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giovedì 31 ottobre 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 31 ottobre.
Il 31 ottobre 1975 viene pubblicato il singolo "Bohemian Rhapsody" dei Queen.
Secondo la critica, Bohemian Rhapsody era un pasticcio «ideologicamente» irricevibile e musicalmente inascoltabile. Il singolo dei Queen, quasi sei minuti, era articolato in sezioni e conteneva una ballata, un inserto operistico e un'esplosione di chitarre rock.
Tratto dall'album A Night at the Opera (1975), il brano fu considerato la massima espressione del kitsch che caratterizzava la musica magniloquente di tanti gruppi anni Settanta.
Mentre la critica si lamentava, il pubblico ascoltava e sanciva il successo inarrestabile della canzone. Da poco Bohemian Rhapsody ha infatti superato 1,6 miliardi di ascolti a livello globale in Rete, conquistando un nuovo record e scalzando dalla vetta Smells Like Teen Spirit dei Nirvana e Sweet Child O'Mine dei Guns 'N Roses. Bohemian Rhapsody è il brano del XX secolo più ascoltato al mondo in Rete (Spotify, Apple Music, Deezer e YouTube) e probabilmente in assoluto. Allo streaming bisogna aggiungere i milioni di copie vendute, il primo in soli due mesi. Festeggia il chitarrista Brian May: «Così il fiume della musica rock si è trasformato in un ruscello (questo il significato di stream in inglese, ndr). Sono felicissimo che la nostra musica continui a scorrere al massimo». Senz'altro un ruolo nel sorpasso deve averlo giocato l'omonimo film, uscito nelle sale poco tempo fa. Il lungometraggio, dedicato a Freddie Mercury e alla storia dei Queen, ha seguito il tragitto della canzone da cui prende il titolo. La critica lo ha massacrato ma ha registrato incassi clamorosi (anche in Italia). Al momento il film di Bryan Singer ha portato a casa circa 600 milioni di dollari, ha vinto 4 premi Oscar incluso quello di Rami Malek, protagonista della pellicola.
E dire che la canzone non era nata sotto i migliori auspici. L'etichetta discografica rimase di sasso quando la band impose che il singolo per lanciare A Night At The Opera (uno dei dischi più costosi del periodo) durasse sei minuti: nessuno l'avrebbe trasmesso in radio. Freddie non era d'accordo. Fece arrivare, in segretezza, Bohemian Rhapsody all'amico dj Kenny Everett e lo convinse a passarlo quasi ininterrottamente sulla popolare Capital FM per 48 ore. L'esperimento fu baciato dalla fortuna. La mini rock opera conquistò gli ascoltatori. Bohemian Rhapsody fu il primo singolo dei Queen ad entrare nella classifica USA e restò al primo posto della classifica del Regno Unito per nove settimane (record). Nel 1992 fu rilanciato dalla colonna sonora del film Fusi di testa e rientrò in classifica, così come accadde dopo la morte di Freddie Mercury (1946-1991). Nel 2000 è stato eletto «canzone del secolo» nel Regno Unito, dove è il terzo singolo più venduto di sempre e il secondo più trasmesso nella storia della radiofonia britannica.
La lavorazione di Bohemian Rhapsody fu complessa. Ci vollero sei settimane, all'epoca un'eternità, per inciderla. Il mito vuole che i sei (!) studi di registrazione abbiano finito i nastri a disposizione. Solo per le voci, furono utilizzati 180 nastri e realizzate 70 ore di parti d'opera. Nessuno, a parte Mercury, aveva il quadro della situazione. E Freddie vagava per lo studio cercando di rimettere assieme il testo scritto su foglietti strappati da un elenco del telefono... Il pianoforte suonato da Mercury fu lo stesso che John Lennon utilizzò per incidere Hey Jude. Resta poi il mistero di cosa significhi la canzone, la confessione di un omicidio (metaforico, ma qualcuno non è d'accordo) che finisce con il liberare il killer dalla menzogna. Testimonianza di Brian May: «Freddie era una persona molto complessa. Irriverente e divertente in superficie, ma con un'anima che arrivava a strane profondità. Della sua infanzia non ha mai parlato molto, ma c'è molto di se stesso e delle sue origini in quella canzone. Non credo sapremo mai quale sia il significato di Bohemian Rhapsody, ma anche se lo sapessi non lo direi». Secondo la biografa Lesley-Ann Jones, Bohemian Rhapsody è l'outing del cantante. All'epoca il leader dei Queen era legato alla compagna Mary Austin, ma era già consapevole di essere omosessuale. La verità? Non la sapremo mai.

mercoledì 30 ottobre 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 30 ottobre.
Il 30 ottobre 1975 Juan Carlos assume le funzioni di capo di Stato della Spagna, succedendo al dittatore malato Francisco Franco. Alla sua morte, il 22 novembre, fu proclamato re.
Juan Carlos de Borbón y Borbón-Dos Sicilias, com'è noto sugli atti ufficiali spagnoli, meglio conosciuto semplicemente come re Juan Carlos I di Spagna o Re Juan Carlos di Borbone, nasce a Roma, il 5 gennaio del 1938. Dal 22 novembre del 1975 al 19 giugno 2014 è stato il re di Spagna.
La nascita romana del futuro reale di Spagna è testimonianza del momento estremamente delicato nel quale si trova il Paese quando il piccolo Juan Carlos viene al mondo. In piena guerra civile infatti, con i Repubblicani sul piede di guerra, il casato dei Borbone preferisce accasarsi, per così dire, nell'Italia di Mussolini, ove nasce per l'appunto il futuro successore della Corona. Suo padre è Juan di Borbone-Spagna, conte di Barcellona e terzogenito del re Alfonso XIII di Spagna, e di Maria Mercedes di Borbone e delle Due Sicilie.
Quando termina il conflitto civile e quello bellico internazionale, per giunta in favore di Franco e della sua falange, il terzogenito della famiglia, che si trova nel ruolo di successore ufficiale a causa della rinuncia dei suoi due fratelli maggiori, esattamente nel 1948 viene ricondotto insieme al casato reale nella sua residenza madrilena.
L'educazione che riceve, dal momento del rientro ispanico, è tutta orientata verso la monarchia, nell'attesa che la situazione torni alla normalità e sia per lui favorevole. Dal 1939 infatti, Francisco Franco ha instaurato una dittatura fascista. Tra i provvedimenti presi dal "Generalissimo", come viene soprannominato tra i fascisti a lui vicini, c'è sì il restauro della monarchia spagnola; tuttavia, per un lungo lasso di tempo, a reggerne le sorti ufficiali è lo stesso dittatore, conservando tutti i diritti della Corona per oltre un trentennio.
Il destino del casato pertanto è quello di restare all'ombra del governo fascista di Franco, pur godendo di alcuni privilegi e di una certa protezione da parte delle alte sfere del regime e, non senza importanza, da parte del clero spagnolo, punto di riferimento per la falange e per la sua attività politica.
Il giovane Juan Carlos fa parlare di sé quando conosce la sua futura moglie, la prossima regina di Spagna, Sofia. Quando i due convolano a nozze, ad Atene, Sofia è ancora chiamata Sofia di Grecia, figlia del re Paolo I e di Federica di Hannover. Il matrimonio tra i due viene celebrato nel 1962.
Juan Carlos di Spagna e Sofia di Grecia, come viene ancora chiamata anche dopo il matrimonio, avranno tre figli: Elena, Cristina e il principe ereditario Felipe.
Finalmente, un momento di svolta arriva nel 1963, quando il generale Franco, reggente della Corona dal 1939, proclama Juan Carlos suo "successore" a titolo di re. La nomina viene ufficializzata anche formalmente entro il 1969. È questo, un periodo molto delicato per il dittatore, che da tempo ha problemi di salute. Provvidamente infatti, Franco consegna nelle mani del futuro regnante legittimo di Spagna un peso politico fino a quel momento mai concesso a nessuno. È del 1973 infatti, la nomina di Juan Carlos di Spagna a capo di stato supplente.
Il 20 novembre del 1975, malato del morbo di Parkinson, muore Francisco Franco. Due giorni dopo, esattamente il 22 novembre del 1975, viene incoronato il nuovo re di Spagna, Juan Carlos I di Borbone.
Il nuovo regnante si prodiga subito per iniziare i lavori di una nuova costituzione democratica, la quale arriva ufficialmente nel 1978, con un'approvazione unanime e popolare, per giunta agevolata da una serie di riforme istituzionali promosse dal nuovo re di Spagna. L'ex paese del dittatore fascista diventa una monarchia costituzionale a tutti gli effetti.
Sono anni di grande transizione all'interno della società spagnola però, e non solo sul piano istituzionale. Appena tre anni dopo dalla promulgazione della nuova costituzione, nel 1981, alcuni elementi della Guardia Civil e dell'esercito, organizzano un colpo di stato per ripristinare l'autorità in Spagna. In questo caso è lo stesso Juan Carlos I a dimostrarsi decisivo nello sventare il golpe, per giunta annunciandolo in televisione e rendendo pubblica ogni cosa.
Nel 1998 il re viene invitato in Italia per tenere un discorso al Parlamento, primo Capo di Stato straniero a farlo nella storia della Repubblica Italiana. Nel 2007 poi, onde evitare polemiche e a conferma del proprio indiscusso tatto per certe questioni delicate, deicide di non prendere parte alla beatificazione di quasi 500 martiri della guerra civile spagnola. Lo stesso anno, fa il giro delle televisioni del mondo la sua lite con il Capo di Stato del Venezuela, Hugo Chavez, che zittisce davanti alle telecamere, mentre prende le difese dell'ex premier Aznar.
In tempi recenti un sondaggio televisivo spagnolo consacra Juan Carlos come il più grande spagnolo di tutti i tempi, davanti a Cristoforo Colombo (da sempre esiste una diatriba tra spagnoli e italiani nel considerare Colombo proprio connazionale), Pablo Picasso e Miguel Cervantes. A conferma dell'approvazione ricevuta unanimemente dal popolo spagnolo c'è anche un nuovo sondaggio il quale sostiene che l'80% della gente sia convinta che la transizione democratica non sarebbe stata possibile senza il re Juan Carlos I.
Il 19 giugno 2014 ha abdicato in favore del figlio Felipe.

