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domenica 17 agosto 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 17 agosto.

Il 17 agosto 1915 Leo Frank viene linciato dalla folla indignata perché gli era stata revocata la pena di morte per l'omicidio della tredicenne Mary Phagan.

A distanza di più di un secolo, il cold case di Mary Phagan sembra non essere stato ancora definitivamente risolto. Il 26 aprile 1913, la piccola Mary, una tredicenne bianca di Marietta, che lavorava nella National Pencil Factory di Atlanta – una fabbrica di cui l’ebreo del Nord, Leo M. Frank, era sovrintendente e in piccola parte anche proprietario – fu trovata stuprata e strangolata in un locale dell’edificio. L’omicidio risaliva al giorno precedente e, prima ancora che le accuse si indirizzassero verso Frank, le autorità di Atlanta avevano arrestato sei persone, tra cui Jim Conley e Newt Lee, i custodi neri della fabbrica. Le indagini, però, ben presto presero un’altra piega, anche perché vi fu una grande mobilitazione di massa: la folla indignata premeva perché il caso venisse risolto alla svelta e i giornali locali puntavano il dito contro i mali del lavoro minorile e contro la lussuria e la perversione, l’avidità e lo sfruttamento dei capitalisti ebrei del Nord. 

Se la violenza razzista negli Stati del Sud era all’ordine del giorno, l’urbanizzazione e l’industrializzazione del paese mostravano i nuovi volti della povertà e dello sfruttamento. La famiglia di Mary era una delle tante famiglie di agricoltori in affitto, trasferitisi in città nella speranza di un miglioramento delle proprie condizioni di vita, così come tanti altri contadini bianchi del Sud avevano fatto. La loro situazione non era migliore di quella di molti neri: la povertà e lo sfruttamento erano simili; ciò che cambiava era solo il colore della pelle. Ma al pregiudizio razzista contro i neri si era aggiunto da tempo anche un altro antico pregiudizio, quello contro gli ebrei del Nord, identificati tout court con il capitalismo rampante, con il mondo della finanza e degli affari, con lo sfruttamento che ormai colpiva anche il mondo “wasp”.

Mary Phagan, una ragazzina bianca povera, che montava le gommine sulle matite con le mani e veniva pagata 12 centesimi all’ora, divenne, dopo la sua morte, il simbolo dell’infanzia sfruttata, della donna bianca violata e, soprattutto, dell’avidità del capitalismo nordista, in particolare di quello gestito dagli ebrei. Molte cose stavano cambiando negli Stati Uniti: il contesto internazionale era diventato più aggressivo; la società stava viaggiando ormai al ritmo implacabile dell’industrializzazione; le ondate migratorie portavano oltreatlantico grandi masse di diseredati e di perseguitati soprattutto dall’Europa dell’Est e del Sud in cerca di riscatto; il sogno americano veniva ridefinito sull’onda del progressismo, ma anche dei tumultuosi scioperi nelle fabbriche, ricacciati indietro dagli uomini di Pinkerton, o dei gruppetti esaltati degli anarco-comunisti che speravano di realizzare proprio in America la rivoluzione colpendo i simboli viventi dello sfruttamento, mentre l’ondata populista percorreva tutte le classi sociali e lo yellow journalism incendiava le piazze di sensazionalismo. La violenza era aumentata in maniera esponenziale nel Sud degli Stati Uniti e il nuovo capro espiatorio erano diventati gli uomini d’affari, dietro i quali venivano individuati gli ebrei, secondo lo stereotipo più diffuso e antico. Ben presto, la miscela incendiaria alimentata dalle piazze – unitamente al bisogno del procuratore di risolvere il caso e di assicurarsi una possibilità più concreta di far carriera – si concentrò su Leo Frank, l’ultimo ad averla vista viva, che fu accusato dell’omicidio e incolpato proprio da Jim Conley.

Louis Marshall, presidente dell’American Jewish Committee, descrisse il caso quasi come un “secondo affare Dreyfus” e, di fronte alla folla che urlava “Crack the Jew’s neck!” e “Lynch him!”, la comunità ebraica decise di difendere pubblicamente il proprio rappresentante con interventi sulla stampa locale e con una raccolta di fondi per organizzarne la difesa, anche perché da molto tempo gli ebrei di Atlanta erano perfettamente integrati nella società. La prima cosa che emerse fu la debolezza della linea difensiva di Frank: questi, sulla base della “prova” considerata quasi inoppugnabile, vale a dire il fatto che fosse apparso “nervoso” quando la polizia lo aveva interrogato dopo aver trovato dei capelli della ragazza nel bagno di fronte al suo ufficio – divenne il principale indagato, ma la sua difesa non seppe contrastare i racconti fatti da alcuni testimoni che mettevano in dubbio la sua serietà con le donne, e soprattutto non contestò con la necessaria determinazione le dichiarazioni giurate sorprendenti rilasciate proprio da Conley, arrestato nei giorni precedenti proprio mentre stava rimuovendo sotto l’acqua delle macchie presumibilmente di sangue o di ruggine da una camicia blu da lavoro. Conley dichiarò, tra l’altro, che Frank gli aveva confessato l’omicidio, avvenuto dopo che la ragazza aveva rifiutato le sue avances, che lo aveva aiutato a spostare il suo corpo e che aveva scritto un biglietto da lui dettato (le famose “note” dell’omicidio). Tutto il processo avvenne durante un’estate caldissima, con l’aula piena di gente che inveiva contro Frank, mentre, dalle finestre spalancate, entravano le urla della folla che chiedeva il linciaggio dell’ebreo e minacciava gli stessi giurati se non avessero condannato a morte il “dannato sheeny”. Dopo che Frank venne condannato alla pena capitale, Marshall personalmente seguì per due volte la richiesta di revisione del processo e poi presentò l’appello alla Corte Suprema, ma senza successo, se non con la conseguenza negativa di avvalorare ancor di più nella folla l’idea che il denaro ebraico stesse cercando di modificare la sentenza, anche attraverso una incessante campagna di stampa. Dopo un’estesa raccolta di firme, di appelli e di petizioni, che portò il caso alla ribalta nazionale, John M. Slaton, governatore della Georgia, nell’estate del 1915, un giorno prima dell’impiccagione di Frank, commutò la sentenza di morte in ergastolo, dichiarandosi convinto della sua innocenza e del fatto che essa sarebbe stata provata in breve termine, cosa che lo trattenne dal concedergli un perdono totale. Ma il giorno successivo, Frank venne rapito dalla prigione in cui era rinchiuso da un gruppo di 28 facinorosi definitisi come i “Cavalieri di Mary Phagan” (molti di loro erano persone molto influenti, come venne dimostrato in seguito proprio da una parente della ragazza assassinata), condotto a Marietta, la città natale di Mary, e linciato. Il nuovo governatore si impegnò ad individuare i colpevoli del sequestro, ma senza riuscirci. Dopo il linciaggio di Frank, circa metà dei tremila ebrei della Georgia lasciarono lo Stato. Nel 1986, il Georgia State Board of Pardons and Paroles concesse a Leo Frank il perdono, ma senza mai assolverlo dall’accusa di omicidio. Dal 2013, anno del centenario della morte di Mary Phagan, sono comparsi molti siti web per dimostrare che Leo Frank era effettivamente colpevole, ma l’Anti-Defamation League (nata proprio nel 1913 sull’onda del “caso Frank”) ha chiarito qualche anno fa, con un comunicato stampa, che si tratta di “siti ingannevoli”, creati da “antisemiti dichiarati per promuovere i temi propagandistici dell’antisemitismo”.

 

sabato 16 agosto 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 16 agosto.

Il 16 agosto a Siena si corre il secondo Palio dell'anno, detto Palio dell'Assunta.

Il Palio di Siena è una delle competizioni tradizionali più famose d’Italia. Si svolge a Siena e coinvolge le Contrade della città nella forma di una giostra equestre di origine medievale. Questa particolare corsa con i cavalli viene chiamata la “carriera” e si svolge normalmente due volte l’anno:

il 2 luglio si corre il Palio in onore della Madonna di Provenzano, festa della Visitazione nella forma straordinaria;

il 16 agosto quello in onore della Madonna Assunta.

Ma scopriamo insieme qualcosa di più sul Palio di Siena: cos’è? Qual è la sua storia? E le sue regole?

Il Palio di Siena è una secolare celebrazione, una competizione tra le Contrade di Siena, e ha origini antichissime: pensate che alcuni regolamenti, tuttora validi, risalgono al 1644, anno in cui venne corso il primo palio con i cavalli, così come ancora avviene, in continuità mai interrotta (ad eccezione del periodo delle due guerre mondiali).

Siena è divisa in Contrade, diciassette in tutto, con dei confini stabiliti nel 1729 dal Bando di Violante di Baviera, Governatrice della Città. Ogni Contrada è come un piccolo stato, retto da un Seggio con a capo il Priore e guidato nella “giostra” da un Capitano, coadiuvato da due o tre contradaioli detti “mangini” o “tenenti”. Nel territorio di ciascuna Contrada possiamo trovare una chiesa, all’interno della quale sono di solito custoditi bandiere e cimeli, archivio e tutto quanto altro concerne la vita della Contrada stessa.

Le prime notizie ufficiali relative al Palio sono datate 1238, con un documento di “giustizia paliesca”, alla pena pecuniaria nei confronti di Ristoro di Bruno Ciguarde, colpevole di non aver “preso il porco”, cioè il premio-sfottò che per regolamento doveva andare all’ultimo classificato. I primi Palii erano corsi dai nobili, ma la situazione con il tempo cambiò fino a rendere protagonista tutto il popolo senese.

Inizialmente il Palio prendeva luogo in tutta la città, ma all ’inizio del Seicento si trasferì gradualmente in Piazza del Campo e il primo palio corso “alla tonda” nella splendida piazza senese sembra risalire al 1633.

I fantini, considerati mercenari, avevano un compenso fisso e in più avevano il permesso di questuare per le vie della contrada, una tradizione durata fino agli anni Sessanta del Novecento.

Il regolamento moderno del Palio di Siena è del maggio 1721, anche se nei secoli ci sono state delle modifiche e dei miglioramenti. Il Palio di Siena si corre tutti gli anni. Nel Novecento venne sospeso a causa della Prima Guerra Mondiale, mentre negli anni del Fascismo, il regime volle appropriarsi dell’organizzazione dell’evento attraverso l’Opera Nazionale Dopolavoro, e nel luglio 1936, per celebrare la vittoria della guerra d’Etiopia, il Palio divenne “dell’Impero”. Di nuovo, Il Palio venne sospeso per la Seconda Guerra Mondiale, ma il 20 agosto 1945 fu corso il Palio straordinario “della Pace”.

Possono prendere parte al Palio dieci contrade su diciassette: le sette che non hanno corso il Palio precedente e tre estratte a sorte tra le restanti. L’ordine di ingresso dei cavalli tra i canapi è segreto, e viene rivelato solo all’ultimo dal “mossiere” (giudice insindacabile della validità della partenza) che è posizionato sul “verrocchio” (un palchetto).

Nove cavalli su dieci entrano tra i canapi secondo l’ordine di entrata, uno solo, quello sorteggiato “di rincorsa” resta fuori. Sarà quel cavallo a determinare il momento della partenza effettiva della gara, sotto la supervisione del mossiere.

