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venerdì 31 ottobre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 31 ottobre.

Il 31 Ottobre dell’anno del Signore 2002 in molte parti del mondo si sta festeggiando Halloween, la festa delle streghe, ma non qui dove si svolge la nostra storia.

Qui Halloween non si festeggia, le streghe non sono viste tanto di buon occhio, anzi, essere tacciati di stregoneria può voler dire anche fare una brutta fine.

Siamo ad Antananarivo, capitale del Madagascar, più precisamente allo Stade Mahamasina, un impianto in grado di ospitare diverse discipline sportive ed eventi di vario genere.

Qualcuno probabilmente se lo ricorda in quanto nel 2005, durante una partita tra Kaizer Chiefs e USJF Ravinala, è stato teatro di violenti scontri che hanno portato alla morte di due persone. Altri non lo hanno mai sentito nominare.

Eppure nel 2002, in quel già citato 31 Ottobre, lo stadio Mahamasina è stato il teatro di una partita consegnata alla Storia, uno di quegli eventi poco conosciuti e quasi impossibili da considerare realmente accaduti, se non fosse che nel 2002 c’era già abbastanza tecnologia da consegnarci alcune prove, inconfutabili, dell’accaduto.

Si deve disputare l’ultima giornata del campionato delle Isole dell’Oceano Indiano, che però non ha più alcun significato dal punto di vista della classifica: l’ha già vinto, con una giornata di anticipo, l’As Adema, una delle due squadre protagoniste di questa assurda vicenda.

Nella penultima giornata, infatti, l’altra squadra protagonista di questa storia, l’SO de L’Emyrne, ha pareggiato per 2-2 contro il il DSA Antananarivo, dicendo così addio ai suoi sogni di gloria e consegnando il campionato ai rivali dell’As Adema. L’ha fatto nella maniera peggiore possibile, ovvero vedendosi fischiare contro un rigore dubbio negli ultimi secondi della partita, una decisione sciagurata che proprio non è andata giù ad allenatore e giocatori.

Da qui l’idea di una protesta, clamorosa, che potesse avere quanto più risalto possibile. Immaginiamo che il conciliabolo tra allenatore e giocatori possa essere andato all’incirca in questo modo: “Bè, cosa ci possiamo inventare? Non ci presentiamo? Iniziamo a menare come degli ossessi?”

Mandare la primavera non credo che sia un’opzione plausibile, a quelle latitudini. Poi a qualcuno viene in mente un’idea geniale “Potremmo farci un autogol, per protesta“, accolta subito con entusiasmo dall’allenatore che, anzi, rincara la dose “Perché solo uno, cerchiamo di farne il più possibile, vediamo a quanti autogol arriviamo, così entriamo anche nel Guinness dei primati per la partita con il maggior numero di gol realizzati ed il più largo scarto“.

Detto fatto.

Benjamina Razafintsalama, l’arbitro designato per questa partita-farsa, da il via alle ostilità e subito si capisce che qualcosa di strano bolle in pentola. L’allenatore dell’SO de L’Emyrne è seduto tra gli spettatori, sugli spalti, in quanto squalificato dopo la partita precedente e orchestra il tutto dall’alto. Subito i suoi giocatori si precipitano come indemoniati verso la propria porta ed iniziano a scagliare dentro alla rete quanti più palloni possibili, senza che nessuno faccia nulla per fermarli.

Né l’arbitro né i giocatori avversari si oppongono a questo teatro dell’assurdo che sta andando in scena, si limitano ad assistere, impotenti. Gli unici che provano a fare qualcosa sono gli spettatori, ignari e increduli di ciò a cui stanno assistendo. Si precipitano giù dalle tribune fino ad arrivare a bordocampo, per chiedere il risarcimento del prezzo del biglietto.

La partita nel frattempo va avanti, per tutti i canonici 90 minuti, e termina con il roboante risultato di 149-0 in favore dell’AS Adema, frutto di altrettanti autogol realizzati dalla squadra avversaria.

Ovviamente le radio locali, avvisate dagli spettatori, danno subito la notizia che in breve tempo fa il giro del mondo: si vanno a cercare le partite ufficiali finite con il più ampio scarto tra le due squadre e la ricerca produce un 36-0 del 1885 tra l’Arbroath ed il Bon Accord di Aberdeen. Una bazzecola al confronto.

La federazione malgascia non può rimanere però con le mani in mano, ed infatti annuncia subito dopo la partita che prenderà importanti provvedimenti, inaccettabile una protesta di questo tipo.

Viene colpito l’allenatore della squadra, Zaka Be, accusato di essere la mente che ha orchestrato il tutto, al quale vengono comminati 3 anni di squalifica. Inoltre vengono puniti con due mesi anche quattro giocatori, tra cui Mamisoa Razafindrakoto, capitano del Madagascar che qualche tempo prima aveva realizzato il gol vittoria, storico, contro l’Egitto, in un incontro valevole per le qualificazioni alla coppa d’Africa.

Squalifiche e sanzioni che comunque non hanno il potere di cancellare una partita che, da insignificante come doveva essere razionalmente, si è trasformata in storica. A dimostrazione che nel calcio, qualsiasi partita, in qualunque parte del globo, ha sempre almeno un motivo per essere seguita.

giovedì 30 ottobre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 30 ottobre.

Il 30 ottobre 130 d.C. muore Antinoo, il giovane amante dell'imperatore Adriano.