martedì 29 ottobre 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 29 ottobre.
Il 29 ottobre viene decapitato a Napoli Corradino di Svevia, ponendo fine così alla dinastia degli Hohenstaufen.
Corradino di Svevia nacque a Landshut, in Germania, nel 1252. Il padre era Corrado IV, figlio di Federico II, la madre Elisabetta di Wittelsbach (di Baviera). Noto anche come Corrado V di Hohenstaufen, duca di Svevia, fu l’ultimo sovrano della illustre dinastia: con lui si estinguerà, in pratica, la discendenza diretta. E' stato duca di Svevia (1254-1268, come Corrado IV).
Fu re di Sicilia dal 1254 al 1258 con il nome di Corrado II, e re di Gerusalemme dal 1254 al 1268 con il nome di Corrado III.
Nel 1266, dopo la morte di Manfredi, quando aveva solo quattordici anni, fu chiamato in Italia dai ghibellini.
Allora nell'Italia meridionale erano accesi fuochi di resistenza nei confronti di Carlo d'Angiò, che fu costretto a precipitarsi verso il sud per cercare di reprimere almeno le principali opposizioni prima che il giovane Hohenstaufen varcasse i confini del regno di Sicilia.
La calorosa accoglienza ricevuta nella ghibellina Pisa lo incoraggiò   a continuare la marcia verso il Sud e verso l’eredità che legittimamente gli spettava.
Accolto con favore dalle città imperiali dell'Italia settentrionale, entrò a Roma trionfalmente, ponendo le premesse per una facile vittoria.
Fu allora che Carlo d'Angiò, abbandonato l'assedio della colonia musulmana di Lucera che aveva intrapreso per onorare una promessa formulata al Pontefice, si mise in marcia per intercettare al più presto l'esercito del tedesco.
L’incontro avvenne sul confine del Regno di Sicilia presso Tagliacozzo.
Era il 23 agosto 1268. Dopo le prime mosse di assaggio, i comandanti dei due eserciti accettarono lo scontro campale. L'esito della battaglia si mantenne a lungo incerto, la carneficina fu enorme finché gli Angioini più numerosi, freschi, e forse meglio organizzati, ebbero la meglio.
In un primo momento Corradino riuscì a sottrarsi alla cattura, iniziando una rocambolesca quanto umiliante fuga nella campagna, ospite di gente che forse neppure lo conosceva. Alla fine, tradito da alcuni compagni, fu catturato dalle milizie angioine ed imprigionato.
Portato in catene a Napoli, fu sottoposto ad un processo farsa, assieme ad alcuni suoi fedelissimi: quali delitti potevano essergli contestati, tranne quello di voler onorare il nome della dinastia e di affermare i propri diritti?
Condannato a morte, fu decapitato a soli sedici anni il 29 ottobre 1268 sul patibolo eretto in Campo Miricino, l’odierna Piazza del Mercato della città partenopea.
Con questa orrenda, ingiusta morte che all'epoca destò grande scalpore, finivano gli Hohenstaufen. Si dice però che alla esecuzione fosse presente Giovanni da Procida, fedele amico di Federico II, che raccolse il guanto di sfida con l'intenzione di consumare presto una giusta vendetta.
Dante ricorda il giovane Corradino nel XX canto del Purgatorio:
"Carlo venne in Italia e, per ammenda,
vittima fe' di Curradino…".

lunedì 28 ottobre 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 28 ottobre.
Il 28 ottobre 1726 viene pubblicato "I viaggi di Gulliver".
I viaggi di Gulliver (Gulliver’s Travels) è il capolavoro dello scrittore irlandese Jonathan Swift (1667-1745), uno dei massimi autori satirici in lingua inglese. Il libro, pubblicato inizialmente anonimo nel 1726, racconta le disavventure per mare di un medico di bordo, Lemuel Gulliver, che incontra esseri e popolazioni fantastiche su isole immaginarie.
Dietro a questa facciata fiabesca - che si ispira al filone della letteratura di viaggio e ad un’opera quale il Robinson Crusoe (1719) di Daniel Defoe (1660-1731) - si cela il tono satirico e pessimistico dell’autore che, attraverso le avventure di Gulliver, mette in luce le miserie della natura umana, sfociando spesso in un vero e proprio humor nero e sarcastico. Oggi il romanzo è prevalentemente letto - storpiandone in gran parte il messaggio originario - come un’opera per l’infanzia.
Il romanzo si compone di quattro parti, una per ciascun viaggio intrapreso dal protagonista, l’inglese Lemuel Gulliver, un medico che prende la via del mare quando la sua attività a terra fallisce. La storia si svolge tra il 1699 e il 1715, è narrata in prima persona, spesso imitando a fini ironici e sarcastici lo stile freddo e distaccato dei resoconti ufficiali di viaggio.
Il primo viaggio (che va da 1699 al 1702) è anche il più noto, e racconta di come Gulliver, salpato dalla città inglese di Bristol, si ritrovi, dopo un naufragio, sulla spiaggia della terra sconosciuta di Lilliput. Qui il protagonista è circondato da tanti minuscoli ometti (la cui statura s’aggira sui quindici centimetri) che l’hanno legato con mille reti, timorosi che con la sua mole possa devastare il loro territorio. In realtà i lillipuziani si rivelano un popolo molto ospitale: essi lo conducono in città, gli offrono ospitalità e lo sfamano. Gulliver ha anche un incontro molto cordiale con l’imperatore di Lilliput, che decide di usarlo come arma contro l’isola di Blefuscu, abitata dagli acerrimi nemici dei Lillipuziani. I due popoli sono divisi soprattutto da una controversia: da quale estremità spaccare esattamente un uovo. Gulliver all’inizio acconsente, ma a causa degli intrighi di corte fra i “tacchi alti” e i “tacchi bassi” - altro elemento di satira contro le futili divisioni dei lillipuziani e degli uomini veri - Gulliver perde il favore della corte, benché abbia salvato la città da un’incendio urinando sulle fiamme. Egli viene dichiarato traditore e condannato a morte, ma riesce a fuggire su una barca abbandonata e, nel tentativo di raggiungere la terra dei Blefuscu viene raccolto da una nave e riportato a casa.
Il secondo viaggio (1706-1710) risulta in qualche modo opposto e speculare al primo: Gulliver si imbarca nuovamente ma, dopo una tempesta, il protagonista è abbandonato su un’isola mentre i compagni cercano viveri e acqua. Qui Gulliver incontra dei giganti, i Brobdingnag. Qui un gigantesco contadino di quasi 22 metri lo raccoglie tra l’erba e lo tiene come un piccolo animale domestico; a volte, lo fa esibire per denaro. Un giorno lo cede alla regina che lo usa per fare divertire la corte e che per lui fa costruire una piccola casetta portatile. Pur avendo l’occasione di discutere con l’imperatore dei giganti delle condizioni in cui versa l’Europa, la permanenza tra i Brobdingnag è per Gulliver molto sgradevole, in particolare a causa della loro ripugnanza (ogni particolare ed odore fisico è infatti ingigantito) e dello stile di vita umiliante che è costretto a condurre. Gli animali, poi, sono un autentico pericolo per lui (ha un incontro quasi fatale con delle enormi vespe), ma sarà proprio un animale a salvarlo involontariamente. Infatti, durante una gita con la coppia reale, la gabbietta in cui è tenuto viene afferrata da un’aquila e poi fatta cadere in mare. Grazie a questa circostanza Gulliver riesce a mettersi in salvo e a tornare ancora una volta dalla moglie e dai figli.
Ma le avventure non sono ancora finite: infatti Gulliver decide di imbarcarsi ancora per quello che è il suo terzo viaggio (1706-1710). In viaggio verso le Indie Orientali e fortunosamente scampato ai pirati, Gulliver finisce nella terra fluttuante di Laputa, abitata da studiosi di musica e matematica del tutto inetti sul piano pratico. Gli scienziati di Laputa all’accademia di Lagado si dedicano infatti ad esperimenti assurdi e ricerche assai improbabili (come estrarre raggi di sole dalle zucche o costruire case partendo dal tetto), che dimostrano come il sapere teorico sia del tutto inutile se non ha effettive ricadute pratiche. Gli abitanti di Laputa opprimono dal cielo gli abitanti di un’altra terra Balnibarbi, dove Gulliver decide di recarsi. Da qui visita Glubbdubdrib, dove incontra alcuni personaggi storici - tra cui Giulio Cesare - che giudica decisamente più ordinari rispetto a come vengono descritti nei libri. Dopo una sosta tra i Luggnaggiani e gli Struldbrugs (esseri immortali che vivono la loro considerazione come una pena, dato che non è stata concessa loro l’eterna giovinezza e sono perciò vecchissimi) Gulliver torna ancora una volta in Inghilterra, passando prima per il Giappone.
Durante il quarto e ultimo viaggio (1710-1715) Gulliver si trova di nuovo alle prese con una disgrazia marittima: l’ammutinamento del suo equipaggio. Arriva così fortunosamente nella terra popolata dagli Houyhnhnms, cavalli dotati di raziocinio, e dai loro servitori, gli Yahoo, che sono esseri umani nell’aspetto ma abbruttiti nel corpo e nello spirito. Gulliver fa presto amicizia con i cortesi ed evolutissimi Houyhnhnms, impara la loro lingua e spiega loro la Costituzione inglese. La società degli Houyhnhnms si basa sui principi della più pura razionalità: essi non hanno religione e non conoscono dolore per la morte (anche quella dei loro cari), la loro struttura sociale è basata sulla famiglia con due figli di ambo i sessi e nella loro lingua non ci sono termini per definire i sentimenti, la falsità, l’ipocrisia. Il loro disprezzo per gli Yahoo si esplica nel fatto che, quando vogliono esprimere un concetto o un parere negativo, postpongono a ciò che dicono il termine “yahoo”.
Gulliver, disgustato dagli Yahoo così simili a lui, chiede di essere ammesso tra questi cavalli sapienti. Tuttavia gli Houyhnhnms, temendo che la natura malvagia di Gulliver possa prima o poi manifestarsi, lo bandiscono. Addolorato ma rassegnato, Gulliver si costruisce una canoa e, presa la via del mare, viene raccolto da una nave portoghese. Benché il capitano lo tratti assai bene, Gulliver considera ormai tutti gli esseri umani come dei disgustosi Yahoo. Tornato a casa, non sopporta più la presenza di moglie e figli, tanto ne è disgustato . Ormai pazzo, Gulliver troverà pace solo nella stalla, dove trascorrerà le proprie giornate parlando con i cavalli.
I viaggi di Gulliver è un romanzo organizzato secondo una struttura molto semplice, che si ripete analogamente per quattro volte, una per ogni viaggio. In ciascuna delle quattro parti assistiamo all’ingresso del protagonista in una società e un mondo fantastici e sconosciuti, a cui segue la descrizione dei tentativi (sempre comici e fallimentari) di adattamento al nuovo ambiente, dalla cui analisi far trasparire la critica salace alle istituzioni e ai costumi del mondo reale.
Swift sembra essere molto chiaro: in ogni caso il risultato si rivela essere fallimentare. A prima vista, ciò si spiega con la struttura stessa di queste società: i Lillipuziani, per quanto generosi, hanno un’indole da guerrafondai e sono profondamente divisi al loro interno da odi e meschinità, che si manifestano in particolar modo nell’ambiente di corte. Né le cose vanno meglio con i giganti Brobdingnag: la vita presso di loro è evidentemente impossibile per Gulliver, poiché elevano al cubo tutti i difetti umani (anche quelli di natura fisica), trattando per giunta il protagonista come un oggetto di divertimento. Anche le risorse dell’intelletto sono messe in ridicolo attraverso la rappresentazione della citta di Laputa: non solo gli studi qui condotti sono del tutto insensati, ma gli scienziati che qui vivono opprimono pure altre popolazioni che vivono sulla terraferma. Ma è l’episodio degli Houyhnhnms il più interessante da questo punto di vista, perché la loro comunità è certamente quella in cui Gulliver si inserisce meglio ed è l’unica in cui egli vorrebbe rimanere. Tuttavia, questi cavalli non hanno una precisa identità individuale, ma tendono ad identificarsi nel gruppo, ed escludono Gulliver proprio perché “diverso” e “altro” rispetto a loro, esattamente come fanno con gli Yahoo.
La ricerca di un mondo utopico da contrapporre ai vizi e ai difetti dell’Europa si rivela quindi un insuccesso su tutta la linea, poiché la satira corrosiva dell’autore non risparmia niente e nessuno: tanto più emergono i difetti e le ipocrisie degli uomini a confronto con, quanto più si capisce che anche i regni fantastici visitati da Gulliver non sono affatto dei paradisi in Terra.