Nelle fasi solitamente lunghe in cui i cavalli si sistemano avviene la tradizionale attività di “trattativa” tra fantini (detta “fare i partiti”), con contrade amiche che cercano alleanze contro i nemici comuni. Le operazioni di entrata dei cavalli possono durare così a lungo che è previsto il rinvio al giorno successivo quando subentrano problemi di visibilità. I fantini cavalcano senza sella, “alla bisdossa”.

La gara consiste in tre giri completi di piazza del Campo in senso orario. Vince il cavallo che arriva per primo, anche senza fantino (le cadute sono frequenti), e in quel caso si parla di “cavallo scosso”.

La contrada vincitrice va sotto il palco dei Capitani a ritirare il drappello della vittoria, che viene realizzato ogni anno da un artista diverso. Questo drappello verrà prima portato in Chiesa (Santa Maria in Provenzano a luglio, Duomo ad agosto) e poi nella contrada stessa, dove verrà conservato per sempre.

 

venerdì 15 agosto 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 15 agosto.

Il 15 agosto 1928 nasce a Ferrara Everardo Dalla Noce.

Non era solo calcio Everardo Dalla Noce: il grande successo a Tutto il Calcio Minuto per Minuto lo ha lanciato nel mondo dello sport e del giornalismo, ma non è ovviamente solo la palla rotonda ad aver inserito negli annali della storia il grande giornalista tifoso della Spal. Era un apprezzatissimo radiocronista e in quanto tale ebbe l’onore e al tempo stesso il dramma di dover raccontare un evento traumatico nella storia dello sport. Era il 1976, nel Gran Premio di Germania per la classe Formula 1: Niki Lauda in quel drammatico circuito del Nürburgring si schianta in una curva e la sua auto prende fuoco. Alla radio a raccontarlo su Radio Rai c’era proprio Everardo Dalla Noce che riuscì nell’impresa di raccontare con signorilità, commento diretto e profonda umanità davanti ad un dramma che si stava consumando con mezza parte del corpo andata a fuoco proprio del grande campione di Formula 1. Si salvò per fortuna, dopo anche il coma, e riuscì a ritornare: per Dalla Noce tornare a raccontarlo poi fu una emozione unica, una delle pagine più drammatiche e belle alla fine di quello sport cui deve tanto in Italia, in quegli anni, alla voce ufficiale della Rai.

Everardo Dalla Noce è morto nel 2017 a 89 anni, dopo una vita tutt’altro che banale. Noto ai più come giornalista del Tg2, inviato a Piazza Affari per spiegare agli italiani la giornata in Borsa (in maniera quasi divulgativa e meno tecnica della prassi), l’attività da cronista è stata una sola delle tante passioni di Dalla Noce. Era nato come giornalista sportivo, ma negli anni Settanta passò alla televisione, dove il ruolo da corrispondente ne fece un volto familiare per milioni di italiani. Uomo poliedrico, esperto e critico d’arte con tanto di rubrica su Il Sole 24 Ore, Dalla Noce è stato anche un paroliere: come riporta Il Fatto Quotidiano, ha scritto un’80ina di canzoni, una di queste anche per Patty Pravo, ma è rimasto sempre nell’anonimato perché il contratto in Rai glielo vietava. La passione più grande? Forse quella per la Spal, di cui era tifosissimo. Non solo calcio però. Basti pensare che una volta, durante una diretta di “Tutto il calcio minuto per minuto” ebbe l’ardire di intervenire per comunicare le notizie del campionato di baseball, “uno sport bellissimo, ma profondamente americano. Peccato stenti così tanto a farsi amare dagli italiani”, si rammaricava. 

Molti ricordano Everardo Dalla Noce anche per la sua partecipazione al primo Quelli che il Calcio di Fabio Fazio. Fu una delle grandi intuizioni del conduttore quella di portare nella propria squadra la simpatia e l’ironia del giornalista. I suoi collegamenti dagli stadi hanno fatto storia: ogni volta che chiedeva la linea usava questa formula, “Attenzione, attenzione…”, a lasciare intendere una svolta nel match poi, dopo qualche istante d’attesa – quasi fosse la pausa scenica dell’attore – ammetteva candidamente: “Non è successo niente”. Era un po’ il suo marchio di fabbrica. Del resto anche nel restituire la linea al telegiornale aveva varato una sua personalissima formula: ”Linea e microfoni a Roma”. La Spal, in ragione del suo tifo per la società estense, lo ha ricordato così sul suo sito ufficiale: ”In queste ore è scomparso Everardo Dalla Noce, noto giornalista radio-televisivo in Rai, da sempre tifoso della Spal. Storica voce di Tutto il calcio minuto per minuto, nonché inviato di TG2 dalla Borsa di Milano per aggiornamento economici, Dalla Noce aveva 89 anni e per 30 ha lavorato nel servizio radio-televisivo nazionale con un occhio di riguardo sempre per la sua passione biancazzurra. La società SPAL 2013 srl si stringe attorno alla famiglia Dalla Noce per la dolorosa scomparsa, consapevole di essere rimasti orfani di un grande tifoso, garbato ed ironico nella sua passione per i colori spallini“. 

 

giovedì 14 agosto 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 14 agosto.

Il 14 agosto del 1861, all’alba dell’Unità d’Italia, va in scena una strage ai danni degli abitanti di due paesi in provincia di Benevento, Pontelandolfo e Casalduni: una strage che mai mente criminale avrebbe potuto concepire. I protagonisti di questa bruttissima pagina della storia italiana sono i “liberatori” italo-piemontesi, con in testa il generale Enrico Cialdini.

Alle prime ore del giorno di quel 14 agosto, come già ricordato, si scrive una delle pagine più nere del Risorgimento, puntualmente ignorata dalla storiografia ufficiale e dai testi scolastici. Su ordine del già citato generale Enrico Cialdini viene inviata, per una operazione di rappresaglia (poiché erano stati uccisi dai briganti alcuni soldati del regio esercito), al comando del colonnello Pier Eleonoro Negri, una colonna di 500 bersaglieri con la disposizione di massacrare tutti gli abitanti, ritenuti complici dei briganti, e per vendetta radere al suolo i due paesi.

La mattina del 14 agosto i soldati raggiungono i due paesi. Casalduni viene trovata quasi deserta: gran parte degli abitanti, intuendo quello che stava per succedere, si è data alla fuga. Completamente diverso lo scenario a Pontelandolfo, dove gli abitanti vengono sorpresi nel sonno.

I militari piemontesi assaltano le chiese e le case: saccheggi, torture, stupri: quella mattina succede di tutto. Le cronache dell’epoca raccontano che i militari danno fuoco alle abitazioni lasciando dentro gli abitanti.

Si racconta anche che i bersaglieri attendevano l’uscita dei civili dalle proprie abitazioni in fiamme per sparargli addosso. Chi riesce a salvarsi dalle fiamme e dal tiro a bersaglio viene catturato e poi fucilato. Per le donne trattamento a parte: cattura, stupri, sevizie e uccisione per quelle che si opponevano.

Enrico Cialdini è il mandante del massacro di Pontelandolfo e Casalduni. In virtù dei più ampi e criminali poteri che arbitrariamente si attribuiva, in dispregio delle leggi e delle più elementari norme umanitarie, fa fucilare sul posto, senza processo, intere famiglie, mette a ferro e fuoco interi paesi e villaggi del Mezzogiorno d’Italia e fa arrestare e deportare tutti coloro che danno solidarietà e un minimo di sussistenza ai cosiddetti briganti.

Negli ordini scritti ai suoi sottoposti, Cialdini è solito raccomandare di “non usare misericordia ad alcuno, uccidere senza fare prigionieri, tutti quanti se ne avessero tra le mani”. Ed è esattamente quello che avviene, ad opera di questo criminale, a Pontelandolfo e Casalduni. 

Nel 1920 Antonio Gramsci, su ‘Ordine Nuovo’, a proposito di questi genocidi e di queste vere e proprie pulizie etniche perpetrate dei “civilizzatori e liberatori” italo-piemontesi a danno delle popolazioni meridionali così scrive:

“Lo Stato italiano si è caratterizzato come una dittatura feroce che ha messo a ferro e a fuoco l’Italia meridionale, squartando, fucilando e seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare con il marchio di briganti”.

Ma per restare nello specifico degli eccidi di Pontelandolfo e Casalduni, ecco quanto riporta dettagliatamente e testualmente nel suo diario Carlo Margolfo, uno dei 500 Bersaglieri entrati, all’alba di quel maledetto 14 agosto in paese a compiere la strage:

“Al mattino del mercoledì, giorno 14, riceviamo l’ordine superiore di entrare nel Comune di Pontelandolfo, fucilare gli abitanti ed incendiarlo. Entrammo nel paese, subito abbiamo incominciato a fucilare i preti e gli uomini, quanti capitava, indi il soldato saccheggiava ed infine abbiamo dato l’incendio al paese, di circa 4500 abitanti. Quale desolazione non si poteva stare d’intorno per il gran calore e quale rumore facevano quei poveri diavoli che la sorte era di morire abbrustoliti e chi sotto le rovine delle case”.

Questa la raccapricciante testimonianza del bersagliere Margolfo che è attivo protagonista di tale eccidio. L’ordine è perentorio: radere al suolo i due paesi, non fare rimanere in piedi una sola pietra.

Come già ricordato, vengono prese d’assalto le chiese e le case e, al grido di “piastra, piastra”, vengono saccheggiate per poi essere incediate. Il “diritto di rappresaglia” consente a queste belve di uccidere, in un orgia di sangue, anche vecchi e bambini e stuprare le donne senza prima avere loro strappato gli orecchini. Concettina Biondi, una ragazzina appena sedicenne, viene violentata malgrado l’ordine fosse quello di risparmiare almeno i bambini.

La storia ufficiale ha nascosto quasi tutto. Ancora oggi non si conosce nemmeno il numero esatto delle vittime.

Nell’ambito delle manifestazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia, Giuliano Amato, presidente del comitato dei garanti delle celebrazioni, ha dichiarato agli abitanti di Pontelandolfo:

“A nome del presidente della Repubblica Italiana vi chiedo scusa per quanto qui è successo e che è stato relegato ai margini dei libri di scuola”.


mercoledì 13 agosto 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 13 agosto.

Il 13 agosto 1521 Hernan Cortes conquista Tenochtitlàn, la capitale dell'Impero Azteco.

Gli Aztechi furono un popolo molto potente che dominò per secoli quello che oggi è il Messico, nell'America Centrale; il nome stesso "Messico" deriva dall'appellativo Mexica con cui gli Aztechi solevano chiamarsi tra di loro.

Il termine "Azteco" venne coniato in seguito da uno studioso tedesco per distinguere i Mexica  dalle altre popolazioni precolombiane (cioè esistenti prima dell'arrivo di Colombo).

Gli Aztechi erano originariamente un popolo nomade proveniente dalle regione settentrionali (Aztlán, un termine in lingua nahuatl che significa "luogo dell'airone", era il loro leggendario luogo di origine; da qui il nome "Aztechi") che si stanziò attorno al XII secolo in America Centrale e si mischiò con le tribù locali.

La colonizzazione, e la successiva espansione, avvennero perlopiù con la forza e la sottomissione delle città confinanti, le quali, una ad una, dovettero piegarsi al dominio di questi guerrieri formidabili.

