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martedì 31 dicembre 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 31 dicembre.
Il 31 dicembre 1600 nasce la Compagnia Britannica delle Indie Orientali.
È la società di mercanti londinesi più famosa della storia. La Compagnia Britannica delle Indie Orientali (British East India Company) nasce il 31 dicembre 1600, quando la Regina Elisabetta I pone la firma sul primo statuto (detto anche patente reale) e le riconosce un monopolio della durata di 15 anni del commercio nella zona compresa tra lo stretto di Magellano e il Capo di Buona Speranza (la zona delle Indie Orientali).
L’associazione nazionale dei mercanti inizia però la sua attività, estremamente proficua, già alla fine del Cinquecento. Si narra che il capitale iniziale fosse pari a 72mila sterline, diviso tra 125 azionisti, e che in meno di 50 anni l’ammortare si fosse notevolmente moltiplicato, superando le 740 mila sterline.
Costituita la società, il primo scoglio dagli inglesi è la rivalità con gli olandesi nelle Indie: la Compagnia Olandese delle Indie Orientali dà filo da torcere a quella britannica fino al massacro dei mercanti inglesi di Amboina nel 1623, che porta a una tacita divisione delle aree: gli olandesi prendono l’Indonesia e Ceylon, mentre gli inglesi si aggiudicano l’India continentale.
Gli uffici principali della Compagnia delle Indie sono a Londra (con un distaccamento a Surat), ma nel 1616 aprono, su autorizzazione della dinastia del Gran Moghūl delle sedi anche nelle città indiane più importanti, come Calcutta, Madras e Bombay. In Cina, invece, la sede più grande è quella di Canton. Inoltre, la British East India Company può far valere, anche in questi territori, la legislazione inglese, nei confronti dei suoi traffici.
Nel giro di pochi anni le attività in Oriente diventano un fiore all’occhiello per l’Inghilterra, tanto che Carlo II decide di trasferirsi in India. La figura di Carlo trasforma moltissimo l’organizzazione della Compagnia, che oltre a forza economica, diventa anche una forza militare. Infatti, dopo il crollo dell’impero dei Moghūl e la guerra dei Sette anni, che ferma la concorrenza francese, il potere locale inglese diventa dominante in tutto il territorio. Si aggiungono a questo quadro, estremamente favorevole, alcune vittorie militari, come quella a Plassey (1757) e Buxar (1764) e, grazie agli intrighi di Robert Clive, un impiegato dell’associazione, la Compagnia ottiene pure il controllo del Bengala e Clive ne è eletto governatore.
L’associazione nazionale dei mercanti inglesi permette la creazione del Raj, ovvero l’India britannica. Ma c’è di più. È grazie proprio a questa forza che viene sradicata la pirateria. In questo contesto si afferma la figura del Captain William Kidd, ingaggiato proprio dagli inglesi per sgominare i pirati. La sua missione è catturare le navi nemiche al largo delle coste del Madagascar, a bordo della sua Adventure Galley, imbarcazione dotata di 34 cannoni e un equipaggio di 80 uomini. In realtà, Kidd si rivela un pirata corrotto nell’animo e tenta di far fortuna attaccando proprio le navi della Compagnia, ma gli inglesi scoprono l’inganno e lo impiccano a Londra.
In meno di due secoli, la Compagnia diventa vastissima, estendendo i suoi territori e trasformandosi in una sorta di governo locale. Ovviamente, la gestione amministrativa si presenta più complicata del dovuto e sorgono le prime accuse di corruzione a causa di briganti e funzionari inclini al malaffare. Il Governo inglese è obbligato a prendere in mano la situazione e nel 1784 si vota la Indian Act, la legge che separa il governo dei territori delle Indie Orientali dalle attività commerciali. Le prime spettano alla Corona, mentre i traffici mercantili alla Compagnia, che in questo modo perde la sua totale autonomia.
La British East India Company, nonostante la situazione politica, non smette di crescere in tutto l’Oriente: arriva in Birmania, fonda Singapore e Hong Kong, occupa le Filippine e Giava. Il declino inizia i primi anni dell’Ottocento, quando si scontra con la Cina per l’esportazione dell’oppio indiano. La Cina vuole fermare l’egemonia inglese a tutti i costi, tanto da scatenare le famose guerre dell’oppio (1840-’42). Nel 1813 La Compagnia perde il monopolio commerciale e qualche anno dopo, nel 1857 a seguito della Rivolta dei Sepoy (Guerra d’indipendenza indiana), perde anche i suoi poteri amministrativi. Nel 1860, infine, la Corona prende il controllo di tutti possedimenti della Compagnia, che si scioglie definitivamente il giorno 1 gennaio 1874.
La Compagnia delle indie, definita da molti esperti la prima e la più longeva multinazionale della storia, ha rifornito per quasi due secoli l’Europa di molti prodotti preziosi come le spezie (dalla noce moscata ai chiodi di garofano), i tessuti preziosi (dalle sete ai filati di cotone), il caffè, lo zucchero e il tè. Sono stati proprio i mercanti inglesi a impiantare la coltura del tè in India ed è stato proprio il monopolio della vendita di questa tipica pianta a far scoppiare la rivoluzione americana (il famoso “Boston Tea Party” del 1773).

lunedì 30 dicembre 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 30 dicembre.
Il 30 dicembre 1922 viene costituita l'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche.
L’Urss (Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche) anche nota come Unione Sovietica fu ufficialmente costituita il 30 dicembre 1922, cinque anni dopo la Rivoluzione d’ottobre del 1917, che aveva portato in Russia alla caduta dell’impero degli zar (la parola russa ‘tsar deriva dal latino Caesar, Cesare) e alla conquista del potere da parte del Partito comunista (PCUS) guidato da Lenin.
La Russia non era più un impero ma una federazione che riuniva quattro repubbliche slave principali (Russia, Ucraina, Georgia e Bielorussia) e circa 25 altre repubbliche di etnie diverse (turche, mongole ecc.). La confederazione confermò come stemma la falce (i contadini) e il martello (gli operai) che erano diventati il suo simbolo dopo la Rivoluzione d’ottobre. Vi aggiunse la stella, simbolo dello Stato.
Il governo dell’Urss avviò una radicale riforma del sistema economico, basata sulla collettivizzazione delle terre e delle strutture produttive: era il primo tentativo di dare concreta realizzazione alle idee comuniste maturate in Europa nel XIX secolo per opera di Karl Marx, Friedrich Engels e altri pensatori socialisti.
Lo stato socialista si poneva come diverso e alternativo rispetto a quello liberale e capitalista: uno stato fondato sulla giustizia, l’uguaglianza e la fratellanza tra i lavoratori. La terra, le imprese e le altre risorse economiche furono poste sotto il controllo diretto delle classi lavoratrici, limitando così il diritto di proprietà, ritenuto all’origine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Negli anni Venti e Trenta del Novecento, sotto la guida di Iosif Stalin (Lenin era morto nel 1924) e per mezzo della rigida pianificazione statale di tutte le attività produttive, l’Urss fu protagonista di una grande crescita economica.
L’industrializzazione fu condotta a tappe forzate, sfruttando l’abbondanza di manodopera e di risorse naturali. Questo significò chiedere alla popolazione una serie di sacrifici – che in uno Stato democratico sarebbero stati del tutto inimmaginabili – e imporli con un regime del terrore che determinò il più alto numero di morti mai registrato in un solo Paese.
Tutti i contadini furono inquadrati nei kolkhoz, le aziende agricole fondate sulla proprietà collettiva della terra, del bestiame e delle attrezzature e impegnate a fornire ogni anno allo Stato le quantità di prodotto imposte dall’alto.
La resistenza opposta alla collettivizzazione dai kulàki, gli agricoltori benestanti, fu violentissima. Pur di non  dare allo Stato il loro bestiame, essi ammazzarono milioni  di capi, creando una crisi alimentare che durò una decina di anni. Ciò offrì a sua volta alla Ceka – un’onnipotente polizia politica incaricata di controllare la fede rivoluzionaria della popolazione e dotata del potere di arrestare o addirittura fucilare senza processo chi risultava sospetto – il motivo per organizzare la loro deportazione in massa nei gulag, i campi di lavoro forzato della Siberia. Di loro non si seppe più niente.
In circa dieci anni, 24 milioni di piccoli campi furono accorpati in 250 000 aziende agricole di grandi dimensioni. Ciò tuttavia non produsse i risultati attesi. La produttività delle campagne rimase bassissima e violente carestie continuarono ad abbattersi sui raccolti. Le maggiori vittime della situazione furono proprio i contadini, perché le autorità si rifiutarono di tener conto della bassa produttività dei campi nello stabilire i quantitativi delle requisizioni annuali e, di conseguenza, i morti per fame nei kolkhoz furono milioni.
Stalin ottenne invece risultati nel campo dell’industrializzazione. Sparita la proprietà privata anche nell’industria, l’Urss elaborò nel 1928 un Piano di produzione quinquennale che dava la priorità assoluta all’industria pesante, mentre fu totalmente sacrificata l’industria leggera.
Negli anni dell’industrializzazione furono compiuti anche notevoli progressi sociali: masse di analfabeti andarono a scuola, le università si aprirono ai figli dei contadini e degli operai, il sistema sanitario divenne gratuito.
Dall’altra parte, però, poiché non si producevano sufficienti beni di consumo, quegli stessi operai che affidavano con orgoglio i propri figli al Partito perché li educasse, non avevano vestiti né scarpe di ricambio, facevano file di ore per comprare un pezzo di sapone e abitavano con la famiglia ammucchiati in una sola stanza.
Nel periodo successivo alla Seconda guerra mondiale, l’Urss continuò la sua crescita economica e industriale, ma non riuscì a reggere il confronto con il benessere e lo sviluppo dei paesi industrializzati dell’Occidente. Inoltre, il contrasto politico con gli Stati Uniti  e le tensioni della guerra fredda spinsero il governo sovietico a potenziare soprattutto l’apparato militare, sprecando un’enorme quantità di risorse.
I limiti e le contraddizioni del modello economico socialista divennero via via più forti con il passare degli anni; per questo motivo Michail Gorbaciov, personaggio politico leader dell’Urss dal 1985, cominciò ad attuare riforme (la cosiddetta perestrojka) con l’obiettivo di realizzare un sistema economico che, pur mantenendo la struttura socialista, accogliesse anche elementi di economia privata.
Questo tentativo però fallì per le forti resistenze di una parte della vecchia classe dirigente e per il peggioramento delle condizioni economiche dell’intero paese.
La crisi dell’Urss era oramai inarrestabile. Il progressivo crollo dei regimi socialisti alleati dell’Urss, verificatosi nel corso del 1989 in Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia, Germania orientale e Romania , peggiorò il clima di tensione economica e politica nelle singole repubbliche che componevano lo stato sovietico, che, a partire dalle tre piccole repubbliche baltiche (Estonia, Lettonia e Lituania), cominciarono a proclamare la propria indipendenza dal governo centrale.
Il 31 dicembre 1991 venne ammainata per l’ultima volta dal pennone del Cremlino, a Mosca, la bandiera dell’Urss, che cessava di esistere dopo circa settant’anni.