domenica 27 ottobre 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 27 ottobre.
Il 27 ottobre 1904 viene inaugurata la prima linea della Metropolitana di New York.
Alle 14:35 del 27 ottobre 1904 il sindaco di New York George McClellan prese i comandi del primo convoglio della storia di una delle reti metropolitane più famose al mondo, la "Subway" nelle viscere di Manhattan. Anche se non fu la prima al mondo (Parigi Londra e Mosca avevano già linee metropolitane da qualche anno), ben presto quella di New York diventerà la più moderna.
Iniziata nel 1902 fu appaltata ad una società privata, la Interborough Rapid Transit Company, che gestì i lavori delle prime 28 stazioni per un precorso totale di 9,1 miglia (14,6 Km).
La metropolitana collegava il municipio di New York (City Hall) con la Grand Central Station e quindi verso nord a Times Square per terminare sotto la 145ma strada. Il giorno dell'apertura al pubblico oltre 100.000 cittadini si misero in fila per un giro sotto le strade della Grande Mela.
Il primo capolinea della metropolitana della Grande Mela fu la famosa City Hall Loop. Nel corso degli anni la metropolitana di New York è stata ampliata e modernizzata grazie alla costruzione di nuove linee e stazioni, che hanno portato alla conseguente chiusura di vecchie stazioni che col tempo si sono rilevate inutili ed inadeguate.
Alcune stazioni sono state demolite, mentre altre sono state semplicemente chiuse al pubblico.
La più famosa tra le stazioni abbandonate della metropolitana di New York è la City Hall Loop, che si trova a Manhattan e che fu il terminal meridionale della metropolitana di Interborough Rapid Transit (fu inaugurata il 27 ottobre 1904). La stazione, che doveva essere il fiore all’occhiello della nuova metropolitana, venne progettata dall’architetto Rafael Guastavino in stile romanico rinascimentale e si caratterizzava per il bellissimo ed elaborato soffitto a lucernario con vetri colorati e per gli archi a volta decorati dai quali pendevano dei bellissimi lampadari in ottone. La stazione venne chiusa il 31 dicembre del 1945 perché, essendo della tipologia a “cappio di ritorno“, aveva una curva molto stretta e non permetteva il passaggio dei nuovi treni che erano molto più lunghi di quelli utilizzati fino al 1945. Le visite alla stazione sono gestite dal New York Transit Museum.
Tra le stazioni abbandonate della metropolitana di New York, quella di Court Street ha acquistato nuova vita grazie alla nascita del New York Transit Museum. Questa stazione, che si trova nel distretto di Brooklyn, venne inaugurata il 9 aprile 1936 per poi essere chiusa ed abbandonata il 1 giugno 1946 a causa della sua vicinanza con molte altre stazioni di Downtown Brooklyn.
Negli anni ’60 la stazione iniziò ad essere utilizzata per girare alcune scene dei film e venne riaperta al pubblico il 4 luglio 1976 per ospitare la New York City Transit Exhibit in onore del Bicentenario degli Stati Uniti.
La mostra doveva essere temporanea, ma ebbe talmente tanto successo che restò aperta in modo permanente, trasformandosi nel New York Transit Museum, ovvero in un vero e proprio museo che mostra la storia e la tecnologia dei trasporti pubblici della città di New York, nel quale si possono ammirare cimeli della metropolitana, degli autobus, delle ferrovie newyorkesi.
Anche la stazione metropolitana abbandonata della 18th street si trova a Manhattan e faceva parte della prima linea della metropolitana di New York aperta il 27 ottobre del 1904. Dal punto di vista architettonico è dotata di un soffitto di vetro che permette di illuminare naturalmente la stazione, che sulle pareti presenta una serie di motivi ornamentali (il progetto fu realizzato dallo studio Heins & LaFarge).
La stazione della 18th Street, che venne chiusa l’8 novembre del 1948, non è più accessibile dalla strada, ma i suoi muri coperti di graffiti possono essere visti attraverso le finestre dei treni che passano da Lexington Avenue. La stazione venne chiusa a causa dell’ampliamento della piattaforma sulla 23rd Street e dell’apertura di una nuova stazione sulla 22nd Street.
Lungo la prima linea della metropolitana nell’area di Manhattan, si trova un’altra stazione fantasma che è stata vittima dell’ampliamento delle stazione vicine e dell’aumento della lunghezza dei nuovi treni che non erano più in grado di fermarsi a questa stazione, la 91th street.
Aperta il 27 ottobre del 1904, la stazione della 91st Street venne chiusa definitivamente il 2 febbraio del 1959, diventando negli anni un rifugio per gli squatter. Le pareti della stazione, che oggi non è più accessibile dalla strada, sono interamente ricoperte da graffiti.
Tra le stazioni fantasma figura anche la stazione sopraelevata di Anderson-Jerome Avenues, Bronx, che venne aperta il 1 luglio 1918. La stazione venne costruita con una struttura di cemento armato ed era accessibile da entrambi i lati sia di Jerome Avenue che di Anderson Avenue, nel quartiere del Bronx. La stazione venne chiusa il 31 agosto 1958.
La stazione non è stata demolita, ma oggi è difficile accedervi perché non esistono più le strutture in ferro che in passato portavano al piano sopraelevato della metropolitana, ma dalla strada si possono comunque vedere dei coloratissimi murales presenti sulle sue pareti esterne.
A sud del ponte di Brooklyn si trova la vecchia stazione di Myrtle Avenue, che serviva la linea Brooklyn-Manhattan. La stazione venne inaugurata il 22 giugno 1915 per poi essere chiusa il 16 luglio 1956 a causa delle necessità di ristrutturazione della linea metropolitana sulla quale si trovava. La piattaforma della stazione che portava verso Brooklyn è stata rimossa completamente, mentre la piattaforma che portava verso Manhattan esiste ancora e nel 1980 venne utilizzata da Bill Brand per un’installazione artistica denominata Masstransiscope, un’opera d’arte composta da 228 pannelli dipinti a mano che si trovano dietro ad una lunga scatola luminosa e che al passaggio dei treni danno ai passeggeri l’illusione di un film animato di 20 secondi.
Nel quartiere del Bronx si trova la stazione abbandonata sopraelevata di Sedgwick Avenue, che venne inaugurata il 1 luglio 1918 come estensione della 9th Ave El, la prima ferrovia sopraelevata di New York famosa per la sua “curva suicida” a 90 gradi. Questa stazione fu costruita come punto di collegamento con la vicina stazione di El-Metro-North, all’uscita di un tunnel. Oggi la struttura in acciaio sopraelevata è stata rimossa, ma la piattaforma e il tunnel sono ancora visibili.
Tra le 28 stazioni originali della prima linea della metropolitana di Manhattan figura anche la stazione di Worth Street, che venne aperta il 27 ottobre 1904. Le pareti e le colonne della stazione sono decorate con delle piastrelle di terracotta.
La stazione venne chiusa il 1 settembre 1962 a causa dell’espansione verso nord della stazione di Brooklyn Bridge e perché non era più in grado di ospitare i nuovi treni diventati troppo lunghi rispetto alle dimensioni dei binari originali. Le piattaforme della stazione di Worth Street sono visibili dai treni di passaggio, dai quali si possono ammirare le vecchie pareti che oggi sono decorate con coloratissimi graffiti.
Oggi la rete della metropolitana newyorchese muove ogni giorno 4,5 milioni di passeggeri ed è in esercizio per 24 ore al giorno, 7 giorni su 7.

sabato 26 ottobre 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 26 ottobre.
Il 26 ottobre 1431 nasce Ercole I d'Este, duca di Ferrara.
Ercole I, figlio di Niccolò III e della sua terza moglie, Ricciarda di Saluzzo, fu marchese d’Este, e secondo duca di Ferrara, Modena e Reggio dal 1471. Si Sposò nel 1473 con Eleonora d’Aragona, un matrimonio che proseguiva la politica di conciliazione verso gli altri comuni italiani, ma che venne visto in maniera negativa da Venezia, insospettita dalle alleanze che il Duca stava stringendo. La duchessa Eleonora, donna di grande cultura, si mostrò una consorte leale e di grande saggezza, la cui forza d’animo fu determinante nel costruire i rapporti diplomatici si all’interno della corte che con gli altre stati.
La tensione tra Ferrara e Venezia sfociò nella guerra per i territori del Polesine, che il Duca perse siglando nel 1484 la pace di Bagnolo. Come Duca si rese artefice di una politica di distensione tra i vari Stati della penisola. Nel 1494, quando l’Italia era travagliata degli scontri per la discesa dell’esercito francese di Carlo VIII, Ercole riuscì a non farsi coinvolgere nel conflitto assumendo invece un ruolo di mediatore tra l’esercito francese e i vari eserciti italiani. Ercole I d’Este fu infatti il promotore di una politica di pace che cercava di portare avanti grazie soprattutto a matrimoni e alleanze strategiche. Occasioni queste che voleva favorire attraverso le numerose feste, musiche e rappresentazioni teatrali che si susseguivano in gran numero ai tempi di Ariosto. Tra matrimoni più rilevanti che Ercole stipulò, vi sono le nozze nel 1491 del primogenito Alfonso con Anna Sforza, mentre nel 1480 fidanzava la figlia Isabella con Francesco Gonzaga marchese di Mantova e prometteva l’altra figlia, Beatrice, a Ludovico il Moro, Duca di Milano. Ulteriore esempio della sua abilità diplomatica fu la capacità di destreggiarsi tra il supporto alle truppe di Luigi XII che nel 1499 si stavano spostando verso l’Italia e le mire espansionistiche dello Stato Pontificio e dalle milizie di Cesare Borgia. Riuscì ad evitare l’alleanza con la Francia rendendole comunque omaggio, e a stringere un patto con il Papa dando in moglie nel 1501 al figlio Alfonso, rimasto vedovo, Lucrezia Borgia, sorella di Cesare e figlia illegittima di papa Alessandro VI.
Al nome di Ercole I d’Este si lega la munificenza nelle attività di abbellimento di Ferrara, su tutti l’ampliamento delle mura cittadine grazie all’imponente opera dell’Addizione Erculea che affidò a Biagio Rossetti. Amò circondare la sua corte di artisti e poeti tra i quali il Boiardo e lo stesso Ludovico Ariosto. Ammalatosi gravemente a seguito delle ferite subite durante il conflitto con Venezia, morì il 25 gennaio 1505: “circa a sera fece venire Vincenzo da Modena; e lo fece suonare per spazio d’un‘ora un clavazambolo coi pedali, pigliandone sua signoria grande piacere, e di sua man di continuo battendo la misura” (Chiappini 2001, p. 230).

venerdì 25 ottobre 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 25 ottobre.
Il 25 ottobre 286, sotto l'impero di Diocleziano, vengono giustiziati i martiri San Crispino e San Crispiniano.
Due calzolai intenti al loro lavoro: così sono raffigurati i santi Crispino e Crispiniano, perché la storia del martirio attribuisce loro questo mestiere. Da secoli, per questo, i calzolai li venerano come loro patroni in tante parti d’Europa; e con essi i sellai, i guantai e i conciatori. La Chiesa li ricorda come martiri: uccisi per la fede nella Gallia romana, ad Augusta Suessionum, l’attuale Soissons.
Nella redazione di Auxerre del Martirologio Geronimiano sono ricordati al 25 ottobre Crispino e Crispiniano come martiri di Soissons; ivi, infatti, nel secolo VI esisteva una basilica a loro dedicata di cui parla a più riprese Gregorio di Tours. L'itinerario inserito nei Gesta Regum Anglorum di Guglielmo di Malmesbury ricorda gli stessi martiri come sepolti nella basilica dei SS. Giovanni e Paolo sul Celio a Roma; questa notizia, però, dipende probabilmente dalla passio di questi due ultimi santi, in cui, peraltro, l'episodio è considerato un'aggiunta posteriore, sebbene si sia preteso di difenderne l'autenticità storica attraverso il presunto ritrovamento dei sepolcri. Di Crispino e Crispiniano esiste una passio scritta verso la fine del sec. VIII, infarcita dei soliti luoghi comuni. I due santi, di origine romana, si sarebbero recati in Gallia insieme con altri al tempo di Diocleziano, e stabiliti a Soissons dove avrebbero esercitato il mestiere di calzolai a favore dei poveri, non trascurando di propagandare la fede cristiana. Saputo ciò, l'imperatore Massimiano li fece arrestare per mezzo di Riziovaro che con lusinghe, minacce e tormenti, cercò di farli apostatare; a nulla  valsero i tentativi, anzi fu Riziovaro che, in un accesso d'ira dispettosa, si gettò nel fuoco incontrandovi la morte. Per vendicare il suo ministro, Massimiano condannò i due santi alla pena capitale. I loro corpi, dopo essere stati nascosti per un certo tempo da due vecchi, finita la persecuzione, furono posti in due sepolcri sui quali venne edificata una basilica.
Nonostante le contraddizioni e la poca attendibilità delle fonti si può ritenere che Crispino e Crispiniano siano due martiri romani periti durante la persecuzione militare della fine del secolo III a Soissons, dove furono creduti santi locali e donde alcune loro reliquie furono portate a Roma.
Per l'allusione della passio al mestiere da loro esercitato, i due martiri sono invocati come patroni dei calzolai.
Pur essendo le vicende della loro vita ricavabili solo da testi agiografici arricchiti da numerosi elementi favolistici, l'antichità e la diffusione del culto dei due martiri sembrano provarne la storicità.

