce tenersi a distanza dagli oggetti di venerazione, da ciò che ha oramai trasceso il proprio senso per approssimarsi alla devozione, all’amore cieco e privo di riflessione.

È davvero un peccato che a nessuno sia venuto in mente di riprendere in mano Frankenstein Junior non per fermarsi per l’ennesima volta ai giochi di parole – intraducibili eppure ben tradotti nella versione italiana, dimostrazione di un adattamento che non depaupera l’originale ma lo affina e finisce perfino per arricchirlo: un discorso che nei rapporti con il comico basato sulla verbalizzazione trova altri esempi fertili, a partire da Clerks di Kevin Smith, letteralmente riscritto nella versione doppiata in italiano, senza per questo tradire in alcuna misura le volontà autoriali originarie –, ai ribaltamenti sarcastici delle regole del gotico, alla perfetta interpretazione di eccellenti protagonisti quali Gene Wilder, che è anche l’artefice del soggetto, Peter Boyle, il già citato Feldman, Cloris Leachman e Teri Garr, ma per tentare di scavare in profondità, per accorgersi di come Brooks abbia saputo trasformare un perfetto marchingegno comico in una colta speculazione sulle strutture dell’immaginario, sulle strade obbligatorie, sui punti fermi dell’intera cultura occidentale.

Se i grandi eretici della comicità hanno sempre trovato una corsia preferenziale nel pensiero analitico, da Chaplin a Keaton passando per i fratelli Marx o (in Italia) Totò, la stessa attenzione non è mai stata riservata a chi lavora non sul sovvertimento delle regole in quanto tali ma sul loro riflesso, sulla parodia. L’intento parodistico è infatti generalmente ridotto a mera storpiatura di un pensiero nobile, a uso e consumo della pancia degli spettatori – o dei lettori – e non del loro cervello. Perfino un capolavoro quale Amore e guerra di Woody Allen è stato riscoperto solo quando l’autore si è dimostrato in grado di esulare dalla pura e semplice rilettura goliardica del classico. Quasi si soffrisse ancora della sindrome del venerabile Jorge narrata da Umberto Eco ne Il nome della rosa la resistenza è strenua verso chi osa svelare il ridicolo di fronte alla grandezza culturale conclamata.

Sotto questo punto di vista Brooks è un cineasta a dir poco coerente: nel corso della sua carriera, che si articola tra il 1968 e il 1995 (da allora Brooks, nonostante sia ancora vivo e vegeto, a 99 anni, si è considerato di fatto in pensione), ha preso in giro – e allo stesso tempo omaggiato, perché c’è l’atto di riverenza alla base di qualsivoglia parodia – il musical, la letteratura russa, il western classico e il mito di Frankenstein, il cinema di Hitchcock e la saga di Guerre stellari, Robin Hood e Dracula. Per quanto i risultati estetici e comici siano abbastanza alterni e si avverta un forte saliscendi creativo – che perde via via di spessore con il passare degli anni: si prenda la forma tutt’altro che curata nel mettere in scena Robin Hood – Un uomo in calzamaglia, distante anni luce dalla filologia che pervade Frankenstein Junior – non si può far finta che non vi sia una forte componente autoriale e poetica alla base delle scelte operate.

All’interno di questo vasto panorama Frankenstein Junior rappresenta la punta di diamante, il risultato più compiuto e stratificato. Duplice è già la fonte che si decide di riscrivere, perché se è vero che da un punto di vista basico Wilder e Brooks si stanno confrontando con un capolavoro letterario, denso di sottotesti politici e filosofici, dall’altro la scelta è quella di ragionare su Frankenstein avendo come punto di riferimento reale il dittico a lui dedicato da James Whale nei primi anni Trenta. Frankenstein e La moglie di Frankenstein, dunque, elevati a livello di un vero canone espressivo. L’horror classico permette a Brooks di lavorare sull’immaginario in una forma mai solo dissacrante. Si veda l’accurata fotografia di Gerald Hirschfeld, che lavora il bianco e nero con un’attenzione ai chiaroscuri che sembra quasi preconizzare gli anni Trenta visti dagli occhi di Steven Spielberg in Schindler’s List, o si ascoltino le note della colonna sonora di John Morris, così puntuali nel contrappuntare la composizione della Hollywood del tempo che fu allo stesso tempo giocando sui ritmi e sulle timbriche dell’Europa dell’est – il film è ambientato in una bizzarra Transilvania, quasi a voler scomporre la geografia orrorifica creando un ibrido tra i due mostri per eccellenza dell’immaginario cinematografico classico, Frankenstein e Dracula: per non lasciare nulla al caso in un dialogo, reso in italiano con “lupo ululì, castello ululà”, si fa riferimento anche al werewolf, l’uomo lupo.

Senza alcun intento di svilire il proprio riferimento culturale, Brooks lavora al contrario per far esplodere il comico come elemento dissacrante dell’ovvio, del precostituito, del generalmente accettato come parte della morale dominante. Tutto ciò che è egemone, culturalmente e politicamente, viene in modo programmatico messo alla berlina, destituito dallo scranno che senza meriti ha occupato. Nella sua ora e tre quarti di durata Frankenstein Junior svela il ridicolo dietro il mito della verginità (“Sempre libera degg’io folleggiare di gioia in gioia”), racconta il potere politico come ben più mostruoso e deforme della Creatura stessa – l’ispettore Kemp –, sghignazza dell’élite borghese di New York e si diverte perfino a smantellare l’incontro della Creatura con l’eremita cieco, qui interpretato da uno spassoso Gene Hackman. Non si tratta solo di quel “ridere per ridere” che sarà il mantra ossessivo della triade Zucker-Abrahams-Zucker, ma della volontà ferrea di non cedere mai alla grassa comodità della morale corrente, al gioco al massacro messo in atto tenendosi ben al sicuro. Brooks rischia, utilizzando il bianco e nero in un’epoca dominata dal colore (farà lo stesso pochi anni dopo con L’ultima follia di Mel Brooks, riappropriandosi del muto e dello slapstick), e dando nuova vita a Hollywood a un “mostro” che era stato abbandonato alle cure esclusive dell’Europa. Rischia, e vince la sfida, ridefinendo i confini del comico e creando un oggetto di culto, da imparare a memoria e recitare collettivamente. Una liturgia.

domenica 14 dicembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 14 dicembre.

Il 14 dicembre del 1955 l’Italia ha aderito alla Carta delle Nazioni Unite, divenendo membro dell’Organizzazione. 

Ha avuto inizio allora una lunga storia di collaborazione, sostegno e impulso alle attività dell’ONU, che è la logica conseguenza dell’approccio multilateralista che caratterizza la politica estera italiana.

Settanta anni dopo, l’Italia partecipa alle attività delle Nazioni Unite con impegno sempre crescente, contribuendo al perseguimento degli obiettivi della Carta, dal mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, alla promozione e difesa dei diritti umani, allo sviluppo sostenibile.

In questi sette decenni l’Italia ha contribuito con determinazione all’elaborazione delle Risoluzioni dell’Assemblea Generale e del Consiglio di Sicurezza che hanno dato vita a grandi innovazioni sul piano delle norme internazionali. Le campagne in favore della moratoria della pena capitale, quelle per promuovere l’uguaglianza di genere e i diritti delle donne e delle bambine (anche attraverso la lotta a pratiche quali le mutilazioni genitali femminili e i matrimoni precoci e forzati), le battaglie contro ogni forma di discriminazione religiosa e in favore della libertà di opinione, sono alcuni dei temi che vedono il nostro Paese in prima fila. 

Grazie anche alla costante opera di mediazione svolta dall’Italia, è stato possibile, con il trascorrere degli anni, attenuare le differenze di posizione tra Paesi, avvicinando le rispettive visioni e consentendo quindi di ampliare il consenso su molti argomenti. 

L’Italia ha altresì condiviso direttamente le responsabilità che derivano dalla sicurezza collettiva, ricoprendo per sette volte il ruolo di membro non permanente del Consiglio di Sicurezza, e partecipando a circa 30 operazioni di pace delle Nazioni Unite. 

Il nostro Paese, che è l'ottavo contributore finanziario delle missioni di pace, detiene  il primato, tra i Paesi occidentali, di fornitore di truppe. In particolare, l’Italia partecipa alla missione UNIFIL, schierata nel Libano del Sud. 

In occasione del sessantesimo Anniversario, il nostro Paese ha presentato  la propria candidatura al Consiglio di Sicurezza ed è stato eletto come membro non permanente del Consiglio per il 2017. In continuità con la sua storia e il suo impegno, l'Italia ha fornito un contributo significativo in questa delicata congiuntura internazionale.  

Dal 1955 ad oggi il mondo ha compiuto progressi straordinari, ma a 70 anni da quella data ed a 80 anni di attività delle Nazioni Unite, occorre guardare al futuro. L’Italia, infatti, appoggia il progetto di riforma dell’Organizzazione promosso dal Segretario Generale Antonio Guterres, incentrato sulla revisione delle operazioni di pace, sulla riorganizzazione delle strutture dedicate al  peacebuilding, sulla riforma del management e del sistema di sviluppo delle Nazioni Unite. Tutto questo in omaggio alla filosofia che valorizza l’efficacia d'un approccio preventivo e multisettoriale alle crisi. L’Italia è altresì impegnata nell’attuazione della nuova Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, che rappresenta un piano ambizioso per eliminare la povertà e promuovere la prosperità economica, lo sviluppo sociale e la protezione dell’ambiente su scala globale. Il nostro contributo alla crescita sostenibile è, inoltre, al centro dell’attività delle tre agenzie del Polo agro-alimentare delle Nazioni Unite di Roma (FAO, IFAD e PAM) ed ha trovato concreta attuazione con l’EXPO2015 (Milano, 1 maggio-31 ottobre 2015), un evento dedicato alla sicurezza alimentare e alla nutrizione con cui l’Italia si è fatta portatrice di una visione che si fonda sul passaggio dal concetto di "assistenza" a quello di una "cooperazione fra pari", basata sulla condivisione delle risorse, delle capacità e delle esperienze di sviluppo.” 


sabato 13 dicembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 13 dicembre.

Il 13 dicembre 1996 Kofi Annan viene eletto Segretario Generale delle Nazioni Unite.

Kofi Annan nasce a Kumasi, in Ghana, il giorno 8 aprile 1938. Studia presso l'Università della Scienza e Tecnologia del proprio paese e completa gli studi universitari in economia al Macalester College di St. Paul, nel Minnesota, Stati Uniti. Dal 1961 al 1962 intraprende gli studi post-universitari in economia presso l'Institut universitaire des hautes études internationales a Ginevra. In qualità di Sloan Fellow al Massachusetts Institute of Technology (dal 1971 al 1972) riceve un Master in Gestione Aziendale.

Sposato con Nane Annan, avvocato ed artista svedese da cui ha avuto tre figli, parla correntemente l'inglese, il francese e diverse lingue africane.

Entra nel sistema delle Nazioni Unite nel 1962 in qualità di funzionario amministrativo e di budget presso l'Organizzazione Mondiale della Sanità a Ginevra. Da quel momento ricopre diversi incarichi presso la Commissione Economica delle Nazioni Unite per l'Africa, ad Addis Abeba; la Forza di Emergenza delle Nazioni Unite (UNEF II) in Ismailia; l'Ufficio dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati a Ginevra; e la sede delle Nazioni Unite a New York, in qualità di Sotto Segretario Generale nell'Ufficio di gestione delle Risorse Umane e di Coordinatore per la Sicurezza nel sistema delle Nazioni Unite (1987-1990) e come Sotto Segretario Generale per la Pianificazione Programmata, il Budget, la Finanza ed il Controllo (1990-1992).