domenica 29 dicembre 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 29 dicembre.
Il 29 dicembre 1800 nasce Charles Goodyear, l'inventore delle gomme da automobile moderne.
Charles Goodyear nasce a New Haven, nello stato del Connecticut (USA) il 29 dicembre 1800.
A lui si deve la scoperta di un metodo per la vulcanizzazione della gomma.
Questo personaggio si può definire come un vero, grande, appassionato della gomma. Goodyear era infatti convinto che questo materiale poteva divenire il materiale del futuro, destinato a rivoluzionare le abitudini di ogni attività umana. Indossava abiti di gomma, portava un bastone da passeggio di gomma, produceva sacchi per la posta di gomma e si fece fare addirittura un ritratto con la gomma.
All'epoca la gomma non era ancora in grado di soddisfare le esigenze per un suo impiego su larga scala, soprattutto perché questa se veniva esposta al calore fondeva; inoltre, a bassa temperatura, si rompeva, spezzandosi.
Charles Goodyear passò quasi tutta la vita ad eseguire migliaia e migliaia di esperimenti: la moglie Clarissa, stanca di questo stile di vita, spesso pregava il marito di porre fine ai suoi esperimenti, che non portavano mai a nulla di concreto, per cercare di convincerlo a sostenere la famiglia con qualsiasi altra attività che gli permettesse di guadagnare almeno qualche dollaro.
La famiglia Goodyear non navigava certo nell'oro: erano tanto poveri da dover spesso contare sull'aiuto dei vicini per riuscire a mangiare qualcosa quotidianamente.
Capitò addirittura che alla morte di uno dei figli, senza soldi per pagare i funerali, fu lo stesso Charles a scavare la fossa per inumare la salma.
Un giorno dell'anno 1839 mentre Clarissa rincasava prima di quanto il marito prevedeva, Charles Goodyear interrompeva bruscamente uno dei suoi esperimenti. Per nascondere alla moglie la sua attività, aveva scelto in tutta fretta di riporre la miscela di gomma e zolfo nel forno.
Più tardi avrebbe constatato che la sostanza era diventata sia resistente che flessibile: Goodyear aveva scoperto il procedimento che avrebbe lui stesso chiamato con il termine "vulcanizzazione".
La scoperta si può così riassumere: aggiungendo poche unità percentuali di zolfo al lattice ottenuto dall'albero della gomma, proseguendo poi con il riscaldamento della sostanza, si rende la gomma più elastica e più resistente ai solventi.
La vulcanizzazione è un metodo che viene ancora oggi utilizzato nella produzione di pneumatici e altri oggetti di gomma.
Goodyear probabilmente non era molto portato per gli affari e brevettò la sua scoperta solo il 15 giugno del 1844. Durante questi anni intanto, altri si erano fatti avanti presentando richieste per brevetti analoghi: iniziò così un procedimento legale che si concluse nel 1852 e che vide Charles Goodyear vincitore contro i suoi rivali. Tuttavia alla fine della questione non fu in grado di pagare le spese processuali che ammontavano a più di 25.000 dollari.
Nel 1860 compì un viaggio a New York per andare a far visita alla figlia. Arrivato in città venne informato della morte della ragazza. Charles Goodyear non resse il colpo che la notizia gli provocò: morì il giorno 1 luglio 1860. Goodyear non ebbe mai benefici materiali derivanti dalla sua scoperta, lasciò anzi 200.000 dollari di debiti ai suoi eredi.
Va ricordato però che Goodyear conobbe alcuni momenti di gloria: nel 1851 fu invitato all'esposizione mondiale di Londra per presentare alcuni mobili e articoli casalinghi realizzati in gomma da lui. In occasione di un simile evento, in Francia, fu insignito della massima onorificenza, la Legione d'onore.
La notorietà del nome Goodyear ad oggi si deve all'azienda costruttrice di pneumatici che porta il suo nome e che lo ha reso famoso in tutto il mondo. L'azienda "Goodyear Tire and Rubber Company" fu fondata da Frank Seiberling 38 anni dopo la morte di Charles Goodyear.

sabato 28 dicembre 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 28 dicembre.
Il 28 dicembre 1964 viene eletto Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat.
Giuseppe Saragat nasce il 19 settembre 1898 a Torino. La famiglia di origine sarda è di stirpe catalana. Aderisce come simpatizzante al neonato partito socialista. Fin da giovane è su posizioni riformiste, la stessa corrente degli storici padri del socialismo nazionale tra cui Filippo Turati, Claudio Treves, Andrea Modigliani, Camillo Prampolini e Ludovico D'Aragona.
Volontario nella prima guerra mondiale prima come soldato semplice e poi come ufficiale viene decorato con la croce di guerra.
Nel 1922 si iscrive all'allora Partito Socialista unitario e tre anni dopo entra nella sua direzione.
L'avvento del fascismo e della dittatura mussoliniana vedono il quasi trentenne Saragat collocarsi all'opposizione del nuovo regime ed imboccare la via dell'esilio: prima l'Austria e poi la Francia dove incontrerà e collaborerà con tutti i massimi esponenti dell'antifascismo in esilio: da Giorgio Amendola a Pietro Nenni. È in questo clima e alla luce di molte corrispondenze che gli giungono dalla Spagna, dove è in corso la guerra civile, che matura una profonda avversione per il comunismo sovietico e per ogni sua "propaggine" occidentale. Di converso comincia ad abbracciare il filone socialdemocratico nordeuropeo figlio della II Internazionale.
La posizione saragattiana antisovietica fu assai lungimirante e poi confermata, nell'ultimo decennio del Novecento, dagli stessi avvenimenti storici, ma non altrettanto lungimirante fu l'accettazione acritica delle posizioni secondointernazionaliste che erano state travolte dalla Prima Guerra Mondiale e dal lungo primo dopoguerra che aveva visto, anche a causa della debolezza della sinistra fortemente divisa tra massimalisti leninisti e riformisti socialdemocratici, la genesi e l'instaurarsi in Europa delle dittature fasciste e nazista.
Dopo la caduta di Mussolini Giuseppe Saragat ritorna in Italia e, con Pietro Nenni e Lelio Basso, riunifica tutte le correnti socialiste dando origine al Partito Socialista di Unità Proletaria (Psiup) in cui, come in tutta la tradizione socialista, conviveranno sia le istanze riformiste, sia quelle massimaliste senza trovare, e anche questo fa parte della tradizione del socialismo italiano, un punto di sintesi e di accordo.
Nel II Governo guidato dal demolaburista Ivanoe Bonomi, Saragat è Ministro senza portafoglio.
Nelle elezioni per l'Assemblea Costituente i socialisti sono, con oltre il 20 % dei suffragi, il secondo partito italiano alle spalle della Democrazia Cristiana e superano per pochi voti i comunisti del Pci di Palmiro Togliatti. In quanto seconda forza politica della penisola, al partito del sol dell'avvenire va la presidenza dell'Assemblea Costituente, e Nenni, entrato nel frattempo nel Governo guidato dal democristiano Alcide De Gasperi (Dc), indica Giuseppe Saragat come candidato socialista per ricoprire tale carica e il leader riformista viene eletto con la convergenza di tutti i partiti antifascisti (Dc, Pci, Psiup, Pri, Pd'A, Udn, Pli) che costituivano i governi di unità nazionale.
Ma è proprio in questi mesi che l'ennesima e insanabile rottura tra i due tronconi del socialismo italiano: da un lato il sanguigno e "popolare" Pietro Nenni si batte per una stretta collaborazione con i comunisti (fino a ipotizzare una unificazione dei due partiti della sinistra) e per una scelta neutralista sul piano internazionale, dall'altra parte il colto e raffinato Giuseppe Saragat, che si ispira ai modelli scandinavi, si oppone strenuamente a tale ipotesi.
Le fratture in casa socialista, seguendo la peggiore tradizione, sono sempre insanabili e nel gennaio 1947 Giuseppe Saragat abbandona il Psiup con gli uomini a lui fedeli e dà vita ad un partito socialista moderato e riformista (che sarà per anni l'unico referente italiano del rinato Internazionale Socialista), il Partito Socialista dei Lavoratori Italiani (Psli). Tale partito pochi anni dopo, con l'unificazione con la piccola pattuglia dei membri del Partito Socialista Unificato (Psu) dell'ex ministro Giuseppe Romita, assumerà definitivamente il nome di Partito Socialista Democratico Italiano (Psdi) di cui Giuseppe Saragat sarà unico leader.
Il partito socialdemocratico assumerà ben presto posizioni molto moderate e filoatlantiche in contrasto con tutti gli altri partiti socialisti, socialdemocratici e laburisti d'Europa. Su 115 deputati socialisti eletti nel 1946 ben 52 se ne vanno con Saragat che, pur non riuscendo mai a conquistare il cuore della "base" socialista riuscirà a portare nella sua orbita sindacalisti, giornalisti e intellettuali che ritorneranno nel Psi solo nella seconda metà degli anni '60: in questa fase di fine anni '40 il movimento socialista si trovava in una peculiare e paradossale situazione per cui Nenni e il Psi avevano i voti e i militanti, Saragat e il Psdi la classe dirigente e i quadri intermedi.
Simultaneamente all'assunzione della guida della nuova creatura politica, Saragat abbandona la guida di Montecitorio alla cui presidenza viene eletto il comunista Umberto Terracini a cui spetterà l'onore di tenere a battesimo, insieme al Capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola, al Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi (Dc) ed al Guardasigilli Giuseppe Grassi (Pli), la nostra Costituzione repubblicana.
Nella primavera del 1947 De Gasperi si reca negli Usa ed al rientro estromette comunisti e socialisti dal governo varando una formula di governo quadripartito centrista composta, oltre che dalla Dc, dai repubblicani di Pacciardi (Pri), dai liberali di Einaudi (Pli) e dai socialdemocratici di Saragat (Psli) che assumerà la Vicepresidenza del Consiglio dei Ministri.
È la svolta moderata nella politica italiana che verrà confermata dalle urne il 18 aprile 1948 quando la Democrazia Cristiana sconfiggerà duramente con il 48,8 % dei voti, il Fronte Democratico Popolare, la lista unitaria della sinistra composta, per volontà di Nenni, dal Pci, dal Psi e da alcuni ex esponenti del Partito d'Azione, che si fermerà ad uno scarso 32 % dei consensi. In questa competizione elettorale Giuseppe Saragat si presenterà alla guida di una lista, composta dal suo Psli e da alcuni ex membri del Partito d'Azione che non avevano aderito al tandem Togliatti-Nenni, con il nome di Unità Socialista conquistando un eccellente 7 % di voti: è questo il più alto risultato mai conseguito dai socialisti riformisti.
Durante la prima legislatura i saragattiani, contro i quali si scateneranno l'ira e le accuse di tradimento della classe operaia dei comunisti, parteciperanno ai governi egemonizzati dalla Dc, ricoprendo, al pari delle altre forze laiche (Pli e Pri) un ruolo di comprimari, tanto che nel nuovo governo (De Gasperi 1948) Saragat sarà solo Ministro della Marina Mercantile.
Le elezioni del 1953 vedono la sconfitta del quadripartito centrista che, pur conservando la maggioranza numerica in Parlamento, non la mantenne nel Paese e, soprattutto, non riuscirono a far scattare il meccanismo elettorale pseudomaggioritario (la cosiddetta "legge truffa"). Saragat ed il Psdi furono duramente sconfitti ("cinismo cinico e baro" come disse lo stesso leader socialdemocratico) e il partito entrò in ruolo secondario nel panorama politico e partitico nazionale da cui non è mai più uscito.
Saragat fu uno dei sostenitori dell'apertura ai socialisti di Nenni che dopo i fatti d'Ungheria del 1956, avevano abbandonato l'opzione frontista con i comunisti di Togliatti. Prima Fanfani e poi Aldo Moro guideranno governi di centrosinistra a partire dai primi anni '60. Nel periodo 1966-69 si assisterà alla temporanea riunificazione dei due partiti socialisti, il Psu (Psi-Psdi Partito Socialista Unificati) con due cosegretari (Francesco De Martino e Mario Tanassi), ma con scarsi risultati elettorali (alle elezioni politiche del 1968 il Psu ebbe molti meno voti di quelli che avevano avuto 5 anni prima Psi e Psdi presentatisi separatamente).
Dopo essere stato Vicepresidente del Consiglio dei Ministri nei Governi Scelba (1954) e Segni (1955), Saragat fu Ministro degli Esteri nel I e II Governo Moro (1963, 1964) di centrosinistra. Nel 1964, dopo le dimissioni anticipate del Presidente della Repubblica Antonio Segni (Dc), una vasta coalizione di parlamentari di sinistra su indicazione di Giorgio Amendola (Pci) e di Ugo La Malfa (Pri) votava per Giuseppe Saragat come nuovo Capo dello Stato che, con i voti dei Grandi elettori di Pci, Psi, Psdi, Pri e buona parte della Dc (che aveva visto "bruciarsi" il suo candidato ufficiale Giovanni Leone) era il primo socialista a insediarsi al Quirinale.
Leit-motiv della sua presidenza fu la Resistenza e la volontà di attivarsi sempre per la costituzione di governi di centro-sinistra. Gli anni della presidenza Saragat furono caratterizzati dall'inizio del terrorismo e dalla contestazione del 1968. Nel 1971 il democristiano Giovani Leone succede a Giuseppe Saragat (il quale auspicava ad una rielezione) nella carica di Presidente della Repubblica Italiana. Pochi altri uomini politici (Togliatti e Spadolini) seppero coniugare l'azione politica con l'impegno culturale come Saragat.
Il leader socialdemocratico si è spento a Roma il giorno 11 giugno 1988: toccanti furono le parole dedicategli sull'organo ufficiale del Pci, l'Unità, da uno dei suoi grandi avversari comunisti, Giancarlo Pajetta, che tirò un rigo sulle polemiche di quasi un cinquantennio prima, affermando: "Oggi è morto un compagno!"