Siamo nel II secolo d.C. e i protagonisti della nostra storia sono il celebre imperatore Adriano e l’affascinante giovane Antinoo. Sembra che i due si siano incontrati durante un viaggio di Adriano in Oriente più o meno intorno al 123 d.C. (Antinoo aveva 13 anni e Adriano 47) e che da quel momento non si siano più separati. Antinoo infatti seguì l’imperatore in tutti i suoi spostamenti, entrando a far parte del suo personale seguito.

Una vicinanza che fece subito pensare ad un amore non certo platonico: Adriano stimava il ragazzo per la sua bellezza ed intelligenza, Antinoo ammirava invece l’imperatore come un saggio. Si è molto discusso sul loro rapporto e molti hanno ipotizzato che potesse trattarsi della pederastia greca, quando cioè un uomo maturo intratteneva una relazione sentimentale con un fanciullo, assumendone un ruolo fondamentale ed attivo nella sua educazione e istruzione, istituzione questa non estranea alla cultura romana.

Tra loro vi era un rapporto profondo, di puro affetto e stima, di reciproco rispetto e forte complicità. E come tutte le storie più romantiche, non vi fu un lieto fine. Antinoo infatti nel 130 d.C. , mentre accompagnava l’imperatore in Egitto, morì in circostanze misteriose. C’è chi ritiene che il giovane sia caduto in acqua, chi parla di suicidio, chi di omicidio per gelosia e chi addirittura di morte per un sacrificio umano. Ciò che è certo è l’immenso dolore che Adriano provò per la prematura scomparsa del suo più fidato e amato compagno.

Fu così che decise di divinizzarlo, istituendo nel suo giorno natale una apposita festa che lo celebrasse e ne ordinò il culto in tutto l’impero, assimilandolo di volta volta a differenti divinità come per esempio Hermes, Dionisio, Osiride, Silvano, Aristeo e molti altri ancora. 

Adriano volle inoltre fondare in suo onore una nuova città che chiamò Antinopoli, posta sulla riva est del Nilo, dove verosimilmente il suo amato era venuto a mancare. L’immagine del giovane iniziò ad essere riprodotta sulle monete e Adriano ordinò la costruzione di un numero impressionante di statue, busti e rilievi del giovane da posizionare in tutte le città dell’impero.

Ma dove trovò eterno riposo il nostro Antinoo? Sembra che Adriano abbia fatto costruire all’interno della propria villa di Tivoli un imponente monumento funerario detto appunto Antinoeion, un edificio identificato nel 2005 con la tomba-tempio progettata per onorare la memoria del ragazzo. 

Un amore eterno quindi che ha attraversato il corso dei secoli, affascinando di volta in volta scrittori, poeti ed artisti che proprio Antinoo hanno considerato come l’immagine che più incarna l’idea assoluta di eterna bellezza.

mercoledì 29 ottobre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 29 ottobre.

Il 29 ottobre 1923 si completa il crollo dell'impero ottomano, con la nascita della repubblica in Turchia.

Alla fine dell’Ottocento l’Impero Ottomano, che per più di cinque secoli aveva dominato su un territorio vastissimo che si estendeva dalla Serbia fino allo Yemen, dall’Algeria all’Azerbaigian, comincia a entrare in profonda crisi. L’Impero russo è giunto a controllare la riva nord del mar Nero e punta, attraverso i Balcani, a raggiungere uno sbocco sul Mediterraneo, dove esercitano la loro influenza Francia e Inghilterra.

Nel corso del diciannovesimo secolo l’impero ottomano ha avviato un profondo processo di modernizzazione: lo stato si è centralizzato, è nata una costituzione e nel 1876 un Parlamento. Il rafforzamento dello stato ha però innescato reazioni contrarie, specie nei Balcani, dove si sono affermati movimenti locali che rivendicano l’indipendenza da Istanbul. Proprio l’appoggio della Russia alle sollevazioni degli slavi cristiani, all’interno dei possedimenti ottomani, fa scoppiare nel 1877 la guerra russo-turca. Nell’anno successivo la vittoria russa è sancita dal Trattato di pace di Santo Stefano: Serbia, Montenegro, Romania e Bulgaria, che fino a quel momento sono state sotto il dominio ottomano, diventano indipendenti.

In giugno al Congresso di Berlino, cercando di ridimensionare le ambizioni dell’impero zarista sull’area, le potenze europee definiscono i nuovi equilibri. L’impero ottomano perde buona parte dei territori balcanici, circa 200mila km.² di territorio abitato in maggioranza da popolazioni cristiane. La drastica riduzione demografica e territoriale ha gravi conseguenze sul piano economico e sociale; l’impero si trova così, per la prima volta, sbilanciato verso l’Asia e con una popolazione sempre più musulmana. Uno dei pilastri su cui si fonda l’impero, cioè la convivenza tra cristiani e musulmani, si sgretola definitivamente.

Nel frattempo, nel 1876 l’impero ottomano ha sospeso la Costituzione, inaugurando una fase di governo più autoritaria, senza però rinunciare a rafforzare e modernizzare lo stato. Per fare questo l’impero ha bisogno di finanziamenti esteri che lo porteranno a indebitarsi, dipendendo sempre più dalle grandi banche europee.