giovedì 24 ottobre 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 24 ottobre.
Il 24 ottobre 1658 la compagnia di Molière si esibisce nel "dottore amoroso" alla corte di Re Luigi XIV, che ne resta estasiato.
Drammaturgo e attore teatrale francese, il vero nome di Molière è Jean-Baptiste Poquelin. Nato a Parigi il 15 gennaio 1622 assumerà lo pseudonimo all'età di ventidue anni. Il padre Jean era un tappezziere e un artigiano di classe agiata; la madre Marie Cressé morì quando il figlio aveva solamente dieci anni. Nel 1633 il padre si sarebbe risposato con Catherine Fleurette, morta poi tre anni più tardi.
L'infanzia del piccolo Jean-Baptiste è quindi segnata da lutti ed inquietudini, che però spiegano solo in parte il fondo di tristezza del suo umore e la rarità dei ruoli materni nella sua futura opera teatrale. Nella fanciullezza sono invece fondamentali la vivacità popolare, l'animazione, il rumore, l'accanito lavoro oltre agli spettacoli, con i quali da piccolo sarebbe stato ogni giorno a contatto grazie alla passione trasmessagli da Louis Cressé, il nonno materno, che spesso lo portava all'Hotel de Bourgogne e al Pont Neuf, per assistere alle rappresentazioni dei comici italiani e alle tragedie dei comédien.
Vissuto a lungo nel quartiere parigino di Halles, il vivace spirito del futuro Molière qui fa conoscenza della varietà della realtà umana. La condizione sociale del padre gli permette di frequentare scuole molto più prestigiose di quelle destinate ai figli degli altri commercianti. Tra il 1635 e il 1639 compie i suoi studi al Collège de Clermont, collegio di gesuiti, considerato il migliore della capitale e frequentato da nobili e ricchi borghesi. Qui studia la filosofia, il latino e impara ad avere una perfetta padronanza della retorica.
Nel 1637 presta giuramento come futuro erede della carica di tappezziere del re, prima di lui ricoperta dal padre.
Nel 1641 porta a termine gli studi di diritto, e diviene avvocato. Comincia a frequentare gli ambienti teatrali, conosce il famoso Scaramuccia Tiberio Fiorilli e intrattiene una relazione con la ventiduenne Madeleine Béjart, giovane attrice rossa di capelli, già madre di un figlio avuto dalla precedente relazione con il Barone di Modène Esprit de Raymond de Mormoiron. Con l'aiuto di tale donna colta e capace di condurre con intelligenza i propri affari, leale e devota, organizza una compagnia teatrale che servirà a Molière per capire la propria vocazione di attore.
Il 6 gennaio dell'anno 1643 Molière rinuncia alla carica di tappezziere reale. Il mese successivo Madeleine dà alla luce Armande Béjart, la quale diverrà in futuro sposa del drammaturgo. Il 30 giugno firma il contratto per costituire una troupe teatrale di dieci membri chiamata l'"Illustre Théâtre", di cui facevano parte Madeleine Béjart, in qualità di prima attrice, il fratello Joseph e la sorella Geneviève.
La piccola compagnia prende in affitto il "Jeu de Paume des Métayers" (sala dei mezzadri) di Parigi, e nell'attesa della conclusione del lavori per adattare la sala alle rappresentazioni teatrali, si stabilisce a Rouen, inscenando spettacoli di ogni tipo, dalle tragedie alle farse. Il primo giorno di gennaio del 1644 l'"Illustre Théatre" debutta a Parigi: il pubblico non apprezza il gruppo di artisti e in breve iniziano ad accumularsi debiti, fino ad arrivare all'arresto di Molière per insolvenza. Nel 1645 la compagnia si scioglie. Una volta tornato in libertà grazie all'interessamento del padre e di Madeleine, Molière assieme ad alcuni membri della compagnia abbandonano la capitale francese per iniziare la carriera di attori ambulanti.
Negli anni tra il 1645 e il 1658 lavora con i suoi compagni assieme alla compagnia di Charles Dufresne, rinomata e finanziata dal duca di Epernon, governatore della Guienna. Nel 1650 Molière ottiene la direzione di una troupe e inizia a rappresentare lavori teatrali a Pézenas (dove ogni anno si tengono gli Stati della Linguadoca) e nel sud della Francia. La compagnia, ormai ben affermata, a partire dal 1652 inizia ad avere un pubblico regolare a Lione.
Durante questo girovagare Molière approfondisce la conoscenza degli ambienti di provincia, ma soprattutto impara il mestiere di attore, impara a capire i gusti del pubblico e le sue reazioni. In questo periodo inizia inoltre a scrivere alcune farse e due commedie: "Lo stordito" (L'Etourdi), commedia di intrigo rappresentata a Lione nel 1655 e "Il dispetto amoroso" (Le dépit amoureux) rappresentata a Narbona nel 1656.
Dopo un soggiorno a Rouen con la sua compagnia, la Troupe de Monsieur, nome accordatole da Filippo d'Orléans, torna a Parigi nel 1658.
Il 24 ottobre 1658 la compagnia recita davanti a re Luigi XIV, il quale si entusiasma solo con la farsa "Il dottore amoroso" (Le Docteur amoureux), scritta dallo stesso Molière (il testo dell'opera sarebbe stato ritrovato e pubblicato solo nel 1960).
La compagnia in seguito viene autorizzata ad occupare il teatro del Petit-Bourbon, alternandosi con la troupe degli Italiani; quando nel 1659 gli Italiani lasciano il teatro, questo rimane a completa disposizione di Molière. Inizia così a mettere in scena delle tragedie, che ottengono tuttavia scarsi successi.
Scrive poi l'opera "Don Garcia de Navarre" che non sarebbe stata né una tragedia né una commedia, incentrata sul tema della gelosia: la rappresentazione è un vero fiasco. Molière capisce che la sua vera aspirazione è la commedia: in questo genere eccelle già con la sua prima opera "Le preziose ridicole" (Les précieuses ridicules), nel 1659. In questa farsa mette in luce gli effetti comici di una precisa realtà contemporanea, le bizzarrie tipiche della vita mondana e ne ridicolizza le espressioni ed il linguaggio. Nonostante l'interruzione delle rappresentazioni per motivi politici e sociali, non si fermano gli inviti a corte e nelle case dei grandi signori.
Nel 1660 arriva il grande successo di "Sganarello o il cornuto immaginario". Nel frattempo viene demolito il salone Petit-Bourbon, ma il re fa prontamente assegnare alla compagnia la sala del Palais-Royal; così nel mese di giugno arriva la prima presentazione de "La scuola dei mariti" (École des maris). In questa commedia attraverso le buffonerie, vengono ancora presentati problemi gravi e scottanti come l'educazione dei figli e la libertà da concedere alle mogli.
In onore di una festa offerta a Luigi XIV, in quindici giorni Molière scrive e mette in scena la commedia "Gli importuni" (Fâcheux).
Il 20 febbraio 1662 sposa Armande Béjart, ufficialmente sorella, ma quasi sicuramente figlia di Madeleine. Anche Armande entra a far parte della troupe.
In dicembre viene rappresentata "La scuola delle mogli" (École des femmes) che in termini di successo e valore supera tutte le commedie precedenti.
L'opera porta tuttavia Molière allo scontro con i rigoristi cristiani, tanto che passa un anno intero, il 1663, occupato a risolvere la querelle de "La scuola delle mogli". Il 12 maggio 1664 mette in scena "Tartufo o l'Impostore".
Ispirandosi ad "Aulularia", commedia in prosa di Tito Maccio Plauto, e prendendo spunti anche da altre commedie ("I suppositi" dell'Ariosto; "L'Avare dupé" di Chappuzeau, del 1663; "La Belle plaideuse" di Boisrobert, del 1654; "La Mère coquette" di Donneau de Vizé, del 1666), Molière tra il 1667 e 1668 scrive "L'avaro" (L'Avare ou l'École du mensonge). L'opera viene rappresentata per la prima volta a Parigi, al Palais-Royal, il 9 settembre 1668 dalla "Troupe de Monsieur, frère unique du Roi" che è la compagnia di Molière stesso, che in quell'occasione recita la parte di Harpagon.
Molière muore di tubercolosi il 17 febbraio 1673 mentre recita "Il malato immaginario"; prima di morire aveva recitato a fatica, coprendosi la tosse - si dice - con una risata forzata. Da questa circostanza pare sia nata la superstizione di non indossare il giallo in scena, in quanto Molière indossava un abito proprio dello stesso colore.
Su intercessione del Re presso l'Arcivescovo viene aggirato il divieto di inumazione cattolica per gli attori e commedianti che all'epoca vigeva: Molière viene quindi sepolto nel cimitero di Saint-Eustache, ma ad una profondità di più di quattro piedi, misura che fissava l'estensione in profondità della terra consacrata. Oggi la tomba di Molière si trova nel noto cimitero parigino di Père-Lachaise, proprio accanto alla tomba di Jean de La Fontaine.
Mentre era in vita l'Accademia di Francia non accettò mai Molière tra gli immortali, perché il commediante, ancora definito guitto, era considerato culturalmente inferiore. L'Accademia avrebbe riparato in seguito dedicandogli una statua con l'iscrizione "Nulla mancò alla sua gloria, Egli mancò alla nostra".
Molière può essere considerato a tutti gli effetti il precursore di quel rinnovamento teatrale che comincerà ad esprimersi compiutamente solo un secolo dopo, con Carlo Goldoni, fino a raggiungere la piena maturità nel teatro di Anton Cechov. Anche l'italiano Dario Fo indicherà Molère tra i suoi maestri e modelli.