La capitale azteca era Tenochtitlàn, una specie di "Venezia" in mezzo alla giungla, poiché sorgeva in mezzo al lago Texoco ed era attraversata da canali e fiumiciattoli melmosi.

I formidabili guerrieri aztechi non avevano paura di morire in combattimento (anzi ciò era un segno d'onore!), e dunque in pochi furono in grado di contrastare la loro avanzata. 

Così come i Maya, gli Aztechi accompagnavano a capanne e palafitte di legno la costruzione di immense piramidi di pietra, il cui scopo era quello di ospitare gli importanti rituali propiziatori dei sacerdoti.

Queste città dall'aspetto imponente si ergevano su acquitrini o in mezzo alla foresta pluviale, e proprio questa conformazione del territorio impedì all'impero Azteco di reggersi sotto un governo centrale e diretto (come invece accadeva in Europa), ma di svilupparsi piuttosto con grandi centri abitati semi-indipendenti (tipo città-stato) che intrecciarono una rete di tributi e invio di ostaggi da parte degli insediamenti sottomessi.

Come quasi tutte le civiltà antiche, le classi sociali erano divisi tra nobili, che guidavano gli eserciti e riscuotevano le tasse, i sacerdoti, i contadini e gli schiavi.

Anche se soldati e governanti spietati, gli Aztechi sapevano divertirsi!

Oltre alla composizione di poesie e canzoni infatti, essi si intrattenevano con uno sport a metà tra il calcio, la pallavolo e il basket chiamato pelota: questi consisteva in una competizione tra due squadre che, passandosi una piccola palla di gomma, dovevano farla passare attraverso un anello ai lati del campo.

Non è chiaro con quali parte del corpo fosse permesso toccare il pallone (si pensa alle anche!), ma sappiamo che questo gioco era molto importante per gli Aztechi, tanto che la squadra perdente, rischiava spesso di fare una brutta fine…

La brutalità del mondo azteco può essere ricondotta alla visione molto cruenta che essi avevano del mondo.

Accanto al culto di Quetzalcoatl, il Serpente Piumato creatore dell'umanità che un giorno sarebbe ritornato sulla Terra, gli Aztechi coltivavano anche una concezione piuttosto "catastrofica" della realtà, poiché pensavano che ogni era fosse fatta da 52 anni, e allo scadere di essi, il mondo venisse ciclicamente distrutto e poi ricreato dal nulla.

La paura costante della fine del mondo, spingeva gli aztechi ad una ossessiva ricerca del consenso delle divinità, le quali però, a differenza delle altre religioni, erano anch'esse mortali!

Secondo la tradizione infatti, gli antichi dei si erano gettati nel fuoco per far sì che il Sole, fonte di ogni vita, non si spegnesse!

I sacerdoti aztechi allora rinnovavano ogni volta questo gesto eseguendo terribili sacrifici umani: i poveri schiavi che venivano catturati o mandati come ostaggi dai nemici sconfitti, venivano infatti mandati in cima alle piramidi delle città e lì venivano giustiziati dai sacerdoti per far sì che il loro sangue alimentasse il Sole.

Alla fine, la tanto temuta catastrofe arrivò, benché non avvenne per mano di terremoti o alluvioni.

Nel Cinquecento infatti, i Conquistadores spagnoli, entrarono in contatto con questa civiltà durante le loro esplorazioni del Nuovo Mondo.

L'ultimo imperatore, Montezuma, si trovò ad affrontare un nemico molto meno numeroso (erano poco più di 500 uomini), ma le cui armature di ferro, i fucili e i cavalli, provocavano un estremo timore negli indigeni, i quali non conoscevano una tale tecnologia e pensavano di avere a che fare con demoni giunti dal mare.

Nel 1521, in solo due anni. il generale dei conquistadores, Hernán Cortés, distrusse il secolare impero azteco, sterminando quasi la totalità della popolazione non solo con la forza, ma anche con le malattie importate dall'Europa contro cui i nativi non avevano alcuna difesa immunitaria.

Anche gli invasori spagnoli  però non erano abituati al clima e ai virus tropicali.

Grandi epidemie colpirono quindi gli europei che, impotenti, pensavano di avere a che fare con una maledizione lanciata da Montezuma per vendicarsi della sconfitta.

Anche al giorno d'oggi, quando in Messico qualche turista poco attento mangia o beve qualcosa di esotico che gli provoca violenti scompensi fisici si parla della temibile "vendetta di Montezuma"!

martedì 12 agosto 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 12 agosto.

Il 12 agosto 1883 morì nello Zoo di Amsterdam l'ultimo esemplare di Quagga. 

Il suo vero nome è Equus quagga quagga ed era una sottospecie della zebra che tanto tempo fa viveva in Sud Africa dove, adesso, è stato reintrodotto. Come è possibile? Il cugino della zebra è tornato a vivere nella sua terra d'origine grazie al “Quagga Project” che, da fine anni '80, si è impegnato nel tentativo di riuscire a ridare una seconda opportunità a questo animale.

Il progetto si basa sul breeding back, una forma di selezione che permette, grazie a vecchi campioni dell'animale originale, di ottenere da un allevamento selezionato animali dal fenotipo simile a quello del Quagga, in poche parole, consapevoli della parentela tra Quagga e Zebre, i ricercatori hanno selezionato queste ultime per dare vita ad animali esteticamente simili ai Quagga stessi. Non si tratta di clonazione, in quanto questi “nuovi” animali non sono realmente dei Quagga, ma ne hanno l'aspetto.

Questi esemplari hanno infatti un manto che, anteriormente, è simile a quello della zebra, con strisce brune sulla testa e il collo che si schiariscono fino a scomparire sul posteriore. Per ottenere questo effetto anche sui Quagga ‘moderni', i ricercatori hanno impiegato 4/5 generazioni, ma i risultati attuali sono sorprendenti.

L'attuale “zebra” è stata ribattezzata Rau Quagga in onore di Reinhold Rau, il ricercatore naturalista che propose appunto di selezionare le zebre per riuscire ad ottenere un Quagga.

Ma non è pericoloso questo nuovo reinserimento? I ricercatori sostengono che zebre e quagga potranno tranquillamente condividere gli spazi a disposizione. Quanto all'etica di questo progetto, molte sono state le critiche, c'è infatti chi sostiene che sarebbe più opportuno soffermarsi sulle specie a rischio estinzione invece di cercare di riportare, più o meno, in vita quelle che ormai non ci sono più da oltre 100 anni.


lunedì 11 agosto 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è l'11 agosto.

L'11 agosto 1253 muore Santa Chiara da Assisi.

La sera della domenica delle Palme (1211 o 1212) una bella ragazza diciottenne fugge dalla sua casa in Assisi e corre alla Porziuncola, dove l’attendono Francesco e il gruppo dei suoi frati minori. Le fanno indossare un saio da penitente, le tagliano i capelli e poi la ricoverano in due successivi monasteri benedettini, a Bastia e a Sant’Angelo.

Infine Chiara prende dimora nel piccolo fabbricato annesso alla chiesa di San Damiano, che era stata restaurata da Francesco. Qui Chiara è stata raggiunta dalla sorella Agnese; poi dall’altra, Beatrice, e da gruppi di ragazze e donne: saranno presto una cinquantina.

Così incomincia, sotto la spinta di Francesco d’Assisi, l’avventura di Chiara, figlia di nobili che si oppongono anche con la forza alla sua scelta di vita, ma invano. Anzi, dopo alcuni anni andrà con lei anche sua madre, Ortolana. Chiara però non è fuggita “per andare dalle monache”, ossia per entrare in una comunità nota e stabilita. Affascinata dalla predicazione e dall’esempio di Francesco, la ragazza vuole dare vita a una famiglia di claustrali radicalmente povere, come singole e come monastero, viventi del loro lavoro e di qualche aiuto dei frati minori, immerse nella preghiera per sé e per gli altri, al servizio di tutti, preoccupate per tutti. Chiamate popolarmente “Damianite” e da Francesco “Povere Dame”, saranno poi per sempre note come “Clarisse”.

Da Francesco, lei ottiene una prima regola fondata sulla povertà. Francesco consiglia, Francesco ispira sempre, fino alla morte (1226), ma lei è per parte sua una protagonista, anche se sarà faticoso farle accettare l’incarico di abbadessa. In un certo modo essa preannuncia la forte iniziativa femminile che il suo secolo e il successivo vedranno svilupparsi nella Chiesa.

Il cardinale Ugolino, vescovo di Ostia e protettore dei Minori, le dà una nuova regola che attenua la povertà, ma lei non accetta sconti: così Ugolino, diventato papa Gregorio IX (1227-41) le concede il “privilegio della povertà”, poi confermato da Innocenzo IV con una solenne bolla del 1253, presentata a Chiara pochi giorni prima della morte.

Austerità sempre. Però "non abbiamo un corpo di bronzo, né la nostra è la robustezza del granito". Così dice una delle lettere (qui in traduzione moderna) ad Agnese di Praga, figlia del re di Boemia, severa badessa di un monastero ispirato all’ideale francescano.

Chiara le manda consigli affettuosi ed espliciti: "Ti supplico di moderarti con saggia discrezione nell’austerità quasi esagerata e impossibile, nella quale ho saputo che ti sei avviata". Agnese dovrebbe vedere come Chiara sa rendere alle consorelle malate i servizi anche più umili e sgradevoli, senza perdere il sorriso e senza farlo perdere. A soli due anni dalla morte, papa Alessandro IV la proclama santa.

Chiara si distinse per il culto verso l'Eucarestia. Per due volte Assisi venne minacciata dall'esercito dell'imperatore Federico II che contava, tra i suoi soldati, anche saraceni. Chiara, in quel tempo malata, fu portata alle mura della città con in mano la pisside contenente il Santissimo Sacramento: i suoi biografi raccontano che l'esercito, a quella vista, si dette alla fuga.

domenica 10 agosto 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 10 agosto.

Il 10 agosto 1849 il garibaldino Ciceruacchio viene fucilato dagli austriaci.

Angelo Brunetti detto Ciceruacchio (Roma, settembre 1800 – Porto Tolle, 10 agosto 1849), figlio di un maniscalco di Campo Marzio, era di mestiere carrettiere del porto di Ripetta e trasportava vino dai Castelli romani e gestiva una taverna nei pressi di Porta del Popolo.

Il soprannome “ciceruacchio”, datogli dalla madre da bambino, è la corruzione dell’originale romanesco ciruacchiotto (grassottello). Popolano verace e dall’intelligenza assai vivida, dotato di straordinaria capacità dialettica che non poté mai coltivare con l’istruzione (parlava solo ed unicamente in romanesco), divenne presto un rappresentante informale dei sentimenti popolari.

Già beneamato dal popolo romano, per il suo comportamento durante l’epidemia di colera del 1837, con l’avvento al soglio pontificio di Papa Pio IX nel 1846, si fece portavoce dell’entusiasmo popolare per le riforme annunciate dal nuovo pontefice, tanto da divenire uno dei più strenui sostenitori, tanto che, nel luglio dello stesso anno, durante una manifestazione popolare, ringraziò il Papa per aver concesso la libertà ai detenuti politici e donò alla gente che si era ivi raccolta, alcune botti di vino, accendendo anche un grande fuoco presso Porta del Popolo.

Egli fu spesso organizzatore di queste adunate popolari, al fine di continuare ad esortare Pio IX nella prosecuzione del proficuo cammino di riforme politiche nello Stato Pontificio.