Agli inizi del ‘900, in Macedonia, ultimo avamposto ottomano in Europa, le élite musulmane temono che l’impero non riesca a difendere il vasto territorio dalle mira di Grecia, Serbia e Bulgaria. In questo contesto emerge una nuova generazione di giovani che si sono formati nelle moderne scuole imperiali, funzionari statali e ufficiali dell’esercito che danno vita a un movimento organizzato per difendere l’unità e integrità dell’impero: il comitato unione e progresso, meglio noto come i Giovani turchi. Il loro centro è a Salonicco e tra loro c’è anche il giovane Mustafa Kemal, futuro fondatore della Repubblica di Turchia. Nel luglio 1908, il comitato passa all’azione, occupa città e villaggi macedoni e costringe il sultano a ristabilire la costituzione. Da lì ha inizio una nuova fase della storia ottomana che vede la graduale ascesa dei giovani turchi al potere imperiale.

1914, scoppia la prima guerra mondiale. Nei primi mesi di guerra l’impero ottomano rimane neutrale, per poi schierarsi a fianco degli imperi centrali. La Germania è l’unico paese rimasto a supportare gli Ottomani contro la minaccia dell’impero russo e il sultano ha da tempo affidato ai generali tedeschi la ristrutturazione del proprio esercito.

Il 28 ottobre 1914 navi turche bombardano il porto russo di Odessa: Gran Bretagna, Francia e Russia dichiarano ufficialmente guerra a Istanbul. La prima vera prova dell’esercito ottomano avviene nella primavera del 1915, quando truppe britanniche e australiane giungono in massa per conquistare i Dardanelli e liberare la via degli stretti. L’esercito ottomano però, grazie alle navi, alla strategia difensiva e ai consigli dei generali tedeschi, riesce a conseguire a Gallipoli una delle sue poche vittorie della grande guerra. I turchi però devono cedere di fronte all’avanzata russa ad est, al confine con il Caucaso: preoccupato che la popolazione armena (cristiana) sostenga le armate russe, il governo ottomano decide la deportazione totale dei cristiani dall’Anatolia orientale. Alle deportazioni si associano massacri e violenze sui civili: è l’inizio dello sterminio di circa 1 milione di armeni e di altri cristiani, il primo genocidio dell’età contemporanea. La secolare convivenza tra cristiani e musulmani entra in crisi. A decretarla sono ragioni politiche, ovvero l’idea che le comunità cristiane non siano più fedeli all’impero.

A partire dal 1916, gli Ottomani cominciano a subire sconfitte su diversi fronti: gli alleati avanzano in Mesopotamia, nella penisola araba e in Palestina. Nel dicembre del ’17 viene liberata Gerusalemme e poco dopo anche Damasco. Il 31 ottobre 1918 viene firmato l’Armistizio di Mudros: i delegati ottomani accettano condizioni molto dure. L’impero è fortemente ridimensionato ma non è finito: i suoi leader politici fuggono all’estero grazie al supporto tedesco e il Paese è allo sbando mentre le truppe alleate entrano trionfanti a Istanbul.

Il 18 gennaio 1919 si apre a Parigi la Conferenza di pace, dove si comincia a decidere il destino ottomano. Mustafa Kemal, brillante generale distintosi nella battaglia di Gallipoli, organizza la resistenza contro la spartizione dell’impero, radunando uomini e mezzi nei distretti orientali dell’Anatolia. Nel 1920 il trattato di Sevrès decreta lo smembramento dell’impero: l’Anatolia è divisa tra Grecia, francesi e italiani, con la formazione di uno stato armeno e uno curdo a oriente. Il movimento di Mustafa Kemal reagisce al trattato di pace in nome dei diritti nazionali ottomani.

Cominciano due anni di guerra per la riconquista del territorio anatolico. I kemalisti all’inizio prendono il controllo dell’Anatolia orientale e centrale, poi nel corso del 1922 avviano la controffensiva per liberare l’Asia minore dall’occupazione greca. Ogni strato della popolazione, comprese le donne, è coinvolto in questo sanguinoso conflitto contro i greci. Dopo le prime difficoltà, l’esercito di Kemal prende il sopravvento. Nell’agosto 1922, i nazionalisti di Kemal lanciano la grande offensiva per riprendere Smirne: la città è messa a ferro e fuoco e la popolazione greca è costretta alla fuga, insieme all’esercito ellenico in rotta. Il 10 settembre 1922 l’esercito turco entra vittorioso a Smirne.

Ora Mustafa Kemal punta a riprendersi la Siria, porta del medio Oriente, sostenuto da molti funzionari e ufficiali arabi ancora fedeli all’impero. In difficoltà, Francia e Gran Bretagna, che avevano già pianificato di spartirsi le regioni arabe, preferiscono trattare con Kemal. Il 24 luglio 1923, con il trattato di pace di Losanna, si afferma l’esistenza di un nuovo Stato, su un territorio composto da tutta l’Anatolia e la Tracia. Sulle ceneri dell’impero ottomano è nata la Turchia.

Tramontata ogni prospettiva imperiale, Mustafa Kemal si dedica a realizzare uno stato nuovo, laico e repubblicano. La nuova Repubblica sarà costruita attorno all’identità turca e dovrà rompere radicalmente con l’integralismo del passato. Le minoranze, come i curdi, non vengono riconosciute. La religione musulmana non ha più il ruolo centrale di un tempo. La nuova Turchia guarda verso Occidente: si sceglie l’adozione dell’alfabeto latino per la lingua turca, si procede alla riforma del diritto di famiglia, con l’abolizione dei matrimoni religiosi e della poligamia, e viene reso obbligatorio l’uso del cognome. Nel 1934 la grande assemblea nazionale assegna a Mustafa Kemal, con apposito decreto, il cognome esclusivo di Ataturk, padre dei turchi.

martedì 28 ottobre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 28 ottobre.

Il 28 ottobre 1891 nacque a Genova Giacomo Lercaro.