mercoledì 23 ottobre 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 23 ottobre.
Il 23 ottobre 1958 nascono i Puffi.
E’ stata tuta colpa di una striscia, “John & Solfami”, una serie a fumetti creata dal disegnatore belga Pejo (all’anagrafe Pierre Culliford, 1928-1992). Nella striscia pubblicata il 23 ottobre 1958, i due simpatici protagonisti incontrano una strana popolazione di piccoli esseri dalla pelle blu: sono i Puffi. Il grande pubblico inizia ad accorgersi di loro nel 1965 mentre va in onda un film d’animazione interamente dedicato a questa simpatica popolazione dello schermo: Le avventure dei Puffi. Tuttavia, il successo planetario arriva soltanto nel 1981 quando sbuca dal piccolo schermo la serie animata prodotta dalla premiata ditta Hanna-Barbera. E’ il tempo della puff-mania, in una centrifuga di gadget, pupazzi, fumetti che invadono anche l’Italia per la gioia dei teenager.
Le strane e buffe creature dalla pelle blu vivono in una foresta, collocata probabilmente al confine franco-belga, indossano un cappellone e pantalone bianco, abitano in case a forma di fungo, e si nutrono di puffbacche. Il capo del villaggio è il saggio Grande Puffo (pare che all’anagrafe abbia 542 anni!), che deve guidare tutto il villaggio per difendersi dalle malefatte dell’arcigno Gargamella e della sua gatta Birba, desiderosi di mangiare i deliziosi omini blu. Questi due ultimi personaggi sono ispirati a due anti-eroi delle pagine letterarie dello scrittore francese Rabelais.  L’organizzazione economica di Pufflandia è stata accostata da molti al modello comunista sovietico. Pertanto, sono in molti a sostenere che il cartone animato nasconda in filigrana un messaggio di rivolta contro il sistema capitalista. Per non parlare di coloro che vedono tra i Puffi riferimenti alla massoneria: e se i 99 puffi fossero davvero la rappresentazione dei 99 saggi della Nuova Atlantide di Francesco Bacone?
Concentrandosi sui singoli  personaggi, c’è da dire che nel villaggio dei Puffi c’è una sola donna: si chiama Puffetta e ha i capelli biondi. Questo personaggio misterioso (all’inizio una spia di Gargamella) che con il suo sexy-appeal si presenta come una ragazza dai facili costumi, resta un interrogativo sulla riproduzione degli omini blu: come si riproducono i Puffi? In questa comunità “patriarcale” e “maschilista”, ha il ruolo di compagna o madre? A parte il Grande Puffo (doppiato dal grande attore Elio Pandolfi), che è al timone della comunità ed è l’incarnazione della saggezza, il pubblico si sofferma costantemente su alcuni di loro: Quattrocchi, polemico e contestatore; Vanitoso, tra i primi personaggi di un cartoon ad avere tendenze omosessuali esplicite; Forzuto, il forte che tiene controllo tutto; Pittore, che con il suo estro artistico difende la poesia dell’arte; Baby Puffo, il bambino della comunità; Golosone, che non sa resistere a nessun peccato di gola; Brontolone, che tramuta il suo brontolare in uno stile di vita; Burlone, che passa il tempo a progettare invenzioni per prendersi gioco degli altri.
Lasciamo da parte queste interpretazioni o letture puramente ideologiche, che rischiano di far perdere il valore artistico alla fantasia dell’autore. Gli omini blu conquistano i piccoli telespettatori italiani nell’ora serale dal 1982 su Italia 1: 256 episodi della durata di 24 minuti ciascuno, con i disegni di Ohrio Otsuki e le sigle cantate da Cristina D’Avena, che sfondano le Hit Parade dei piccoli telespettatori. Ci hanno accompagnato per dieci serie, che hanno permesso al Grande Puffo e il suo villaggio di dominare la scena dei cartoon degli anni ottanta. Chi si lascia avvolgere ancora dal mantello della fantasia, sa che non è una follia l’ipotesi di rincontrarli, magari in una zolla di verde non distante da casa nostra.

martedì 22 ottobre 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 22 ottobre.
Il 22 ottobre 1942 gli Alleati compiono un devastante raid aereo su Genova.
Genova è attraversata da una fitta rete di gallerie. Molte di queste costituirono il nucleo originario delle “gallerie di raccordo” dette delle Grazie o di Carignano tra le calate orientali del porto e le stazioni di piazza Principe e Brignole. Così Adriano Betti Cerboncini  in “La ferrovia ligure” racconta la loro nascita: “Avevano un tracciato che si articolava in due gallerie a semplice binario affiancate, le quali iniziavano dalla calata delle Grazie a levante del Molo Vecchio, si separavano poi quasi sotto la verticale di Piazza De Ferrari in un “ramo occidentale verso una camera di biforcazione in Traversata a 216 m. dallo sbocco della preesistente galleria di San Tomaso, e un “ramo orientale” che sboccava in stazione Brignole terminando in un’asta di manovra. Il ramo occidentale aveva lo scopo di formare una specie di carosello sull’itinerario Santa Limbania – Caricamento – Molo Vecchio – galleria delle Grazie – galleria Traversata – galleria San Tomaso – Santa Limbania: quello orientale aveva lo scopo di consentire l’afflusso di vagoni vuoti e di qualche treno proveniente da Levante sull’itinerario Brignole – galleria delle Grazie – Molo Vecchio – Caricamento. Questi nuovi allacciamenti completati tra il 1921 e il 1922, furono in esercizio non a lungo poiché, principalmente a causa dello spostamento delle attività portuali verso Ponente, le relative gallerie vennero abbandonate in occasione dei lavori di costruzione della seconda galleria a doppio binario detta “Traversata Nuova”, di collegamento tra le stazioni di Piazza Principe e Brignole, iniziati nel 1939. Il portale della galleria delle Grazie in stazione Brignole è ancora oggi visibile chiuso con una cortina di mattoni quasi di fianco al ben più ampio portale della “Traversata Nuova”.
 Queste gallerie costituirono durante la seconda guerra il reticolo dei rifugi sotterranei dove si andava a riparare la popolazione nel corso dei bombardamenti che a partire dal ’42 furono intensissimi, provocando ingenti danni e numerosissime vittime. A fronte di tali bombardamenti Genova era una città praticamente inerme.
Le poche batterie anti aree posizionate sulle alture fuori dalla città erano eluse con grande facilità dai bombardieri alleati che ogni giorno scaricavano su Genova tonnellate di bombe e spezzoni incendiari. Il 22 ottobre 1942 vengono sganciati dai bombardieri britannici 200 tonnellate di ordigni, un incubo a occhi aperti per le migliaia di persone nelle gallerie.
La paura per i propri cari e per la propria vita ma anche l’angoscia di non ritrovare più la loro abitazione. I genovesi erano stremati, in una cupa crisi collettiva cadeva a pezzi non solo materialmente l’intera architettura del regime fascista fatto di proclami vittoriosi e la sensazione più che netta era l’incombenza di un immane disastro in arrivo.
Fu così che la sera successiva, il 23 ottobre, l’ennesimo allarme fece correre tutti i genovesi verso il rifugio più vicino. L’imbocco della Galleria delle Grazie nei pressi di Porta Soprana era una scalinata molto ripida in parte all’aperto con dei cancelli che venivano aperti quando scattava la sirena che annunciava l’approssimarsi degli aerei. L’ingresso di quella galleria era già stato individuato come rischioso, ripido e scivoloso, la fretta e il panico delle persone che correvano per entrare poteva facilmente finire in una rovinosa caduta.
Per questo a controllare l’afflusso erano destinati dei soldati che avevano anche il compito di aprire i cancelli del rifugio.
Quella sera, però, i soldati non arrivarono e i cancelli non si aprirono, qualcuno nella ressa cadde trascinando con sé altre persone in una “slavina” umana che veniva ulteriormente e dolorosamente rinnovata da quelli che ignari giungevano di corsa. Fu un massacro, non prodotto dalle bombe questa volta ma dal panico dei genovesi imbottigliati e schiacciati gli uni contro gli altri. Secondo le stime ufficiali morirono 354 persone in quel disastro e la tragica ironia della sorte volle che quell’allarme fosse poi infondato.
Il giorno dopo i corpi delle vittime vennero allineati nei pressi della Banca d’Italia. Una funebre cerimonia collettiva salutò per l’ultima volta quelle povere vittime. Furono pochi quelli che andarono all’ospedale mentre la maggioranza cercò di mettere alle spalle questo cupo e insensato episodio di morte. Una tragedia rimasta nei cuori dei genovesi (tra le persone che si salvarono anche la madre dell’Arcivescovo Angelo Bagnasco allora in gravidanza) ma anche questa, come nel caso di S. Benigno, quasi rimossa dalla memoria collettiva. Oggi la Galleria delle Grazie è percorsa parzialmente dalla metropolitana.

lunedì 21 ottobre 2019

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Buongiorno, oggi è il 21 ottobre.
Il 21 ottobre 1860 ebbe luogo il Plebiscito per l'annessione del Sud d'Italia al Regno di Sardegna.
Era il 21 ottobre del 1860, si doveva sancire nella forma e nella legittimità giuridica l'aggressione armata delle camicie rosse garibaldine prima e dell'esercito irregolare piemontese poi alle Due Sicilie.
Una farsa, che diede poi il nome alla piazza più grande di Napoli, che all'epoca si chiamava Largo di Palazzo. Fu nell'attuale piazza del Plebiscito, a ridosso della chiesa di San Francesco, che si piazzarono le urne principali in legno che, sul lato anteriore, portavano ben chiaro e in evidenza un sì e un no. Roba da inorridire, oggi. L'elettore, guardato a vista da garibaldini e camorristi armati, doveva inserire la sua scheda in un'urna che rendeva riconoscibile la sua volontà.
In molte zone dell'Italia meridionale, risultò un numero di votanti maggiore degli abitanti. Votarono i garibaldini delle legioni straniere, come inglesi e ungheresi. Non esisteva un elenco degli elettori, bastava presentarsi e inserire la scheda nell'urna. Tanti si presentavano più di una volta, senza che nessuno fiatasse. L'alibi era che si trattava di un Plebiscito aperto a tutti, senza restrizioni. Letterati come analfabeti. Poveri come ricchi. Peccato che poi, nel gennaio successivo, quando si doveva fare sul serio per eleggere i deputati al primo Parlamento italiano, si applicò la legge piemontese, che dava diritto al voto a poco più di 400.000 persone in un Paese di 21 milioni di abitanti.
Era la celebrata monarchia costituzionale dell'epoca. Sei giorni prima del Plebiscito, Garibaldi aveva già firmato il decreto numero 275 che dichiarava le Due Sicilie "parte integrante dell'Italia". L'ambasciatore inglese Henry Elliot disse che "appena 19 tra 100 votanti sono rappresentati dalle votazioni in Sicilia e Napoli, ad onta di tutti gli artifizi e violenze usate". E il ministro degli Esteri britannico, lord John Russel, fu ancora più severo: "Questi voti sono una mera formalità dopo una ben riuscita invasione. Non implicano l'esercizio indipendente della volontà della nazione".
Dominò la paura in chi si presentò al voto. Molti furono costretti ad andarci per fare numero. Le bastonate dei camorristi convincevano gli illusi sulla libertà del voto. Alla fine, nelle province napoletane i numeri ufficiali diedero 1.302.064 sì, con soli 10.302 no. Cose turche, potrebbe dirsi oggi. In Sicilia, dove anche la mafia con i gabellieri dei baroni latifondisti fece la sua parte, andò ancora peggio: 432.053 sì e solo 709 no. Così, giuridicamente l'Italia fu dichiarata unita per volontà popolare, dando patente di legalità ad un'invasione armata di uno Stato straniero in buoni rapporti diplomatici con quello invaso e senza alcuna dichiarazione di guerra.
Alla fine, su quel "peccato originale" appaiono, meglio di altre, illuminanti le parole e la descrizione di Tomasi di Lampedusa nel suo splendido romanzo, quando racconta il Plebiscito a Donnafugata. I no erano risultati zero, eppure Ciccio Tumeo, fattore del Gattopardo, contrario all'annessione, mostra la sua rabbia proprio a don Fabrizio: "No, cento volte no. Ricordavo quello che mi avevate detto: la necessità, l'inutilità, l'unità, l'opportunità. Avrete ragione voi ma io di politica non me ne sento. Lascio queste cose agli altri. Ma Ciccio Tumeo è un galantuomo, povero e miserabile, coi calzoni sfondati e il beneficio ricevuto non lo aveva dimenticato; e quei porci in Municipio s'inghiottono la mia opinione, la masticano e poi la cacano via trasformata come vogliono loro". Così l'Italia unita ebbe la sua consacrazione giuridica.