venerdì 27 dicembre 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 27 dicembre.
Il 27 dicembre 1979, con la sostituzione del Presidente Amin assassinato, l'Unione Sovietica prende pieno possesso dell'Afganistan.
Con l'invasione dell'Afganistan inizia una lunga guerra, che in dieci anni provoca oltre un milione di morti e quasi sei milioni di profughi. Il 27 aprile 1978, un colpo di Stato abbatte il governo di Mohammed Daoud Khan, che da cinque anni si oppone all’influenza nella politica afghana della confinante Unione Sovietica. Il colpo di Stato porta al potere Noor Mohammed Taraki, leader di un partito di ispirazione marxista e uomo sostenuto da Mosca. La sua politica, laica e socialista, incontra l’opposizione dell’ala più intransigente degli islamici afghani, che organizzano la resistenza armata dei mujaheddin, “i combattenti per la fede”. Gli USA, che da decenni si contendono con l’URSS il controllo della politica mondiale, finanziano i mujaheddin in funzione anti-sovietica. Il 14 settembre 1979 il presidente Taraki viene rovesciato: il suo posto è preso dal primo ministro Hafizullah Amin, che apre al dialogo con i mujaheddin e con gli USA. Per non perdere il controllo dell’Afghanistan, il leader sovietico Leonid Breznev decide di invadere il Paese. È il 24 dicembre 1979. Nell’arco di tre giorni, l’Armata Rossa sovietica conquista Kabul, la capitale afghana. Gli USA reagiscono promuovendo un embargo contro l’URSS, e decidendo di boicottare le Olimpiadi di Mosca del 1980. La resistenza afghana è sostenuta da armi e denaro statunitensi, e combattuta anche da volontari islamici provenienti dai paesi arabi. Presto si trasforma in jihad, una guerra santa contro i sovietici considerati nemici dell’Islam.
I mujaheddin costringono i nemici a combattere sulle impervie montagne afghane, dove l’Armata Rossa non può sfruttare la propria superiorità tecnologica. Tra i guerriglieri emergono figure che diventeranno leggendarie nel Paese, come quella di Ahmad Massud, chiamato il Leone del Panshir. I sovietici subiscono pesanti sconfitte e, nonostante gli iniziali successi, non riescono a prendere il controllo dell’intero Paese. La difficile gestione della guerra si somma ai gravi problemi interni dell’Unione Sovietica, che negli anni ’80 è vicina al collasso economico e politico. Di fronte ai continui successi dei mujaheddin, il 20 luglio 1987 l’Unione Sovietica annuncia il ritiro delle truppe dall’Afghanistan. Il 15 febbraio 1989 il ritiro dell’Armata Rossa è completato. L’Afghanistan esce dal conflitto in ginocchio: dopo un’aspra guerra civile, il potere sarà preso dai talebani, fondamentalisti religiosi che governeranno secondo la legge islamica. La dura sconfitta politica e militare acuisce la crisi dell’URSS: gli USA si avviano a diventare l’unica superpotenza sullo scenario mondiale.

giovedì 26 dicembre 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 26 dicembre.
Il 26 dicembre 1973 esce nelle sale americane il film "L'esorcista".
Il film che ha terrorizzato una generazione. Osannato dal pubblico e spesso bistrattato dalla critica per i suoi banali contenuti, nel 2000 è stato riproposto al cinema con l’aggiunta di alcune scene fino a quel momento inedite. Ancora oggi L’ESORCISTA viene considerato da molti l’horror per eccellenza.
Nel corso di alcuni scavi nell’Iraq del Nord, viene rinvenuta una medaglietta con l’effige di San Giuseppe, misteriosamente conservata insieme ad una statuetta del demone Pazuzu. Il reperto, grazie anche a causa della datazione postuma rispetto a tutto il resto del sito, attira l’attenzione di padre Merrin, anziano sacerdote gesuita che si trova da quelle parti in veste di archeologo incaricato della supervisione dei lavori.
 Qualche tempo dopo, a Georgetown, nello stato di Washington, una ragazzina manifesta misteriosi sintomi che la medicina ufficiale non riesce a spiegare. La madre chiede allora aiuto a Padre Karras che decide di ricorrere all’esperienza di Merrin per praticare l’esorcismo necessario a liberare la piccola dal demone che, molto probabilmente, la possiede.
 Tesi, articoli, libri: su L’ESORCISTA nel corso degli anni è stato scritto di tutto e di più, sia perché il film è stato a lungo considerato come il più spaventoso mai approdato su uno schermo cinematografico e sia perché la possessione demoniaca ha sempre fatto paura più o meno a tutti.
 Basato sul romanzo dello sceneggiatore William Peter Blatty, che ha dichiarato di essersi ispirato ad un fatto realmente accaduto nel 1949 ad un ragazzino quattordicenne, il film di William Friedkin è un perfetto esempio di gestione dell’orrore che si sviluppa come un terribile vortice dentro cui lo spettatore, una volta entrato, non è più in grado di uscire.
 Poco importa poi, se nel film non ci sia nessun vero concetto di rilievo e se tutto si risolva in una semplice messa in scena dell’esorcismo; quello che conta è notare come L’ESORCISTA riesca ancora a toccare non solo le corde dei credenti, ma anche quelle degli atei che possono vedere nella possessione di Reagan l’incubo delle nevrosi e dei disturbi mentali.
 Certo, oggi alcune scene appaiono un po’ datate, vuoi perché il film di Friedkin è diventato nel corso degli anni matrice di cliché e vuoi perché alla lunga a qualsiasi film tocca questo infame destino, ma resta indubbio il fatto che per un mucchio di tempo sia riuscito davvero a spaventare un bel po' di persone.
 Curiosità: nel 1973 in alcune sale cinematografiche americane dove si proiettava il film, si verificarono svenimenti e malori. Nel 2000 invece, quando al cinema è approdata la versione integrale, che contiene 11 minuti di pellicola in più, migliaia di fan di vecchia data sono stati costretti a constatare che le scene che tanto li avevano terrorizzati all’epoca, facevano spesso sghignazzare le nuove generazioni.
 Curiosità numero 2: il secondo giorno di riprese, una delle principali location andò distrutta in seguito a un incendio e successivamente Friedkin decise di far esorcizzare il set. Evidentemente l’esorcismo non riuscì nel migliore dei modi, visto che alla fine ben nove furono le morti che funestarono il film, tra cui il fratello di Max Von Sydow.
Curiosità numero 3: è ormai quasi definitivamente dimostrato che il drammatico evento a cui si sarebbe ispirato Blatty per scrivere la sceneggiatura, non ha mai avuto luogo.

mercoledì 25 dicembre 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 25 dicembre.
Il 25 dicembre 1000 Santo Stefano d'Ungheria viene incoronato re.
Stefano nacque fra il 969 e il 975, intorno al 995-996 sposò Gisella, figlia del Duca di Baviera e nel 997 succedette al padre sul Trono d’Ungheria. Ciò lo costrinse a un’aspra guerra contro un altro pretendente alla Corona, e nel 1000 Papa Silvestro II, con il beneplacito dell’Imperatore Ottone III, gli fece pervenire le insegne regali: nel Natale di quello stesso anno Stefano fu consacrato e incoronato primo Re di Ungheria.
Tra i più importanti provvedimenti da lui adottati, vi fu quello riguardante la strutturazione della Chiesa ungherese: a questo proposito la tradizione gli attribuisce la creazione di dieci diocesi e la fondazione e il consolidamento di numerose abbazie, tra le quali spicca quella benedettina di Pannonhalma.
Egli stabilì poi che venisse costruita una chiesa comune ogni dieci villaggi. La cristianizzazione del popolo ungherese operata dal santo re si effettuò nel segno della riforma cluniacense. Per altro egli si mantenne in corrispondenza con l’abate di Cluny Odilo.
Inoltre, Stefano fece venire dall’estero molti ecclesiastici, affinché collaborassero alla sua opera di evangelizzazione: il più famoso di questi fu san Gerardo, proveniente da Venezia, che diventò vescovo e che perse la vita in seguito a una rivolta pagana.
Stefano ebbe massimamente a cuore la sicurezza dei pellegrini che si recavano in Terra Santa: rese meno precario il loro cammino lungo le terre balcaniche e fece costruire a Gerusalemme un alloggio per gli ungheresi che là si recavano.
È opportuno ricordare che la nuova chiesa da lui creata, con le scuole erette presso i capitoli e i chiostri, pose la basi dell’insegnamento in Ungheria. Stefano si dimostrò pure un valente sovrano, capace di rafforzare il suo regno e di condurre un’equilibrata politica estera.
Il santo re morì nel 1038 e fu canonizzato nel 1083, dopo che il nuovo sovrano Ladislao si era fatto protettore del suo culto, presentandosi così come il suo erede spirituale e una sorta di secondo fondatore del regno cristiano d’Ungheria.
La canonizzazione sarebbe avvenuta per ordine del papa Gregorio VII e alla presenza di un suo legato. Particolarmente interessante risulta il fatto che Stefano fu il primo sovrano medievale a essere santificato come “confessore” e non come martire, a motivo dei meriti religiosi da lui acquistati durante la vita: in Stefano la figura del re giusto si fonde con quella del santo cristiano e ciò rappresentò subito la chiara dimostrazione che un sovrano può diventare santo al fianco della Chiesa.
La Legenda maior che lo riguarda fa di Stefano un autentico soldato di Cristo, sempre assistito da una schiera di santi: non bisogna dimenticare a questo proposito che anche la moglie Gisella, che negli ultimi anni di vita divenne badessa di un monastero benedettino bavarese, è annoverata tra i santi e le sue reliquie sono ancora oggi assai venerate e meta di continui pellegrinaggi.
Vi sono poi una Legenda Minor, che ci tramanda l’immagine di un re Stefano energico e rigoroso, e una terza leggenda, che potrebbe essere stata composta dal vescovo di Gyor Arduino, la quale aggiunge numerosi particolari sulla vita e l’opera di Stefano: per esempio, in essa si racconta come il santo re, in punto di morte, avesse offerto il proprio regno alla Vergine Maria.
La novità più significativa contenuta in questa leggenda di Arduino è rappresentata dal racconto della canonizzazione del 1083. Il culto di Santo Stefano non si è mai appannato nel corso dei secoli e ancora oggi è assai vivo in Ungheria: la sua festa è la più importante e la più sentita dal popolo magiaro, che la celebra con particolare partecipazione. L’iconografia di Stefano è assai ricca: egli vi appare sempre come il re saggio, magnanimo e devoto.