Compì studi biblici, patristici e liturgici al Seminario arcivescovile, dove insegnò dopo l' ordinazione sacerdotale, avvenuta nel 1914 e gli anni del conflitto mondiale, durante i quali fu Cappellano militare.

Prevosto della parrocchia di Maria Immacolata dal 1937, durante il periodo dell'occupazione tedesca nella seconda guerra mondiale, si prodigò a favore dei perseguitati, tanto che dovette rifugiarsi, sotto uno pseudonimo, in una casa religiosa: qui scrisse "I metodi dell' orazione mentale", un volume tradotto in diverse lingue. Nel dopoguerra fondò nella sua città un istituto di teologia per laici.

Nel dicembre del 1946 fu nominato Prelato domestico di Sua Santità e nel Concistoro del 10 marzo 1947 preconizzato da papa Pio XII Arcivescovo di Ravenna. Il motto che scelse "Mater mea, fiducia mea" rispecchia il riferimento costante del suo episcopato (ravennate prima, bolognese poi): l' intensa devozione a Maria. Dopo l'alluvione del Polesine nel 1951, accolse nella sua casa alcuni ragazzi senza tetto che lo seguirono anche a Bologna; fu questo il primo germe dell' Opera "Madonna della fiducia" per i giovani studenti italiani ed esteri.

Il 19 aprile 1952 papa Pacelli lo trasferì alla sede metropolitana di Bologna e il 12 gennaio 1953 fu creato e pubblicato cardinale. Egli individuò come fulcro della vita cristiana la Santa Messa e da qui scaturì anche il suo lavoro episcopale che, oltre alle iniziative spiccatamente religiose come la missione mariana del 1954, la missione triennale sulla Messa 1962-65, la visita pastorale e i piccoli sinodi, ne annoverò moltissime altre di generi diversissimi: il Villaggio per i giovani sposi, la Consulta per l' apostolato dei laici, il Centro studi per l' architettura sacra, il Centro di documentazione per le scienze religiose, le opere sociali e assistenziali per gli operai, il carnevale dei bambini. Furono 34 le parrocchie di periferia da lui volute per rispondere all'ampliamento urbano. Fu anche un indiscusso protagonista del Concilio Vaticano II, prima come animatore e moderatore della Commissione liturgica, poi come Moderatore del Concilio e Presidente del "Consilium ad exsequendam constitutionem liturgicam".

Il 5 maggio 1956 inaugurò, insieme a Padre Pio da Pietrelcina l'ospedale "Casa Sollievo della Sofferenza" e nell'aprile del 1957 prese parte ai festeggiamenti in onore della patrona di Castrocaro, la Beata Vergine dei Fiori.

Cittadino onorario di Bologna dal 1966, consegnò il Vangelo agli amministratori della città. Il 12 febbraio 1968 lasciò la cattedra di San Petronio senza però abbandonare la scena ecclesiastica: infatti, fu Legato di Paolo VI al Congresso Eucaristico Internazionale di Bogotà e, fino al 1973, svolse un'intensa opera evangelizzatrice in Italia ed all'estero. Costretto al riposo dal 1974 a causa delle precarie condizioni di salute, si è spento a Bologna il 18 ottobre 1976.

lunedì 27 ottobre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 27 ottobre.

 Il 27 ottobre 1986, papa Giovanni Paolo II convocava ad Assisi  la prima Giornata mondiale di preghiera per la pace, cui presero parte i rappresentanti di tutte le grandi religioni mondiali. 

Vi parteciparono, oltre ai cattolici, 50 rappresentanti delle Chiese cristiane e 60 rappresentanti delle altre religioni mondiali. Per la prima volta nella storia si realizzava un incontro come questo. Un’intuizione semplice e profonda quella del Papa: riunire i credenti di tutte le religioni mondiali nella città di San Francesco, ponendo l’accento sulla preghiera per la pace, l’uno accanto all’altro, di fronte all’orrore della guerra. Disse il Papa in quell’occasione: “E’ in sé un invito fatto al mondo per prendere coscienza che esiste un’altra dimensione della pace e un altro modo di promuoverla, che non sono il risultato di trattative, di compromessi politici, economici”. La convinzione era che “la preghiera e la testimonianza dei credenti, a qualunque tradizione appartengano, può molto per la pace nel mondo”. 

L’appello fu ascoltato, tra l’altro, anche dal “mondo”: per un giorno intero tacquero le armi. Nel suo discorso conclusivo, Giovanni Paolo II esortava: “Continuate a vivere il messaggio della pace, continuate a vivere lo spirito di Assisi!”. Appello raccolto dal successore , il Papa Benedetto XVI, che per il 25° anniversario ha presieduto la giornata di dialogo e preghiera per la pace sempre con i leaders religiosi e, idealmente, con tutti gli uomini di buona volontà provenienti da tutto il mondo proprio ad Assisi. Spirito di Assisi raccolto con particolare impegno e fedeltà dalla Comunità di Sant’Egidio, che ne ha fatto un appuntamento annuale negli Incontri internazionali di Preghiera per la Pace, dal 1987 ad oggi, raccogliendo, in questo pellegrinaggio di pace, sempre più uomini e donne di religione diversa, uniti dal desiderio di costruire insieme vie di pace.

domenica 26 ottobre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 26 ottobre.

Il 26 ottobre 1896 viene siglata la pace tra Italia ed Etiopia, chiudendo così la prima guerra tra i due paesi, detta anche Guerra d'Abissinia.