domenica 20 ottobre 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 20 ottobre.
Il 20 ottobre 1968 l'ex first lady Jackeline Kennedy (moglie di JFK) sposava il potente armatore greco Aristotele Onassis, di 23 anni più grande. Per lei lasciò Maria Callas e sottoscrisse un accordo pre-matrimoniale da 170 clausole
Cinquantun'anni dalle nozze tra Jackie Kennedy e Aristotele Onassis. Era il 20 ottobre 1968 quando sulla privatissima isola greca di Skorpios si celebrò uno dei matrimoni più famosi e discussi del secolo scorso. Sia per gli incroci di potere che avrebbe generato l'unione tra l'ex first lady e uno degli uomini più ricchi e potenti del mondo, sia per la storia personale dei due.
Jackie Kennedy era una delle donne più amate del mondo. Il suo carisma, già unico ai tempi del matrimonio con JFK, uscì rafforzato dopo il tragico assassinio del presidente avvenuto a Dallas il 22 novembre 1963. Il popolo che prima amava la first lady per la sua bellezza, la sua cultura e la sua impeccabile eleganza, si innamorò ancora di più di una donna che condivideva col mondo un dolore così grande. Se ne accorse anche il cognato Bob che nel 1968 era in piena corsa (vincente) per la presidenza degli Stati Uniti, e che nel giugno di quell'anno rimase ucciso in un attentato a Los Angeles. Jackie frequentava già Onassis, di 23 anni più vecchio di lei, e dovette promettere al cognato che non avrebbe sposato l'armatore greco fino al termine delle elezioni presidenziali per evitare una perdita di consenso popolare. Non ce ne fu bisogno: Bob non arrivò al giorno del voto e il 20 ottobre Jackie disse sì ad Aristotele. Classe 1906, Onassis rappresentò una delle prime declinazioni di self made man. Proveniente da una famiglia umile, riuscì a creare un impero grazie a una serie di operazioni commerciali non sempre trasparenti, ma che lo portarono a vendere imbarcazioni pesanti a diversi paesi del mondo, attività che proseguì anche durante gli anni della Seconda Guerra Mondiale. Per sposare Jackie, il vecchio Ari lasciò la cantante lirica più amata di tutti i tempi, Maria Callas, incontrata dopo il divorzio dalla prima moglie Athina.
Se l'amore tra Onassis e Callas riempì l'immaginario popolare e le pagine dei rotocalchi di tutto il mondo come una delle storie più passionali e tormentate dello scorso secolo, ben più asettico sembrerebbe essere stato il legame tra l'armatore e l'ex first lady. Dopo la morte di Bob, Jackie lasciò gli Stati Uniti temendo per la propria incolumità e quella dei suoi due figli, John John e Caroline. Le braccia e il potere di Onassis sembravano essere il luogo più sicuro contro possibili minacce all'ex moglie e agli eredi del 35esimo presidente americano. Per sposare Onassis, la cattolicissima Jackie si era convertita alla Chiesa ortodossa greca, subendo due scomuniche per apostasia e concubinaggio. Per sposare l'ex first lady, l'armatore accettò un accordo prematrimoniale da 170 clausole che costruiva una fortezza economica immensa intorno alla futura moglie e ai suoi figli. Tra i punti c'era una dote da 600mila dollari per i viaggi, il piacere, la sicurezza di Jackie e dei suoi bambini. A questa cifra si dovevano aggiungere i regali costosi che il magnate avrebbe dovuto garantire alla futura moglie per le ricorrenze più importanti. In caso di separazione, per scelta di lui, Onassis avrebbe dovuto versare alla moglie 9,6 milioni di dollari all'anno per ogni anno di matrimonio. In caso fosse stata Jackie a lasciare il marito la cifra diventava un forfait da 18 milioni di dollari. Tra le clausole erano presenti anche quelle che imponevano camere da letto separate, usi esclusivi degli immobili nelle varie città del mondo e un lascito da 42 milioni di dollari in caso di morte del marito.
Onassis morì il 15 marzo 1975, Jackie ottenne solamente 26 milioni di dollari dal momento che la legislazione greca imponeva un limite ben preciso alla somma che un cittadino straniero poteva ereditare. Al mito di Jackie Kennedy si affiancava per sempre quello di Jackie O, una diva del jet set mondiale rimasta tale fino alla fine: l'ex first lady morì a New York il 19 maggio del 1994 all'età di 64 anni. Fu seppellita al cimitero nazionale di Arlington, Virginia, al fianco dell'ex marito JFK. Sulla sua lapide l'incisione "Jacqueline Bouvier Kennedy Onassis".

sabato 19 ottobre 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 19 ottobre.
Il 19 ottobre 1469 si uniscono in matrimonio Isabella di Castiglia e Ferdinando II d'Aragona.
I due giovani sposi si erano conosciuti di persona solo pochi giorni prima, giungendo nella città castigliana di Valladolid in clandestinità e in povertà, con un re disposto a far incarcerare la sposa, che era sua sorella e la sua giovane erede, e a eliminare di nascosto il giovane principe suo sposo. Con denaro preso in prestito e grazie al via libera di una falsa bolla papale, in una mattina del 19 Ottobre 1469, in casa di amici fedeli erano uniti in nozze lei, Isabella di Castiglia e lui, Ferdinando d’Aragona, futuri “Reyes Catòlicos” e primi sovrani di ciò che sarebbe divenuto il Regno di Spagna. Come mai sposarsi di nascosto e falsificando una bolla papale? Poteva un matrimonio essere tanto importante da far rischiare la pelle al futuro re d’Aragona e alla futura regina di Castiglia?
Anticamente, la Spagna era divisa in vari regni cristiani, che avevano fatto della Reconquista e della cacciata del moro dalla penisola iberica la loro ragione di vita. Nel corso del medioevo la spinta verso il sud islamico era diventata una vera e propria migrazione armata verso la costa meridionale, guidata dalle armate dei regni di Portogallo, Castiglia e Aragona. Il Portogallo e l’Aragona terminarono la reconquista raggiungendo rispettivamente le coste atlantica e del mediterraneo, e mentre il Portogallo volse le proprie energie all’esplorazione delle coste africane,  l’Aragona iniziò a creare impero mercantile sulle coste del mediterraneo occidentale.
In Catalogna, la parte più ricca del regno aragonese, i mercanti di Barcellona divennero talmente potenti da riuscire a imporre al sovrano una sorta di sistema costituzionale che imponeva alla monarchia di coinvolgere le assemblee catalane nella formazione delle leggi. Questo sistema fece la fortuna del regno d’Aragona e della regione Catalana, unendo libertà e prosperità.
In maniera totalmente differente si era evoluta la Castiglia, dove il continuo sforzo militare contro gli arabi di Spagna aveva forgiato una società incentrata su un’economia di pastorizia e su una potente aristocrazia guerriera (poco incline al commercio e all’esaltazione del lavoro manuale), scarsamente disponibile a obbedire al sovrano.
I tre regni alternavano alla gestione dei propri affari fuori dall’Hiberia a innumerevoli conflitti fra loro, e nonostante che dal 1412 il regno di Castiglia e quello d’Aragona condividessero la medesima dinastia regnante, quella dei Trastamara, non sembrava probabile (per quanto fosse possibile) che la penisola riuscisse a riunirsi sotto un unico sovrano, né che i popoli ispanici mettessero da parte le rispettive antipatie.
Con la prosperità giunse anche l’ambizione, e i Re d’Aragona iniziarono a espandersi in Italia, prendendo possesso via via della Sicilia, della Sardegna e del Regno di Napoli. Questo, unitamente alla lunga decadenza economica che colpì l’area di Barcellona in seguito alla Peste Nera, allontanò sempre di più le esigenze del ceto mercantile (Bisognoso di sostegno e di pace) dal Re d’Aragona (Sempre più bisognoso di denaro e di tasse per la propria politica militare ed espansionistica in Italia).
Il culmine dello scontro era stato raggiunto nel 1462 con lo scoppio della guerra civile fra i sostenitori di Giovanni II d’Aragona, padre di Ferdinando, e i grandi mercanti che dominavano la società catalana. In questa situazione era fondamentale per Giovanni II rafforzare la posizione della monarchia, e il modo migliore per farlo era maritare il figlio Ferdinando con la traballante erede al trono castigliano, Isabella.
In Castiglia le cose non andavano meglio. Governato da Enrico IV, il regno aveva appena vissuto una fase d’instabilità che aveva visto il Re di Castiglia obbligato a riconoscere nel 1468 le pretese al trono della sorella Isabella contro la volontà di assicurare la successione alla figlia Juana “La Beltraneja”, erede considerata illegittima, e di dare la sorella in sposa a un altro pretendente, il re del Portogallo Alfonso V.
Isabella di Castiglia preferì scegliere il giovane Ferdinando d’Aragona, dalla fama di valoroso condottiero e con un regno veramente bisognoso del suo aiuto, rispetto al vecchio re Alfonso V, potente, ricco e potenzialmente in grado di ripudiarla al primo guaio. Ma bisognava agire in fretta, prima che Enrico IV cambiasse idea sulla propria erede. Da qui il matrimonio clandestino, ed il rischio del carcere per lei e della vita per lui.
Quando Enrico IV venne a sapere del matrimonio, ne fu così sconvolto da riconoscere come propria erede l’illegittima Juana “La Beltraneja”. Di fatto ciò diede il via a una lunga guerra di successione al trono castigliano, a cui porre termine non bastò neppure la morte, nel 1474, di Enrico IV, sostituito poi da Re Alfonso V, subito sollecito nell’appoggiare le pretese dinastiche di Juana “La Beltraneja”, che il re aveva pensato di sposare.
Qui si dimostrarono fondamentali per la vittoria di Isabella l’audacia e il valore militare del novello sposo Ferdinando, che subito si dimostrò un’eccellente comandante, in grado di tenere testa sia ai riottosi nobili castigliani che sostenevano le pretese di Juana, sia le armate di Alfonso V. Entro la fine del 1479, “La Beltraneja” era sconfitta, e l’unione delle due coroneera suggellata in Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona, primi sovrani di ciò che sarebbe stata la Spagna.

venerdì 18 ottobre 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 18 ottobre.
Il 18 ottobre 1969 viene trafugata la tela di Caravaggio "Natività con i Santi Lorenzo e Francesco D'Assisi.
Centinaia di penne sono state consumate per raccontarne la vicenda, migliaia di pagine stampate e moltissimi libri scritti. Un mistero? No. Uno dei furti più famosi della storia. La trama è ricorrente: una grande opera d’arte, una calda e umida notte autunnale, una chiesa e una sparizione. Si provi ad immaginare: Palermo 1969, Oratorio di San Lorenzo, nella notte tra il 17 e il 18 ottobre. Ad un certo punto la scoperta. La Natività con i santi Lorenzo e Francesco d’Assisi di Caravaggio (Milano, 1571-Porto Ercole, 1610) è stata rubata. Ad accorgersene sono state le perpetue del parroco.
Da qui scatta l’allarme e l’opera viene inserita tra i primi dieci crimini d’arte dall’ FBI. Una storia che è diventata una leggenda, nessuna notizia certa di cosa sia successo. C’è chi dice che sia stata messa in un fienile e danneggiata dai topi, chi invece che Totò Riina la usasse come scendiletto, chi invece afferma che sia stata rubata dalla mafia per negoziare con lo Stato. Insomma un alone di mistero caratterizza questa vicenda. Fino ad oggi. Il pentito Gaetano Grado forse con le sue dichiarazioni metterà la parola fine a questa vicenda.
Gaetano Grado è stato con la sua famiglia un componente di Cosa Nostra e dopo il suo arresto nel 1989 si è pentito ed è diventato un collaboratore di giustizia. Secondo le deposizioni di Grado, il Caravaggio è stato rubato dalla piccola criminalità; la Mafia se ne sarebbe appropriata successivamente, dopo il gran clamore che fece la notizia al momento della scomparsa. Da qui l’opera passò per le mani di Gaetano Badalamenti, anche lui legato a Cosa Nostra, che riuscì a venderla tramite l’intercessione di un antiquario svizzero a Palermo. La Natività probabilmente era stata già tagliata a pezzi, e così trasportata all’estero. Secondo alcune indiscrezioni, sarebbe stato anche identificato il compratore, il cui nome tuttavia non è ancora noto.