Quando alla fine del 1847 ed agli inizi del 1848, gli elementi più conservatori ebbero il sopravvento all’interno della Curia, divenendo ispiratori di provvedimenti impopolari, Angelo Brunetti assunse un atteggiamento di forte e manifesta opposizione nei confronti del Papa, divenendo uno dei più significativi esponenti dell’anticlericalismo.

Abbracciata la causa mazziniana dopo il voltafaccia del pontefice avvenuto con l’allocuzione del 29 aprile 1848, aderì alla Rivoluzione del 1849. Partecipò attivamente ai combattimenti contro l’assediante francese e si premurò di organizzare il trasporto delle armi e delle munizioni per la difesa della Repubblica, prodigandosi per riuscire a far passare attraverso l’assedio della città da parte dei francesi, bestiame e cibo per la popolazione.

Dopo la caduta della Repubblica Romana, nel luglio dello stesso anno, Ciceruacchio insieme ai due figli, il primogenito Luigi, e Lorenzo, appena tredicenne, decise di partire da Roma al seguito di Garibaldi con l’intento di raggiungere Venezia, che ancora resisteva agli Austriaci.

Con Garibaldi, Anita e Ugo Bassi ed altri fedelissimi del generale, fece tappa a San Marino e Cesenatico da dove si imbarcarono  per Venezia. In prossimità del delta del Po furono intercettati da una vedetta austriaca e costretti all’approdo. Ciceruacchio e i suoi compagni chiesero l’aiuto di alcuni abitanti del posto per raggiungere Venezia ma questi li denunciarono alle autorità.

Brunetti fu così arrestato dagli Austriaci e fucilato a mezzanotte del 10 agosto 1849, insieme al figlio Lorenzo di tredici anni, all’altro figlio Luigi ed altri patrioti e sepolti nella golena del Po. Solo nel 1879, su espressa volontà di Garibaldi, del Comune di Roma e della Società Veterani del 1848-49, i resti dei patrioti vennero uniti agli altri caduti del 1849, nell’ossario al Gianicolo a Roma.

Nel marzo 2011, in occasione del 150º anniversario dell’Unità d’Italia, il monumento a Ciceruacchio, già spostato nel 1960 in occasione della creazione del sottovia di Passeggiata di Ripetta, è stato trasferito al Gianicolo. La nuova collocazione, poco prima dell’uscita verso San Pancrazio, accanto al viale intitolato al figlio Lorenzo, ha restituito al monumento a Ciceruacchio, prima sistemato ai margini di un’arteria di rapido scorrimento, il giusto decoro, trasferendolo nel luogo simbolo del Risorgimento romano.


sabato 9 agosto 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 9 agosto.

Il 9 agosto del 48 a.C. si svolse la Battaglia di Farsalo tra l’esercito del console Gaio Giulio Cesare e quello di Gneo Pompeo Magno.

Gaio Giulio Cesare aveva completato con successo la sottomissione della Gallia. Il senato gli ordinò quindi di lasciare il comando delle legioni e tornare a Roma come privato cittadino. Cesare chiese invece il consolato, ma il senato filopompeiano respinse la richiesta. A questo punto Cesare decise di rientrare in Italia con le sue legioni: è il 10 gennaio del 49 a.C. Diede in tal modo inizio alla guerra civile.

Pompeo, con il senato, fuggì in Oriente cercando di organizzare l’esercito. Lo scontro decisivo si svolse a Farsalo (in Tessaglia, nel nord della Grecia) il 9 agosto del 48 a.C.

Nel De bello civili Cesare riferisce che i suoi uomini erano circa 22 000, mentre quelli di Pompeo erano circa 45 000. Il numero delle truppe cesariane è sostanzialmente esatto, mentre il numero dei pompeiani è quasi certamente esagerato, anche se è probabile che essi fossero più numerosi.

I pompeiani però erano privi della preparazione e “professionalità” dei cesariani che avevano combattuto per sette anni in Gallia.

Cesare affrontò lo scontro creando una quarta fila di soldati di riserva (oltre alle tre che erano schierate normalmente).

Quando i soldati di Pompeo sembravano ormai vicini alla vittoria, Cesare mandò all’attacco la quarta fila, sorprendendo i nemici, ormai affaticati, con uomini in piena forza. Le truppe di Cesare assalirono l’accampamento dei pompeiani e li costrinsero a fuggire verso nord. Di fronte alla clamorosa disfatta, Pompeo si staccò le insegne di generale e fuggì a cavallo.

Circa 20 000 pompeiani morirono in battaglia, oltre 24 000 si arresero. Cesare riconobbe il loro valore e li trattò con clemenza.

Pompeo fuggì in Egitto, dove contava sull’appoggio del giovane re Tolomeo XIII. Questi però per ingraziarsi Cesare, lo fece uccidere (29 settembre del 48 a.C.).

Cesare, giunto in Egitto, rimise invece sul trono la colta e affascinante Cleopatra, sorella di Tolomeo, che l’aveva detronizzata.

Dopo un’altra rapida e vittoriosa campagna in Oriente contro Farnace, figlio del re del Ponto Mitridate, Cesare sconfisse gli ultimi pompeiani a Tapso (46 a.C.), in Africa, e a Munda (45 a.C.), in Spagna.

Pochi eventi hanno segnato la storia romana come la battaglia di Farsalo, nella quale si decise il destino non solo dei due comandanti supremi, ma anche di due modi diversi di concepire e gestire il potere, ossia le tendenze dittatoriali da parte di Cesare e la difesa dell’oligarchia senatoria da parte di Pompeo.

Con la vittoria di Cesare, la repubblica romana entrò in una fase di turbolenze che l’avrebbero presto condotta al principato.

venerdì 8 agosto 2025

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 Buongiorno, oggi è l'8 agosto.

L'8 agosto 1889 muore Benedetto Cairoli.

BENEDETTO CAIROLI, nasce il 28 gennaio 1825 a Pavia, da Adelaide Bono e da Carlo Cairoli. Primo di quattro fratelli: Ernesto, Enrico, Luigi e Giovanni.

Studia alla Facoltà di Giurisprudenza all’Università di Pavia. Fu tra gli organizzatori delle manifestazioni antiaustriache che all’inizio del 1848 animarono le vie cittadine sull’esempio di quanto stava accadendo a Milano (le Cinque Giornate).

Nel 1850 aderisce al partito mazziniano ed entra a far parte del Comitato rivoluzionario di Enrico Tazzoli. Ricercato dalla polizia austriaca per la sua attività di cospiratore, nel 1852 si rifugia prima nella villa di famiglia a Gropello (non fatevi ingannare dalla vicinanza: all’epoca era nel territorio del Regno di Sardegna. Oggi la località si chiama Gropello Cairoli), poi in Svizzera, mentre l’Austria lo condanna per alto tradimento. In esilio, si convince dell’inutilità dei moti insurrezionali mazziniani e si accosta alla politica piemontese.

Tornato in Italia, si trasferisce prima a Genova (dove conosce Giuseppe Garibaldi), poi allo scoppio della II guerra d’indipendenza nel 1859, coi fratelli Enrico ed Ernesto, si arruola nel secondo Reggimento delle Alpi. Dopo il trattato di Villafranca, può tornare nella sua città, Pavia, libera dal dominio austriaco.

Cairoli partecipa anche all’organizzazione nel 1860 della spedizione dei Mille: con il grado di capitano della settima compagnia, parte per la Sicilia, combatte a Marsala e, durante l’occupazione di Palermo, rimane ferito a una gamba (e restò claudicante tutta la vita). Seguì Garibaldi anche nella campagna del Trentino nel 1866: fu l’ultima partecipazione alle spedizioni militari. Lui si dedicò all’attività politica, mentre i fratelli Enrico e Giovanni continuarono a combattere con l’Eroe dei due mondi (Luigi era morto di tifo durante la Spedizione dei Mille).

Nel 1861, con la proclamazione del Regno d’Italia, viene eletto deputato, schierandosi con gli esponenti della Sinistra storica. Quando nel 1867 Rattazzi risale al potere, spera in una politica favorevole alle sue aspirazioni, ma deve ben presto ricredersi: i fatti di Mentana gli dimostrano l’indecisione del governo. Negli anni successivi partecipa poco ai lavori parlamentari e si dedica più intensamente alle cure familiari: nel 1873 sposa la contessa Elena Sizzo.

Quando nel 1876 la Sinistra passa al potere con Depretis, all’inizio appoggia le posizioni del nuovo governo, poi passa all’opposizione e contribuisce alla sua caduta, e succede, proprio a Depretis, come Presidente del Consiglio.

Il 17 novembre 1878, viaggiando in carrozza con re Umberto I, gli salva la vita, impedendo a Giovanni Passanante di pugnalarlo. Viene ferito ad una coscia. Il gesto gli vale, oltre che la gratitudine personale di Umberto I, la medaglia d’oro al valor militare. L’episodio offre l’occasione all’opposizione di Destra di accusare il governo di eccessiva tolleranza nei confronti di organizzazioni sovversive. Nel dicembre del 1878 Cairoli è costretto a lasciare l’incarico di primo ministro. Torna in politica tra il 1879 e il 1881, ricoprendo anche la carica di ministro degli Esteri e dell’Agricoltura (oltre che quella di primo ministro): ritenuto responsabile della grave crisi causata dall’occupazione della Tunisia da parte della Francia, nel maggio del 1881 si dimette. Muore a 64 anni l’8 agosto 1889 a Napoli nella reggia di Capodimonte, ospite del re.

Viene sepolto nel sacrario della villa di Gropello insieme alla madre e ai fratelli.

giovedì 7 agosto 2025

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 Buongiorno, oggi è il 7 agosto.

Il 7 agosto 1947 Thor Heyerdhal conclude positivamente il suo viaggio sulla zattera Kon Tiki.

Di Thor Heyerdahl, celebre esploratore e antropologo norvegese, nato il 6 ottobre 1914, viene principalmente ricordato il motivo per cui ottenne fama mondiale: la traversata a bordo della zattera “Kon-Tiki” nel 1947. Fu un lungo viaggio su una grande zattera dal Perù alla Polinesia, durato 101 giorni, ideato da Heyerdahl nel tentativo di avvalorare una sua ipotesi contraria alle teorie scientifiche allora e tuttora dominanti. In pratica, Heyerdahl voleva dimostrare che in tempi antichi la Polinesia fosse stata abitata da popoli provenienti dal Perù e dalle terre degli Incas, piuttosto che da immigrazioni giunte dall’Asia, ipotesi prevalente ancora oggi. Quindi compì quel viaggio a bordo del “Kon-Tiki”, una zattera di circa 20 metri fatta con tronchi di balsa, costruita imitando le capacità e le disponibilità delle civiltà precolombiane presenti anche nei territori dell’odierno Perù. Thor Heyerdahl partì con altre cinque persone a bordo (quattro norvegesi e uno svedese) il 28 aprile 1947 da Callao, in Perù. Arrivarono nell’arcipelago di Tuamotu, nella Polinesia francese, dopo 101 giorni.