I primi rapporti con l’Etiopia in Italia furono messi in atto per via della fede. Infatti, dal XIII al XVII secolo, coraggiosi francescani fecero di queste terre una meta interessante al fine di portarvi la fede cattolica. A lungo missionari italiani percorsero quelle regioni, istituendovi un continuo contatto, tracciando itinerari, annotando una miriade di dati e ottenendo perfino la partecipazione di delegati abissini al Concilio di Firenze.

Fu proprio grazie ad un missionario, il savonese Giuseppe Sapeto, già famoso in Patria per le sue eccezionali doti d’esploratore, che l’Italia (gli italiani l’avevano fatto molto prima) mise piede in terra d’Africa. Era il 1869 quando il missionario di Savona sbarcò ad Aden per acquistare, per conto della compagnia di navigazione Raffaele Rubattino, una striscia di territorio. Purtroppo inglesi e francesi vi si erano già insediati. Non dandosi per vinto, il coraggioso esploratore navigò in lungo e in largo per giorni, finché attraccò nella baia di Assab, in Dancalia, comprando questo piccolo villaggio di pescatori dai capi locali. Assab verrà ricomprata anni dopo dal governo italiano che fino ad allora sembrava disinteressato a quella stazione marittima, ma tempo dopo, con l’invasione inglese e francese negli ambiti territori dell’Africa mediterranea, lo Stato prese in seria considerazione il territorio acquistato da Sapeto per trovare quello “spazio vitale” già trovato dalle altre potenze europee. “I missionari e gli esploratori consapevoli o no, fecero infatti da battistrada al colonialismo ottocentesco e la società gliene rese grande merito. Anche le truppe quando partivano per le imprese d’oltremare venivano osannate dalle folle, cantate dai poeti e benedette dai vescovi.”(Arrigo Petacco). 

L’Italia entrava così nella corsa alle colonie. Per la prima volta si cominciò a parlare della “missione di Roma” di civilizzazione della barbara Africa. Senza volerlo fu un altro esploratore a procurare al governo di Roma l’occasione per allargare i confini africani senza sganciare altri soldi: Gustavo Bianchi, così si chiamava, spintosi nelle sue ricerche nella vasta regione del Tigrè, nello sconosciuto Impero d’Abissinia, fu assalito da predoni dancali che trucidarono i suoi accompagnatori. Bianchi si salvò per miracolo. La notizia dell’assalto addolorò l’Italia intera che, bramando vendetta, decise di reagire, inviando in Africa ottocento bersaglieri al comando di Tancredi Saletta. Era il 5 febbraio del 1885.

Mentre la bella ma afosa Massaua si trasformava nella culla del colonialismo italiano, i coraggiosi bersaglieri si spinsero ad ovest, occupando Saati, Arkiko, Zula, Monkullo, Arafali, dove le innumerevoli tribù che popolavano quei territori, accettarono serenamente la nuova presenza italiana, che rappresentava una promessa di pace. Ma le località occupate confinavano con l’ignoto Impero d’Abissinia, dove l’imperatore, il negus Giovanni IV, vide in quella sgradita vicinanza una seria minaccia per il suo trono. Per suo conto, il bellicoso Ras Alula, signore dell’Hamasen, non rimase con le mani in mano, ed il 25 gennaio del 1887 attaccò con diecimila uomini il presidio italiano di Saati, ma fu respinto dagli eroici difensori dopo quattro ore di combattimento. Preoccupato dell’attacco abissino, il colonnello Saletta mandò sul posto una colonna al comando del tenente colonnello Tommaso De Cristoforis, composta da cinquecento bersaglieri e un centinaio di bashi-buzuk. Ma a metà strada, la colonna fu attaccata di sorpresa dagli uomini di Alula che, dopo averla circondata, vi si lanciarono agguerritamente. Ottomila abissini contro seicento italiani: fu un massacro. Prima di cadere, De Cristoforis, volgendo un ultimo pensiero alla Patria lontana, riunì i pochi soldati ancora in vita comandandovi di onorare i commilitoni caduti, presentando loro le armi. Il nome di quel colle, dove si salvarono solamente un’ottantina di soldati, abbandonati dal nemico che li credeva morti, resterà per decenni nella memoria italiana: Dogali. La disfatta produsse in Patria molto dolore, tanto che la Camera votò nuovi crediti inviando consistenti rinforzi. Comunque, seguirono due anni di relativa tranquillità, fino al giorno in cui giunse a Massaua il generale padovano Antonio Baldissera, “ l’austriaco ”, così chiamato per il suo passato da ufficiale nell’esercito asburgico. 

Si deve a lui il mutamento degli indisciplinati bashi-buzuk in soldati fieri e disciplinati, ribattezzandoli “ascari”. Scelse i migliori, selezionandoli tra le etnie più combattive, indipendentemente dalla loro fede religiosa. “Credano pure in ciò che vogliono – dirà – purché obbediscano e combattano.” Approfittando della morte del negus Giovanni IV, Baldissera, agevolato dalle guerriglie tra i vari ras che si contendevano l’ambito trono d’Abissinia, continuò l’avanzata verso ovest, allargando considerevolmente i confini italiani, sconfiggendo Alula ed occupando Asmara, che diventò la capitale della nostra prima colonia, l’Eritrea, annunciata dal capo del Governo italiano Francesco Crispi il 1 gennaio 1889.