martedì 24 dicembre 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 24 dicembre.
La sera del 24 dicembre 1800 avveniva a Parigi l'attentato della "macchina infernale" contro Napoleone, all'epoca Primo Console in virtù della Costituzione dell'anno VIII.
Il commando che agiva era composto da tre congiurati i quali piazzavano su un carro un barile carico di chiodi e polvere da sparo. Inoltre, vigliaccamente, uno di loro ingaggiava con l'inganno una ragazzina di soli quattordici anni, si chiamava Pensel. Il suo compito era di fare la guardia al cavallo in modo che non spostasse il carico di morte. Il caso e la celerità nel passaggio della stretta via di Saint Nicaise da parte del cocchiere Cesar Germani, un veterano delle campagne napoleoniche evitava l'impatto con la violenta esplosione che faceva strage di venti persone innocenti, fra i quali anche la ragazzina Pensel, e un centinaio di feriti.
Il Primo Console, che era diretto all'Opera di Parigi, decise di non cambiare programma per dimostrare che l’azione terroristica non intaccava il normale funzionamento dello Stato presentandosi in teatro dove veniva accolto da scroscianti applausi, ma in cuor suo meditava la vendetta.
L'indomani le gazzette parlavano dell'attentato della "macchina infernale" da parte di chi agiva nell'oscurità per colpire la Francia alle spalle. Il paese si compattava attorno a Napoleone.
All'epoca Napoleone aveva 31 anni, ricco di onori di campagne militari e di tanti nemici. Per i giacobini egli rappresentava il tradimento degli ideali della Rivoluzione, mentre per i realisti rappresentava l'usurpatore e il propagatore delle idee della Rivoluzione oltre i confini della Francia. La prime azioni di polizia si concentravano (per volere di Napoleone e in contrasto con il ministro della Polizia Fouchè che poco dopo sarebbe stato dimesso) sui giacobini, molti venivano spediti in esilio alle Seychelles e Guyana, da cui non torneranno mai più, e altri mandati al patibolo. Ma le indagini continuavano imboccando la pista realista, come aveva prospettato Fouchè, tanto da scoprire i tre congiurati: due saliranno sul patibolo con la camicia rossa dei parricidi, mentre il terzo riusciva a fuggire negli Stati Uniti. Proprio questi, a seguito di una crisi di coscienza, si farà frate rispettando la regola del silenzio e cercando di vivere nell'oblio. Ma la vicenda non era ancora conclusa, altri attentati saranno progettati nei confronti del Primo Console e tutto ciò servirà al regime per liquidare i realisti. L’apice dello scontro avverrà, nel 1804, con l’affare del Duca d’Enghien.

lunedì 23 dicembre 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 23 dicembre.
Il 23 dicembre 1796 viene proclamata la Repubblica Cispadana.
Fu proclamata a Reggio Emilia dal congresso formato dai rappresentanti dei territori occupati dalle truppe francesi di Bologna e Ferrara, Modena e Reggio. Il congresso venne organizzato, non ufficialmente, da Napoleone, il cui esercito aveva attraversato l’Italia del nord all’inizio dell’anno e aveva necessità di stabilizzare la situazione in Italia e di riunire nuove truppe per una nuova offensiva contro l’Austria. La neonata repubblica sorella della Francia rivoluzionaria invitò gli altri popoli italiani ad unirsi ad essa e venne formata una guardia civica, composta da cacciatori e artiglieri. La Repubblica Cispadana ebbe però vita breve: dopo circa sei mesi, il 9 luglio 1797, si fuse con la Repubblica Transpadana, formando la Repubblica Cisalpina.
Non va dimenticato che i colori della bandiera italiana furono scelti proprio dal congresso della Repubblica Cispadana. La bandiera approvata in quell’occasione era un tricolore orizzontale, con strisce rosse, bianche e verdi, e con un emblema, al centro, composto da una faretra che si erge su trofei di guerra, con dentro quattro frecce che simboleggiavano le quattro province originali, all’interno di una corona di alloro.
Alla fine della primavera del 1796 Napoleone, ormai dominatore di gran parte dell’Italia settentrionale dopo le vittorie sui piemontesi e sugli austriaci, impose la sua autorità anche sui ducati di Parma e di Modena e invase lo Stato Pontificio, obbligando Pio VI ad un oneroso armistizio e alla rinuncia della sua sovranità sulle Legazioni di Bologna e di Ferrara. I francesi entrarono in Bologna il 19 giugno 1796 e, sbandierando con messaggi e proclami le nuove idee democratiche sancite dalla Costituzione dell’anno III, suscitarono i primi fermenti e le prime speranze di un migliore avvenire in una popolazione ormai abituata da secoli ad un immobilismo che, pur nel variare delle situazioni contingenti, aveva lasciato sostanzialmente inalterata la struttura socio-politica della città ed intatto il fortissimo divario economico tra il ceto abbiente e le masse popolari. Tuttavia Bologna nel suo complesso non era ancora preparata né disposta ad accogliere grosse novità; e come si era limitata a commuoversi per l’infelice sorte di Zamboni e De Rolandis, rimanendo indifferente al loro messaggio politico, così si limitò ad osservare con composta curiosità l’arrivo dei nuovi venuti. La rivoluzione francese, infatti, appariva alla massa dei bolognesi come qualcosa di molto lontano e incomprensibile, che comunque non sembrava avere alcun rapporto con il proprio sistema di vita, scandito al ritmo regolare e tranquillo delle tradizionali feste religiose, come gli «addobbi» o l’annuale discesa in città della Madonna di San Luca, e delle tradizionali divagazioni culinarie, collegate alla comparsa stagionale dei prodotti dell’agricoltura e dell’allevamento.
Napoleone, giunto a Bologna il 20 giugno, si preoccupa subito di dare una sistemazione politica alla sua azione militare. Se in teoria si porta al seguito l’idea rivoluzionaria dell’egalité e se i suoi soldati sono entrati in Bologna al canto della Marsigliese, in pratica egli non vuole affatto dare l’avvio ad alcuna rivoluzione sociale; anzi, al contrario, mira a procurarsi l’appoggio dei ceti dirigenti. La sua politica, del resto, è perfettamente in linea con quella del Direttorio, esponente della nuova borghesia francese, preoccupata di consolidare il suo potere e di evitare ogni pericoloso ritorno all’estremismo giacobino, e perciò ben disposta ad accettare, fuori di Francia, la collaborazione e l’appoggio dei «moderati» di ogni stampo e di ogni ceto, fossero pur anche conti e marchesi. Napoleone, inoltre, ha fretta di dare un assetto politico ai territori occupati e di trovare in essi una base economica di appoggio per poter portare a termine la guerra contro gli austriaci. Evidentemente bene informato, agisce in modo deciso e coerente per la realizzazione del suo fine: ingiunge al cardinale Ippolito Vincenzi, legato di Bologna, di partire immediatamente per Roma, minacciando la vendetta repubblicana per la morte di Zamboni e De Rolandis; riceve nella sala Farnese del palazzo comunale i senatori bolognesi, li tratta con deferenza e di fronte a loro, stupiti e lusingati, esalta l’antica libertà di Bologna repubblicana, da secoli soffocata dall’autorità pontificia; dichiara solennemente di voler restituire al glorioso Senato cittadino il potere legislativo e governativo, purché sia giurata fedeltà alla Repubblica France­se e sia sottoscritto l’impegno di esercitare il potere in suo nome e alle sue dipendenze. Ma se toglie alla Chiesa l’autorità politica, dell’ autorità religiosa e morale della Chiesa intende servirsi per mantenere l’ordine sociale e in tal senso chiede l’intervento e l’appoggio della massima autorità religiosa bolognese, l’arcivescovo Gioannetti.
I bolognesi accettano con favore la nuova situazione: la nobiltà senatoriale, che aveva visto nel piano economico del cardinale Boncompagni una grave insidia ai suoi privilegi, spera di riacquistare, appoggiandosi ai francesi, la sua antica autonomia e di conservare intatto il suo predominio economico, e si adatta perciò ai nuovi formalismi democratici e ai necessari sacrifici economici pur di salvare la sostanza del suo potere; la classe media, nel proclamato superamento delle barriere di casta che prima le precludevano l’ingresso al Senato, intravede la concreta possibilità di una partecipazione politica attiva e di una conseguente crescita economica; la classe popolare, nell’esaltazione degli ideali democratici e nelle nuove mode – distruzione di stemmi gentilizi, abolizione dei titoli nobiliari, delle parrucche e del codino, passaggio dalla condizione di sudditi alla condizione di «cittadini» – avverte sia pur confusamente l’inizio di una nuova epoca, che trova il suo simbolo nell’albero della libertà innalzato in piazza Maggiore, un alto fusto decorato di festoni tricolori, dei fasci consolari e del berretto frigio dei rivoluzionari. Illustri giuristi dello Studio bolognese preparano intanto la nuova Costituzione, in cui sono fusi con apprezzabile equilibrio i principi della Costituzione francese dell’anno III con gli istituti dell’antica libertà comunale, così che il motto Libertas dello stemma di Bologna, senza perdere il suo tradizionale significato, sembra assumere una più ampia ed aggiornata dimensione.
La nuova Costituzione della Repubblica di Bologna, votata nella chiesa di San Petronio il 4 dicembre 1796 dai rappresentanti della città e del territorio, fu approvata con 454 voti favorevoli su 484 votanti. Nei giorni precedenti il testo posto ai voti era stato pubblicato e discusso dalla cittadinanza; è perciò da considerarsi, sia per il suo contenuto sia per la procedura seguita per la sua approvazione, la prima costituzione democratica della storia dell’Italia moderna.
Dopo un Te Deum di ringraziamento, le campane di San Petronio annunciarono ai bolognesi l’avvenuta approvazione della Costituzione, e in Piazza ci fu grande festa attorno all’albero della libertà. Il «Monitore di Bologna» esaltò orgogliosamente la «rigenerazione» della città, avvenuta nella concordia, senza lotte e senza spargimento di sangue; ma l’avvenimento fu visto più come un ritorno alle antiche glorie municipali che come l’inizio di una nuova era storica.
La Costituzione del 4 dicembre ebbe brevissima vita giuridica e nessuna applicazione pratica. La durata della appena nata, o rinata, Repubblica bolognese non poteva che essere effimera, legata come era alle mutevoli esigenze politico-militari del turbinoso Bonaparte, che già due mesi prima aveva fatto riunire in un convegno i rappresentanti di Bologna, Ferrara, Modena e Reggio, in vista della creazione di una confederazione delle quattro città cispadane. Un nuovo congresso, riunitosi a Reggio alla fine di dicembre, diede vita alla Repubblica Cispadana, dichiarata «una e indivisibile», con capitale Bologna. L’assemblea di Reggio continuò i suoi lavori per preparare la nuova Costituzione e nella seduta del 7 febbraio 1797 approvò, su proposta del ferrarese Compagnoni, l’emblema e la bandiera della nuova Repubblica, cioè quel tricolore bianco, rosso e verde che divenne in seguito la bandiera delle lotte risorgimentali e dell’Italia unita. Al vertice dello Stato furono previsti un Direttorio di tre membri e due Consigli legislativi. Le elezioni avvennero nell’aprile del 1797 e videro una larga partecipazione degli elettori iscritti, con una percentuale che superò 1’80%; il Senato di Bologna, con un proclama in data 26 aprile 1797, firmato dal suo ultimo gonfaloniere, Gerolamo Legnani, annunciò la convocazione dei nuovi eletti e rassegnò il suo mandato. Tale atto, anche se l’effettivo trapasso dei poteri richiese ancora qualche settimana, può essere considerato la conclusione della secolare storia del Senato bolognese, avvenuta pochi mesi dopo quello che era sembrato il rilancio del suo prestigio e poco meno di tre secoli dopo la sua istituzione, risalente ai tempi di papa Giulio II.
Anche la Repubblica Cispadana ebbe vita non meno effimera della Repubblica di Bologna: nel maggio furono staccati dalla Cispadana e aggregati alla Lombardia i territori di Modena e Reggio; in compenso a Bologna e a Ferrara fu unito il territorio della ex Legazione di Forlì, al cui possesso la Chiesa era stata costretta a rinunziare con il trattato di Tolentino (19 febbraio 1797); il 9 luglio nacque la Repubblica Cisalpina, con capitale Milano; il 27 luglio, infine, ebbe termine la Repubblica Cispadana e i suoi territori – Bologna, Ferrara e la Romagna – furono annessi alla Cisalpina.