Heyerdahl lavorò a sostenere la sua ipotesi per gran parte della vita, e il successo del viaggio del Kon-Tiki – che prendeva il nome dalla divinità che una leggenda ripresa da Heyerdahl voleva avere ispirato la migrazione sudamericana – fu fondamentale per darle attenzione presso la comunità scientifica, malgrado la convinzione degli studiosi resti quella della colonizzazione da Ovest, e malgrado in molti abbiano attaccato e deriso la ricostruzione di Heyerdahl. Ma il viaggio fu anche una storia di grande fama popolare – e questo, secondo lo stesso Heyerdahl, svilì parte della sua credibilità scientifica – e ne vennero un libro, un documentario e un film tutti di grande successo: oltre che la costruzione di un museo a Oslo che ospita la zattera originale.

La passione di Heyerdahl per la scienza e l’antropologia era cominciata molto presto, quando era ragazzo, e un’importante collezione di reperti polinesiani raccolta a Oslo lo indirizzò verso lo studio di quei luoghi. Partecipò a una prima spedizione in Polinesia già a ventidue anni, subito dopo il primo dei suoi tre matrimoni. Dopo il Kon-Tiki, invece, Heyerdahl studio e viaggiò ancora in Polinesia – con un intenso lavoro sull’Isola di Pasqua – ma anche in diversi altri luoghi del mondo. Morì per un tumore al cervello il 18 aprile 2002, a 87 anni, nel borgo ligure di Colla Micheri, in Italia: dove aveva preso una casa e dove fu sepolto, dopo i funerali di Stato a Oslo.

mercoledì 6 agosto 2025

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 Buongiorno, oggi è il 6 agosto.

Il 6 agosto 1991 Tim Berners-Lee annuncia e pubblica ufficialmente la prima pagina WWW della storia di Internet.

il sistema che permette di usufruire della gran parte dei contenuti disponibili su Internet – fu descritto ufficialmente per la prima volta il 12 marzo del 1989 dal suo inventore Tim Berners-Lee, in una sorta di memoria che presentò ai suoi capi al CERN di Ginevra. Il World Wide Web – o web – non è un sinonimo di internet (le app, per fare un esempio tra mille, non sono “web”) ma sarebbe poi diventato il principale servizio di internet, cambiando di fatto il mondo. In quel momento però era solo la descrizione di un sistema per gestire la grande mole di informazioni legata agli esperimenti scientifici al CERN tra i circa 17.000 scienziati che ci lavoravano. Il suo nome non era ancora World Wide Web – Berners-Lee ci arrivò successivamente – ma MESH.

Nel 1990, Time Berners-Lee e i suoi collaboratori pubblicarono la prima pagina web all’indirizzo http://info.cern.ch/hypertext/WWW/TheProject.html (è ancora lì, potete visitarla) e il primo server del web era ospitato sul computer di Berners-Lee, un NeXT (la società fondata da Steve Jobs dopo aver lasciato Apple) su cui fu appiccicata una grossa etichetta che diceva “non spegnete, è un server!”. La pagina era una descrizione del progetto che esemplificava e conteneva anche alcuni collegamenti ipertestuali per raggiungere altre pagine: i link, il sistema principale su cui ancora oggi si basa l’architettura delle pagine web.

Le cose continuarono a svilupparsi rapidamente. Nel marzo del 1991 i software necessari per usare il sistema del World Wide Web (il primo browser, di fatto) furono disponibili anche per altre persone al CERN e nell’agosto di quell’anno Berners-Lee annunciò pubblicamente la sua invenzione. Nel dicembre del 1991 fu attivato il primo server del web negli Stati Uniti, nel centro di ricerca SLAC dell’università di Stanford. A lavorare al progetto furono poi invitate anche altre persone che non facevano parte del CERN, quando diventò chiaro che sarebbero servite molte mani in più per scrivere i codici che avrebbero permesso a migliaia di persone di usare il nuovo sistema. Nell’aprile 1993 il CERN disse che “la tecnologia WWW sarebbe diventata utilizzabile liberamente da tutti, senza bisogno di dover pagare alcuna tassa” al CERN. Alla fine del 1993 c’erano già almeno 500 server per il web, che generavano circa l’1 per cento del traffico di internet.

Berners-Lee oggi si occupa del World Wide Web Consortium (W3C), l’organizzazione non governativa con il compito di promuovere internet (di cui è fondatore e presidente) e della World Wide Web Foundation, l’associazione fondata nel 2009 con lo scopo di rendere internet aperto e accessibile ovunque nel mondo.

martedì 5 agosto 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 5 agosto.

Il 5 agosto 1962 nel gran premio di Germania al Nurburgring, debutta la Brabham di Formula 1.

Trent'anni: tanto è durata la storia della Brabham, che fece il suo debutto nel '62 per volontà di «Black Jack», iridato nel '59 e nel '60 con la Cooper. La squadra del campione australiano si affermò già dalla metà degli anni Sessanta, per vivere una nuova stagione di successi nei primi anni Ottanta, quando era però passata sotto il controllo di Ecclestone. L'abbandono del team da parte di Piquet convinse Bernie a concentrarsi sulla FOCA: due elementi che decretarono la fine della squadra.

È il 1966 quando Jack Brabham, al volante di una monoposto che porta il suo nome, conquista il campionato del mondo: un fatto unico nella storia della F.1. Cioè che un pilota diventato costruttore abbia avuto la soddisfazione di svettare nel mondiale con una propria vettura. Dopo aver vinto due titoli di fila nel '59 e nel '60, infatti, Jack Brabham aveva iniziato a pensare a una propria scuderia, anche perché i suoi rapporti con la Cooper, scuderia che lo aveva lanciato, erano andati deteriorandosi progressivamente. Così, nel '62, ai nastri di partenza del campionato del mondo si presenta un nuovo team: quello della Brabham MRD (sigla che sta per Motor Racing Developments), che fino al '65 utilizzerà motorizzazioni Climax. Primo e storico progettista delle vetture, fino a quel '71 in cui la squadra fu ceduta a Bernie Ecclestone, fu Ron Tauranac, australiano come patron Brabham: ogni monoposto di questa prima era del team, portò appunto la sigla BT (Brabham Tauranac).

Alla prima stagione interlocutoria del '62 che vide come pilota solo lo stesso Jack Brabham, seguì un biennio di crescita anche con l'apporto di un altro pilota: Dan Gurney. E sarà proprio lo statunitense a regalare alla squadra la prima vittoria in campionato, nel Gran Premio di Francia del '64, ripetendosi in Messico. Nella stagione successiva, nel team arriva anche Denis Hulme, un neozelandese destinato a vincere il mondiale '67 proprio al volante di una Brabham. In questo 1965, oltre che in F.1, la Brabham si cimenta anche in F.2, raccogliendo con patron Jack e con Denis Hulme una serie di successi propiziati anche dalla motorizzazione Honda. L'era della formula 1.500 cc finisce: nel '66 si passa a quella di 3 litri, e sarà proprio la Brabham a interpretare al meglio i nuovi regolamenti, conquistando il titolo a fine stagione. Titolo bissato, l'anno successivo da Denis Hulme.

Nei quattro anni successivi, la Brabham vincerà però soltanto tre Gran Premi, acuendo una crisi finanziaria che la porterà a essere venduta a Bernie Ecclestone. A Ron Tauranac succedette come responsabile tecnico Ralph Bellamy, cui fece seguito un giovanissimo ingegnere sudafricano destinato a riportare il team al vertice della F.1: Gordon M. Sotto la sua guida, la squadra crescerà sempre di più fino a conquistare un 2° e due 3° posti nel mondiale costruttori nel '75, '78 e '80. La stagione successiva è quella del ritorno al successo pieno: Nelson Piquet si aggiudica infatti il titolo iridato battendo al termine di un estenuante duello la Williams di Carlos Reutemann. L'anno successivo, con la scelta tecnica di sposare la nuova motorizzazione turbo tramite un quattro cilindri realizzato dalla BMW, la squadra non può puntare in alto, vivendo la stagione come interlocutoria. Il riscatto non si fa però attendere molto, visto che nell'83 Nelson Piquet vince il campionato del mondo al volante della sua Brabham-BMW turbo: fra l'altro, il brasiliano e la sua squadra hanno la soddisfazione di svettare per primi nella nuova era della turbocompressione. La potenza sviluppata dal propulsore bavarese arrivò a superare i 1300 CV.

Due anni dopo, la Brabham vinceva, sempre con Nelson Piquet, la sua ultima gara iridata: curiosamente proprio in quel Gran Premio di Francia che l'aveva vista vincere per la prima volta nel '64. Al termine di questa stagione, infatti, l'asso brasiliano lasciava la scuderia per passare alla Williams, allettato soprattutto dalla motorizzazione Honda: una scelta che gli darà ragione, visto che l'anno successivo Piquet conquistò il titolo. Per contro, la Brabham vive nell'86 un anno terribile, non solo perché la nuova vettura messa in campo da Murray è subito tacciata di essere troppo avveniristica oltre che pericolosa dall'ambiente, ma perché sul circuito di Le Castellet, nel corso di alcuni test privati, Elio De Angelis, approdato nel team con Riccardo Patrese dopo il divorzio di Piquet, perde la vita in uno schianto terribile. Sotto accusa è messa proprio la Brabham, oltre all'inefficienza dei mezzi di soccorso. La stagione successiva è l'ultima di un team ormai allo sbando dopo che Bernie Ecclestone ha deciso di disfarsene. Ma dopo un 1988 che per la prima volta dopo decenni vede un campionato del mondo senza la presenza della Brabham, ecco che nella stagione successiva la squadra si ripresenta ai nastri di partenza grazie a una nuova società che ne ha rilevato la gestione da Ecclestone. Si intuisce però subito che la squadra ha il fiato corto: un fiato che terminerà del tutto nel '92, esattamente col Gran Premio di Ungheria, quando Damon Hill riuscì faticosamente a qualificare la sua Brabham da saldi di fine stagione. Anzi, da fallimento.

lunedì 4 agosto 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 4 agosto.

Il 4 agosto 1932 Adriano Olivetti trasforma la azienda del padre nella moderna Società Olivetti.

La storia della Olivetti inizia nel 1908, quando il suo fondatore, Camillo Olivetti, un ingegnere di Ivrea di origine ebraica, dopo essersi occupato per diversi anni della loro commercializzazione, progettò la sua prima macchina da scrivere, la Olivetti M1.

Fu durante gli anni della prima guerra mondiale che iniziò il successo della Olivetti, con la M20, macchina da scrivere con la quale l’azienda riuscì a battere la concorrenza più sulla qualità che sul prezzo. Grazie a questo successo, C. Olivetti creò un’ottima rete di commercializzazione, attraverso una buona rete di distribuzione dei suoi prodotti.

Nel 1932 si ebbe il passaggio di testimone dal padre Camillo al figlio Adriano. E’ sotto la guida di quest’ultimo che l’impresa di Ivrea comincia a caratterizzarsi  e acquista la fama per la quale ancora oggi il nome Olivetti è conosciuto, creando a partire dalla produzione di macchine da scrivere il proprio successo nel settore delle strumentazioni da ufficio (calcolatrici, fatturatrici) e dell’informatica (computer).   Nel 1940 compare la prima addizionatrice Olivetti. Nel 1959 si sviluppa l’Elea 9003 uno dei primi mainframe computer transistorizzati.