A sud dell’Etiopia intanto, in Somalia, altri soldati erano sbarcati nella Costa dei Somali, conquistando il sultanato della Migiurtinia. Il trono del Leone di Giuda fu poi conquistato dal ras dello Scioà, che, grazie all’aiuto italiano, che lo avevano rifornito di denaro e munizioni, fu incoronato a Gondar mesi dopo, adottando il nome di Menelik II. Il nuovo negus firmò subito un trattato d’amicizia con gli italiani, che si impegnavano ad appoggiarlo nelle guerre contro gli altri ras (Trattato di Uccialli). Compiaciuto della situazione favorevole, Crispi, desideroso di trasformare l’Italia in una grande potenza coloniale, ordinò al generale Baldissera di continuare la sua marcia verso l’ovest. “L’austriaco” respinse più volte le richieste del presidente del Consiglio, finché quest’ultimo decise di sostituirlo e richiamarlo in Patria. Per un breve periodo l’Eritrea fu messa nelle mani del generale Baldassarre Orero, poi passò sotto la supervisione di Oreste Baratieri, un generale dal passato garibaldino amico personale di Crispi, che, approdato in Africa, si apprestò ad assecondare le ambizioni coloniali di Roma. “Il primo screzio tra Roma e Addis Abeba – scrive Arrigo Petacco nel suo lavoro Faccetta nera – si registrò con la controversia sull’interpretazione dell’articolo 17 del trattato di Uccialli. Secondo Menelik, l’articolo stabiliva che il negus “può farsi rappresentare in Europa dall’Italia”, secondo Crispi che il negus “deve e consente di farsi rappresentare”. In questo contesto le cose non poterono che peggiorare e non passò del tempo che i tamburi di guerra iniziarono a tuonare.

Come abbiamo già detto, il generale Baratieri non restò con le mani in mano: nell’autunno del 1894, dopo aver conquistato Cassala, in Sudan, mosse verso il Tigrè, la vasta regione abissina dove regnava Ras Mangascià, il ras che tempo prima aveva aiutato alcune tribù tigrine ad attaccare, in piccoli assalti, le postazioni italiane, distruggendo la sua armata e conquistando l’intera regione, guadagnandosi (e a ben merito) l’appellativo di “Napoleone d’Africa”. Gli echi del trionfo italiano provocarono non poche preoccupazioni ad Addis Abeba, dove il nuovo negus si vide costretto ad ordinare la mobilitazione generale. Fu in quegli anni che verranno scritte alcune delle pagine più gloriose della storia dell’esercito italiano, pagine che, purtroppo, non parleranno sempre di vittorie.

Una di queste pagine va dedicata al maggiore Pietro Toselli, coraggioso ufficiale piemontese, comandante di una colonna di ascari: un mattino d’inizio dicembre la sua colonna lasciò il villaggio di Maccalè, dove era acquartierata il resto dell’armata, per effettuare un giro di perlustrazione nelle vicinanze del lago Ascianghi, dove venne avvistata una grande armata nemica in avvicinamento. Gli abissini stavano rispondendo all’attacco. Il rapporto d’armi era impari, insostenibile per le forze italiane che ammontavano a milleseicento uomini. Gli abissini erano più di trentamila. Così il maggiore fu costretto ad arroccarsi sulle pendici di un amba, dove attese l’arrivo dei nemici. La battaglia iniziò il 5 dicembre 1895 e fu violentissima. Gli attaccanti, guidati da Ras Macconen, comandante dell’armata imperiale, al quale si erano aggiunti i soldati di ras Alula e ras Mangascià, attaccarono con estrema brutalità il presidio tenuto dalle nostre forze indigene, che tennero duro e si difesero con valore. Ma il fuoco delle mitragliatrici non riuscì a sostenere la violenza delle orde africane che si lanciava avanti urlando. Verso l’una del pomeriggio, quando la battaglia ancora infuriava, il coraggioso maggiore, afono e ferito, disse al suo aiutante: “Non ne posso più. Ora mi volto e lascio che facciano” e così dicendo scomparve nella mischia. Il monte dove avvenne l’eroica resistenza dei nostri ascari portava il nome di Amba Alagi, rimasto indelebile nella storia della nostra Patria per il maggiore Toselli ed il fiero IV Battaglione Eritreo, che vi trovarono la morte.

Eliminata la minaccia dell’Amba Alagi gli abissini puntarono su Maccalè, dove una piccola guarnigione, composta da circa milletrecento uomini tra italiani ed ascari, comandata da un altro coraggioso ufficiale piemontese, il maggior Giuseppe Galliano, era rimasta in presidio del villaggio. La massa scioana giunse innanzi al forte il 9 dicembre, ma non attaccò subito: restò immobile alle porte del villaggio, attendendo l’arrivo di altri uomini, aumentando consistentemente nel giro di pochi giorni. Nonostante i numerosi tentativi di Maconnen di indurre il piemontese ad arrendersi, Galliano non intendeva cedere il villaggio agli abissini che, la notte del 7 gennaio, iniziarono ad attaccare. L’assedio, che fu brutale, durò molti giorni, ma il peggior nemico degli italiani si rivelò la sete. Da giorni infatti il forte era a secco. Inviando inutilmente i suoi spericolati messaggeri per avvertire Baratieri dell’ostile situazione, Galliano si preparava ad affrontare la fine con onore. “E’ questione di ore, – dirà – poi il sacrificio.” Quella stessa sera, quando la situazione era ormai diventata insostenibile, riunendosi con i suoi ufficiali, decisero che il giorno successivo avrebbero fatto saltare il forte ed attaccato gli abissini. “Fu a questo punto – continua Arrigo Petacco – che entrò in scena un misterioso personaggio. Pietro Felter, un commerciante bresciano che viveva da tempo in Abissinia e godeva la piena fiducia di Maconnen. Felter si mise in contatto con Baratieri e si offrì come intermediario, poi, dopo complesse trattative, gli fece sapere che il ras, d’accordo con il suo negus, era disposto a liberare la guarnigione in cambio di un riscatto in denaro.” La cifra (esorbitante…) fu pagata personalmente dal Re Umberto I, all’insaputa dei difensori di Maccalè che continuavano ignari l’eroica resistenza. L’ordine di resa giunse al forte la sera del 19 gennaio. Nel leggere l’umiliante trattativa Galliano impallidì; altri ufficiali scoppiarono in lacrime. “Povera Italia” dirà lasciando il villaggio il fiero piemontese, che per l’eroismo dimostrato aveva ricevuto elogi dal re e dal Kaiser di Germania.