domenica 22 dicembre 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 22 dicembre.
Il 22 dicembre 1980 vengono emesse le condanne per il cosiddetto scandalo "calcio scommesse".
Lo scandalo del 1980 cominciò in modo piuttosto spettacolare. Il 23 marzo 1980, mentre si giocava la 24esima giornata di Serie A e 27esima di Serie B, la polizia fece irruzione su alcuni campi da gioco dove erano in corso partite di squadre e calciatori sospettati dai magistrati di attività illecite. Le immagini degli arresti e delle operazioni della polizia vennero persino trasmesse in diretta dalla celebre trasmissione sportiva della RAI “90° minuto”.
Quel 23 marzo e nei giorni successivi vennero arrestati 13 calciatori di serie A e B, alcuni anche molto famosi: Stefano Pellegrini (Avellino), Sergio Girardi (Genoa), Massimo Cacciatori, Bruno Giordano, Lionello Manfredonia, Giuseppe Wilson (Lazio), Claudio Merlo (Lecce), Enrico Albertosi e Giorgio Morini (Milan), Guido Magherini (Palermo), Mauro Della Martira, Luciano Zecchini e Gianfranco Casarsa (Perugia). Tutti venero trasferiti a Roma per essere interrogati: l’accusa contro di loro era truffa aggravata e continuata. A Paolo Rossi (Perugia), Fernando Viola e Renzo Garlaschelli (Lazio), invece, vennero notificati tre ordini di comparizione per concorso in truffa. Vennero arrestati anche il presidente del Milan, Felice Colombo, e quello della Lazio, Umberto Lenzini, che ebbe un malore. Complessivamente oltre 50 giocatori risultavano indagati dalla magistratura.
Gli arresti vennero decisi dopo che l’1 marzo 1980 era accaduto un fatto decisivo per l’intera vicenda. Quel giorno il ristoratore Alvaro Trinca e il fruttivendolo Massimo Cruciani fecero una denuncia alla Procura di Roma: i due sostenevano di esser stati truffati da 27 calciatori (22 di serie A, 5 di B) che dopo aver ricevuto da loro molto denaro per falsare i risultati di alcune partite non avrebbero rispettato i patti. A causa del loro comportamento, Trinca e Cruciani avevano contratto notevoli debiti con gli allibratori delle scommesse clandestine (il “Totonero”, appunto). Tutto era cominciato addirittura nel 1974, come poi avrebbe spiegato lo stesso Trinca:
La mia storia disgraziata comincia sei anni fa, nel 1974, quando in una stessa settimana venni avvicinato a più riprese da alcuni scommettitori clandestini: una volta vennero al mio ristorante “La Lampara”, un’altra mi diedero appuntamento in un bar sotto casa, una terza c’incontrammo a via Veneto. lo sapevo già da allora che intorno al calcio si muoveva un vorticoso giro di miliardi legato alle scommesse clandestine. Loro sapevano che ero amico di tanti calciatori, che Antognoni della Fiorentina, Giordano e Manfredonia della Lazio, Capello del Milan e altri ancora mi avevano invitato al loro matrimonio. Sapevano molte cose su di me e così non mi stupii quando questi signori, mostrandomi la loro schedina e le loro quote, mi invitarono a scommettere su una partita del campionato di calcio.
Negli anni Settanta, dunque, Trinca cominciò a scommettere clandestinamente (all’epoca in Italia non era possibile scommettere legalmente sulle partite di calcio). Dopo un po’ Trinca coinvolse anche il suo amico Cruciani, ma presto i due cominciarono a perdere molto denaro. Allora, come ha dichiarato lo stesso Trinca nell’aprile del 1980:
Il giro delle scommesse grosse, almeno per noi, comincia nel ’79. Eravamo in perdita, così quando sapemmo che saremmo potuti rientrare coi soldi truccando il risultato di qualche partita, ci mettemmo all’opera. Per cominciare ci dividemmo i compiti: io facevo le scommesse, Massimo teneva i rapporti con i calciatori. La prima occasione favorevole ci giunse per telefono. Tramite il capitano della Lazio, Pino Wilson, mi misi in contatto con il giocatore del Palermo Guido Magherini, che io conoscevo dal ’70, epoca in cui giocava nella Lazio. Un martedì dell’ottobre scorso, il giorno prima della partita amichevole Palermo-Lazio, Magherini – che fin da ora posso indicare come il cervello di tutta questa storia, un personaggio che deve aver incassato centinaia e centinaia di milioni – ci disse che molte partite di serie A e B potevano essere truccate, e che si sarebbe potuto “combinare” anche il risultato di quell’amichevole puntando una forte cifra sul pareggio in quanto il risultato era assicurato. Questo ce lo confermò anche Wilson: “Tanto è una partita di cui non ci frega niente”. Così scommisi sul pareggio tre milioni per noi, e un milione a testa per Wilson e Magherini; purtroppo, siccome l’arbitro non arrivò in tempo e la partita venne diretta dall’allenatore del Palermo, i bookmaker la considerarono non regolare e non convalidarono il pareggio. “Peccato, ce la faremo un’altra volta”, mi disse, salutandomi, Magherini.
Il caso scoppiò a pochi mesi dall’inizio degli Europei di calcio del 1980 che quell’anno si sarebbero svolti proprio in Italia. Poche settimane dopo gli arresti del 23 marzo, il presidente della FIGC (Federazione Italiana Gioco Calcio) Artemio Franchi decise di dimettersi.
Gli inquirenti, sia della giustizia ordinaria che di quella sportiva, si concentrarono sui fatti legati ad alcune partite del campionato 1979-80 di Serie A, e cioè in particolare Milan-Lazio (finita 2-1), Avellino-Perugia (2-2), Bologna-Juventus (1-1), Lazio-Avellino (1-1), Bologna-Avellino (1-0), Milan-Napoli (1-2) e Pescara-Fiorentina (1-2). Il 14 maggio iniziò il processo sportivo. Il 13 giugno, invece, con gli Europei in corso, quello penale.
Dalle testimonianze di Trinca e Cruciani gli inquirenti dissero di essere risaliti a un giro di miliardi di lire che coinvolgeva diverse squadre e che era legato alle scommesse clandestine. Il fenomeno sembrava piuttosto radicato, in quanto avvicinare calciatori e dirigenti sembrava cosa piuttosto facile per due personaggi fuori dal calcio come Trinca e Cruciani. Inoltre, da quello che è venuto fuori dalle indagini, spesso le presunte combine non riuscivano per varie cause, tra cui disaccordi tra i calciatori, complotti e coincidenze sfortunate. Esemplare, per esempio, è il racconto di Trinca su alcune scommesse andate molto male e sul perché poi lui e Cruciani decisero di denunciare tutto, nonostante il presunto tentativo del presidente del Milan Felice Colombo di farli tacere con decine di milioni.
Quella domenica del 13 gennaio doveva essere il giorno del nostro riscatto. Con Cruciani infatti avevamo deciso di giocare una martingala su quattro partite, tre delle quali sapevamo combinate: la vittoria della Lazio sull’Avellino e i pareggi della Juventus col Bologna e del Genoa col Palermo; la quarta partita, Pescara-Inter, era l’unica pulita, e noi puntammo sulla vittoria dell’Inter. Per Bologna-Juve, Massimo mi aveva riferito che il risultato era stato già pattuito dal presidente della Juve Boniperti e da quello del Bologna Fabretti; era una partita talmente sicura che a Cruciani telefonarono Carlo Petrini e Giuseppe Savoldi del Bologna chiedendogli di puntare a loro nome e di altri compagni 50 milioni sul pareggio. Io e Cruciani scommettemmo sulle quattro partite 177 milioni. E facemmo altre puntate a nome di altri giocatori di cui per ora non faccio il nome. Se tutto filava liscio avremmo vinto un miliardo e 350 milioni e pagato tutti i debiti che avevamo con i bookmaker. Purtroppo ci fregò la Lazio, che invece di vincere come d’accordo la partita con l’Avellino la pareggiò, cosi saltò la nostra martingala sulle quattro partite. Quanto ai 50 milioni che avevo sborsato per conto di Cordova, costui non me li ha più restituiti. Sono convinto che, nonostante mi avesse promesso la vittoria della Lazio, abbia fatto invece di tutto per il pareggio. Non so, probabilmente avrà giocato centinaia di milioni su questo risultato…
L’ultima partita su cui scommettemmo fu Bologna-Avellino. Durante la settimana prendemmo contatti con Stefano Pellegrini e altri giocatori dell’Avellino. Loro dissero: “Non c’è bisogno di accordi né di soldi: pareggiare a Bologna ci sta bene”. Per il Bologna ci accordammo con Petrini, Savoldi, Paris, Zinetti, Dossena e Colomba… La partita non rispettò le promesse: il Bologna vinse 1 a 0, noi perdemmo tutti i soldi, e a quel punto eravamo completamente rovinati. Avevamo un debito con gli allibratori clandestini di ben 950 milioni. Soldi che, in gran parte, ci erano stati truffati dai calciatori. Non ci restava che una cosa da fare: l’esposto alla magistratura.
Il processo penale si risolse in nulla: il 22 dicembre 1980 i giudici della quinta sezione penale del tribunale di Roma assolsero tutti i calciatori rinviati a giudizio dal reato di truffa aggravata e concorso in truffa perché il fatto non sussisteva. La giustizia sportiva, invece, fu molto più severa e condannò squadre e calciatori a lunghe squalifiche e anche radiazioni per illecito sportivo. Alla fine, nel luglio del 1980, le sentenze definitive, per quanto riguarda la serie A, furono queste:
Squadre
Lazio: retrocessione in Serie B.
Milan: retrocessione in Serie B (la prima della sua storia).
Avellino: 5 punti di penalizzazione nel Campionato 1980-1981.
Bologna: 5 punti di penalizzazione nel Campionato 1980-1981.
Perugia: 5 punti di penalizzazione nel Campionato 1980-1981.
Dirigenti
Felice Colombo (presidente Milan): radiazione.
Tommaso Fabbretti (presidente Bologna): 1 anno di squalifica.
Calciatori
Stefano Pellegrini (Avellino): 6 anni di squalifica.
Massimo Cacciatori (Lazio): 5 anni.
Mauro Della Martira (Perugia): 5 anni.
Enrico Albertosi (Milan): 4 anni.
Bruno Giordano (Lazio): 3 anni e 6 mesi.
Lionello Manfredonia (Lazio): 3 anni e 6 mesi.
Carlo Petrini (Bologna): 3 anni e 6 mesi.
Giuseppe Savoldi (Bologna): 3 anni e 6 mesi.
Giuseppe Wilson (Lazio): 3 anni.
Luciano Zecchini (Perugia): 3 anni.
Paolo Rossi (Perugia): 2 anni.
Franco Cordova (Avellino): 1 anno e 2 mesi.
Giorgio Morini (Milan): 10 mesi.
Stefano Chiodi (Milan): 6 mesi.
Piergiorgio Negrisolo (Pescara): 5 mesi.
Maurizio Montesi (Lazio): 4 mesi.
Franco Colomba (Bologna): 3 mesi.
Oscar Damiani (Napoli): 3 mesi.
Nonostante la giustizia sportiva avesse invocato e applicato condanne esemplari, a meno di tre settimane dalla vittoria dei Mondiali del 1982 da parte dell’Italia il Consiglio Federale italiano avrebbe poi deciso un’amnistia per Enrico Albertosi, Giuseppe Savoldi, Carlo Petrini, Bruno Giordano, Lionello Manfredonia, Guido Magherini, Lionello Massimelli, Pino Wilson, Luciano Zecchini, che quindi tornarono subito a giocare.
Un caso particolare fu quello di Bologna-Juventus. I giudici federali sentenziarono che la partita non fu truccata, anche se all’epoca la loro decisione lasciò molti dubbi. La partita era finita 1-1, dopo due reti abbastanza curiose (quella della Juve su errore del portiere avversario, il pareggio del Bologna su autogol). L’ex giocatore del Bologna Carlo Petrini, oggi scomparso, nel suo libro Nel fango del dio pallone (ed. Kaos) ha raccontato la sua versione dei fatti, e cioè che le due società si erano accordate per ottenere un pareggio. Petrini, inoltre, ha raccontato che le due squadre erano state assolte nella circostanza perché l’ex presidente bianconero Giampiero Boniperti avrebbe convinto Cruciani a non presentarsi in aula (Petrini dice probabilmente dietro un cospicuo pagamento).
Paolo Rossi, che era già stato escluso dall’Europeo del 1980 per via dell’inchiesta, era stato accusato di aver concordato il pareggio di Avellino-Perugia della stagione 1979-80. Rossi alla fine venne squalificato per due anni (erano 3 in primo grado) ma si è sempre detto innocente e ha più volte ricordato che si è trattato di un equivoco.
Nonostante la squalifica, la Juventus acquistò lo stesso Paolo Rossi, che a questo punto sarebbe tornato in campo a fine aprile 1982, in tempo per un’eventuale convocazione per i Mondiali di Spagna. Ma il 15 maggio 1981, Rossi si prese un altro mese di squalifica per aver definito il processo sportivo che l’aveva giudicato “una buffonata”:
"Ma questo dico: dovesse capitare di nuovo, non mi ripresenterei davanti ai giudici sportivi. Il primo processo è stato una buffonata. È terribile essere giudicati da gente simile, essere accusati di reati mai commessi, essere condannati senza la minima prova. E questa macchia, adesso, chi me la cancella?"
La Commissione d’appello federale accolse il ricorso di Rossi e lo fece tornare in campo a fine stagione 1981-1982 per disputare le ultime partite di campionato con la Juventus.
Nella sua prima partita dopo la squalifica, Rossi segnò subito contro l’Udinese. Rossi giocherà solo tre partite quell’anno, dopo due stagioni di inattività, ma il commissario tecnico della Nazionale italiana Enzo Bearzot decise comunque di convocarlo per i Mondiali del 1982, lasciando fuori giocatori apparentemente molto più in forma come Roberto Pruzzo della Roma, che quell’anno aveva segnato 15 gol. Bearzot si attirò così molte critiche, che aumentarono quando Rossi giocò malissimo le prime tre partite. Nella seconda fase del torneo, nella partita contro il Brasile, Rossi segnò addirittura una tripletta. Da quel momento, incredibilmente e inaspettatamente, Rossi trascinò l’Italia verso la conquista della Coppa del Mondo, diventando anche capocannoniere del Mondiale.