Prima di essere nominato Segretario Generale, ha ricoperto l'incarico di Sotto Segretario Generale per le operazioni di mantenimento della pace (marzo 1992-febbraio 1993) e, poi, di Segretario Generale Aggiunto (marzo 1993-dicembre 1996). Il suo servizio come Segretario Generale Aggiunto è coinciso con una crescita senza precedenti delle dimensioni e dei compiti delle operazioni di mantenimento della pace delle Nazioni Unite, con uno spiegamento complessivo, che ha raggiunto la sua vetta massima nel 1995, di quasi 70.000 militari e personale civile proveniente da 77 Paesi.

Dal novembre 1995 al marzo 1996, in seguito agli accordi di pace di Dayton che hanno segnato la fine della guerra in Bosnia-Erzegovina, ricopre la carica di Rappresentante Speciale del Segretario Generale nella ex Jugoslavia, supervisionando la transizione in Bosnia-Erzegovina dalla Forza di Protezione delle Nazioni Unite (UNPROFOR) alla Forza Multinazionale di Attuazione (IFOR) guidata dall'Organizzazione del Patto Atlantico (NATO).

In qualità di Segretario Generale, la prima importante iniziativa di Kofi Annan è stata il suo programma di riforma, "Rinnovare le Nazioni Unite".

Nel 1990, in seguito all'invasione irachena del Kuwait, viene inviato dal Segretario Generale, in missione speciale, per agevolare il rimpatrio di oltre 900 persone appartenenti allo staff internazionale ed il rilascio dei cittadini occidentali in Iraq. Conseguentemente guida il primo team delle Nazioni Unite incaricato di negoziare con l'Iraq la vendita del "petrolio in cambio di cibo", al fine di finanziare l'acquisto di aiuti umanitari.

Kofi Annan ha utilizzato i suoi buoni uffici in diverse e delicate situazioni politiche, tra cui si include: il tentativo nel 1998 di ottenere dall'Iraq il rispetto delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza; una missione nel 1998 per aiutare a promuovere la transizione della Nigeria verso un governo civile; un accordo nel 1999 per risolvere una situazione di stallo tra la Libia ed il Consiglio di Sicurezza per l'attentato di Lockerbie del 1988; un'azione diplomatica nel 1999 al fine di forgiare una risposta internazionale alla violenza in Timor Est; attestare il ritiro nel settembre del 2000 delle truppe israeliane dal Libano; ed ulteriori sforzi dopo la recrudescenza della violenza, nel settembre del 2000, per incoraggiare Israeliani e Palestinesi a risolvere i loro contrasti con negoziazioni, fondate sulle risoluzioni 242 e 338 del Consiglio di Sicurezza e sul principio della "terra per pace".

Nell'aprile 2000 ha pubblicato il Rapporto del Millennio, intitolato "Noi i popoli: il ruolo delle Nazioni Unite nel 21o secolo", esortando gli Stati Membri a impegnarsi in un piano di azione per fronteggiare la povertà e l'ineguaglianza, migliorare l'istruzione, ridurre l'HIV/AIDS, salvaguardare l'ambiente e proteggere i popoli dai conflitti cruenti e dalla violenza. Il rapporto costituisce la base della Dichiarazione del Millennio adottata dai Capi di Stato e di Governo in occasione del Vertice del Millennio, tenutosi nel settembre del 2000, presso la sede delle Nazioni Unite a New York.

Il 10 dicembre 2001, il Segretario Generale e le Nazioni Unite hanno ricevuto il Premio Nobel per la Pace.

Kofi Annan è stato il settimo Segretario Generale delle Nazioni Unite. Come primo Segretario Generale ad essere eletto tra le fila dello staff delle Nazioni Unite, ha assunto l'incarico il 1 gennaio 1997. Il 29 giugno 2001, è stato rieletto per acclamazione dall'Assemblea Generale, su raccomandazione del Consiglio di Sicurezza, ad un secondo mandato, dal 1 gennaio 2002 al 31 dicembre 2006.

Il Consiglio di Sicurezza ONU ha designato come suo successore il sudcoreano Ban Ki-Moon.

Kofi Annan si è spento in Svizzera, a Berna, il 18 agosto 2018 all'età di 80 anni.

venerdì 12 dicembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 12 dicembre.

Il 12 dicembre 627 L'imperatore Eraclio sconfigge i persiani nella Battaglia di Ninive, portando così ai bizantini la vittoria finale nella guerra tra i due imperi.

Oltre a dover farsi carico di limitare le azioni sempre pressanti delle popolazioni slave nei propri confini settentrionali, l'impero romano d'Oriente, o bizantino, dovette farsi carico anche di una delle sfide mai chiuse dal suo prestigioso predecessore: il conflitto a oriente coi persiani. Le guerre, ormai secolari, contro l'impero, prima partico ed ora sasanide si svilupparono nel corso dei secoli, e si chiusero solo con la guerra romano-persiana del 602-628, combattuta proprio contro i persiani della dinastia Sasanide. La guerra precedente si era conclusa nel 591 in seguito all'intervento militare di Maurizio contro l'usurpatore sasanide Bahram Chobin per restaurare il re legittimo sasanide Cosroe II sul trono. Nel 602, Maurizio fu assassinato da una rivolta dell'esercito che elesse imperatore il trace Foca. L'assassinio del suo benefattore fornì a Cosroe il pretesto di dichiarare guerra a Foca, con la giustificazione di dover vendicare l'assassinio di Maurizio. La guerra durò ben tre decenni, e coinvolse gran parte del Medio Oriente, oltre alla Tracia: le zone coinvolte furono in particolare l'Egitto, il Levante, la Mesopotamia, il Caucaso, l'Anatolia, e persino i dintorni di Costantinopoli stessa.

Se nella prima fase del conflitto (dal 602 al 622) i Persiani conseguirono importanti successi, occupando senza grandi difficoltà Siria, Palestina, Egitto, e alcune regioni dell'Anatolia, l'ascesa al trono bizantino di Eraclio nel 610 portò alla fine alla sconfitta persiana, nonostante i successi iniziali di Cosroe II. Le campagne di Eraclio condotte in territorio persiano dal 622 al 626 alterarono l'equilibrio, costringendo i Persiani sulla difensiva e permettendo ai Bizantini di riguadagnare terreno. Una volta alleatasi con gli Avari, i Persiani fecero un ultimo tentativo di espugnare Costantinopoli nel 626, ma fallirono nell'impresa. Mentre l'assedio di Costantinopoli era ancora in corso, Eraclio strinse un'alleanza con i Kazari, promettendo la mano di sua figlia Eudossia Epifania al loro khan Ziebel, formando così un esercito di settantamila uomini tra Bizantini ed i loro alleati. L'Impero sasanide era ormai in difficoltà; l'ultima carta (l'assedio di Costantinopoli) non aveva funzionato e ora la Persia doveva combattere due nemici a causa dell'entrata in guerra degli stessi Kazari.

Nella primavera del 627 l'Augusto lanciò la sua ultima campagna contro i Persiani. I Kazari nel Caucaso gli avevano inviato 40.000 dei loro soldati come rinforzi, invadendo nel 626 l'Impero persiano e segnando l'inizio della Terza guerra persiano-turca. Le operazioni coordinate tra Bizantini e Göktürk si concentrarono sull'assedio di Tiflis, dove i Bizantini usarono catapulte a trazione per creare brecce tra le mura, uno dei primi usi conosciuti di quest'arma tra i Bizantini. Cosroe inviò 1.000 cavalieri per rinforzare la difesa della città, ma nonostante tutto essa cadde in mani kazare nel tardo 628. Ziebel tuttavia perì alla fine di quello stesso anno, liberando Epifania dalla prospettiva di un matrimonio con un barbaro. Verso la metà di settembre del 627, Eraclio lasciò Ziebel a continuare l'assedio di Tiflis, decidendo di invadere il cuore dell'Impero persiano in una sorprendente campagna invernale. Il suo esercito comprendeva tra i 25.000 e i 50.000 soldati bizantini, ai quali vanno aggiunti 40.000 Göktürk che, tuttavia, intimoriti dall'arrivo dell'inverno e dai costanti attacchi dei Persiani, decisero di disertare, ritornando nella loro patria. Eraclio avanzò comunque rapidamente, ma era tallonato da un esercito persiano condotto dall'armeno Rhahzadh, che incontrava difficoltà a rifornire il suo esercito a causa delle requisizioni bizantine di approvvigionamenti nel corso della loro avanzata a sud verso l'Assiria. Eraclio nel frattempo stava compiendo una serie di saccheggi e di massacri (un modo per vendicarsi dei saccheggi compiuti dai Persiani) e dal 9 al 15 ottobre si fermò nella terra di Chamaetha, dove fece riposare le sue truppe. Il 1 dicembre 627 Eraclio raggiunse il fiume Grande Zab, lo attraversò e raggiunse Ninive.

In realtà Eraclio aveva trovato, nella pianura ad ovest del fiume Grande Zab, ad una certa distanza dalle rovine di Ninive, un perfetto sito in cui dar battaglia. La conformazione della pianura permetteva ai Bizantini di poter approfittare dei loro punti di forza, cioè lance e combattimento corpo a corpo. Inoltre, una provvidenziale nebbia ridusse il potenziale offensivo persiano, i cui arcieri e giavellottieri non potevano impedire ai Bizantini, in quelle condizioni, di caricare a pieno regime, senza subire perdite importanti.

Rhahzadh decise di dividere le sue forze in tre parti e attaccò. Eraclio, imitando quella che sarà la tecnica principe dei futuri nemici di Bisanzio, gli arabi, effettuò una finta ritirata per condurre i Persiani alle pianure prima di invertire il senso di marcia delle sue truppe prendendo completamente di sorpresa i Persiani. Dopo otto ore di combattimento, i Persiani, improvvisamente, visto che ancora non si era verificato un vero tracollo del proprio esercito, decisero di ritirarsi, e fuggire nei dintorni della pianura stessa. In realtà, la fuga persiana era giustificata da un evento decisivo che si era verificato poco prima. Al culmine della battaglia Rhahzadh aveva improvvisamente sfidato Eraclio a singolar tenzone con la speranza di costringere i romani a fuggire. Eraclio accettò la sfida e spronò il cavallo in avanti e con un solo colpo colpì la testa di Rhahzadh, prendendo come trofei dal cadavere del generale persiano lo scudo e la corazza formata da di 120 tavole d'oro. Con la morte di Rhahzadh perirono le speranze di vittoria dei Persiani: vedendo il loro coraggioso comandante e molti altri ufficiali di alto rango venire uccisi da Eraclio e dalle sue truppe, i soldati persiani decisero di darsi alla fuga. Ma questa fuga non si trasformò in una disfatta. I bizantini, considerando anche la forte posizione in cui si trovavano, non si diedero all'inseguimento neanche dopo essersi assicurati il totale dominio del campo di battaglia, con delle perdite sconosciute ma sicuramente minime. I persiani lasciarono nei pressi di Niniva almeno 6000 combattenti, tra cui il loro stesso generale Rhahzadh.

Alla fine della giornata, quasi come una beffa, arrivarono perfino i 3.000 uomini di rinforzo ai persiani, ma ormai era troppo tardi per poter fare la differenza nella battaglia di Ninive.