Sbaragliato anche il pericolo proveniente da Maccalè, gli abissini mossero verso l’Eritrea. Gli italiani, per contrastarli, si spinsero vero Adua. Fu proprio nei pressi di questo piccolo villaggio del Tigrè che si consumò la più grande sciagura dell’esercito italiano in terra d’Africa: la sera del 29 febbraio Baratieri spinse le sue armate, guidate da valorosi generali, quali Matteo Albertone, Giuseppe Arimondi, Vittorio Emanuele Dabormida e Giuseppe Ellena. Circa diciassettemila uomini in tutto, ma Menelik II era pronto a riceverlo. Fu all’alba del 1 marzo che iniziò la tragedia: la Brigata indigena guidata da Albertone, ingannata da una falsa indicazione topografica, capitò all’insaputa nel campo nemico, trovandosi imprigionata in un inferno abissino. Fu un massacro. Travolti gli ascari di Albertone, gli altri centomila guerrieri scioani si riversarono con violenza sulle altre brigate italiane. I combattimenti furono infuocati: italiani ed eritrei, benché inferiori di numero, si batterono da leoni, aprendo molti vuoti fra gli attaccanti, costringendo gli abissini a retrocedere. Solamente l’intervento della valorosa Guardia Imperiale lanciata dal negus sulle postazioni tenute dagli ascari mutò il corso della battaglia. Rimasta in piedi solamente la brigata del generale Arimondi, Baratieri vi inviò in soccorso il III indigeni di Galliano, gli eroici difensori di Maccalè. Ma ormai le sorti del combattimento erano decise. Questa catastrofe militare, passata alla storia come la “disfatta di Adua”, all’Italia costò cinquemila morti metropolitani, compresi gli impavidi ufficiali: Albertone fu fatto prigioniero; Arimondi, ferito al ginocchio, continuando il combattimento con la spada sguainata, perì sommerso da una violenta marea umana abissina; anche Dabormida era caduto; quanto a Galliano, non se ne seppe più nulla.

Come in precedenza per Toselli, la sua morte era destinata ad entrare nella leggenda. I due eroi piemontesi, divenuti simbolo dell’eroismo italiano in terra d’Africa, solennizzati durante il ventennio fascista, sono oggi dimenticati dalla memoria nazionale, cancellati dai libri di storia ed obliati dalla Patria per cui diedero coraggiosamente la vita. A Roma, in via Lepanto, innanzi alla caserma Nazario Sauro, due busti di bronzo eretti più di cento anni fa, posti l’uno di fronte all’altro e riportanti i visi dei due ufficiali, rappresentano l’unico gesto di riconoscimento presente nella capitale in ricordo dei due martiri. 

Agli ascari andò peggio, anche se le vittime riportate furono minori rispetto a quelle italiane (milleseicento morti). Il giorno successivo alla battaglia di Adua, il negus ordinò che agli ascari di provenienza tigrina catturati, considerati disertori della causa etiopica, subissero l’agghiacciante mutilazione della mano destra e del piede sinistro, in modo che non potessero mai più combattere. Di questi, solamente quattrocentosei riuscirono, trascinandosi faticosamente, a raggiungere l’Eritrea. La notizia della disfatta giunse in Italia la notte del 2 marzo, provocando chiaramente immensi clamori in Patria e all’estero: per la prima volta nella storia un esercito “bianco” veniva sconfitto da un esercito “nero”; per la prima volta nella storia una nazione europea aveva dovuto chinare il capo ad una nazione africana.

La pace tra Roma ed Addis Abeba fu firmata il 26 ottobre dello stesso anno, stipulando “[…] pace ed amicizia perpetua fra S. M. il Re d’Italia e l’Imperatore d’Etiopia, come tra i loro successori e sudditi – e precisando che – l’Italia riconosce l’indipendenza assoluta dell’Impero d’Etiopia come stato sovrano.” Al trattato seguiranno diversi accordi bilaterali che stabilivano il confine tra l’Abissinia e le colonie italiane (Eritrea e Somalia). Incomprensibilmente la linea di confine con i territori somali non venne mai tracciata ed un vastissimo territorio dell’Ogaden restò per anni terra di nessuno. Con convenzione aggiuntiva al trattato venivano liberati, dietro pagamento, i prigionieri trattenuti in Abissinia. Si dice che “l’africanista” Regina Margherita, in uno scatto d’orgoglio patriottico, dichiarò: “I prigionieri si riscattano con il piombo e non con l’oro.”

sabato 25 ottobre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 25 ottobre.

Il 25 ottobre 1955 Sadako Sasaki, una bambina sopravvissuta alla bomba di Hiroshima, muore per una grave leucemia dovuta all'esposizione alle radiazioni.