sabato 21 dicembre 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 21 dicembre.
Il 21 dicembre 1401 nasce il Masaccio.
Il Masaccio è un celebre pittore italiano ed è considerato uno dei padri del Rinascimento. All'anagrafe l'artista è Tommaso di ser Giovanni di Mone Cassai e nasce a Castel San Giovanni di Altura (oggi San Giovanni Valdarno) il 21 dicembre 1401. Come testimonia il Vasari, è attratto dall'arte fin da giovanissimo. All'età di 16 anni si trasferisce a Firenze, dove è in corso una rivoluzione artistica e culturale, grazie soprattutto al lavoro di Brunelleschi e Donatello.
I maestri sono un punto di riferimento per il Masaccio, non solo perché tra loro s'instaura un rapporto di vera amicizia, ma perché resta affascinato e completamente impressionato dalle loro opere, così innovative. La pittura del '400 fino a quel momento, infatti, ha uno stile tardo gotico e Masaccio non si sente per nulla interprete di questa tendenza. Prende spunto dall'arte di Giotto, dalla costruzione prospettica di Brunelleschi, dalla forza plastica di Donatello per creare uno stile suo e rendere i suoi soggetti così reali, da sembrare veri.
Il primo maestro del Masaccio, però, è un artista sconosciuto ma fondamentale per la sua formazione. Si tratta del nonno, specializzato nella realizzazione di cassoni nuziali. La famiglia di Masaccio è abbastanza abbiente, infatti, il padre ser Giovanni di Mone Cassai (il cognome deriva proprio da casse di legno, l'attività del nonno) è un notaio. Purtroppo l'uomo muore a soli 27 anni, mentre la moglie è in attesa del secondo figlio. Dopo qualche anno, Monna Piera de' Bardi (la mamma del Masaccio) si sposa nuovamente con Tedesco di Mastro Feo, un vedovo con due figlie molto ricco.
La sua è una famiglia di artisti. Il fratello Giovanni (chiamato così in onore del papà defunto) diventa un pittore, mentre la sorellastra si sposa con un pittore locale, Mariotto di Cristofano, che vive e lavora a Firenze. Si crede, infatti, che Masaccio scelga di trasferirsi in questa città nel 1418 proprio grazie alla vicinanza del cognato.
Il 7 gennaio 1422, il Masaccio decide di iscriversi all'associazione Arte dei Medici e Speziali (una delle sette arti maggiori delle corporazioni fiorentine). Il primo lavoro attribuibile all'artista è il "Trittico di San Giovenale" del 23 aprile 1422, mentre un paio d'anni più tardi si possono ammirare la "Madonna col Bambino e Sant'Anna", questi lavori testimoniano la collaborazione con Masolino, da cui il Masaccio dovrebbe aver fatto un po' di praticantato. Sempre in questi anni Masaccio e Masolino si occupano insieme del "Trittico Carnesecchi" per la cappella di Paolo Carnesecchi nella chiesa di Santa Maria Maggiore a Firenze. Purtroppo, di questo lavoro sono rimasti solo "Il San Giuliano" e una tavoletta della predella con "Storie di San Giuliano".
La squadra Masaccio-Masolino (il sodalizio artistico dà frutti importantissimi per l'epoca) ottiene molti successi a Firenze, tanto che nel 1424 sono ingaggiati per la decorazione della Cappella Brancacci. Bisogna attendere il 1425 per avere testimonianza di una bottega del Masaccio. Circa un anno dopo, i Carmelitani di Pisa assegnano al pittore un lavoro molto importante: la realizzazione di un polittico per la cappella del notaio ser Giuliano di Colino degli Scarsi da San Giusto nella chiesa di Santa Maria del Carmine.
L'opera è composta da 25 pannelli, che sono stati sparsi in diversi musei. Per ammirare la "Madonna in trono con Bambino" (il pannello centrale) bisogna, oggi, recarsi a Londra alla National Gallery. È un'immagine bellissima e con un punto di vista molto reale e ribassato. La Vergine protegge il suo Bambino mentre sta mangiando un acino d'uva, che dovrebbe simboleggiare la futura Passione. Sempre a Londra, c'è anche la pala di Sant'Anna Metterza (ovvero la "Madonna col Bambino e Sant'Anna").
Al museo Nazionale di Capodimonte di Napoli è ospitata "La Crocifissione". Qui l'evento sacro è estremamente realistico, lo si nota dal capo di Cristo abbandonato alla morte. L'opera che maggiormente segna la maturazione di Masaccio, ed è anche l'ultima per importanza, è l'affresco con la Trinità in Santa Maria Novella, realizzata tra il 1426 e il 1428. In questo lavoro si legge l'ispirazione del Brunelleschi: le regole prospettiche qui non sono così rigide. Il Masaccio quindi da artista del vero (inteso come realistico) si trasforma in un interprete del mistico e soprattutto del divino.
Dopo aver trascorso un periodo a Pisa, Masaccio si trasferisce a Roma. Qui muore nell'estate del 1428, giovanissimo. Ha solo 27 anni, proprio come suo padre. Si dice sia stato avvelenato da un suo rivale, ma non c'è prova di questo fatto. Viene sepolto, diversi anni dopo, nel 1443, a Firenze nella chiesa del Carmine.

venerdì 20 dicembre 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 20 dicembre.
Il 20 dicembre 1577 un grande incendio devasta la sala del consiglio Maggiore del Palazzo Ducale di Venezia.
Il Palazzo Ducale è stato probabilmente costruito tra i secoli X e XI sulla base di un nucleo centrale fortificato. Questo nucleo era composto da un corpo centrale con torri angolari che formano un capolavoro del gotico veneziano. Nel XII secolo fu effettuata la prima ristrutturazione con il doge Sebastiano Ziani che trasformò la fortezza in un elegante palazzo. Successivamente nel 1200 è stata realizzata una nuova estensione.
Tra il 1339 e il 1342 durante il regno di Bartolomeo Gradenigo, il palazzo ha cominciato ad assumere la sua forma attuale. Il Doge Francesco Foscari estese il palazzo nel 1424 fino ad arrivare a fianco della Basilica di San Marco. Nel 1442 gli architetti Giovanni Bon e Bartolomeo Bon della Porta aggiunsero la Porta della Carta. L'interno ospita gli appartamenti del Doge ed è stata costruita dall'architetto Antonio Rizzo dopo l'incendio del 1483. Durante tutto il XVI secolo, si sono verificati diversi incendi devastanti alternati a ristrutturazioni e abbellimenti come la Scala dei Giganti e la creazione del suo tesoro principale: la Crocifissione di Tintoretto, dipinta per sostituire un murale danneggiato dal fuoco.
Nei primi anni del XVII secolo, l'architetto Antonio Contin, ha aggiunto le Prigioni Nuove al di là del canale collegandole al palazzo con il Ponte dei Sospiri, da dove i detenuti passavano nel loro cammino verso le nuove carceri. Nel 1797, dopo la caduta della Repubblica di Venezia, il palazzo fu adattato per ospitare gli uffici amministrativi. Il carcere, chiamato i Piombi dal rivestimento del tetto, continuò a mantenere la sua vecchia funzione. Dopo l'annessione di Venezia al Regno d'Italia, il palazzo subì varie ristrutturazioni fino al 1923, quando fu destinato a diventare uno dei più importanti musei di Venezia.
Quando il Palazzo Ducale è stato costruito, aveva un disegno simile a quello di un castello, con torri agli angoli e si trovava in un punto strategico di accesso al mare. Con il passare del tempo, ristrutturazioni e incendi, questo maestoso palazzo è diventato quello che conosciamo oggi. Ricordiamo che da questo Palazzo, 120 doge hanno indirizzato il destino della città di Venezia per quasi 1.000 anni.
Attualmente, il Palazzo Ducale è un museo che presenta mostre di grande interesse storico ed è aperto al pubblico offrendo una varietà di itinerari, tra cui gli "Itinerari segreti di Palazzo Ducale" e "I tesori nascosti del doge".
Il Palazzo Ducale offre una straordinaria esperienza per chiunque sia interessato alla storia della città lagunare e al design degli interni del palazzo.
Il colore di Palazzo Ducale cambia a seconda del momento della giornata grazie alla luce. Palazzo Ducale acquisisce una tonalità rosa delicata preservando nelle testate gotiche simmetriche un bianco rosato.
La facciata di Palazzo Ducale è considerata un capolavoro del gotico. Il suo interno si presenta elegante grazie al marmo di Verona posto su archi di pietra sostenuti da colonne con capitelli e magnifiche sculture agli angoli. L'ingresso principale di Palazzo Ducale era in origine dalla Porta della Carta, una porta gotica del XV secolo; si attraversava un portico fino all’ Arco Foscari e al cortile interno dove si trova la celebre opera del XV secolo, la Scala dei Giganti, dove incoronavano il doge.