La vittoria di Ninive non fu totale, visto che i Bizantini non furono né in grado di catturare il campo persiano, né di sterminarne l'esercito. Tuttavia, questa vittoria era significativa perché distruggeva le speranze di resistenza dei Persiani. Con nessun esercito persiano rimasto ad opporsi a lui, Eraclio con il suo esercito vittorioso saccheggiò Dastagird, il palazzo di Cosroe guadagnando enormi ricchezze, oltre al recupero di 300 stendardi romano/bizantini persi durante i secolari scontri con i persiani. Cosroe, nel frattempo era già fuggito sulle montagne di Susiana per cercare di ottenere aiuti per la difesa di Ctesifonte. Ma Eraclio non poteva attaccare la stessa città poiché il Canale di Nahrawan venne bloccato dal crollo di un ponte.

L'esercito persiano si ribellò e rovesciò Cosroe II, portando al potere suo figlio Kavadh II. Cosroe perì in un sotterraneo dopo aver sofferto per quattro giorni, nudo, la fame. Pare che venne ucciso, lentamente, con il lancio di frecce sul finire del quinto giorno. Kavadh si attivò immediatamente per la pace inviando una pronta offerta a Eraclio. Eraclio non impose condizioni difficili per i persiani, sapendo che anche il suo impero era allo stremo. In base al trattato di pace, i Bizantini riconquistarono tutti i loro territori perduti, i loro soldati catturati, una indennità di guerra, e come simbolo, dal grande significato spirituale, la Vera Croce e altre reliquie che erano state perse a Gerusalemme nel 614. La battaglia segnò così la fine delle guerre romano-persiane.

 

giovedì 11 dicembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è l'11 dicembre.

L'11 dicembre 1955 nasce il Partito Radicale.

Il 5 febbraio del 1956 nacque ufficialmente il Partito Radicale, con lo specifico obiettivo di affermare alcuni diritti civili e politici dei cittadini. Fu il partito che fece la storia della politica italiana negli anni Settanta, che contribuì alla legalizzazione di divorzio e aborto, all’obiezione di coscienza, al voto ai diciottenni, alla depenalizzazione dell’uso personale di droghe leggere, alla chiusura dei manicomi e a molte altre cose. Nacque dalla scissione a sinistra del Partito Liberale Italiano, e dall’affermarsi al suo interno della cosiddetta “sinistra radicale”. Dal 2001 il partito ha cambiato nome in Radicali Italiani.

Il Partito Radicale, che inizialmente si chiamava “Partito Radicale dei democratici e dei liberali italiani”, venne in realtà fondato nel dicembre del 1955 durante un convegno che si svolse al cinema Cola di Rienzo di Roma. Il PLI rappresentava idealmente la tradizione moderata del Risorgimento: era nato a Bologna nel 1922, ebbe un atteggiamento di collaborazione con il governo fascista fino al delitto Matteotti del 1924; poi si allontanò dal fascismo, venne sciolto nel 1925 e ricostituito nell’estate del 1943, per iniziativa di Benedetto Croce e Luigi Einaudi. Il PLI non svolse mai un ruolo fondamentale nella politica italiana, ma espresse i primi due presidenti della Repubblica (Enrico De Nicola e Luigi Einaudi). Durante la segreteria di Roberto Lucifero, negli anni Quaranta, e di Giovanni Malagodi poi, dal 1954, il PLI cominciò a spostarsi verso posizioni sempre più conservatrici causando il dissenso della componente interna che si rifaceva invece alla cultura della sinistra liberale e che si raccoglieva attorno al giornale Il Mondo, diretto da Mario Pannunzio. Nel dicembre del 1955 su Il Mondo, venne pubblicato un articolo in cui si diceva:

«Accomunati dal vincolo fraterno delle amare esperienze, non rassegnati, non perplessi, si accingono a costituire una nuova larga formazione politica che s’ispiri ad una concezione moderna e civile del liberalismo, a quella concezione che Benedetto Croce ebbe a definire ad una parola: radicale (…) In questo campo, i “padroni del vapore” non troveranno certo mercenari e staffieri pronti a vender le idee per un assegno mensile».

L’8 dicembre del 1955, 32 consiglieri nazionali del Partito Liberale Italiano si dimisero per promuovere con altri la costituzione del Partito Radicale dei Liberali e Democratici Italiani. Fra loro c’erano Leopoldo Piccardi, Mario Pannunzio, Ernesto Rossi, Nicolò Carandini, Leo Valiani, Guido Calogero, Giovanni Ferrara, Paolo Ungari, Eugenio Scalfari, Marco Pannella, Franco Roccella. Il mandato ad avviare la costituzione del nuovo partito fu affidato a un Comitato esecutivo provvisorio. Nel frattempo venne formato un comitato degli “Amici del Mondo” con il compito di organizzare un lavoro di ricerca sulle grandi questioni istituzionali, politiche, economiche e sociali del paese. All’associazione partecipavano attivamente anche professionisti, esperti e intellettuali non iscritti a quello che poi diventò il Partito Radicale.

I punti programmatici del nuovo partito prevedevano: una lotta ai privilegi e ai monopoli industriali, commerciali e terrieri per permettere lo sviluppo di un’economia veramente libera; la riduzione dei dislivelli fra i cittadini, le classi sociali e le regioni; l’eliminazione degli sprechi, un effettivo controllo delle pubbliche spese da parte del Parlamento, una riforma dell’ordinamento tributario per rendere le imposte chiare e certe, per accentuare il loro “carattere progressivo” e per alleggerire i ceti meno agiati. La linea economica diceva che «lo stato ha il diritto e il dovere di intervenire organicamente e permanentemente, nella vita economica e sociale, non solo a tutela delle categorie indifese, ma anche per inserire nella vita democratica quei ceti popolari che sono ancora fuori di essa, e sono perciò esposti a soggiacere, o soggiacciono, al richiamo e al disciplinamento degli apparati illiberali». Si parlava di riforma scolastica, del primato della scuola statale e della fine “dell’indolenza del confessionalismo”.

Tra il 4 e il 5 febbraio del 1956 si svolse il primo convegno nazionale del nuovo partito a Roma, presso la sede di via della Colonna Antonina. L’obiettivo era «approvare lo statuto del partito, designare gli organi dirigenti, predisporre un immediato piano di lavoro». Il nome venne cambiato in Partito Radicale, si decise di partecipare alle elezioni amministrative che si sarebbero svolte tre mesi dopo, si rinnovò l’incarico al Comitato, chiamato Giunta esecutiva, e venne eletto segretario Mario Pannunzio. Alle elezioni amministrative del 27 e 28 maggio il Partito Radicale si presentò in 18 capoluoghi. Il simbolo era una testa di donna con il berretto frigio. Non andò molto bene e ottenne soltanto sei seggi comunali. A Roma il partito fu votato dall’1,2 per cento dei cittadini ed elesse Leone Cattani.

Quello che distinse la prima fase del Partito Radicale fu la proposta di abolire i Patti Lateranensi integrati nella Costituzione e una linea politica dichiaratamente anticlericale. Verso la fine degli anni Cinquanta questa linea si concretizzò in una vera e propria campagna anti-democristiana e anti-comunista, che portò però a un dissenso interno e al conseguente abbandono di alcuni importanti esponenti del nuovo movimento. Negli anni Sessanta, però, si unirono al partito altre personalità: lo scrittore Elio Vittorini, l’attore Arnoldo Foà, Stefano Rodotà, Antonio Cederna, tra gli altri.

Sempre negli anni Sessanta all’interno del partito cominciò a farsi sempre più forte una contrapposizione tra due diverse componenti, divise soprattutto sul ruolo della sinistra in quella fase politica e sul rapporto con gli altri partiti politici. La contrapposizione trovò una soluzione con il cosiddetto “caso Piccardi”. Durante le sue ricerche sul razzismo in Italia, lo storico Renzo De Felice scoprì che Leopoldo Piccardi (tra i fondatori del Partito Radicale e parte della sua dirigenza) aveva partecipato ad un convegno giuridico organizzato dall’Italia e dalla Germania in cui vennero di fatto elaborate le leggi razziali. La parte più a sinistra e più giovane del partito condannò Piccardi, altri invece lo difesero. Il risultato fu che questa seconda componente (meno a sinistra e più anziana) lasciò il partito o venne emarginata e che il nuovo movimento cominciò ad essere guidato dai più giovani: i “giovani guastatori”, come furono definiti dai fuoriusciti.

Nel marzo del 1959 Marco Pannella pubblicò sul quotidiano romano Paese Sera un articolo in cui sostenne che la sinistra democratica europea doveva riaprire il confronto con la sinistra comunista. E fu questo il tema centrale che avrebbe caratterizzato successivamente la strategia dei nuovi radicali. Oggi il partito si chiama Radicali Italiani, e non è più centrale come un tempo: alcuni dei suoi esponenti però hanno raggiunto incarichi importanti – su tutti Emma Bonino.

mercoledì 10 dicembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 10 dicembre.

Il 10 dicembre 1938 Enrico Fermi riceve il premio Nobel per la fisica.

Enrico Fermi nasce il 29 settembre 1901 a Roma, figlio di Alberto, funzionario del Ministero dei Trasporti e Ida De Gattis, maestra. Fino ai tre anni di età risiede in campagna sotto lo stretto controllo di una balia, a sei anni inizia regolarmente la scuola elementare laica (fattore importante, in quanto non ha mai ricevuto educazione religiosa, comportando e supportando quindi l'agnosticismo che lo ha accompagnato per tutta la sua vita).

Profondamente addolorato dalla morte prematura del fratello Giulio, maggiore di un solo anno, con il quale aveva legato particolarmente, getta tutto il suo sconforto nei libri, canalizzando positivamente la rabbia per la perdita, tanto da terminare il liceo ginnasio "Umberto" con un anno di anticipo, avendo tempo anche per concentrarsi su approfonditi studi di matematica e fisica su testi da lui comprati o anche solo sfogliati presso il mercatino delle pulci di Campo de'Fiori.

Un collega del padre, l'ingegnere Adolfo Amidei, avendo a cuore il ragazzo, gli suggerisce di non iscriversi all'Università di Roma, bensì all'Università di Pisa, in particolare alla scuola Normale, presentandosi al concorso annuale che si tiene per potervi accedere: il tema "Caratteri distintivi dei suoni" viene affrontato da lui con estrema maestria, permettendogli di classificarsi primo in graduatoria.

Inizia quindi nel 1918 la frequentazione a Pisa, della durata di quattro anni: si laurea il 7 luglio del 1922, dimostrando anche una conoscenza linguistica non comune (oltre al latino e il greco, conosce infatti l'inglese, il francese ed il tedesco), che gli permette dopo poco di partire alla volta di Gottigen, alla scuola di Max Born, per migliorare le conoscenze di fisica quantistica; nel 1925, con pochi rimpianti, si sposta a Leida, in Olanda, ove ha modo di incontrare Albert Einstein.

A Roma ottiene per primo la cattedra di Fisica Teorica, creata per lui dal Prof. Corbino, direttore dell'Istituto di Fisica, il quale contemporaneamente compone un gruppo di studio ribattezzato in seguito "i ragazzi di Via Panisperna" (dalla sede dell'istituto), composto da Rasetti, Segré, Amaldi, Majorana, Trabacchi e Pontecorvo.

Le argomentazioni principali degli studi ineriscono la spettroscopia, ottenendo risultati eccellenti, ma quasi tutti i membri di questo gruppo si sentono sempre più attratti dalla fisica nucleare, spostandosi sempre più frequentemente all'estero a studiare nei laboratori più innovativi. Fermi si concentra sullo studio del nucleo atomico, arrivando a formulare la teoria del decadimento beta, secondo la quale l'emissione di un fotone è data dalla transizione di un neutrone in un protone con la creazione di un elettrone e di un neutrino.