giovedì 17 ottobre 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 17 ottobre.
Il 17 ottobre 1797 viene firmato il trattato di Campoformio, tra Napoleone e l'Austria.
Con il Trattato di Campoformio venne sancita la nuova situazione: il Belgio veniva annesso alla Francia e Venezia perdeva la sua indipendenza passando con gran parte del suo territorio, la Dalmazia e l'Istria (con l'eccezione di Bergamo e Brescia, congiunte alla Repubblica Cisalpina) all'Austria, in cambio del riconoscimento dei nuovi ordinamenti della Repubblica Cisalpina e Ligure. Lasciata l'Italia, nel settembre 1797 Napoleone appoggiò il Direttorio nel colpo di Stato di Fruttidoro, con il quale furono espulsi dalle assemblee i membri di recente elezione. Con ciò il Direttorio rinunciava a ogni apparenza di legalità, appoggiandosi interamente all'esercito. Temendo, però, l'eccessiva popolarità di Napoleone, i dirigenti politici pensarono di allontanarlo affidandogli una spedizione contro le isole britanniche, ma Napoleone la deviò verso l'Egitto (1798) con il proposito di colpire l'Inghilterra nei suoi traffici in Oriente, isolandola dall'India e dagli altri suoi possedimenti asiatici.
Espugnata in giugno l'isola di Malta, nel mese successivo Napoleone vinse alle Piramidi e in Siria (ma fu fermato a S. Giovanni d'Acri). La vittoria riportata sui Mamelucchi, dominatori di fatto del Paese, fu però vanificata dalla distruzione, in agosto, della flotta francese, ad opera dell'ammiraglio inglese Nelson nella baia di Abukir. Nel frattempo, però, in Francia la situazione politica si stava aggravando: la Seconda Coalizione antifrancese, comprendente, oltre alla Gran Bretagna, la Russia, la Turchia, l'Austria, il Regno di Napoli e il Portogallo, aveva conseguito successi militari sulla Francia dove, inoltre, il Direttorio era scosso da dissidi interni.
L'instabilità politica e l'incertezza della situazione internazionale portarono l'opinione pubblica ad auspicare l'affermazione di un capo che esercitasse un potere assoluto. Approfittando del momento, Napoleone salpò da Alessandria ed evitato il blocco delle navi inglesi riuscì a sbarcare a Fréjus. Nonostante la sconfitta subita ad opera di Nelson, appariva il solo uomo capace di catalizzare il consenso dei Francesi in quel momento di estrema precarietà. D'accordo con Barras e Sieyés, il 9 novembre (18 Brumaio) 1799 attuò il colpo di Stato che avrebbe portato alla concentrazione del potere politico nelle sue mani. La maggioranza dei deputati respinse le sue proposte, confermandosi fedele alla Costituzione vigente. Napoleone fece allora ricorso all'esercito, ordinando l'uscita dall'aula dei dissenzienti. I pochi deputati rimasti votarono per la riforma costituzionale, affidandone la realizzazione a tre consoli: Bonaparte, Sieyés e Ducos.
La nuova Costituzione, sottoposta all'approvazione (oltre tre milioni di voti a favore, 1.562 contrari), affidava il potere esecutivo a un "primo console", nella persona del Bonaparte, affiancato da altri due consoli che da lui dipendevano. La preparazione delle leggi era affidata a un Consiglio di Stato di nomina elettiva, affiancato da un Senato di sessanta membri nominati dai consoli.

mercoledì 16 ottobre 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 16 ottobre.
Il 16 ottobre 1970 Anwar Sadat viene eletto presidente dell'Egitto.
Muhammad Anwar al-Sadat nasce a Mit Abu al-Kum (Egitto) il 25 dicembre 1918. A soli sette anni si trasferisce al Cairo: studia presso la Regia accademia militare e consegue il diploma nel 1938.
Durante la seconda guerra mondiale viene imprigionato dalle truppe inglesi. Il 23 luglio 1952 partecipa al colpo di Stato con i Liberi Ufficiali ("Free officiers") del generale Muhammad Neghib e del colonnello Nasser, che porta alla deposizione dal trono del re Farouk.
Naguib sale al potere ma il suo governo dura poco meno di due anni; viene deposto e sollevato dall'incarico da Gmal Abdel Nasser, uno dei suoi più stretti collaboratori. Con Nasser alla presidenza del paese, Sadat ricopre gli incarichi di segretario dell'Unione nazionale (il partito unico) e di presidente dell'assemblea nazionale. Sadat sarà anche vicepresidente nei periodi 1964-1966 e 1969-1970. Dopo l'improvvisa morte di Nasser (28 settembre 1970) Sadat diviene Presidente.
Stringe inizialmente un accordo con l'Arabia Saudita, prezioso tramite diplomatico con gli Stati Uniti, poi assieme alla Siria guida l'Egitto nella guerra del Ramadan (o del Kippur) contro Israele nel 1973: l'obiettivo di Sadat è il recupero del controllo di almeno una parte della Penisola del Sinai, precedentemente occupata da Israele durante la Guerra dei sei giorni. L'attacco a sorpresa mette in seria difficoltà le forze israeliane per alcuni giorni. Alla fine Israele bloccherà l'attacco minacciando di distruggere la III Armata egiziana che aveva attraversato il Canale di Suez.
Il 19 novembre 1977 Sadat è il primo leader arabo che si reca in visita ufficiale in Israele; il presidente egiziano considera questa mossa come necessaria per superare quei problemi economici che derivano dai tanti anni di scontri con Israele. La sua visita a Gerusalemme sconvolge il mondo intero (gran parte del mondo arabo rimane scandalizzato dall'evento): Sadat tiene un colloquio con Menachem Begin, primo ministro israeliano e un discorso presso il parlamento (la Knesset).
La conseguente distensione porta ad un incontro nel 1978, a Camp David: Sadat e Begin firmano (il 26 marzo 1979, a Washington) alla presenza del presidente statunitense Jimmy Carter, gli "Accordi di pace", patto per il quale ricevono entrambi il premio Nobel per la Pace. Nelle fasi successive Israele si ritirerà dalla Penisola del Sinai, restituendo all'Egitto l'intera area nel 1983.
Gli Accordi di Camp David sarebbero risultati molto impopolari nella comunità araba, in particolar modo tra i fondamentalisti islamici, che avrebbero visto nell'abbandono di una soluzione basata sulla forza da parte dell'Egitto - la maggior potenza militare araba - una dimostrazione di debolezza. Sadat viene addirittura condannato come traditore da parte dei palestinesi e dagli altri governi arabi.
Con il passare del tempo il sostegno internazionale a Sadat si affievolisce: a causare la perdita degli appoggi è il suo modo autoritario di governare, che vede l'avvicendarsi di una crisi economica che aumenta il divario tra ricchi e poveri, e la mano dura nella repressione dei dissidenti.
Nel settembre del 1981 Sadat colpisce duramente le organizzazioni musulmane, incluse quelle studentesche, e le organizzazioni copte, ordinando l'arresto di 1600 dissidenti, tra integralisti islamici e comunisti. Un mese più tardi, il 6 ottobre 1981 durante una parata al Cairo, il presidente Muhammad Anwar al-Sadat viene assassinato; la morte avviene per mano di Khalid al-Islambul, componente del gruppo al-jihad, al cospetto della televisione che mostra al mondo intero le scioccanti immagini dell'accaduto.
Il successore alla guida del paese sarà Hosni Mubarak, già suo vice.