giovedì 19 dicembre 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 19 dicembre.
Il 19 dicembre 2012 la branca americana della Kodak fallisce.
“You press the button, we do the rest”. Questo lo slogan con cui, nel 1888, l’Eastman Kodak Company, avvicinò il grande pubblico alla fotografia: le va infatti dato il merito di aver reso popolare l’utilizzo della macchina fotografica. Ma non solo.
Con la commercializzazione della Kodak n.1, una macchina fotografica amatoriale dotata di un rullo di pellicola Eastman American Film, prodotta nel 1885, la compagnia rese la fotografia più semplice, divertente ed economica. Esposta, la pellicola doveva essere inviata alla Eastman Dry Plate and Film Company per lo sviluppo. Peso 750 grammi, dimensioni 17x9x8 cm, con obiettivo a fuoco fisso con una focale di 27 mm e un’apertura di f/9, otturatore cilindrico. Nel 1891 il supporto di carta venne sostituito con un supporto di celluloide, il primo esempio di pellicola fotografica moderna. La fotografia fu pensata in forma rotonda sia per compensare la bassa qualità dell’immagine agli angoli, dovuti a problemi di ottica, sia per evitare di stare in asse con l’orizzonte, dal momento che lo strumento non era provvisto di mirino. Questo permise a moltissimi “inesperti” di cimentarsi nell’utilizzo di uno strumento facile e veloce.
Fondata a Rochester dall’imprenditore e pioniere della fotografia George Eastman, divenne presto punto di riferimento per l’innovazione delle pellicole e dei rullini, ma anche della cinematografia. Il termine Kodak fu una parola coniata dallo stesso Eastman che così la spiegò: “Fu una combinazione assolutamente arbitraria di lettere, che non derivava né in tutto né in parte da alcuna parola esistente, e vi arrivai dopo una lunga ricerca di un vocabolo che rispondesse a tutti i requisiti di un nome da usare come marchio di fabbrica. I principali requisiti erano che fosse breve, che non se ne storpiasse la dizione in modo da distruggerne l’identità, che avesse una personalità vigorosa e inconfondibile, che si adeguasse alle norme delle diverse leggi straniere sui marchi di fabbrica”.
La Kodak produsse una prima macchina nel 1886, nella quale era montato un rocchetto di pellicole fotosensibili che la rendeva meno ingombrante, con cui si riprendevano 48 immagini 10×12,5. Inoltre era economica: per lo sviluppo e la stampa a contatto l’importo era di soli 25 dollari. Con la produzione della Kodak n.1 si affermò nel mercato e alla fine degli anni Venti del Novecento la Kodak iniziò a produrre materiale fotosensibile ai colori, riaffermandosi come pioniera. Nel 1929 uscì la pellicola Kodacolor che aveva un reticolo di minuscole cellule con un filtro selettore colorato in rosso, verde e blu, ma le immagini venivano viste per proiezione: nel 1935 uscì la pellicola Kodachrome per apparecchi cinematografici e nel 1936-37 per macchine fotografiche. Il procedimento si basava sulla sintesi sottrattiva: i tre colori base erano incorporati alle emulsioni e poi lo sviluppo veniva realizzato dalla stessa Kodak. Il principio del negativo/positivo fu introdotto nella fotografia a colori nel 1941-1942 con la pellicola negativa Kodacolor, e questo rese possibile la stampa su carta: ancora una volta Kodak riesce a capire i propri clienti, proponendo un prodotto nuovo e comodo che soddisfacesse tutte le richieste. Successivamente la Kodak produsse la 126 Insamatic nel 1963: pellicola 35mm inserita in una cartuccia che andava poi riposta all’interno dello strumento fotografico evitando di caricare, con molti sforzi, il classico rullino. Tuttavia il successo dell’azienda iniziò a declinare presto, quando non riuscì più a scommettere sulle nuove invenzioni, o lo fece nel modo sbagliato.
Negli anni Settanta Polaroid scalzò Kodak dal business Instant Camera: le pellicole autosviluppanti Kodak Instant persero una battaglia di brevetti con la Polaroid Corporation, che fece quasi crollare l’azienda. Tutto iniziò nel 1976, quando Kodak stava perdendo moltissime quote di mercato: la produzione si spostò quindi sulle istantanee, il metodo più richiesto dal pubblico, scommessa però troppo rischiosa. La somiglianza al prodotto della Polaroid non passò inosservato, tanto che questa fece causa alla Kodak per aver violato i suoi brevetti. Nel 1986 l’azienda dovette rinunciare alla produzione delle istantanee e pagare un risarcimento di 12 miliardi di dollari, ammontare maggiore dell’intero valore della Kodak.
Negli stessi anni l’ingegnere di Kodak Steven Sasson creò il sistema della fotografia digitale utilizzato ancora oggi, ma l’azienda decise di non mettere in discussione il mercato delle pellicole: il ventiquattrenne aveva lavorato sui CCD (Charged Coupled Device), che permettevano di catturare la luce in due dimensioni e trasformarla in un segnale elettrico: il problema principale consisteva nel fatto che non archiviava le foto, così Sasson registrò le immagini con l’utilizzo della digitalizzazione. Tuttavia l’azienda non colse la novità, ritenendo che nessuno avrebbe voluto vedere le proprie immagini sullo schermo tv. Permise comunque all’ingegnere di portare avanti il proprio lavoro, arrivando al primo brevetto Kodak di una fotocamera digitale nel 1978. L’azienda lucrò comunque sul brevetto, scaduto nel 2007, ma non produsse mai realmente fotocamere che portassero enormi introiti.  Nel 1986 la Kodak presenta il primo sistema basato su megapixel e pochi anni dopo Sasson e Hills crearono la prima reflex digitale, ma nuovamente l’azienda si oppose alla commercializzazione. Ancora una volta il colosso della fotografia tradizionale rinunciava ad immettersi su nuovi mercati, perdendo così enormi possibilità di guadagno.
Ed oggi? Lo sviluppo di Kodachrome cessò definitivamente nel 2010 e alla fine del 2011 l’impresa fu quasi a rischio di fallimento, prospettiva che si concretizzò nel 2012, ma solo per quanto riguarda l’attività in America. Uscita dal fallimento nel 2013, ad oggi Kodak produce anche stampanti, pellicole destinate alla grafica, ma senza smettere di concentrarsi sulla rinascita dell’analogico: nel 2017 ha infatti dichiarato che sta ricominciando a produrre la Kodak Professiona Ektachrome, pellicola invertibile a colori nata negli anni Quaranta.

mercoledì 18 dicembre 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 18 dicembre.
Il 18 dicembre 2010 L'Inter Football Club diventa la squadra Campione del Mondo per Club per la terza volta.
Per tutto il mondo interista il Triplete è così forte emotivamente che quello che viene successivamente quasi perde ogni sapore. Nella notte di Madrid non solo si festeggia la grande vittoria della Champions League contro il Bayern Monaco, dopo aver vinto campionato e Coppa Italia, ma ci si immalinconisce per José Mourinho, che entra nell’auto di Florentino Perez ed esce dalla storia nerazzurra. Il portoghese sapeva che quella squadra era al massimo possibile e non poteva che iniziare a declinare. Bisognava mandare via i grandi protagonisti di quel viaggio incredibile e Moratti non è mai riuscito ad essere poco riconoscente.
Andato via Mourinho si cerca un altro profilo internazionale e in quel momento il meglio sulla piazza, libero dopo l’addio al Liverpool, è Rafa Benitez, allenatore capace di vincere inaspettatamente sia due Liga con il Valencia che una Champions League a dir poco folle ad Istanbul contro il Milan, recuperando dal 3-0 del primo tempo. Per un allenatore nuovo che prende il comando delle operazioni di una squadra che si era legata a doppia mandata con Mourinho, tanto che Sneijder affermò senza perplessità che avrebbe ucciso per il suo allenatore, il compito è difficile fin dall'inizio. L’Inter con Benitez infatti perde la Supercoppa Europa vinta dall’Atletico Madrid, in campionato però regge il colpo e in Champions League passa il primo girone. Ma fin dall’inizio tutti hanno un solo obiettivo: vincere il Mondiale per Club.
Quando la squadra parte per Abu Dhabi i problemi sono già evidenti. Contro l’allenatore c’è una parte della vecchia guardia, con Materazzi che ne porta la bandiera. Gli acquisti estivi, tra cui Coutinho,  Mariga e Suazo, non possono essere dei sostituti all’altezza dei titolari della stagione precedente. Il tecnico spagnolo non riesce a far accettare le consegne a volte anche estreme, come quelle che riguardavano Eto’o largo a sinistra che Mourinho invece riusciva a far digerire a tutti suoi campioni nella stagione precedente. Il clima è teso, ma su input presidenziale tutto deve essere messo fra parentesi perché bisogna diventare campioni del Mondo.
Come accade per tutti i Mondiali per club, il torneo inizia con le partite eliminatorie. I primi a sfidarsi sono i padroni di casa dell’Al-Wahda contro i campioni dell’Oceania, l’Hekari United della Papua Nuova Guinea. Passano i ragazzi degli Emirati nel tripudio dello Stadio Mohammed Bin Zayed.
Nei quarti scendono in campo i campioni d’Africa, il TP Mazembe della Repubblica Democratica del Congo. Ad affrontarli i superfavoriti messicani del Pachuca. Fin dall’inizio però gli africani impongono un ritmo forsennato alla gara, che i messicani non tengono. Alla fine vincerà la squadra congolese per 1-0. Nel secondo quarto i campioni asiatici del Seongnam battono l’Al-Wahda 1-4.
Le semifinali si giocano il 14 e 15 dicembre. La prima vede di nuovo in campo il TP Mazembe e tutti immaginano che sia la fine della sua avventura araba. A sfidarli la squadra vincitrice della Copa Libertadores, l’Internacional di Porto Alegre. I brasiliani puntano forte sul loro numero 10, l’argentino D’Alessandro, pronto a servire l’altra mezzapunta Taison e il ragazzo d’oro, Rafael Sobis.
Con una gara tatticamente perfetta gli africani sorprendono i brasiliani e vincono 2-0 con gol di Kabangu e Kaluyitika. Per la prima volta una squadra africana arriva in finale del Mondiale per club. Nella seconda semifinale, contro i sudcoreani del Seongnam, l’Inter sblocca subito il risultato con Stankovic e poi basta amministrare e portare a casa un 3-0 con gol di Zanetti e Milito. I nerazzurri se la giocheranno contro i misteriosi africani.
È il 18 dicembre 2010, l’Inter vuole chiudere quello che è il suo anno magico con un’ultima vittoria, ma prendere le misure ai congolesi del TP Mazambe non è un gioco da ragazzi. L’allenatore N’Diaye schiera in campo il suo compatto e sempre attento 4-5-1, mentre Benitez sceglie il 4-3-3 con Pandev ed Eto’o che girano intorno alla punta centrale, Milito.
Gli africani sono da temere per le loro capacità fisiche e il ritmo, ma l’Inter è una squadra completa e nel momento in cui si pone un obiettivo va fino in fondo. In 17 minuti va già sul 2-0. Prima segna Pandev su filtrante al bacio di Eto’o e poi è lo stesso camerunense a superare ancora il portiere Kidiaba con un destro dal limite dell’area. Da quel momento in poi all’Inter serve solo amministrare e poi chiudere il match con il 3-0 di Biabany all’85’.
La vittoria contro il TP Mazembe non avrà lo stesso fascino delle Intercontinentali vinte contro l’Indipendiente negli anni ’60, ma l’essere di nuovo campioni del mondo dopo 45 anni è una gioia che tutto il mondo interista assapora in maniera speciale. Ma a gioire più di tutti in quella serata mediorientale è di sicuro Massimo Moratti. Ha chiuso il cerchio, eguagliando suo padre alla guida della squadra del loro cuore, l’Inter.