Questa teoria, introdotta al termine del 1933, trova subito conferma nella scoperta della radioattività da parte di Curie e Joliot, esposta nei primi mesi del 1934. Sulla base di questa scoperta, Fermi formula una nuova idea: utilizzare i neutroni come proiettili per evitare la repulsione coulombiana per poter produrre radioattività artificiale. Dopo alcuni tentativi infruttuosi, ottengono risultati positivi per 37 specie sulle 60 testate, scoprendo altresì che in caso di urti successivi, i neutroni prodotti da urti rallentati hanno un tasso di efficacia molto più elevata nella generazione di specie radioattive.

Tra il 1935 e il 1937 il gruppo si separa di nuovo per diverse assegnazioni di cattedre, a Roma rimangono solo Fermi e Amaldi: l'anno successivo ad Enrico Fermi viene conferito il premio Nobel, ma questa è l'unica nota felice dell'anno. Majorana scompare infatti in circostanze più o meno misteriose e a causa delle leggi razziali emanate dal regime fascista, il fisico romano è costretto ad emigrare, visto che sua moglie Laura è ebrea.

Fermi accetta la cattedra alla Columbia University, mentre il suo amico Segrè, scoprendo di essere stato licenziato a Roma, accetta la cattedra di fisica a Berkeley. Dopo l'arrivo alla Columbia, inizia a concentrarsi sugli esperimenti iniziali di Hahn e Strassman sulla fissione nucleare, e con l'aiuto di Dunning e Booth e progetta un primo piano per la costruzione della prima pila nucleare, ovvero il primo dispositivo ove produrre in modo controllato la reazione a catena. Enrico Fermi vede la realizzazione dei suoi sforzi il 2 dicembre del 1942, con l'entrata in funzione della prima centrale nucleare a Chicago; l'energia nucleare diviene così fonte di vita, ma allo stesso tempo anche uno strumento di guerra: il fisico aderisce infatti al progetto Manhattan allo scopo di creare il primo ordigno nucleare.

Dopo la guerra si dedica allo studio sulle particelle elementari e ad acceleratori di particelle, concentrandosi principalmente sui pioni e le sue interazioni con i protoni. Durante un suo periodo di permanenza in Italia, nell'estate del 1954, iniziano a manifestarsi i primi drammatici sintomi del cancro allo stomaco: questa malattia, allora ancora pressoché sconosciuta, lo debilita rapidamente portandolo alla morte il 29 novembre dello stesso anno a Chicago, negli Stati Uniti. Riposa nel locale Oak Woods Cemetery.

Una lapide commemorativa lo ricorda nella basilica di Santa Croce a Firenze, nota anche come il Tempio dell'itale glorie per le numerose sepolture di artisti, scienziati e personaggi importanti della storia italiana.

martedì 9 dicembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi



Buongiorno, oggi è il 9 dicembre.

Il 9 dicembre 1945 il Generale Patton ha un incidente stradale che in seguito gli risulterà fatale.

George Patton, il cui nome completo è George Smith Patton, nacque a San Gabriel (California, USA) l'11 novembre 1885 e morì a Heidelberg (Germania) il 21 dicembre 1945. E' stato un generale statunitense, esperto nell'impiego dei mezzi corazzati, durante la seconda guerra mondiale.

Nasce a San Gabriel, un piccolo sobborgo nei pressi di Los Angeles, l'11 novembre 1885, da una ricca famiglia di tradizione militare della Virginia. Il nonno, George S. Patton Senior, fu colonnello dell'esercito confederato durante la Guerra di Secessione e morì nel 1864 durante la Terza battaglia di Winchester. Il suo pro-zio, Waller T. Patton, fu invece un tenente colonnello che morì durante la Carica di Pickett nel corso della battaglia di Gettysburg del 1863.

Spinto dall'esempio dei propri familiari, il giovane George, a soli 14 anni, entra a far parte dell'accademia militare di West Point, dalla quale uscirà come ufficiale di cavalleria.

Nel 1912 prende parte alla V Olimpiade di Stoccolma, durante la quale partecipa alla gara di pentathlon moderno, inserita per la prima volta nel programma olimpico. Il suo percorso agonistico si conclude con un ventesimo posto nella prova di tiro, un settimo posto nel nuoto, un quarto posto nella scherma , un sesto posto nell'equitazione ed infine un terzo posto nella corsa. Nella classifica finale arriva quinto dietro a quattro atleti svedesi.

Durante la campagna del Messico (1916-1917) contro Pancho Villa, il giovane Patton ha la possibilità di combattere al fianco del generale John Joseph Pershing insieme al quale, durante un conflitto a fuoco, riesce ad uccidere, dopo aver montato una mitragliatrice sopra una macchina, Julio Cardenas, il braccio destro di Villa.

Grazie a questa trovata, il giovanissimo George Patton conquista l'ammirazione di tutti per la sua strabiliante abilità nell'utilizzare in guerra le unità meccanizzate e viene promosso al grado di capitano.

Allo scoppio della prima guerra mondiale, dopo il coinvolgimento degli Stati Uniti, George Patton viene inviato in Europa, ancora una volta al fianco del generale Pershing. Durante questo conflitto impara tutto ciò che c'è da sapere sull'utilizzo dei carri armati.

Nel 1939, un anno prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, viene promosso tenente colonnello, mentre l'anno seguente diventa Maggiore Generale.

Nel 1941, dopo aver conseguito alcune ulteriori specializzazioni nell'uso dei mezzi corazzati, viene messo a capo della seconda Divisione corazzata, con la quale, nel 1942, prende parte all'operazione Torch, dirigendo lo sbarco in Marocco della cosiddetta Western Task Force.

In Marocco rimane per qualche tempo per preparare il primo Corpo d'armata corazzato al futuro sbarco in Sicilia ma, in seguito al disastro della battaglia del passo di Kasserine, viene incaricato dal generale Dwight Eisenhower di prendere il comando delle forze americane in Tunisia.

Qui George Patton si dimostra estremamente risolutivo e riesce ad organizzare tutte le forze per sollevare il morale delle sue truppe, profondamente demoralizzate per via delle continue sconfitte subite. Il suo gruppo d'armata passa all'offensiva il 17 marzo 1943, ma tutti gli attacchi, nonostante la superiorità numerica degli americani, vengono continuamente respinti dai tedeschi. Il 24 marzo, il generale Patton riesce a respingere un contrattacco di panzer ad El Guettar, ma una serie di attacchi a Fondouk e a El Guettar il 27 e il 28 marzo terminano con pesanti perdite per la compagnia americana, mentre i difensori italo-tedeschi riescono a mantenere le loro posizioni.

Considerato uno dei più energici comandanti americani, George Patton viene messo al comando della settima Armata impegnata nello sbarco in Sicilia, avvenuto il 10 luglio 1943. Campagna, questa, durante la quale avviene uno dei massacri più atroci per via dell'uccisione di 73 soldati italiani, catturati durante la battaglia per la conquista dell'aeroporto di "Santo Pietro" a Biscari (oggi Acate). Fatto che, terminata la guerra, costa al comandante Patton un processo, che si conclude con la piena assoluzione, anche se su questo episodio, a distanza di anni, permangono ancora non pochi misteri.

Terminata la Campagna in Sicilia, George Patton viene immediatamente richiamato in Gran Bretagna, dove viene messo a capo della terza Armata, che da alcune settimane, precisamente il 6 giugno 1944, era sbarcata in Normandia. Durante questo periodo, il comandante americano si distingue particolarmente nelle operazioni di conquista di alcune importanti città francesi come Nantes, Orléans, Avranches, Nancy e Metz.

Riesce, in maniera esemplare, a respingere la controffensiva tedesca delle Ardenne (16 dicembre 1944) contrattaccando e riuscendo a mettere in fuga l'esercito tedesco. Dopo aver contribuito alla liberazione della Francia dagli eserciti nazisti, ed essersi preparato a liberare anche Praga, dove però era già giunto l'esercito sovietico, fa ritorno da eroe, anche se con molti scheletri nell'armadio, negli Stati Uniti.

Il 9 dicembre 1945 rimane coinvolto in un incidente stradale. Ad un incrocio l'auto a bordo della quale viaggiava si scontra con un autocarro. Nessuna delle persone a bordo rimane ferita. Nessuna tranne Patton che, seduto sul sedile posteriore, viene sbalzato in avanti sbattendo violentemente la testa sul sedile anteriore e fratturandosi l'osso del collo.

Nonostante i gravi traumi subiti, riesce a sopravvivere fino al 21 dicembre 1945 quando, in seguito ad un edema polmonare e ad una congestione cardiaca, si spegne improvvisamente ad Heidelberg, in Germania, dopo aver apparentemente recuperato le forze. La sua morte a distanza di tempo, ha dato origine ad ipotesi di un complotto per eliminarlo, a garanzia del patto di Jalta.


 

lunedì 8 dicembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è l'8 dicembre.

L'8 dicembre 2018 ebbe luogo la tragedia della discoteca di Corinaldo.

Cinque giovani di età compresa tra i 14 e i 16 anni e una madre che accompagnava la figlia sono morti travolti dalla calca generata dall’allarme per il presunto utilizzo di uno spray al peperoncino in un locale in provincia di Ancona, la discoteca "Lanterna azzurra" di Corinaldo, a margine del concerto del trapper Sfera Ebbasta. Sette persone sono rimaste ferite, ricoverate in codice rosso e messi in coma farmacologico.

Le vittime sono Asia Nasoni, 14enne di Senigallia; Daniele Pongetti, 16enne di Senigallia; Benedetta Vitali, 15enne di Fano; Matttia Orlandi, 15enne di Frontone; Emma Fabini, 14enne di Senigallia; Eleonora Girolimini, 39enne di Senigallia, accompagna uno dei suoi quattro figli, una bimba di 11 anni  che si è salvata. I feriti – si parla di una sessantina di persone – sono stati trasportati negli ospedali di Torrette ad Ancona (i più gravi), Senigallia e Jesi. I più gravi furono due ragazze e cinque ragazzi tra i 14 e i 20 anni, tutti ricoverati per trauma cranico o toracico e messi in coma farmacologico. I medici li hanno dichiarati "da considerarsi in pericolo di vita ma in condizioni stabili".

A seguito del fuggi fuggi per l’utilizzo del gas, la calca si sarebbe riversata verso l’uscita. Ma a causa della chiusura di un'uscita di emergenza, è stata usata un'altra uscita di sicurezza, quella che dà su un ponticello che, dopo aver attraversato un piccolo fossato, collega il locale al piazzale del parcheggio. Secondo la ricostruzione degli investigatori, il dramma è avvenuto in quel punto: quando i ragazzi sono usciti di corsa dal locale, decine di loro si sono accalcati per passare sul ponticello fino a quando una balaustra ha ceduto. I primi ragazzi sono così caduti nel fossato, un metro sotto il ponticello, e sono stati schiacciati dal peso di quelli che li seguivano.

Gli inquirenti hanno considerato sin dall'inizio diversi elementi: sia in merito alla dinamica del dramma, che ricorda piuttosto da vicino quella di piazza San Carlo a Torino (anche in quel caso il panico venne scatenato da spray urticante), sia in relazione all'ipotesi che nel locale fossero presenti più persone del consentito. Quasi il triplo. In tal senso, il procuratore capo della Repubblica di Ancona Moncia Garulli, dopo un sopralluogo alla discoteca, aveva detto che "i biglietti venduti sono circa 1.400 a fronte di una capienza di 870 persone". Sono passate al vaglio degli investigatori anche le testimonianze sul mancato funzionamento di un'uscita di emergenza. Sono due i filoni di indagine che si sono sviluppati dopo la strage di Corinaldo.