E’ a cavallo fra gli anni cinquanta e gli anni sessanta però che inizia la vera ascesa dell’azienda di Ivrea, grazie al successo nella produzione di computer (nel frattempo era passato al timone il figlio di Adriano, Roberto) . E’ di questo periodo la Programma 101, considerata il primo esempio di personal computer, utilizzata dalla NBC e persino dalla NASA per la missione spaziale dell’Apollo 11, e probabilmente uno dei suoi prodotti più celebri.

Nel periodo successivo al 1964, il ruolo della famiglia Olivetti diventò sempre più marginale, con il subentro a quest’ultima di nuovi azionisti. Il Cda della Olivetti ne decise la vendita della maggior parte delle quote all’americana General Electric. 

Il ruolo nel mercato delle strumentazioni da ufficio comincia a declinare a favore delle imprese americane. Il settore dell’informatica però resta forte e durante gli anni ottanta (nel 1978 assunse la guida dell’azienda Carlo De Benedetti) accelera lo sviluppo nell’informatica e nei sistemi, in seguito anche ad una serie di nuove alleanze ed accordi. Furono anni di successo tanto che l’azienda diventò  uno dei principali produttori di personal computer in Europa.

A inizio anni ’90 iniziò però la crisi dei margini di redditività e il progressivo declino nel business dell’informatica e delle tecnologie da ufficio e il conseguente avvicinamento verso il mondo delle telecomunicazioni, prima con la creazione di Omnitel e Infostrada, poi con il successivo assorbimento nel 2003 ad opera di Telecom Italia. 

Sebbene oggi la Olivetti (adesso parte di Telecom Italia) ricopra un ruolo decisamente minore nell’informatica e nelle strumentazioni elettriche rispetto al passato,  l’azienda resta uno degli esempi italiani più validi di innovazione tecnologica, essendosi caratterizzata per anni come leader  in settori ad alta tecnologia e distinguendosi,  fra le altre cose, nell’attenzione per il design industriale dei propri prodotti, in particolare delle macchine da scrivere, alcune delle quali sono diventate un cult per i collezionisti del settore.

domenica 3 agosto 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


Buongiorno, oggi è il 3 agosto.

Il 3 agosto 1829 va in scena a Parigi la prima del Guglielmo Tell di Rossini.

All’apice della fama che lo consacra il più grande operista vivente, dal 1824 Rossini si stabilisce a Parigi, assumendo la carica di ‘Directeur de la musique et de la scène du Théâtre Royal Italien’, con l’obbligo di comporre anche nuovi titoli per il Théâtre de l’Académie Royale de Musique (l’Opéra Français). Ma la tanto sospirata partitura da scriversi espressamente per le scene parigine viene di anno in anno abilmente procrastinata, quasi Rossini sentisse il bisogno d’impadronirsi appieno dell’aura musicale francese prima d’esporsi a un passo professionale così atteso: in una sorta di avvicinamento progressivo alla meta si susseguono pertanto una nuova opera italiana d’argomento francese ( Il viaggio a Reims ), un opéra-comique assemblato su musiche preesistenti ( Ivanhoé , Parigi, Théâtre Royal de l’Odéon, 15 settembre 1826), due adattamenti di opere italiane ( Le Siège de Corinthe e Moïse et Pharaon ), e un’opera comica ch’è originale solo in apparenza ( Le Comte Ory ), provenendo gran parte del materiale musicale dal precedente Viaggio a Reims . 

Di anno in anno cresce dunque l’aspettativa per quello che viene considerato già in anticipo un evento artistico «de la plus grande importance», e quando alfine nel 1828 s’annuncia l’imminente debutto del Guillaume Tell , l’attenzione dell’opinione pubblica parigina diviene esclusiva. Ma dell’opera nuova, all’epoca, non è ancora pronto nemmeno il libretto: scartati alcuni testi di Scribe (il librettista francese di maggior reputazione), quali il Gustave III , poi musicato da Auber (e che sarà alla base del Reggente di Mercadante e del Ballo in maschera verdiano), e La Juive (recuperato da Halévy), la scelta era ricaduta su un libretto del vecchio e onorato Étienne de Jouy, prolisso ma scenicamente efficace, composto da qualche tempo e rimasto inutilizzato. La malferma salute del suo autore costringe a commissionare ad altri le dovute modifiche: l’emergente Hippolyte Bis, chiamato all’incarico, dovrà destreggiarsi fra il timore di suscitare il risentimento dell’anziano collega e le richieste pressanti del musicista, consapevole di giocare con la nuova opera una carta decisiva. 

Quant’altri abbiano messo le mani su quei versi, non è dato sapere: lo stesso Rossini, rievocando come sempre a posteriori una verità di comodo, fece circolare anche i nomi di Armand Marrast e Isaac Adolphe Crèmieux, futuri cospiratori contro Luigi Filippo, guarda caso indicandoli quali responsabili della scena di congiura nel secondo atto. Lo stesso Adolphe Nourrit, il tenore che avrebbe per primo interpretato la parte di Arnold (accanto a Laura Cinti-Damoreau come Mathilde e Henri Bernard Dabadie come Guillaume), sembra abbia dato sfogo al suo estro poetico, come già per Le Comte Ory .

Ai progressivi aggiustamenti del libretto si aggiunsero poi quelli della partitura, soggetta a modifiche continue durante le prove e nel corso delle prime rappresentazioni, per tacere degli interventi subìti negli anni successivi, a opera o meno di Rossini: dalla reazionaria traduzione italiana di Calisto Bassi, quanto mai inopportuna per un soggetto patriottico, e che pur s’acclimatò sulle scene di tutto il mondo, fino alla codificazione di numerosi tagli che portarono la musica dalle quattro ore originali a dimensioni più prossime a quelle del melodramma ottocentesco; lo stesso Rossini approntò una versione dell’opera in soli tre atti, il cui finale recuperava populisticamente il noto tema eroico che conclude l’ouverture. È questa una delle pagine più possenti del catalogo rossiniano, che abbandona lo schema sonatistico delle sinfonie italiane per votarsi a un polittico sonoro nel quale vengono sublimati, in successione, i quattro affetti portanti dell’opera: il dolore, sia esso amoroso o patriottico; il potere consolatorio della natura; gli effetti dirompenti dei suoi elementi, che erompono rivelando una collera a lungo repressa nell’animo; infine, il senso di rivalsa e di finale vittoria cui l’atto eroico conduce. Date queste premesse, è impossibile parlare di una e una sola versione autentica dell’opera, bensì di una partitura aperta a numerose soluzioni esecutive, la cui traccia drammatico-musicale rimane comunque generalmente quella qui esposta.

Atto primo - In un villaggio svizzero è in corso una festa campestre per le nozze imminenti di tre coppie di pastori: fra canti e balli (quartetto, con barcarola del pescatore Roudi, "Accours dans ma nacelle" / "Il picciol legno ascendi"), Guillaume piange in disparte le sorti della patria oppressa dal dominio asburgico. L’anziano Melcthal benedice gli sposi ed esprime al figlio Arnold il desiderio di poter presto fare altrettanto con lui. Vana speranza: il giovane contadino arde segretamente per Mathilde, principessa d’Asburgo ospite nella corte del governatore austriaco Gesler; alle differenze di rango s’aggiungono, insormontabili, quelle politiche, rese ancor più vive dalle sollecitazioni di Guillaume, che ora invita Arnold a unirsi ai ribelli contro il nemico (duetto "Où vas-tu? quel transport t’agite?"/ "Arresta... Quali sguardi"). La festa continua fra danze (Pas de six) e giochi, che proclamano il piccolo Jemmy, figlio di Guillaume, vincitore del tiro con la balestra. L’esultanza generale viene interrotta dall’irruzione del pastore Leuthold: per salvare l’onore della figlia ha ucciso un soldato austriaco, e solo se qualcuno lo condurrà sull’altra sponda del torrente potrà sfuggire alla furia del comandante Rodolphe e dei suoi sgherri che lo inseguono. Guillaume si offre d’aiutarlo, mentre Rodolphe, dopo aver cercato inutilmente di conoscere dal popolo il nome del traghettatore, ordina ai suoi di distruggere il villaggio e si allontana prendendo in ostaggio il vecchio Melcthal.

Atto secondo - Durante una partita di caccia, Mathilde si apparta (romanza "Sombre forêt, désert triste et sauvage" / "Selva opaca, deserta brughiera") per poter incontrare nascostamente l’amato Arnold ("Oui, vous l’arrachez à mon âme" / "Tutto apprendi, o sventurato"). È notte ormai, e mentre la principessa si allontana promettendo un nuovo incontro per il giorno successivo, Arnold viene sorpreso da Guillaume e Walter, che intendono distoglierlo dalla passione amorosa e incitarlo all’amor di patria ("Quand d’Helvétie est un champ de supplices" / "Allor che scorre de’ forti il sangue"). Ma solo dopo aver appresa la notizia che Gesler ha fatto uccidere Melcthal, Arnold risolve di unirsi ai rappresentanti dei vari cantoni, convenuti fra le tenebre per il solenne giuramento contro l’oppressore (inno di congiura "Jurons, jurons par nos dangers" / "Giuriam, giuriamo pei nostri danni").

Atto terzo - Al nuovo incontro segreto, Arnold confida a Mathilde di voler vendicare il padre, cosa che non potrà che dividerli per sempre; vana la supplica della donna ("Pour notre amour plus d’espérance" / "Ah, se privo di speme è l’amore"): il giovane non è più disposto a fuggire per salvarsi la vita, ma rimarrà a difendere la patria. Frattanto giunge dalla pubblica piazza l’eco della festa che Gesler ha organizzato per celebrare il diritto di sovranità sulle terre elvetiche. In segno di sottomissione, tutti devono inchinarsi davanti a un trofeo d’armi, mentre canti e balli accompagnano la cerimonia (Pas de trois et Choeur tyrolien; Pas de soldats). Il rifiuto di Guillaume e Jemmy suscita l’ira di Rodolphe, che ravvisa nell’uomo colui che aveva tratto in salvo Leuthold: l’arresto è immediato. Tuttavia, conoscendone l’abilità d’arciere, Gesler lo sfida offrendogli vita e libertà se sarà in grado di colpire con una freccia una mela posta a distanza sulla testa del figlio. Fra la commozione generale, Guillaume raccomanda a Jemmy di pregare Iddio nella massima calma ("Sois immobile, et vers la terre" / "Resta immobile, e vêr la terra inchina"): il dardo scocca, l’impresa riesce. Sopraffatto dall’emozione, Guillaume s’accascia al suolo, lasciando così scorgere una seconda freccia che aveva tenuto in serbo per Gesler in caso di fallimento. La furia del governatore scoppia irrefrenabile; Mathilde, precipitosamente avvertita da un paggio, accorre sul luogo, ma ottiene soltanto di poter prendere Jemmy sotto la propria protezione, mentre Guillaume viene condotto a morte.