martedì 17 dicembre 2019

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 17 dicembre.
Il 17 dicembre 1973 ebbe luogo la "strage di Fiumicino".
Il 17 dicembre 1973 un gruppo di cinque terroristi palestinesi – appartenenti all’organizzazione Settembre Nero – attaccò l’aeroporto di Fiumicino, prendendo ostaggi e lanciando bombe contro un aereo della Pan Am. Morirono 32 persone e i terroristi riuscirono a fuggire. Fu la più grave strage terroristica avvenuta in Europa fino a quella di Bologna del 1980. All’epoca il governo fu criticato per la sua politica “filo-araba” e ci fu chi insinuò complicità tra i servizi segreti italiani e i terroristi. Oggi quella strage è stata quasi dimenticata.
Intorno a mezzogiorno e mezzo del 17 dicembre 1973 cinque terroristi palestinesi (ma forse erano di più, il numero non è mai stato accertato con sicurezza) scesero all’aeroporto Leonardo da Vinci di Fiumicino da un aereo appena arrivato da Madrid. All’epoca i controlli di sicurezza agli aeroporti erano praticamente inesistenti: nei bagagli a mano i terroristi avevano mitra e bombe a mano.
Quando arrivarono alla barriera del controllo passaporti, i cinque tirarono fuori le armi e presero in ostaggio sei agenti di polizia. Il gruppo si divise: quelli con gli ostaggi si diressero verso il gate 14, mentre altri cominciarono a sparare contro delle vetrate per poter uscire direttamente sulla pista.
Alle 13.10 il volo Pan Am 110 si preparava al decollo, in ritardo di circa 25 minuti. Il capitano Andrew Erbeck e gli altri membri dell’equipaggio nella cabina di pilotaggio videro nel terminal la gente che scappava e che cercava riparo mentre i terroristi sparavano per aprirsi una strada. Erbeck avvertì i passeggeri che stava succedendo qualcosa nel terminal e ordinò che tutti si sdraiassero in terra.
Uno dei due gruppi di terroristi stava raggiungendo l’aereo proprio in quell’istante. Alcuni di loro salirono sulla scala mobile che era ancora poggiata alla fiancata dell’aereo e lanciarono all’interno tra le due e le cinque granate al fosforo, un materiale incendiario che procura ustioni particolarmente gravi e genera fiamme molto difficili da spegnere. L’onda d’urto stordì numerosi passeggeri, mentre le fiamme si propagarono rapidamente al carburante nei serbatoi. Luigi Peco, 84 anni, fu uno dei sopravvissuti alla strage, e  ha raccontato così quel momento al giornalista David Chinello:
«Quando ero disteso nel corridoio dell’aereo ho pensato: qui fra poco salta tutto. E mi sono infilato, sempre strisciando, tra la fila di sedili più larga e mi sono fermato proteggendomi i timpani come sapevo. Subito vi fu il terzo scoppio, molto forte, di una bomba dirompente il cui cono di schegge aprì uno squarcio sul tetto dell’aereo che fece da tiraggio al fumo dell’incendio. Così lo scoppio non mi ruppe il timpano e non persi i sensi, come capitò probabilmente ai passeggeri intorno a me»
Dopo le esplosioni, alcuni assistenti di volo riuscirono ad aprire un’uscita di emergenza sul lato dell’aereo. Il capitano Erbeck riuscì a salvarsi insieme a gran parte dei passeggeri, ma 30 persone morirono soffocate o per le ustioni causate dal fosforo. Quattro erano italiani.
Mentre il primo gruppo attaccava il Pan Am 110, il secondo, insieme a sei ostaggi italiani, raggiunse l’altro aereo che si trovava in quella parte della pista: un Boeing 737 della Lufthansa. Sotto l’aereo si trovarono davanti ad un agente della Guardia di Finanza, Antonio Zara, 20 anni. I terroristi gli immobilizzarono le braccia e dopo avergli detto di allontanarsi gli spararono alla schiena.
Dopo aver preso altri due ostaggi dal personale di terra dell’aeroporto ed essersi riuniti con il primo gruppo, i terroristi salirono a bordo dell’aereo Lufthansa e obbligarono l’equipaggio a decollare. Alle 13.32, 40 minuti dopo l’inizio dell’attacco, l’aereo partì diretto ad Atene.
L’aereo atterrò ad Atene poche ore dopo e i terroristi iniziarono a trattare con il governo greco. Chiedevano la liberazione di due membri di Settembre Nero arrestati l’estate precedente dopo un attacco al terminal dell’aeroporto di Atene. Il governo greco si rifiutò di trattare e i terroristi minacciarono di far schiantare l’aereo sul centro della città. Non mantennero la promessa, ma uccisero uno degli ostaggi italiani e scaricarono il suo cadavere sulla pista insieme agli altri ostaggi feriti.
Dopo 16 ore di sosta ad Atene l’aereo ripartì. L’aeroporto di Beirut, la destinazione originale del volo, negò l’accesso e occupò la pista con mezzi militari per impedire all’aereo di atterrare. Cipro fece lo stesso. I terroristi furono costretti ad atterrare a Damasco, l’unico aeroporto che li accolse, per rifornirsi di carburante. Dopo circa tre ore l’aereo ripartì di nuovo.
Il problema però restava: nessun paese era disposto ad accogliere l’aereo. Alla fine i terroristi si diressero verso il Kuwait. L’accesso gli fu di nuovo vietato, ma il capitano riuscì a far atterrare l’aereo su una pista secondaria. Dopo un’ora di trattativa, il governo del Kuwait annunciò che i terroristi avevano accettato il rilascio di tutti gli ostaggi in cambio della libertà.
Ai terroristi fu permesso di tenere le loro armi. Scesero dall’aereo facendo con le dita il segno di “V per vittoria”. In tutto l’attacco di Fiumicino era costato la vita a 32 persone, tra cui sei cittadini italiani. Dopo alcuni giorni i terroristi vennero trasferiti dal Kuwait all’Egitto. Il governo egiziano di Anwar Sadat, dopo aver rinunciato a processarli, li consegnò all’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). Da allora di loro non si è più saputo nulla.
Il 18 dicembre, mentre il sequestro non si era ancora concluso, il governo guidato da Mariano Rumor andò in Parlamento a riferire sulla strage. Durante la seduta il ministro dell’Interno Paolo Emilio Taviani fu duramente contestato dai deputati del MSI e del Partito Liberale. Il governo venne accusato di aver adottato una politica “filo-araba” – sia la corrente di Andreotti che parte del PSI, alleato della DC, avevano orientamento filo-palestinese – di aver sottoscritto un patto segreto con le organizzazioni terroristiche palestinesi.
Secondo le accuse in passato il governo italiano si era impegnato a lasciare libera circolazione ai terroristi e alle loro armi in tutto il paese e a fare pressioni sulla magistratura affinché liberasse i terroristi arrestati nel paese. In cambio, Settembre Nero aveva promesso di non fare attacchi in Italia. Si è parlato per decenni di questa politica: alcuni anni fa Bassam Abu Sharif, considerato il ministro degli esteri del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina negli Anni Settanta e Ottanta, disse al Corriere della Sera che in quegli anni i governi italiani permettevano ai terroristi palestinesi di agire liberamente in Italia, in cambio di un impegno a non colpire obiettivi italiani. Abu Sharif lo definì “l’accordo Moro”. Francesco Cossiga, illustre esponente della DC dell’epoca ed ex presidente della Repubblica, disse allora di avere «sempre saputo – benché non sulla base di documenti o informazioni ufficiali, sempre tenuti celati nei miei confronti – dell’esistenza di un accordo sulla base della formula “tu non mi colpisci, io non ti colpisco” tra lo Stato italiano ed organizzazione come l’OLP ed il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina».
Alcuni ipotizzarono allora che l’attacco a Fiumicino fosse stato una sorta di “errore”, oppure un ripiego dopo che il piano per colpire un obiettivo fuori dal paese era fallito all’ultimo momento. Diversi giornali, come il settimanale Epoca, sostennero questa tesi: in quei giorni molti ricordarono episodi dei mesi precedenti in cui presunti terroristi palestinesi trovati in possesso di armi e bombe erano stati liberati, secondo alcuni, in seguito proprio a pressione del governo (in alcune ricostruzioni questi terroristi erano stati trasportati in paesi come la Libia con l’aiuto dei servizi segreti italiani). Il governo smentì ogni ipotesi di accordo con i terroristi. Di questi episodi si parla in un articolo del Tempo, uno dei pochi che ha ricordato la strage.
Fino alla strage della stazione di Bologna nell’agosto del 1980, quello di Fiumicino fu il più grave attacco terroristico nella storia d’Europa. Con il passare degli anni, però, la strage è scomparsa dai titoli dei giornali e raramente è stata commemorata in maniera ufficiale. Durante l’intervista, Peco ha ricordato che dopo aver fatto una deposizione ai carabinieri sull’accaduto, non fu più sentito da nessun magistrato né da alcuna commissione di inchiesta.
I motivi di questa apparente rimozione sono diversi, probabilmente. Il fatto che la gran parte delle vittime fossero straniere, per esempio, insieme al fatto che non si sia costituita un’associazione di familiari delle vittime. Inoltre, per quanto ancora non si conosca la verità sulle trattative tra lo stato italiano e le organizzazioni terroristiche palestinesi, la strage rimase a lungo un episodio molto imbarazzante per il governo.
Infine la strage di Fiumicino del 1973 fu oscurata, almeno nella memoria collettiva, da un’altra strage, avvenuta sempre a Fiumicino il 27 dicembre del 1985, quando un gruppo di terroristi palestinesi attaccò il terminal della compagnia aerea israeliana El Al uccidendo venti persone e ferendone altre cento.

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