Il primo riguarda le responsabilità dei proprietari e dei gestori della Lanterna Azzurra, oltre che del sindaco, degli amministratori e dei tecnici che hanno rilasciato il permessi al locale.  Al momento, risultano indagate 17 persone. Il secondo filone, invece, riguarda la banda dello spray del modenese accusata di aver diffuso la sostanza urticante all’interno del locale, per il quale ci sono cinque persone indagate. Per due di loro, entrambi minorenni, è stata chiesta l'archiviazione delle accuse perché non farebbero parte della gang ritenuta responsabile della tragedia. Quest'ultima, composta da giovani di età compresa tra i 19 e i 22 anni, aveva messo a segno anche altri colpi del genere, usando sempre lo stesso modus operandi, per altro in località diverse con l'obiettivo di rubare monili e collane.

Il 30 luglio 2020 i sei componenti della cosiddetta "banda dello spray" vengono condannati a pene dai 10 ai 12 anni di reclusione, dopo che sono stati loro riconosciuti tutti i capi di imputazione tranne quello di associazione per delinquere.

Il 13 dicembre 2022, dopo l'appello degli imputati, la Cassazione ha confermato le condanne in via definitiva:

12 anni 6 mesi e 20 giorni per Ugo Di Puorto

12 anni 4 mesi e 20 giorni per Raffaele Mormone

11 anni e 10 mesi per Andrea Cavallari

11 anni e 6 mesi per Moez Akari

11 anni e 3 mesi per Haddada Souhaib

10 anni e 9 mesi per Badr Amouiyah

Un altro presunto componente della banda fu condannato nel maggio 2023, in primo grado, con rito abbreviato, a 10 anni e 5 mesi.

Andrea Cavallari, il 3 luglio 2025, dopo aver ricevuto un permesso di uscita per la sua laurea, senza essere scortato da nessuna guardia, ne ha approfittato per evadere, non facendo più rientro in carcere e rendendosi irreperibile.  Andrea Cavallari è stato poi catturato il 17 luglio 2025 a Barcellona.


domenica 7 dicembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 7 dicembre.

Il 7 dicembre 1895 ebbe luogo la terribile disfatta dell'Amba Alagi.

Il 7 dicembre 1895 si consumò una delle più note (e drammatiche) battaglie della Guerra d'Abissinia (1895-1896). La guerra fu il primo (fallito) tentativo dell'Impero Italiano di conquistare l'Impero Etiope (l'Italia aveva da poco preso il controllo dell'Eritrea). La montagna Amba Alagi si trova nel nord dell'Etiopia (nella regione del Tigrè) al confine con l'Eritrea, sulla via principale di comunicazione tra i due paesi.

La storia militare che porterà poi alla decisiva battaglia del 7 dicembre, ebbe inizio il 13 ottobre 1895 quando le truppe italiane (in realtà composte da ascari, ovvero mercenari eritrei e arabi), guidate dal maggiore Pietro Toselli, occuparono la montagna di Amba Alagi. Il battaglione alla fine era composto da 2350 uomini che dopo quasi due mesi di tattiche di guerra si scontrò con 30.000 uomini dell'esercito etiope guidato da Maconnen Uoldemicael , meglio noto come Ras Macconen (padre del futuro imperatore d'Etiopia Haile Salassie). La battaglia iniziò alle 6.30 del mattino del 7 dicembre e nel primo pomeriggio l'esercito italiano era completamente annientato. Sul campo 2039 morti (di cui 19 ufficiali italiani, 20 graduati italiani e 2000 ascari). Le truppe etiopi ebbero 276 morti (3000 secondo fonti italiane).

Molti sono gli scritti che affrontano la questione delle sconfitte militari italiane in Abissinia, le successive  vittorie e in generale la storia coloniale italiana. Per quanto riguarda le battaglie si è spesso affrontato la questione del sacrificio "degli italiani" (che poi come abbiamo visto in queste, come in altre occasioni, italiani non erano) in terra d'Africa. E' del tutto evidente che l'Italia, come altri paesi europei, ha colonizzato (o tentato di farlo) terre lontane ed abitate. Spesso i colonizzatori hanno trovato resistenza. Gli Etiopi, gli Zulu, gli Ashanti piuttosto che gli Herero tentarono in tutti i modi, spesso pagandolo a caro prezzo, di proteggere le loro terre.

Noi italiani ricordiamo i martiri e il sacrificio dei militari, forse le nostre giovani generazioni osservano incuriositi i cartelli di toponomastica che in molte nostre strade ricordano queste antiche battaglie, gli africani pagano ancora le conseguenze di quelle conquiste.

Amba Alagi fu protagonista di un'altra sconfitta italiana, quella patita nel corso della Seconda Guerra Mondiale dalle truppe italiane contro l'esercito inglese nell'aprile-maggio 1941, ma questa è un'altra storia.

sabato 6 dicembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 6 dicembre.

Il 6 dicembre 1969 Meredith Hunter, giovane afroamericano di 18 anni, viene accoltellato e ucciso nel corso di quello che sarebbe dovuto essere "il Woodstock del West," ma che si trasformò in una delle pagine nere della storia del rock. Succedeva al concerto gratuito dei Rolling Stones presso l'Altamont Speedway, nella California del Nord. Il concerto di Altamont divenne così la fine simbolica degli anni Sessanta della pace e amore, ma anche una sorta di campanello d'allarme che servì a ricordare al mondo intero che ottimismo e idealismo non sarebbero più bastati per tirare avanti. Quello spirito passionale, idealista e spensierato dei giovani dell'epoca aveva chiaramente dei limiti. La nuova generazione che si diceva pronta a prendere il controllo del paese in realtà non poteva riuscire a cancellare la storia del razzismo in America.

Con l'intento di emulare il successo di Woodstock di quattro mesi prima, il concerto di Altamont fu messo in piedi piuttosto frettolosamente e nella fase organizzativa la "sicurezza" fu affidata alla gang di motociclisti degli Hells Angels. Questi, buttafuori improvvisati, nel corso della giornata aveva avuto diversi scontri violenti con i partecipanti, la maggior parte bianchi. Ma sarebbe un errore trascurare la possibilità che uno degli Hells Angels abbia puntato proprio Hunter perché nero e in compagnia di una ragazza bianca. Se consideriamo poi il trascorso degli Hell's Angels, il loro passato di violenze e il fatto che si presentassero come un'organizzazione paramilitare con lo scopo di tenere le strade pulite—leggi: eliminare i neri—non è difficile ricondurre il tragico episodio di Hunter a una questione razziale.

Nel libro Just a Shot Away, Saul Austerlitz racconta la storia nel dettaglio. Sebbene molti conoscano Meredith per il film Gimmie Shelter del 1970, l'autore approfondisce la storia di Hunter prima di quel fatidico 6 dicembre, e si addentra nelle vicende che hanno coinvolto la sua famiglia negli anni successivi all'omicidio. Austerlitz parla dell'idea folle di assoldare una gang di reazionari e affidare loro la sicurezza di un evento, per capire cosa significa il verdetto finale di assoluzione e del perché questo episodio ha profonda rilevanza culturale oggi.

Negli anni, moltissime persone che erano state coinvolte hanno scritto libri e opinioni a riguardo. Spesso, il sentimento sotteso a queste pubblicazioni era "Non è stata colpa mia," oppure "Ecco con chi dovreste prendervela." 

Come riportato precedentemente, l'organizzazione del concerto era stata piuttosto precipitosa per cavalcare il successo di Woodstock, e di certo non si aspettavano oltre 300mila visitatori. Ma come hanno potuto commettere un errore così clamoroso?

Il successo può essere pericoloso. Tra i concerti gratuiti organizzati a San Francisco da gruppi come Grateful Dead e Jefferson Airplane, Woodstock e i tantissimi ritrovi di massa che hanno caratterizzato i tardi anni Sessanta, come Human Be-In, si era diffusa la sensazione che questi eventi funzionassero sempre per il meglio: semplicemente tutti si divertivano, ascoltavano la musica e si drogavano in compagnia. Nessuno si faceva domande tipo: cosa mangeranno le persone? Avranno bisogno di bagni? Dove dormiranno? Chi si occuperà della loro sicurezza? Nella mentalità di allora, erano solo tante persone che passavano del tempo insieme.

Una filosofia lodevole che però non portò a nulla di buono.

La responsabilità fu tanto dei Grateful Dead quanto dei Rolling Stones che li ingaggiarono. Furono infatti loro a garantire che gli Hells Angels avevano fatto un buon lavoro occupandosi della sicurezza a un loro concerto al Golden Gate Park.

Fu chiaramente un errore. Come fu un errore pagarli in alcol, aggravando la situazione. I Grateful Dead avevano già lavorato con gli Angels, ma questa era una situazione del tutto nuova. Erano in un posto che non conoscevano, avevano a che fare con un pubblico forse 100 volte più grande ed erano stati scelti come unici addetti alla sicurezza per uno show di questa portata. Tutti questi errori hanno portato al disastro che sappiamo.

Gli Hells Angels sono considerati oggi come un'organizzazione criminale. Com'era la situazione nel 1969, subito dopo che Hunter S. Thompson li presentò al mondo nel suo libro, appunto, Hell's Angel?

La pubblicazione del libro di Thompson è stata una grande svolta: era la prima volta che tanti americani si imbattevano negli Angels—e per molti quello era il primo contatto con la cultura del motociclismo in generale. Avevano già avuto un ruolo in qualche film anni Cinquanta, come The Wild Ones, ma Thompson riuscì a caratterizzare i personaggi della gang in modo reale, raccontando quali erano i loro interessi, i loro comportamenti all'interno della gang e nei confronti del mondo esterno.

Già al tempo, gli Angels erano praticamente un'organizzazione criminale. Erano stati loro a interrompere le manifestazione di pace contro la guerra in Vietnam a Berkeley, intervenendo e picchiando i manifestanti. Erano già stati accusati di crimini razzisti e violenza razziale. Dopo Altamont, però—quando ci fu la rottura del movimento della controcultura—si spostarono in modo irrevocabile verso la criminalità più pura. Ora avevano dimostrato a tutto il mondo criminale che erano fedeli a stessi e a un'organizzazione.

Fu così che iniziarono a essere direttamente coinvolti nel traffico di cocaina e divennero i messaggeri della droga negli anni a venire. Altamont è stato un momento di transizione per il movimento. Ruppero con tantissime persone con cui avevano contatti e che li consideravano dalla loro parte, quelle stesse persone che all'inizio pensarono Bene, a noi non piace la polizia, e a voi neanche, quindi possiamo essere amici, dopo Altamont cambiarono idea sul loro conto.

Alan Passaro, membro della gang, fu accusato di aver accoltellato Hunter, ma fu poi scagionato per legittima difesa. Questa storia non è certo nuova agli americani di oggi.

Probabilmente, era colpevole. Le riprese che sembravano inizialmente condannare Passaro alla fine lo scagionarono, perché la giuria considerò esclusivamente quanto si vede in video. Ma nelle immagini è difficile capire cosa succeda veramente. Si sentono delle voci di sottofondo, e diversi testimoni hanno parlato di quanto successo quel giorno, cose davvero terribili. Nel video, effettivamente, si vede Hunter con una pistola in mano, ma quello che i testimoni raccontano sia successo dopo che Hunter fu disarmato, e non ripreso in video, è assolutamente spaventoso.