Atto quarto - Arnold s’aggira desolato nella casa paterna ("Asile héreditaire" / "O muto asil del pianto"), quando viene raggiunto dai ribelli in cerca delle armi nascoste da Melcthal per il giorno della rivolta: il giovane s’unisce a loro, consapevole che il momento è vicino. Frattanto Mathilde, ha ricondotto Jemmy da sua madre Hedwige (terzetto "Je rends à votre amour" / "Salvo da orribil nembo"). Mentre il ragazzo, precedentemente istruito dal padre, corre a incendiare la propria casa per dare il segnale della rivolta, sul Lago dei Quattro Cantoni si addensano nubi che preannunciano tempesta: tutti temono per la sorte di Guillaume, ora prigioniero sulla barca di Gesler, che lo conduce alla fortezza (preghiera "Toi, qui du faible es l’espérance" / "Tu che l’appoggio del debol sei"); ma Leuthold annuncia di aver osservato dalla riva che, per far fronte all’impeto delle onde, proprio Guillaume è stato messo alla guida dell’imbarcazione. Tutti accorrono sulla spiaggia, e mentre infuria la tempesta vedono Guillaume riportare faticosamente la barca verso riva; avvicinatosi però a uno scoglio, vi balza prontamente sopra, respingendo il battello in mezzo ai flutti. Gioia e abbracci coi familiari sono subito interrotti: anche Gesler è riuscito a guadagnare la riva; a Guillaume non rimane che imbracciare la balestra e trafiggerlo. Arnold giunge dalla città coi rivoltosi, annunciando che il nemico è stato definitivamente scacciato. La gioia per la libertà riconquistata viene coronata dal sole, che torna a risplendere sulle bellezze della natura ("Tout change et grandit en ces lieux" / "Tutto cangia, il ciel si abbella").


 

sabato 2 agosto 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 2 agosto.

Il 2 agosto 1955 viene brevettato il Velcro.

Fino al 2 aprile 1978, se vi fosse mai capitato di parlare di velcro, non potevate sbagliare. Fino a quel giorno, infatti, il nome per indicare il sistema attacca e strappa (meglio: chiusura hook and loop) usato su giacche, scarpe, borse, giochi, era di proprietà dell’omonima azienda, la Velcro appunto. Quel giorno, però, il brevetto che ne rivendicava la paternità scadeva, e il sistema di chiusura inventato da George de Mestral diventava di dominio pubblico, vantando una serie di imitatori da cui, per rimanere in tema, sarebbe stato difficile staccare il nome di velcro.

Il materiale era nato nella testa del suo inventore, come spesso accade, osservando la natura. Si racconta che un giorno d’estate, negli anni Quaranta, George de Mestral, ingegnere svizzero appassionato di caccia e amante della montagna, se ne fosse uscito per una passeggiata portando con sé anche il suo cane. Di ritorno a casa, si era accorto che i suoi vestiti e il pelo dell’animale erano pieni degli appiccicosi fiori di cardo alpino, quelle palline che si attaccano ovunque. Più incuriosito che infastidito dal caso, de Mestral cercò di carpire i segreti di quei fiori. Fu così che si armò di un microscopio e cominciò a osservare il modo con cui si attaccavano alle superfici.

E quello che vide era un sistema tanto semplice quanto efficace sviluppato dal cardo per diffondere i propri semi (e far innervosire gli appassionati di montagna). La loro superficie infatti era ricoperta di una sorta di aghi le cui estremità terminavano con degli uncini, i quali a loro volta si arpionavano ai cappi naturali presenti sul pelo degli animali o sui tessuti. Così a de Mestral venne l’ idea. Avrebbe sfruttato lo stesso meccanismo per realizzare un sistema di chiusura analogo a quello delle zip, a incastro: uncini da un lato, cappi dall’altro.

Dopo essersi fatto aiutare da un tessitore, l’ingegnere nel 1955 brevettava il suo Velcro, ma non ancora con i connotati in cui sarebbe diventato famoso. Inizialmente era infatti costituito di due strisce di cotone, e solo successivamente sarebbe diventato di nylon, un materiale che meglio si prestava allo scopo, che poteva essere cucito ovunque. Per il nome, invece, la scelta fu facile: bastava pensare alle sue origini e alla sua funzione: ne venne fuori Velcro, l’insieme delle parole francesi velour (velluto) e crochet (gancio, uncino).

Fu un successo spaziale. I primi a beneficiarne furono infatti gli astronauti, dove l’attacca e strappa serviva loro a fissare gli oggetti che non dovevano mettersi a svolazzare nella cabina, e a staccarli all’occorrenza strappando le chiusure. Ma il resto della popolazione non riuscì a cogliere subito le potenzialità dell’invenzione.

Col passare del tempo il velcro si è diffuso a macchia d’olio nel mondo, a grandi linee, possiamo dire che il velcro oggi viene fabbricato tessendo il nylon in modo tale da produrre un tessuto ricco di piccoli anelli, si procede poi alla “rasatura” degli anelli di nylon fino a ottenere tanti minuscoli gancetti che vengono poi riscaldati e fissati affinché mantengano la loro forma.

Oltre a essere un materiale con un’altissima durata, il velcro grazie alla sua conformazione, può essere fissato e staccato a mano senza particolare fatica, mentre la sua resistenza si nota sulle sue parti laterali. Mediante una stima infatti sappiamo che un quadrato da 12 cm di lato può resistere a un peso di circa una tonnellata. Questa proprietà ha reso utilizzabile il velcro in diversi settori: non solo nel campo dell’abbigliamento, ma anche nell’industria spaziale, anche dall’azienda Argotec, e in campo medico.

Oggi l’azienda Velcro ha la sua sede nel Regno Unito e conta circa 2500 dipendenti, i principali prodotti commercializzati sono:

Sistemi generici di chiusura a strappo

Chiusure ultraresistenti

Nastri e chiusure per prodotti tessili

Chiusure a uncino tradizionali

Blocchi di costruzioni per bambini

Adesivi utili al giardinaggio

Piccola curiosità: nel 2016 la Lexus mette in atto un pasce d’aprile presentando i sedili “Variable Load Coupling Rear Orientation (V-LCRO)”, ovvero ricoperti di velcro per garantire aderenza al sedile durante la guida.

venerdì 1 agosto 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il primo agosto.

Il primo agosto 1291 nasce la Confederazione Svizzera.

C’è un giorno, in Svizzera che è festa civile in tutti i 26 cantoni: il 1° agosto. In quel giorno, nel 1291, nasceva il nucleo della Confederazione con il patto federale tra i Uri, Schwyz/Svitto e Unterwald che, per questo sono chiamati i «Cantoni primitivi». 

Quando i rappresentanti delle comunità si incontrarono in un piccolo spiazzo di circa cinque ettari, sul Vierwaldstättersee [Lago dei Quattro Cantoni] vicino a Seelisberg (UR), il prato del Rütli, come viene chiamato nei cantoni di lingua tedesca o Grütli, in quelli di lingua francese e in Ticino, la loro intenzione era quella di segnare un’alleanza difensiva contro la pressione degli Asburgo e dei loro balivi che volevano estendere la loro influenza dall’Austria fino al Gottardo. Probabilmente non immaginavano neppure le «conseguenze» del loro gesto. A questo primo nucleo e con gli stessi intenti, si sono via via aggiunti altri «Paesi» (il termine «Cantone» sarà utilizzato più tardi). 

Solo nel 1848 nasce la Confederazione Helvetica, la Svizzera come la conosciamo oggi. Fino ad allora era più che altro un agglomerato di territori, città e campagne diversi, cresciuti e sviluppatisi uno nell’altro anche con forti tensioni interne che hanno portato persino a rivolte e guerre civili. 

La cerimonia commemorativa del 1° agosto si svolge ogni anno sul prato del Rütli che è Monumento nazionale. Le autorità e i cittadini si recano sul luogo a piedi arrivando dal lago o per un sentiero che scende da Seelisberg e l’avvenimento è trasmesso da tutte le televisioni nazionali. La cerimonia ufficiale Federale è, tutto sommato, molto sobria, un discorso solenne, musica e l’inno nazionale cantato in coro. 

A proposito dell’inno. Solamente dal 1° aprile 1981 la Svizzera ha riconosciuto ufficialmente il «Salmo Svizzero» come inno nazionale. Il Salmo era stato composto da un monaco cistercense dell’abbazia di Wettingen (AG), Albert Swyssig nel 1841 e veniva spesso cantato in occasioni di eventi nazionali in sostituzione di quello precedente «Rufst Du mein Vaterland» la cui musica era quella di «God save the Queen», l’inno inglese. Nonostante l’ufficialità, il Salmo Svizzero non gode di grande popolarità e Il 1° agosto 2013 la Società Svizzera di Utilità Pubblica, che organizza eventi patriottici come la Festa Federale del 1° agosto sul Rütli, ha lanciato un grande concorso di idee per un nuovo inno nazionale che dovrà avere un’impostazione più moderna pur attenendosi a regole severe: «Il testo deve rispecchiare il significato e lo spirito del preambolo della Costituzione federale, i suoi valori. La giuria dovrà anche stabilire se la musica dell’inno nazionale può essere rivisitata restando comunque riconoscibile». Il 12 settembre 2015, in occasione della Festa federale della musica popolare di Aarau, venne selezionata la proposta del cittadino zurighese Werner Widmer, che venne sottoposta all'attenzione del Consiglio Federale, incaricato di valutarne o meno l'approvazione. Tuttavia, ad oggi l'inno è ancora il Salmo svizzero. 

La Festa nazionale, coerentemente con lo stato federale della Confederazione, è celebrata in maniera differente nei diversi cantoni. Dappertutto sventola la bandiera quadrata rossocrociata ma ogni comune festeggia come vuole.

Il momento più importante è alla sera della vigilia, il 31 luglio. Alle 8 tutte le campane della Confederazione suonano a festa, si accendono grandi falò e si sparano i fuochi d’artificio, come a Schaffhausen/Sciaffusa (SH), uno dei posti più suggestivi in cui vedere i festeggiamenti, dove per l’occasione le famosissime cascate del Reno, larghe 150 metri e alte 23, sono illuminate dai giochi pirotecnici.

giovedì 31 luglio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 31 luglio.

Il 31 luglio 1703 Daniel Defoe viene messo alla gogna per diffamazione nei confronti della Chiesa d'Inghilterra.

Figlio di James Foe, mercante di candele londinese whig, liberale, originario delle Fiandre, Daniel Defoe nasce a Londra il giorno 3 aprile 1660. Viene educato in un' "Accademia dei dissenzienti": una scuola politecnica fondata da quei protestanti "cromwelliani" e non anglicani che erano banditi dalle università tradizionali, e che sarebbero divenuti di li a poco gli artefici della Rivoluzione industriale.

Rinuncia a diventare pastore presbiteriano e ben presto si lancia nel commercio viaggiando sul continente. Di volta in volta fabbricante di mattoni, commerciante di prodotti di nuova invenzione, armatore, perde ripetutamente le considerevoli fortune che guadagna. All'apice del successo aggiunge al cognome originario Foe un "De" volto a identificarlo come un rifugiato fiammingo elisabettiano protestante.

Intorno all'anno 1683 Daniel Defoe apre un negozio di merci e sposa Mary Tuffley, figlia di un ricco mercante che vanta una dote di ben 3.700 sterline: da lei avrà sei figli. Nel 1692 arriva il tracollo: Defoe finisce in prigione per bancarotta con 17 mila sterline di debiti, dopo essersi distratto dagli affari per mettersi a scrivere di economia. In questi scritti peraltro Defoe raccomanda la creazione di una banca nazionale (poi nata nel 1694), di compagnie di assicurazioni (i Lloyds nasceranno poco tempo dopo), di casse di risparmio, pensioni, manicomi, auspicando - naturalmente - la riforma delle leggi sulla bancarotta.