martedì 15 ottobre 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 15 ottobre.
Il 15 ottobre 1923 nasce Italo Calvino.
Italo Calvino nasce il 15 ottobre 1923 a Santiago de Las Vegas, presso l'Avana (Cuba). Il padre, Mario, è un agronomo di origine sanremese, che si trova a Cuba per dirigere una stazione sperimentale di agricoltura e una scuola agraria dopo venti anni passati in Messico. La madre, Evelina Mameli, di Sassari è laureata in scienze naturali e lavora come assistente di botanica all'Università di Pavia.
Nel 1927, Calvino frequenta l'asilo infantile al St. George College, sempre a Cuba. Nello stesso anno nasce suo fratello Floriano, futuro geologo di fama internazionale, mentre nel 1929 frequenta le scuole Valdesi, una volta che la famiglia si trasferisce definitivamente in Italia (Calvino fa anche in tempo, alla fine delle elementari, a diventare Balilla). Nel 1934 supera l'esame per il ginnasio-liceo "G. D. Cassini" e completa la prima parte del suo percorso scolastico.
Il primo contatto con la letteratura avviene all'età di dodici anni, quando gli capita fra le mani il primo ed il secondo "Libro della giungla" di Kipling. E' un amore al primo colpo, una fulminea infatuazione per i mondi esotici, le avventure e per le sensazioni fantastiche che può dare la lettura solitaria di testi trascinanti. Si diletta anche a leggere riviste umoristiche, cosa che lo spinge a disegnare lui stesso vignette e fumetti. In quegli anni si appassiona al cinema, un amore che durerà per tutta la sua adolescenza.
Intanto scoppia la guerra, un evento che segna la fine della sua giovinezza, così come il declino della cosiddetta "belle epoque" in versione sanremese. La sua posizione ideologica è incerta, tra il recupero di una identità locale ed un confuso anarchismo. Tra i sedici ed i venti anni scrive brevi racconti, opere teatrali ed anche poesie ispirandosi a Montale suo poeta prediletto per tutta la vita.
E' nei rapporti personali e nell'amicizia con il compagno di liceo Eugenio Scalfari, invece, che cominciano a crescere in lui interessi più specificatamente politici. Attraverso un intenso rapporto epistolare con Scalfari segue il risveglio dell'antifascismo clandestino ed una sorta di orientamento rispetto ai libri da leggere: Huizinga, Montale, Vittorini, Pisacane e così via.
Nel 1941, conseguita la licenza liceale, si iscrive alla Facoltà di Agraria dell'Università di Torino. Dopo la morte di un giovane combattente, chiede ad un amico di presentarlo al Pci; in seguito insieme al fratello si arruola e combatte per venti mesi uno dei più aspri scontri tra partigiani e nazifascisti. E' opinione della critica più accreditata che la sua scelta di aderire al partito comunista non derivò da ideologie personali, ma dal fatto che in quel periodo era la forza più attiva ed organizzata.
Nel frattempo i genitori vengono sequestrati dai tedeschi. Finita la guerra e liberati i genitori, nel 1946 comincia a gravitare attorno alla casa editrice Einaudi, vendendo libri a rate. Su esortazione di Cesare Pavese e del critico Giansiro Ferrata, si dedica alla stesura di un romanzo che conclude negli ultimi giorni di dicembre; è il suo primo libro, "Il sentiero dei nidi di ragno", una ricognizione appunto del periodo bellico e del mondo partigiano.
Sempre più inserito nella casa editrice, presso Einaudi, Italo Calvino si occupa dell'ufficio stampa e di pubblicità stringendo legami di amicizia e di fervido confronto intellettuale con i grandi nomi dell'epoca, presenti e futuri, come Pavese, Vittorini, Natalia Ginzburg, Delio Cantimori, Franco Venturi, Norberto Bobbio e Felice Balbo.
Nel 1948, però, lascia momentaneamente Einaudi per collaborare, in veste di redattore della terza pagina, con l'Unità torinese. Collabora anche al settimanale comunista "Rinascita"; nel 1949 torna da Einaudi ed esce la raccolta "Ultimo viene il corvo", ma rimane inedito il romanzo "Il Bianco Veliero" sul quale Vittorini aveva espresso un giudizio negativo.
Dal 1° gennaio 1950 Calvino viene assunto da Einaudi come redattore stabile: si occupa dell'ufficio stampa e dirige la parte letteraria della nuova collana "Piccola Biblioteca Scientifico-Letteraria". Sarebbero stati proprio Vittorini , Pavese e Calvino, fra l'altro, a creare quei risvolti di copertina che sono diventati uno stile nell'editoria italiana.
Nel 1951 finisce di scrivere un romanzo d'impianto realistico-sociale, "I giovani del Po", che viene pubblicato sulla rivista "Officina" solo negli anni 1957/1958; in estate invece scrive di getto "Il visconte dimezzato". Per una raccolta di lettere su un viaggio fatto nell'Unione Sovietica ("Taccuino di viaggio di Italo Calvino") pubblicata sull'Unità riceve il Premio Saint-Vincent.
Nel 1955 viene promosso dall'Einaudi come dirigente mantenendo questa qualifica fino al giugno 1961; dopo tale data diventa consulente editoriale. Lo stesso anno esce su "Paragone Letteratura", "Il midollo del leone", il primo di una serie di saggi, volti a definire la propria idea di letteratura rispetto alle principali tendenze culturali del tempo.
L'anno seguente (1956) escono "Le fiabe italiane" che consolidano, anche grazie al lusinghiero successo, l'immagine di Italo Calvino come favolista. Il 1956, però, è assai importante per un altro fatto significativo e cruciale nella vita dello scrittore: i fatti di Ungheria, l'invasione della Russia Comunista nell'inquieta Praga, provocano il distacco dello scrittore dal Pci e lo conducono progressivamente a rinunciare ad un diretto impegno politico.
La sua creatività è invece sempre feconda ed inarrestabile, tanto che non si contano le sue collaborazioni su riviste, i suoi scritti e racconti (vince in quegli anni anche il Premio Bagutta), nonché la stesura di alcune canzoni o libretti per opere musicali d'avanguardia come "Allez-hop" dell'amico e sodale Luciano Berio. Insomma, un'attività culturale e artistica a tutto campo.
In questi anni scrive "Il visconte dimezzato", "Il barone rampante", "Il cavaliere inesistente", "Marcovaldo".
Alla fine degli anni Cinquanta risale anche il soggiorno di sei mesi negli Stati Uniti, coincidenti con la pubblicazione della trilogia "Nostri antenati", mentre appare sul "Menabò" (altra rivista di vaglia di quegli anni), il saggio "Il mare dell'oggettività".
Nel 1964 avviene una svolta fondamentale nella vita privata dello scrittore: si sposa con un'argentina e si trasferisce a Parigi, pur continuando a collaborare con Einaudi. L'anno dopo nasce la sua prima figlia, Giovannea, che gli infonde un senso di personale rinascita ed energia.
Esce nel frattempo il volume "Le Cosmicomiche", a cui segue nel 1967 "Ti con zero", in cui si rivela la sua passione giovanile per le teorie astronomiche e cosmologiche.
Parallelamente, Calvino sviluppa un forte interesse per le tematiche legate alla semiologia e alla decostruzione del testo, tanto che arriva ad adottare procedimenti assai intellettualistici nell'elaborazione dei suoi romanzi, così come succede ad esempio in quel gioco di specchi che è "Se una notte d'inverno un viaggiatore".
L'inclinazione fantastica, costante di tutta l'opera di Calvino, rappresenta comunque la corda più autentica dello scrittore. In molte delle sue opere, infatti, egli infrange una regola ferrea della vita (e di gran parte della letteratura) che vuole da una parte la realtà, dall'altra la finzione. Calvino, invece, spesso mescola i due piani, facendo accadere cose straordinarie e spesso impossibili all'interno di un contesto realistico, senza perdere colpi né sull'uno né sull'altro versante. Una delle sue caratteristiche è quella di saper mantenere nei confronti della materia trattata, un approccio leggero, trattenuto dall'umorismo, smussandone gli aspetti più sconcertanti con un atteggiamento quasi di serena saggezza.
"Eleganza", "leggerezza", "misura", "chiarezza", "razionalità" sono i concetti a cui più usualmente si fa ricorso per definire l'opera di Italo Calvino; in effetti, essi individuano aspetti reali della personalità dello scrittore anche se, al tempo stesso, rischiano di sottovalutarne altri, ugualmente presenti e decisivi.
Gli anni Settanta sono anch'essi ricchissimi di collaborazioni giornalistiche, di scritti ma soprattutto di premi, che colleziona in quantità. Rifiuta il premio Viareggio per "Ti con zero" ma accetta due anni dopo il premio Asti, il premio Feltrinelli e quello dell'accademia dei Lincei, nonché quello della città di Nizza, il Mondello ed altri ancora. In questo periodo un impegno assai importante è rappresentato inoltre dalla direzione della collana Einaudi "Centopagine", nella quale vengono pubblicati, oltre ai classici europei a lui più cari (Stevenson, Conrad, Stendhal, Hoffmann, Balzac e Tolstoj), svariati scrittori minori italiani a cavallo fra '800 e '900.
Intanto viene ultimata la villa di Roccamare, presso Castiglione della Pescaia, dove Calvino trascorre tutte le estati. Sul piano dell'impegno di scrittura inizia a scrivere nel 1974 sul "Corriere della sera" racconti, resoconti di viaggio ed articoli sulla realtà politica e sociale del paese; la collaborazione dura fino al 1979. Scrive anche per la serie radiofonica "Le interviste impossibili" i "Dialoghi di Montezuma" e "L'uomo di Neanderthal". Nel 1976 tiene conferenze in molte università degli Stati Uniti, mentre i viaggi in Messico e Giappone gli danno spunti per alcuni articoli, che verranno poi ripresi in "Collezioni di sabbia". Riceve a Vienna lo "Staatpreis".
Si trasferisce a Roma nel 1980 in piazza Campo Marzio ad un passo dal Pantheon. Raccoglie nel volume "Una pietra sopra" gli scritti di "Discorsi di letteratura e società" la parte più significativa dei suoi interventi saggistici dal 1955 in poi. Nel 1981 riceve la Legion d'onore. Cura l'ampia raccolta di scritti di Queneau "Segni, cifre e lettere".
Nel 1982 alla Scala di Milano viene rappresentata "La vera storia", opera scritta insieme al già ricordato compositore Luciano Berio. Di quest'anno è anche l'azione musicale "Duo", primo nucleo del futuro "Un re in ascolto", sempre composta in collaborazione con Berio.
Nel 1983 viene nominato per un mese "directeur d'ètudes" all'Ecole des Hautes Etudes. A gennaio tiene una lezione su "Science et metaphore chez Galilèe" e legge in inglese alla New York University la conferenza "Mondo scritto e mondo non scritto". Nel 1985, avendo ricevuto l'incarico di tenere una serie di conferenze negli Stati Uniti (nella prestigiosa Harvard University), prepara le ormai celeberrime "Lezioni Americane", che tuttavia rimarranno incompiute, e saranno edite solo postume nel 1988.
Durante il 1984 in seguito alla crisi aziendale dell'Einaudi decide di passare alla Garzanti presso la quale appaiono "Collezione di sabbia" e "Cosmicomiche vecchie e nuove". Compie dei viaggi in Argentina e a Siviglia dove partecipa ad un convegno sulla letteratura fantastica. Nel 1985 traduce "La canzone del polistirene" di Queneau mentre durante l'estate lavora ad un ciclo di sei conferenze. Il 6 settembre viene colto da ictus a Castiglione della Pescaia.
Ricoverato all'ospedale Santa Maria della Scala di Siena, Italo Calvino muore il 19 settembre 1985, all'età di 61 anni, colpito da un'emorragia celebrale.
Riposa nel panoramico cimitero-giardino di Castiglione della Pescaia, di fronte all'Arcipelago Toscano, in Provincia di Grosseto.

lunedì 14 ottobre 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 14 ottobre.
Il 14 ottobre 1926 viene pubblicato per la prima volta il libro per ragazzi "Winnie the Pooh".
Winnie the Pooh è stato amato e continuerà ad essere amato da milioni di bambini in tutto il mondo. Ma il successo di questo personaggio nasconde una storia difficile iniziata oltre 100 anni fa.
La storia cominciò nel 1914, quando un treno carico di militari in uniforme fece giungere il tenente Harry Colebourn a White River, Ontario, in Canada. Il 27enne, nato in Inghilterra, si era trasferito in Canada per studiare chirurgia veterinaria e aveva una profonda passione per gli animali. Passeggiando per White River, il tenente Colebourn vide qualcosa che attirò il suo sguardo: un cucciolo di orso nero di non più di sei mesi, tenuto al guinzaglio da un bracconiere, che cercava qualcuno a cui venderlo.
Il soldato, commosso per la sorte del piccolo orso, lo prese tra le proprie braccia e diede 20$ al bracconiere. Quando tornò al proprio treno, Colebourn portò con sé il proprio nuovo animale domestico. Era una femmina, e decisa di chiamarla Winnipeg, il nome della sua città natale. “Winnie” (così venne presto soprannominata) strinse presto amicizia con il tenente e gli altri soldati. Colebourn la addestrò dandole mele e latte condensato come ricompense. La piccola orsa dormiva sotto il suo letto, e lo seguiva in giro come avrebbe fatto un cagnolino. Ben presto, divenne la mascotte del reggimento.
Alla fine dello stesso anno il tenente portò Winnie con sé in Inghilterra. Quando Colebourn venne chiamato al Fronte Occidentale, a dicembre, l’orsa venne affidata alle cure del London Zoo, che aveva appena predisposto un ambiente di montagna adatto a lei. Prima di partire, il tenente si ripromise di riportare l’orsa in Canada, alla fine della guerra.
Ma la guerra si prolungò per diversi anni, e Colebourn testimoniò atrocità disumane, lavorando nel Royal Canadian Army Veterinary Corps, e prendendosi cura dei cavalli feriti.
Quando poté tornare a trovare la piccola orsa, il tenente la trovò cresciuta ma gentile e mite come sempre. Era così docile che i bambini potevano entrare nella sua area per giocare con lei o per darle da mangiare. Colebourn capì che ormai Winnie apparteneva alla città dove era cresciuta, e non se la sentì di riportarla in Canada.
Tra i bimbi di Londra più affezionati a Winnie c’era un giovanissimo ragazzo chiamato Christopher Robin Milne, che pregava spesso suo padre, A.A. Milne, di portarlo allo zoo, per abbracciare Winnie e per portarle il latte condensato. Christopher Robin si affezionò tanto all’orsa che cambiò il nome del suo pupazzo in Winnie the Pooh.
L’orsacchiotto Winnie the Pooh, insieme ad altri pupazzi del piccolo Christopher Robin, ispirarono i personaggi del racconto più famoso di suo padre. A. A. Milne era uno scrittore prolifico, con una produzione diversificata che includeva sceneggiature e romanzi gialli. Nel 1924 pubblicò il libro per bambini “When We Were Very Young”, seguito due anni dopo da un volume completo di storie, chiamato “Winnie-the-Pooh”.
A. A. Milne aveva combattuto nella Prima Guerra Mondiale, come il tenente Colebourn, e il Bosco dei Cento Acri era un rifugio idilliaco dalle atrocità vissute durante la guerra. Congedatosi senza aver mai sparato a un uomo, Milne definì la condizione di guerra come “degrado psichico e morale”, affermando che l’incubo lo aveva fatto ammalare fisicamente. C’è chi ipotizza che Milne soffrisse di DPTS (Disturbo Post Traumatico da Stress), come moltissimi altri soldati che avevano vissuto l’esperienza di trincea nella Grande Guerra.
Il successo di Winnie the Pooh ebbe ripercussioni negative sul vero Christopher Robin, che dovette gestire un’improvvisa visibilità pubblica ed ebbe sempre un rapporto conflittuale con la storia che vedeva protagonista il suo omonimo narrativo. Suo padre non riuscì a stargli vicino e i due ebbero sempre un rapporto difficile. Perché, purtroppo, spesso la realtà è molto più complicata di una fiaba. Ma le fiabe sono un ottimo modo di fuggire dalle difficoltà della vita vera.

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