Invece di agire come avrebbe fatto un normale addetto alla sicurezza, ammanettando Hunter e allontanandolo, gli agenti avrebbero semplicemente portato Hunter in un posto più nascosto e continuato a picchiarlo fino a ucciderlo.

L'avvocato di Passaro, George Walker—lui stesso afroamericano—sostenne che Passaro fosse intervenuto per difendere i presenti, cioè non perché si sentiva in pericolo di vita ma perché temeva che Meredith Hunter potesse fare del male agli altri. La difesa di Passaro riuscì ad aggirare i principali problemi in molti modi. Per questo, l'Hells Angel fu scagionato.

I fatti a cui abbiamo assistito e continuiamo ad assistere negli ultimi anni ci ricordano quanto quei sentimenti che predominavano la cultura nel 1969 non siano affatto svaniti. Abbiamo fatto molti progressi, anche in ambito di discriminazione razziale, ma se consideriamo il Presidente degli Stati Uniti, il linguaggio che usa, il fatto che i suoi sostenitori siano disposti a passare sopra alle sue dichiarazioni razziste, credo che tutto questo dovrebbe farci riflettere sul fatto che la discriminazione razziale sia ancora profondamente radicata.

Tuttavia, il tempo è servito per comprendere al meglio la storia di Hunter. All'epoca, si era discusso principalmente del fatto che l'incidente fosse accaduto a un concerto rock, si era parlato della controcultura e degli Hells Angels. In realtà, questa storia è molto più connessa alla nostra cultura contemporanea che a quella del 1969. L'episodio è un esempio di quello che accade quando un cittadino afroamericano si trova in un posto dove, secondo le autorità, non dovrebbe stare. In questo senso, trovo che sia una storia quanto mai attuale e, purtroppo, già sentita troppe volte.

venerdì 5 dicembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 5 dicembre.

Il 5 dicembre 1925 viene proiettata per la prima volta "La corazzata Potemkin".

Nel gennaio del 1905, nella Russia zarista si tenne la prima grande prova generale della guerra civile che nell’ottobre del ’17 avrebbe sollevato lo zar e il suo regime autocratico.

Tra gli episodi di rilievo di una crisi che si spense solo nel dicembre, si ricorda l’ammutinamento di una squadra navale sul Mar Nero che divenne il soggetto del film di propaganda per eccellenza, proibito in tutte le democrazie liberali e che aveva invece entusiasmato Goebbels, “La corazzata Potemkin”, appunto.

Siamo nel 1925, nel ventennale della proto-rivoluzione e il cinema sovietico è chiamato a eternarla, focalizzandone alcuni episodi memorabili.

Grande curiosità è riposta sul ventisettenne Sergej Michailovic Ejzenstejn che aveva esordito al cinematografo appena l’anno prima con “Sciopero” (Stacka, 1924), un film che aveva fortemente diviso non solo la critica cinematografica ma soprattutto l’ortodossia bolscevica che ne metteva in evidenza i peccati di magniloquenza, simbolismo, estetizzazione e, peccato mortale, “confusione ideologica”.

D’altra parte, soprattutto all’estero, se ne magnificava la potenza visiva, il montaggio dialettico e la messa in quadro basata sui conflitti.

Strutturata in cinque atti, come la classica tragedia greca, ci troviamo a bordo della corazzata dove si svolge il primo: “Uomini e vermi”.

Vakulincuk (Alexandr Antonov) e Matuchenko (Mikhaïl Gomarov) esprimono ad alta voce il desiderio di ammutinarsi e unirsi alla protesta al fianco degli operai di Mosca e San Pietroburgo.

La nave diventa lo spazio scenico della prima sineddoche: la nave è la Russia zarista, divisa in classi (ufficiali vs marinai), regno che nega le evidenze quali il riconoscere che sì, le carni a bordo sono marce e coi vermi attaccati che banchettano.

Alle rimostranze della ciurma, il corpo-ufficiali risponde con la violenza paternalistico-autocratica: chi non mangia muore.

Il secondo atto, “Dramma sul cassero”, è il faccia a faccia tra il corpo-ufficiali sostenuto dai fedelissimi e la massa disorganizzata e tendenzialmente pavida della ciurma, condannata alla fucilazione esemplare dei suoi membri più riottosi.

Entrano in gioco, in questo segmento, i conflitti tra le geometrie marziali e armoniche del potere e il disordine delle masse da sedare sulle quali è gettato un telone che li riorganizza in uno spazio geometrico che ne faciliti l’eccidio.

Basta però l’emergere di una larvale leadership per aprire le chiuse di una cascata sublime e informe, aizzata dal valoroso Vakulincuk.

Il terzo atto, “Il morto chiama”, è una curiosa inversione della dottrina leninista: Vakulincuk è morto e il suo sacrificio, raddoppiato dall’epigrafe che recita “Ucciso per un piatto di minestra”, offre la spinta di natura emotiva (non razionale né scientifica) per diffondere un sentimento di rivalsa prima sulla nave e poi nella città di Odessa presso cui sbarcano.

Come la nave infestata del “Nosferatu” di Murnau, anche nel Potemkin entra in gioco l’inversione di una epidemia, benigna, in cui il tema della tenebra è, ancora in inversione, il “sol dell’avvenire”.

Il quarto atto, “La scalinata di Odessa”, è il punto più acuto del dramma.

La fanteria da un lato e i cosacchi a cavallo dall’altro macellano i cittadini di Odessa, colpevoli solo di aver fraternizzato con i marinai ammutinati. Dalla corrazzata per tutta e indignata risposta, tuonano i cannoni puntati su alcuni edifici simbolo dell’autocrazia.

Il quinto atto, “Uno contro tutti”, dovrebbe a questo punto ristabilire l’ordine sconvolto. L’episodio si svolge in mare con la corazzata che si trova di fronte un cacciatorpediniere che scorta la temibile nave ammiraglia. Le operazioni di avvicinamento suggeriscono il climax più sanguinario, i colpi di cannone che attendiamo secondo dopo secondo…

In estrema sintesi questo è il soggetto del film e chi non lo avesse mai visto potrebbe anche chiedersi perché a tutt’oggi è considerato come uno dei film più belli, più potenti e più evocativi di tutta la storia del cinema. Domanda cui cercheremo di dare qualche risposta.

Il film reca in esergo una lunga frase di Lenin inneggiante la rivoluzione in quanto atto di violenza non solo legittimo ma necessario. Non sempre presente nelle varie versioni delle pellicole in circolazione, è stata reintegrata nell’ultimo e definitivo restauro qui preso in analisi, portato a termine dal Kulturstiftung des Bundes con il supporto del Bundesarchiv-Filmarchiv di Berlino, il British Film Institute di Londra, il Filmmuseum di Monaco e il Gosfilmfond di Mosca, enti coordinati da Enno Patalas, già artefice dello splendido restauro del “Metropolis” di Fritz Lang.

La frase, a qualcuno forse ne ricorderà un’altra del medesimo tenore, firmata da Mao Tze Tung che introduceva il “Giù la testa” di Sergio Leone.

Il restauro del Potemkin ha anche restituito dignità al compositore della partitura, Edmund Meisel, che in molte versioni aveva dovuto cedere podio e bacchetta al più celebre Dimitrij Shostakovich, la cui partitura è posteriore. Entrambe, in realtà, non danno applicazione alla teoria eisenstaniana del montaggio audiovisivo che solo a partire da “Alexander Nevskji” (suo primo film sonoro, musiche di Prokof’ev) troverà i punti di applicazione.

Nel Potemkin la musica è accessoria, segue il racconto come un banale “accompagnamento” e tende semmai a mimetizzarsi.

Cosa, al contrario, che balza subito all’occhio è la messa in quadro dei singoli piani.

Si usa spesso la dicitura russa “mizankadr”, la disposizione degli elementi, che in Ejzenstejn raggiunge una quasi-scientificità: i piani sono disposti seguendo una certa dominante, volumetrica/tonale, disadorna/barocca, animata/inorganica, evidenza/sfondo, centrata/eccentrica. Questo lavoro certosino è stato reso possibile dalla sintonia del regista col suo fedelissimo direttore della fotografia, quell’Eduard Tissé che ha lavorato in tutti i suoi film e che forma insieme all’aiuto regista Grigorji Alexandrov una vera e propria triade.

A suffragio dell’importanza della mizankadr, dobbiamo ricordare che Ejzenstejn sposta molto raramente la cinepresa e fa un uso eterodosso del “primo piano” che contestava coevo a una rappresentazione di tipo capitalistica, apoteosi della star e dell’individualismo soggiacente. Per Ejzenstejn il “primo piano” non è l’immagine-affetto (come l’ha definita Gilles Deleuze), l’empatia produttiva all’immedesimazione nell’eroe e delle sue nobili gesta o nel desiderio dell’eroina e nel meccanismo sensuale del suo possesso.

Ejzenstejn, nella prima parte della sua carriera, rappresenta le masse che si muovono come un corpo solo e organico. Solo l’ostracismo di cui fu vittima lo costrinse nella seconda parte della sua carriera a rifugiarsi nel passato e a utilizzare il grande Cerkasov come l’eroe, la star, il deus ex machina (Nevskji, Ivan il Terribile) di cui avrebbe fatto volentieri a meno.

Dunque, Ejzenstejn nega la star cui comunque dona il ruolo di scintilla per la presa di coscienza; d’altro canto, il povero Vakulincuk muore fin dal primo atto.

Le masse diventano il punto focale, sempre meglio compattate e organizzate, messe in valore dai tagli laterali e in contro-plongée dell’inquadratura per significare la forza prorompente e la potenza rivoluzionaria anche nei momenti di difficoltà più evidenti, quali quelli sulla famosa scalinata di Odessa.

È legittimo a questo punto interrogarsi sulla modernità di Ejzenstejn, nonostante l’immobilità della cinepresa.

I suoi film (soprattutto quelli muti) hanno un numero incredibile di inquadrature; “Ottobre” ne conta 3.800 e per farsi un’idea diciamo che un normale film narrativo, anche dei giorni nostri e a parità di durata, conta un numero che varia tra le 700 e le 1500 al massimo.

Le inquadrature del Potemkin sono spesso brevissime, alcune misurabili in fotogrammi (o frame video).

Emblematica, a tal riguardo, è la celebre “alzata” dei leoni di pietra, una delle sequenze più celebri della storia del cinema.

In risposta all’eccidio zarista, dal Potemkin partono sulla terraferma dei colpi di cannone; lo shock e la distruzione “aprono le orecchie” alla popolazione di Odessa che, simbolizzata dai leoni immobili, si mette in piedi e si solleva, attraverso tre inquadrature: il leone a riposo (durata: 26 frame), il leone pronto a scattare (28 frame) e il leone finalmente in piedi (26 frame). Parliamo insomma di un secondo (25 frame) cui l’idea del balzo sta tutto in quei due frame in più dell’inquadratura centrale e dalla messa in quadro frontale/contro-plongée.

 Un altro fondamentale elemento dinamizzante è il conflitto che lega le inquadrature, il montaggio. Tanto più un’inquadratura risulta dinamizzata quanto più la si lega in modo speculare: a uno sbilanciamento a destra, per esempio, se ne lega uno a sinistra, la centratura è la sintesi cognitiva dello spettatore impegnato in un processo attivo di senso. E così via.

Il momento in cui maggiormente si attua questa tecnica è l’intero quinto atto.