La dura esperienza del carcere lo allontana dalle speculazioni avventate. Whig convinto, Daniel Defoe lotta nel 1685 a fianco del duca di Monmouth, figlio protestante e illegittimo di Carlo II, contro la salita al trono di Giacomo, il fratello apertamente cattolico di Carlo ed erede legittimo. Prende quindi parte alla rivoluzione (la cosiddetta "Glorious Revolution") del 1688 arruolandosi nell'esercito; partecipa alla spedizione d'Irlanda e mette il suo talento di libellista al servizio di Guglielmo III d'Orange, quando questi venne chiamato a rovesciare il suocero cattolico Giacomo il quale minacciava di introdurre in Inghilterra uno Stato assoluto, imitando il cugino Luigi XIV nella "pulizia" dei protestanti.

Con il suo scritto "L'Inglese di fiero lignaggio" (The True - Born - Englishman, 1701) difende il re e la sua politica. Si batte in favore della libertà di stampa e di coscienza, della proprietà letteraria e della libertà religiosa. Con la morte del suo protettore, il re Guglielmo d'Orange, Defoe viene arrestato per aver diffamato la Chiesa d'Inghilterra in "La via più breve per i dissenzienti" (The Shortest Way with the Dissenters, 1702). Queste pagine avrebbero successivamente ispirato la "Modesta proposta" (1729) di Jonathan Swift per una soluzione del problema irlandese: si tratta di un pamphlet di satira dal titolo "A Modest Proposal: For Preventing the Children of Poor People in Ireland from Being a Burden to Their Parents or Country, and for Making Them Beneficial to the Publick" (Una modesta proposta: per evitare che i figli degli Irlandesi poveri siano un peso per i loro genitori o per il Paese, e per renderli un beneficio per la comunità), in cui Swift suggerisce provocatoriamente di mangiare i bambini irlandesi.

Defoe suggerisce ironicamente agli anglicani di trattare i dissenzienti come Luigi XIV aveva trattato i suoi sudditi protestanti. La collera delle alte sfere della Chiesa anglicana è tale che la Camera dei comuni lo giudica all'Old Bailey, manda a rogo il libro - fatto, questo, eccezionale - e condanna Defoe a tre esposizioni alla gogna fra le grida di sostegno della folla che lo adorava, nonché all'imprigionamento a Newgate, che sarebbe poi diventato lo sfondo del suo grande romanzo "Moll Flanders".

Con una moglie e sei figli da mantenere, persa la fabbrica di mattoni, Daniel Defoe dà vita in prigione alla rivista "The Review" (1703 - 1713) che uscirà tre volte a settimana e che diventerà una pietra miliare del giornalismo inglese. Defoe scrive da solo, su qualsiasi argomento, tutti i numeri della rivista; mentre affettava un atteggiamento da commentatore politico indipendente si trovava in realtà - in cambio della promessa di rilascio - nel libro paga del primo ministro tory (conservatore) Robert Harley, suo supposto nemico e persecutore; resterà al suo servizio per circa undici anni.

Dopo il 1715 si allontana definitivamente dalla lotta politica. Con sessanta primavere sulle spalle si dedica alle opere romanzesche: pubblica "Robinson Crusoe" nel 1718, romanzo ispirato all'avventura del marinaio scozzese d'origine tedesca, Alexander Selkirk finito in un'isola deserta a seguito di un naufragio, e che, con mezzi di fortuna e con il sussidio del suo ingegno, riesce a costruire da zero il mondo inglese e borghese dal quale era fuggito per insofferenza della sua stessa condizione (borghese). Il successo è immediato, da subito appare immenso, tanto che durerà fino ai nostri giorni.

La seconda parte della storia appare l'anno successivo. Seguono quindi vari romanzi quali "La vita, le avventure e le piraterie del capitano Singleton" (The life, Adventures and Pyracies of the Famous Captain Singleton, 1720); "Fortune e disgrazie della famosa Moll Flanders" (The fortunes and Misfortunes of the Famous Moll Flanders, 1722); "Colonel Jack" (1722); "Giornale dell'anno della peste" (A journal of the Plague Year, 1722) e "Lady Roxana" (Lady Roxana or the Fortunate Mistress, 1724).

Precursore del realismo immaginario, Daniel Defoe è considerato a tutti gli effetti il primo moderno scrittore "seriale". Defoe non era in realtà interessato a creare o sviluppare il romanzo a fini letterari. Era prima di tutto un giornalista e un saggista, e allo stesso tempo anche un professionista della penna pronto a mettere il suo talento al servizio del miglior offerente. Defoe è stato visto più volte dalla critica letteraria come il padre del romanzo moderno, in particolare di quella forma in prosa in cui la figura di un singolo personaggio o di un gruppo di personaggi e del loro destino sia al centro della vicenda, in cui si cerca di rispettare determinati criteri di coerenza e verosimiglianza. Defoe non inventò un genere ma fu di fatto il primo a utilizzare questo tipo di forma letteraria per una produzione sistematica.

Dopo un'esistenza caratterizzata da numerose delusioni e disgrazie, Daniel Defoe muore a Moorfields, nei pressi di Londra, il 24 aprile 1731, abbandonato da un figlio che l'aveva depredato da ogni bene lasciandolo nella miseria più estrema. Oggi è nel cimitero di Bunhill Fields, a Londra.

mercoledì 30 luglio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 30 luglio.

Il 30 luglio 1672 viene alla luce in Francia il cosiddetto scandalo dell'"affare dei veleni".

L’affare dei veleni non viene trattato a scuola (non sia mai che venga raccontato qualcosa di interessante, si rischia poi che gli studenti si sveglino e facciano domande), ma si tratta nientemeno che del caso di cronaca nera più sconvolgente dell’epoca del Re Sole, un’indagine che insozzò indelebilmente l’immagine scintillante della corte di Francia agli occhi dell’Europa.

Tutto iniziò nel 1672 con l’arresto della marchesa di Brinvilliers, una fragile e garbatissima signora di 46 anni, a seguito del ritrovamento di alcune carte compromettenti.

Tempo prima, il padre e i due fratelli della marchesa erano deceduti in circostanze misteriose, nonché sospettosamente simili. Tutti e tre erano lentamente deperiti in una lunga agonia che non aveva lasciato scampo. Nessuno poteva sospettare dell’affranta marchesa, perseguitata da una sorte tanto crudele.

Nella realtà, Madame de Brinvilliers aveva avvelenato il padre e i fratelli con la complicità del suo amante, grande appassionato di alchimia.

Purtroppo, la dolce metà della marchesa era perita improvvisamente in un brutto incidente (forse un esperimento andato male). Durante una perquisizione dell’abitazione, la polizia era entrata in possesso di alcune carte firmate dalla marchesa in persona.

Tali carte dimostravano essenzialmente due cose: il primo era la colpevolezza di Madame de Brinvilliers, il secondo che la medesima non era decisamente un genio del crimine. Marchesa, marchesa… Non si può mettere su carta sempre tutto, specialmente quando si avvelenano familiari con una certa frequenza!

Questa leggerezza le costerà cara: il suo complice si era premurato di conservare ogni ricordo materiale dei traffici di madame de Brinvilliers (ricette, lettere, ricevute…) cosicché, se un domani avesse mai voluto ricattarla, tutto sarebbe stato bell’e pronto. Cosa non si fa per amore...

Come se non bastasse, nelle lettere che la marchesa aveva indirizzato al suo complice, ella pianificava anche l’avvelenamento della sorella e della cognata, così da diventare lei sola l’erede dei beni di famiglia (ah, la banalità del male!).

Consapevole di non avere scampo, la marchesa fuggì a gambe levate riuscendo a nascondersi in un convento, luogo inaccessibile agli agenti del re. Un brillante ufficiale di polizia si finse allora prete e, col tempo, riuscì a guadagnarsi la fiducia della latitante avvelenatrice, fino a prometterle la fuga e attirarla così all’esterno del convento…

Tortura, decapitazione e rogo segnarono la fine di questa dama-assassina, ma non quella delle indagini: il re pretendeva di arrestare il sordido commercio di veleni della capitale ed eliminarne i vertici.

Nicolas Gabriel de la Reynie, capo della polizia che ispirò il personaggio di Fabien Marchal nella serie televisiva Versailles, era venuto a conoscenza che traffici di sostanze illecite si concentravano nel quartiere poco raccomandabile di Saint-Denis (oggi corrisponde alla parte compresa tra il boulevard de la Bonne Nouvelle e la porta Saint-Denis) e lo aveva fatto battere al tappeto dai suoi agenti.

Venditori di veleni, streghe, indovini e altra marmaglia da messa nera venne rastrellata e ammassata nelle prigioni. L’ordine del re era chiaro: bisognava estirpare il problema alla radice!

Gli interrogatori e le indagini portarono alla luce nuovi crimini, commerci sordidi e diversi colpevoli, ma le rivelazioni che maggiormente attirarono l’attenzione di Reynie furono quelle della maga La Voisin, una fattucchiera molto nota del quartiere.

Preoccupato dai nomi illustri che ripetutamente saltavano fuori nel corso delle indagini, il capo della polizia ritenne opportuno avvertire persino il ministro della guerra, il celebre marchese de Louvois.

Uno scandalo ripugnante e senza precedenti stava prendendo forma. L’aspetto più preoccupante della vicenda, per Reynie, non era tanto il ricorso disinvolto al veleno, quanto piuttosto il livello sociale delle persone coinvolte, la crème de la crème della Francia!

Il re, informato dal fido ministro de Louvois, ordinò di arrivare in fondo alla faccenda e le indagini si fecero serrate, con ben 319 arresti e 35 condanne a morte.

La contessa Olimpia Mancini, amante “rottamata” del Re Sole, venne accusata d’aver tentato in passato di vendicarsi della rivale Louise de la Vallière tramite l’impiego del veleno. Se il piano della contessa era quello di riconquistare in questo modo il re, le andò male perché venne bandita dal regno.

Sua sorella Maria Anna Mancini, duchessa di Bouillon,  venne accusata di voler avvelenare il marito per poter sposare il proprio amante (che era suo nipote, ma tanto c’è un limite alla sensibilità allo scandalo, oltre il quale nessuno fa più caso a nulla).

Al processo la duchessa si fece una bella risata presentandosi al braccio del marito da un lato, dell’amante dall’altro. Venne totalmente assolta.

Nel frattempo, il marchese de Louvois e Reynie avevano fatto una malaugurata scoperta: durante gli interrogatori era venuto fuori troppo spesso il nome di Madame de Montespan, la potente favorita del re, nonché madre di sette dei suoi figli!

Secondo le testimonianze raccolte, per mantenere viva la passione del re la Montespan aveva fatto ricorso a messe nere, malocchio, filtri d’amore, veleno e altre “amenità”. Si accennò addirittura al sacrificio di neonati!

Difficile distinguere il crimine dalla calunnia in questo caso, in quanto alla Montespan certo non mancavano i nemici. Tuttavia, poiché il re fece improvvisamente chiudere il caso e poi sequestrare e bruciare le carte che la riguardavano, risulta difficile credere che fosse del tutto estranea alla faccenda. Quello fu l’inizio della di lei “rottamazione”, nonché di una profonda crisi morale del re.

Chi non si fece scappare questo prezioso spunto letterario? Alexandre Dumas che, con il successo de I tre Moschettieri, aveva dimostrato che per scrivere delle buone storie non occorre per forza inventarle da zero. Suo il libello "L'avvelenatrice", pubblicato nel 1840.

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