Quello che nella tragedia greca è il momento della catarsi, ne “La corazzata Potemkin” è il punto di massima tensione.

L’episodio si svolge in mare aperto e la nostra nave è fronteggiata da un cacciatorpediniere che fa scorta alla nave ammiraglia. I volumi delle tre imbarcazioni danno già la disparità dello scontro che per il Potemkin è il presagio di una, sia pur gloriosa, disfatta.

 Attraverso il montaggio alternato che diventa sempre più serrato, assistiamo alle manovre delle bocche dei cannoni che si preparano al primo colpo, raccordati sull’asse per dare l’idea dell’avvicinamento; si alzano, si spostano, mirano in movimenti speculari e mentre uno si alza l’altro si abbassa, quando si sposta a destra l’altro lo fa a sinistra… e il movimento è raddoppiato, triplicato, decuplicato da tutta la materia inorganica contigua: aghi delle bussole impazziti, timoni, mirini, nuvole di vapore, onde del mare, bandiere che sventolano, prue, caricatori, sforzi degli equipaggi che manovrano tutto il manovrabile ma sempre in costruzione speculare, serrata e raccordata fino al parossismo di un apice che dovrebbe essere un ordine secco (“Fuoco!”) che diventa invece un’interrogazione (“Fuoco?”) e darà una boccata d’ossigeno all’ansia che ha magistralmente costruito con un campo totale delle tre navi e una pioggia di cappelli lanciati in aria per la felicità.

Questa sequenza rima con un medesimo incontro in mare, tra la corazzata e le velocissime barche a vela che testimoniano l’incontro festoso e fraterno degli ammutinati con la popolazione di Odessa che si reca in pellegrinaggio verso il Potemkin per rifocillarli di cibo e animali da insaccare.

Lì il movimento è arioso e dinamizzato dalle vele bianche che si gonfiano e si muovono con un moto a spirale fino alla meta.

È un dinamismo stile “allegra scampagnata” e di tipo affettivo in quel conflitto di volumi tra le barchette minuscole e la marziale corazzata in cui percepiamo la scompostezza festosa di tanti cuccioli che abbracciano in mille modi una madre benevola e un po’ impacciata di fronte all’indisciplina dei suoi amati.

Ultimo punto strutturale del racconto del Potemkin è la figura retorica della metonimia. Vediamone un paio di esempi.

L’ufficiale medico che col pince-nez esamina la carne e sentenzia, in malafede, che marcia non è, lo sapremo morto quando rivedremo i suoi saccenti occhialini penzolare insieme ai vermi da un quarto di bue infetto. Ejzenstejn omette di rappresentarne la morte e la evoca attraverso il triste penzolare di una qualità (in realtà un difetto, alla vista) del soggetto in questione.

Allo stesso modo, nell’episodio della scalinata di Odessa, Ejzenstejn mette in moto un meccanismo complesso intorno alla celebre carrozzina.

Una madre (curiosità: è un’attrice italiana, Beatrice Vitoldi), evocativamente vestita di nero, con le labbra nere (rosse dunque) e il volto bianco latte (una figura estremamente sensualizzata, insomma) è colpita a morte e perde il controllo della carrozzina col bimbo dentro.

La sua discesa all’impazzata mette in valore (cioè in estrema tensione) la fuga dei cittadini di Odessa immortalati in una dignità di movimento che ne farebbe percepire una certa lentezza del gesto non fosse per la carrozzina che, letteralmente, vediamo sfrecciare.

Arrivata al fondo, si ribalta e la morte dell’infante è resa di gran lunga più cruenta attraverso il volto di una donna che guarda l’evento atterrita, cui segue il “piano americano” di un cosacco pronto a sferrare un colpo mortale al bambino col calcio del fucile che dà quasi l’impressione di un colpo di baseball, cui segue l’inquadratura-sintesi della faccia insanguinata della donna che pare aver lei ricevuto il colpo: una sorta di transfert, la visione dell’infanticidio che si riflette materialmente sul soggetto della visione, la materializzazione di uno scandalo insostenibile.

giovedì 4 dicembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 4 dicembre.

Il 4 dicembre 1642 il cardinale Mazzarino diventa il Segretario di Stato dell'Impero di Francia.

Giulio Mazzarino nacque a Pescina (L’Aquila) nel 1602.

Dopo gli studi presso il collegio romano dei Gesuiti, frequentò le università di Alcalá e di Madrid. Tornato in Italia, passò al servizio dei Colonna col grado di capitano (1623-1626).

Addottoratosi in utroque iure passò, durante la seconda guerra del Monferrato (1627-1631), al servizio del cardinale Antonio Barberini, legato del papa Urbano VIII, facendosi notare per la sua abilità di fine diplomatico nelle trattative tra Asburgo, Francia e duca di Savoia, concludendo la tregua di Casale e la pace di Cherasco (1631) che mise fine alle ostilità tra Francia e Savoia.

Durante queste trattative Mazzarino ebbe l’occasione di incontrare più volte il cardinale Richelieu, di cui divenne uno stretto collaboratore. Fu legato papale in Avignone (1633) e poi nunzio straordinario a Parigi. Ottenuta la cittadinanza francese (1639), passò ufficialmente al servizio di Richelieu, che lo fece nominare cardinale (1641) e lo raccomandò al re Luigi XIII come proprio successore.

Dalla morte di Richelieu, Mazzarino fu primo ministro e ascoltato consigliere di Luigi XIII, che tuttavia morì pochi mesi dopo. La reggente Anna D’Austria, non appena il Parlamento di Parigi annullò la disposizione testamentaria del marito che la poneva sotto tutela di un consiglio di reggenza, nominò suo ministro proprio il Mazzarino, al quale si disse fosse segretamente sposata, diceria già smentita da S. Vincenzo de Paoli.

Nonostante Richelieu avesse lasciato precise indicazioni di comportamento politico e gli strumenti per realizzarli, le difficoltà del Mazzarino furono notevoli. La Francia si trovò impegnata, fino al 1648, nell’ultima fase della guerra dei trent’anni e fino al 1659 nel conflitto con la sola Spagna (durante il quale Mazzarino dovette far fronte anche al tradimento del Principe di Condé passato agli spagnoli). Col trattato di Vestfalia Mazzarino ottenne il riconoscimento della annessione dei vescovati di Metz, Toul e Verdun, il possesso di gran parte dell’Alsazia e la definitiva frammentazione di una Germania devastata aperta all’influenza politica e culturale francese. Con la pace dei Pirenei ottenne invece il ridimensionamento della potenza della Spagna, privata della Cerdagne, del Rossiglione, dell’Artois e di altre piazzeforti. Grazie al matrimonio fortemente voluto da Mazzarino tra Luigi XIV e l’infante Maria Teresa, la Spagna veniva poi costretta a muoversi nell’orbita politica francese.

Sul piano interno dovette affrontare la grave crisi della Fronda (dapprima – 1648 – la cosiddetta Fronda Parlamentare, successivamente – 1650-1652 – la Fronda Principesca) che lo costrinse due volte all’esilio ma che lo vide comunque trionfare sugli oppositori grazie a un abile e accurato dosaggio dell’uso della forza e di quello delle trattative, giungendo appunto fino all’apparente cedimento e alla fuga.

Dal 1653 al 1661 l’unico serio elemento di disturbo nella politica interna fu il giansenismo. Finché la polemica tra gesuiti e giansenisti si mantenne sul piano strettamente religioso, Mazzarino si astenne dall’intervenire in modo deciso, ma dopo la pubblicazione delle anonime “Lettere Provinciali”, non appena le critiche dei giansenisti si appuntarono sull’assetto politico e sociale vigente, la reazione del cardinale divenne dura: fece condannare dalla Sorbona le Cinque Tesi, fece chiudere manu militari il convento di Port-Royal e compilare un formulario di condanna del giansenismo la cui sottoscrizione fu imposta a tutti gli ecclesiastici del regno.

Alla sua morte, avvenuta a Vincennes (Parigi) nel 1661, Mazzarino, tanto odiato e disprezzato dalla maggior parte dei francesi, lasciava al suo paese di adozione, oltre alla sua splendida biblioteca personale (divenuta poi sede della Biblioteca nazionale), la pace all’interno e all’esterno e un sovrano da lui personalmente e accuratamente formato all’arte del governo e circondato da abili collaboratori. Lasciava peraltro anche una situazione finanziaria non certo brillante, determinata, oltre che dalle spese belliche, anche dalla eccessiva disinvoltura sua e dei suoi collaboratori nella gestione del pubblico denaro.

Le sue spoglie riposano nella cappella del Collège des Quatre-Nations, a Parigi.


mercoledì 3 dicembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 3 dicembre.

Il 3 dicembre 1957 a Città del Capo, Christiaan Barnard effettua il primo trapianto di cuore al mondo.

“Era egocentrico, gran lavoratore, intelligente, ambizioso, insolente e arrogante; agiva con la convinzione che qualsiasi cosa gli altri sapessero fare, era in grado di farla anche lui. Quando scoprì che un chirurgo russo aveva trapiantato a un cane una seconda testa, andò subito nello stabulario e ripeté l’esperimento, mostrandoci con fierezza il grottesco risultato. Eppure l’intervento non serviva a nulla, se non a esibire il suo virtuosismo tecnico”. L’uomo in questione è Christiaan Barnard, il chirurgo sudafricano autore del primo trapianto cardiaco. A tracciarne questo ritratto, non proprio lusinghiero – soprattutto se si considera che fu scritto in occasione della sua morte (il 2 settembre del 2001) – fu un vecchio collega, l’endocrinologo Raymond Hoffenberg. Ma perché questa malcelata acrimonia?

In effetti Barnard, uno dei pochissimi chirurghi a essere passato alla Storia, era poco apprezzato dai compagni di lavoro. Non tanto per le capacità tecniche (indiscusse) ma piuttosto per quell’insieme di comportamenti che gli antichi Greci avrebbero definito hybris: la tracotanza di chi ritiene di poter superare qualsiasi limite, di chi persegue i propri obiettivi violando leggi, usanze e tradizioni condivise. Tanto per dirne una, quando il 3 dicembre 1967 espiantò il cuore da una giovane donna per trapiantarlo in un uomo di mezza età, Barnard era, almeno secondo le leggi di allora, un omicida. Non solo. Ai tempi della sua storica impresa non era il cardiochirurgo più quotato al mondo, né l’ospedale Groote-Schuur di Città del Capo, dove operò, era considerato la punta di diamante per i trapianti d’organo.

Nell’ambiente erano tutti convinti che il primo a cimentarsi nell’intervento sarebbe stato Norman Shumway, che alla Stanford University di Palo Alto, in California, aveva passato anni a esercitarsi sui cani per poter essere in grado di effettuare il trapianto cardiaco perfetto. Era lui il chirurgo più pronto, ma era frenato da limiti etici e legali. Per la buona riuscita di un trapianto di cuore, infatti, l’organo da utilizzare doveva essere prelevato ancora battente, ovvero da una persona tecnicamente viva.

A quei tempi, infatti, per decretare la morte di una persona si faceva riferimento al cuore: si era ufficialmente deceduti quando questo cessava di battere. Va detto però che alcune innovazioni mediche stavano minando questa convenzione. L’introduzione della respirazione artificiale (prima con il polmone d’acciaio e poi con la ventilazione artificiale), il perfezionamento del massaggio cardiaco (la compressione ritmica del torace per permettere a un cuore in arresto di riprendere a battere) e l’invenzione della defibrillazione cardiaca (una scossa di corrente alternata che interrompe le gravi aritmie) avevano portato alla nascita di una nuova disciplina che “resuscitava” persone dal destino segnato, che non a caso fu chiamata “rianimazione”.

I medici si trovarono così alle prese con una serie di casi mai visti prima. Alcuni individui colpiti da gravi lesioni cerebrali, una volta sottoposti a ventilazione meccanica, invece di morire o riprendersi restavano in uno stato di completa incoscienza: non avevano segni di attività nervosa, non rispondevano a stimoli esterni, non respiravano da soli.

Questo nuovo stato fu battezzato coma depassé, cioè “al di là del coma”, ma era evidente che si poneva un dilemma: che fare di queste persone, il cui cuore continuava a battere? La maggior parte dei medici riteneva che per loro non vi fosse possibilità di ripresa, essendo il cervello completamente danneggiato. Ma tutto era ancora incerto e la decisione di “staccare la spina” restava discrezione dei medici.

Insomma: l’idea di asportare un cuore ancora battente, anche se da una persona che la scienza medica indicava come morta, per impiantarlo in un altro corpo, significava andare oltre un limite. E non era una passeggiata. Ecco perché nessuno osava fare il primo passo, temendo polemiche soprattutto nel caso (tutt’altro che improbabile) di un fallimento. Serviva una persona disposta a correre quei rischi e Barnard cascava a fagiolo: non era dilaniato da scrupoli morali e scalpitava per mettere a frutto le competenze che riteneva di possedere.

L’intervento non era in realtà così difficile, specie se paragonato per esempio alle operazioni per riparare alcune deformità congenite del cuore. Così, a differenza dei colleghi, Barnard non tergiversò e individuò subito il candidato ideale per il trapianto: un droghiere di mezza età, Louis Washkansky, che oltre a un cuore completamente spompato aveva reni e fegato pressoché fuori uso. Praticamente un caso disperato. Proprio quello che ci voleva per un intervento ad alto rischio, mai sperimentato prima, ma che certamente avrebbe fatto clamore.

L’opportunità si presentò la notte fra il 2 e il 3 dicembre 1967, quando fu ricoverata una giovane donna in coma irreversibile dopo un incidente d’auto. Barnard prese l’iniziativa senza avvisare nessuno (per questo non esistono foto dell’intervento) e solo dopo 5 ore di sala operatoria telefonò al direttore dell’ospedale comunicandogli l’esito: intervento riuscito. Poco importa se Washkansky morì appena 18 giorni dopo di polmonite: il primo trapianto di cuore fu presentato dai media come un grande trionfo della medicina e Barnard, forte del suo innato carisma, non solo non venne mai accusato di omicidio, ma divenne in breve una star internazionale (a differenza di altri colleghi che prima di lui avevano trapiantato altri organi, quali rene e fegato, che colpivano molto meno l’immaginazione del pubblico).

Ancora una volta il chirurgo sudafricano non perse tempo. Appurato che l’operazione era tecnicamente riuscita, il 2 gennaio 1968 tentò un secondo intervento. A ricevere un cuore nuovo di zecca fu stavolta Philip Blaiberg, dentista 59enne che sopravvisse per più di un anno e mezzo: di fatto fu questo successo a dare il via libera ai trapianti di cuore. Ancora una volta con la complicità dei media, stregati dal fascino di quella sfida con la morte. A dispetto delle cronache del tempo (che parlarono di rinascita, indugiando persino sul recupero del vigore sessuale) la salute di Blaiberg era gravemente compromessa. Una fotografia ripresa da tutti i giornali, in cui il secondo trapiantato sguazza allegro tra le onde del mare, ha retroscena poco noti: testimoni riferiscono che Blaiberg fu trasportato in acqua di peso, giusto il tempo di scattare la foto, e poi subito strappato ai flutti.

Solo recentemente, decenni dopo l’intervento, si sono scatenate le polemiche su quella sfida più etica che medica: secondo Hoffenberg, Barnard partì troppo presto, “prima del segnale di via”, quando lo stato delle conoscenze era ancora limitato. Sull’onda dell’entusiasmo e presi dallo spirito di emulazione molti chirurghi si cimentarono in trapianti di cuore (un centinaio solo nel primo anno) per i quali non erano tecnicamente preparati e senza aver risolto il problema cruciale della possibile crisi di rigetto del nuovo organo (la ciclosporina fu introdotta solo nel 1971).

Ma un merito a Barnard bisogna riconoscerlo. Fu grazie a quell’atto di “tracotanza” che la comunità medica si decise in tutta fretta ad adottare criteri comuni per la definizione di “morte cerebrale”. Nel 1968, infatti, un comitato di esperti dell’Università di Harvard pubblicò su Jama (una delle più autorevoli riviste mediche) il rapporto Una definizione del coma irreversibile, poi diventato la base di tutte le legislazioni nazionali, in cui si stabiliva quando è lecito interrompere la rianimazione perché il paziente è clinicamente morto. Nel rapporto veniva definita la “sindrome della morte cerebrale”: il soggetto non dà segni di recettività, non presenta alcun movimento, non respira spontaneamente, non conserva riflessi e l’elettroencefalogramma è piatto. Criteri che si mantengono quasi invariati ancora oggi.

Barnard, dal canto suo, divenuto sui giornali “il profeta dei cuori” e “il mago dei trapianti”, smise invece di operare (anche per via di una brutta artrite reumatoide), dedicandosi alle conferenze e soprattutto alla bella vita e alle belle donne. Come la seconda moglie Barbara Zoellner, ricchissima e appena diciannovenne quando la sposò nel 1970; o come la terza, Karin Setzkorn, di una cinquantina d’anni più giovane di lui. Non si sa invece chi fosse al suo fianco quando, nel 2001, si spense a Cipro ai bordi di una piscina. Lo uccise un attacco d’asma. Ma tutti i giornali scrissero che aveva avuto un infarto al cuore.

martedì 2 dicembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


Buongiorno, oggi è il 2 dicembre.

Il 2 dicembre 1852 Napoleone III diventa imperatore dei francesi.

Carlo Luigi Napoleone nasce a Parigi il 20 aprile 1808, anno nefasto per lo zio Napoleone I in quanto segna l'inizio, con la campagna di Spagna, dello sgretolamento dell'impero.

Terzogenito di Luigi Bonaparte, re d'Olanda, e di Ortensia di Beauharnais, ancora bambino viene portato in Svizzera dalla madre in conseguenza della caduta dell'impero. Qui frequenta ambienti vicini alla Rivoluzione francese e ne assimila le idee.

Nel 1830 è a Roma dove aderisce alla carboneria antipontificia, ma un'efficace repressione lo costringe alla fuga; si sposta in Romagna, dove replica l'esperienza carbonara ed è nuovamente obbligato a partire; nel 1831 ripara in Francia, ma anche da qui è costretto ad allontanarsi perché Luigi Filippo, "il re borghese" ed antibonapartista non tollera i suoi espliciti programmi di ascesa al trono (aspirazione peraltro legittimata dalla morte di suo fratello maggiore); nel 1836 viene mandato in esilio negli Stati Uniti, ma l'anno successivo rientra in Europa e riprende i suoi piani di conquista del potere.

Nel 1840 viene arrestato e condannato al carcere a vita, ma nel 1846 riesce ad evadere. Si trova quindi in libertà quando scoppia la rivoluzione del febbraio 1848, ed egli può, dall'Inghilterra dove si era rifugiato, precipitarsi nuovamente in Francia. Grazie al nuovo regime repubblicano, può candidarsi ed essere eletto nell'Assemblea Costituente che, nel dicembre dello stesso anno, lo elegge Presidente della Repubblica Francese.

Fra le prime iniziative intraprese, nel nuovo ruolo, vi è quella della restaurazione pontificia a Roma, dove era stata proclamata la Repubblica, a guida del triumvirato Mazzini, Armellini e Saffi: l'intervento francese consente al papa Pio IX di rientrare a Roma, il 12 aprile 1850, ed a Napoleone III di assicurarsi per circa vent'anni una notevole influenza sulla politica romana.

Trascorsi appena tre anni dall'insediamento, ricalcando le orme dello zio, nel 1851 dichiara decaduta l'Assemblea e, sostenuto dal clero, dalla borghesia e dalle forze armate, si avvia alla proclamazione dell'impero assumendo il 2 dicembre 1852 il nome di Napoleone III. Del grande avo, che egli considera un mito, replica lo stile di governo: limitazioni alla libertà di stampa e stato di polizia. Quanto alla politica estera, ne coltiva le stesse mire imperialistiche. L'anno successivo sposa Eugenia Maria di Montijo.

Nel 1856, con Gran Bretagna e Piemonte, prende parte alla spedizione in Crimea - tesa a contrastare le mire espansionistiche della Russia verso la Turchia - che si conclude con la pace di Parigi, nel 1858. Nello stesso anno, coinvolto da Cavour, sottoscrive con lo stesso i patti di Plombieres, in virtù dei quali prende parte alla seconda guerra d'indipendenza contro l'Austria: nei reali intendimenti di Napoleone III vi è quello di riprendere potere in Italia, ma la piega che ad un certo punto rischia di assumere il conflitto, con la sua estensione ad altre potenze europee, lo induce a promuovere un armistizio con l'Austria che ponga fine alla guerra. L'accordo viene stipulato a Villafranca, l'11 luglio del 1859.

Nel 1861, in seguito ad una posizione ostile assunta dal Messico nei confronti di Francia, Spagna ed Inghilterra, si determina, dietro sua iniziativa, un'alleanza fra le tre potenze che invadono con successo lo Stato d'oltreoceano e vi insediano un sovrano amico (soprattutto della Francia): Massimiliano d'Asburgo, con il titolo di imperatore del Messico. Ma l'intervento degli Stati Uniti e l'esplicita richiesta alla Francia di ritiro delle truppe - richiesta prontamente accolta - determina la caduta di Massimiliano ed un epilogo drammatico dell'intera vicenda.

Intanto in Europa va crescendo l'influenza diplomatica e la potenza militare della Prussia: un dissidio sorto intorno al trono di Spagna è causa - o pretesto - per un nuovo conflitto. Napoleone III, con un'opposizione interna sempre più vasta ed agguerrita, ed un calo notevole del suo prestigio all'estero, dichiara guerra alla Prussia, sancendo in questo modo il proprio definitivo declino.

Sconfitto più volte, imprigionato dopo una disastrosa disfatta a Sedan, nella battaglia del 2 settembre 1870, viene incarcerato nel castello di Wilhelmshohe. Da qui, dopo la proclamazione della nuova Repubblica e la dichiarazione di decadenza della dinastia napoleonica, Napoleone III è lasciato partire per l'Inghilterra, a Chislehurst, dove muore il 9 gennaio 1873, all'età di 65 anni.

In origine fu sepolto a Chislehurst, presso la chiesa cattolica di Santa Maria; tuttavia, dopo che suo figlio, ufficiale dell'esercito del Regno Unito, morì nel 1879 combattendo contro gli Zulu in Sud Africa, Eugenia decise di costruire un monastero e una cappella per le spoglie del marito e del figlio: così, nel 1888, Napoleone e il figlio furono definitivamente traslati nella cripta imperiale nell'Abbazia di San Michele a Farnborough, nella contea dello Hampshire nel Regno Unito.

Tra una guerra e l'altra è riuscito a dare, probabilmente, il meglio di sé in una produzione letteraria di un certo interesse: la sua opera più importante è una "Vita di Giulio Cesare". Fra i tanti avversari politici ne annovera uno del calibro di Victor Hugo che gli dedica la definizione, rimasta celebre, di "Napoleon le petit". 

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