La piccola Sadako si trovava a casa, a circa 1,7 chilometri di distanza dal luogo dell’esplosione. Lo spostamento violento d’aria la scaraventò fuori dalla finestra. Sua madre corse a cercarla, e la trovò poco lontano dalla sua abitazione, nei pressi del Ponte Misasa: la bimba era apparentemente illesa. La nonna materna si precipitò fuori di casa e non fu più vista. Sadako e la madre furono esposte alla pioggia nera. Crescendo divenne forte e atletica, ma nel 1954, all’età di undici anni, mentre si stava allenando per un’importante gara di corsa, fu colta da vertigini e cadde a terra. Le sue gambe si arrossarono e si gonfiarono nel gennaio del 1955. Le fu diagnosticata una grave forma di leucemia, conseguenza delle radiazioni della bomba atomica. La ragazzina venne quindi ricoverata alla croce rossa di Hiroshima.

La sua migliore amica, Chizuko Hamamoto, le parlò di un’antica leggenda secondo cui, chi fosse riuscito a creare mille gru – uccello simbolo di lunga vita – con la tecnica dell’origami avrebbe potuto esprimere un desiderio. Chizuko stessa realizzò per lei la prima, Sadako continuò nella speranza di poter tornare presto a correre. Comunque, il suo desiderio non era limitato a questo; Sadako stava dedicando al suo lavoro il massimo impegno, poiché credeva che così avrebbe posto fine a tutte le sofferenze, avrebbe curato tutte le vittime del mondo ed avrebbe portato loro la pace.

Poco dopo aver intrapreso il suo progetto, Sadako conobbe un bambino nelle sue stesse condizioni, a cui era rimasto poco da vivere. Ella cercò di convincerlo a fare la stessa cosa, ma la sua risposta fu: so che morirò stanotte. Durante i quattordici mesi trascorsi in ospedale, Sadako realizzò gru con qualsiasi carta a sua disposizione, comprese le confezioni dei suoi farmaci e la carta da imballaggio dei regali degli altri pazienti. Morì la mattina del 25 ottobre 1955. Le ultime parole che conosciamo della ragazzina sono “è buono” riferito al piatto di riso che le avevano fatto mangiare. Una versione della sua storia, vuole che Sadako fosse riuscita a completare 1000 gru, prima di morire; secondo un’altra, riferitaci da Eleanor Coerr nel suo romanzo Sadako and the Thousand Paper Cranes, Sadako sarebbe riuscita a completarne solo 644, mentre le restanti 356 sarebbero state aggiunte dai suoi amici. Infine, tutte le gru sarebbero state sepolte con lei.

Dopo la sua morte, i suoi amici e compagni di scuola pubblicarono una raccolta di lettere al fine di raccogliere fondi per costruire un monumento in memoria sua e degli altri bambini morti in seguito alla bomba atomica di Hiroshima. Nel 1958, fu collocata al Parco del Memoriale della Pace una statua raffigurante Sadako mentre tende una gru d’oro verso il cielo. Ai piedi della statua, una targa reca incisa la frase: “Questo è il tuo pianto. La nostra preghiera. Pace nel mondo”. È possibile, per i visitatori, come ricordo di Sadako e come simbolo di pace, lasciare una gru di carta in una grande urna, unitamente ad un messaggio. Le è stata dedicata anche un’altra statua, situata al Parco della Pace di Seattle.

venerdì 24 ottobre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 24 ottobre.

Il 24 ottobre 1922 a Napoli si tenne un raduno di camice nere, una sorta di prova generale per l'imminente Marcia su Roma.

Quando si parla comunemente di marcia su Roma si intende quella particolare spedizione militare avvenuta negli ultimi giorni dell’ottobre del 1922 con la quale i fascisti mossero verso la capitale. In realtà, l’espressione marcia su Roma può riguardare un avvenimento molto più ampio, di preparazione alla fase finale che si concluse il 28 ottobre.

Le vicende dell’ottobre 1922 ci sono note solo nei loro tratti principali, ma appena si cerca di approfondire emerge una complessità molto ampia di cui si possono notare due problemi centrali: il ruolo giocato dalla Corona e quello del Governo. Questa situazione fu molto complessa tanto che ancora oggi le stesse istituzioni, i giornali, i partiti non conoscono le proporzioni, i caratteri, le finalità complessive del movimento.

In quel periodo si era definitivamente manifestata, a partire dai primi mesi del 1922 la crisi dello Stato liberale, infatti i due Governi che si succedettero nel 1922, il Governo guidato da Ivanoe Bonomi e quelli guidati da Luigi Facta erano Governi estremamente deboli che si basavano su una maggioranza eterogenea composta dal Partito Liberale Italiano, Partito Popolare Italiano, Partito Democratico Sociale Italiano, Partito Socialista Riformista Italiano e Partito Agrario.

Il succedersi dei fatti è abbastanza conosciuto; Mussolini prepara la marcia su Roma, il Governo risponde con un mezzo non raro nella storia dell’Italia liberale, proclamando lo stato di assedio che consente l’impiego dell’esercito. Il re inizialmente accetta la scelta del Governo, ma il 28 ottobre, quando si tratta di passare ai fatti, si rimangia la parola e si rifiuta di avviare l’azione repressiva da parte dell’esercito del Governo. Il Presidente del Consiglio presenta le dimissioni, seguendo la consuetudine che fa capire come ancora nel 1920 la fiducia del sovrano sul Governo fosse ancora importante, il re accetta immediatamente. Questa è in estrema sintesi quello che è successo in quei giorni, ma gli svolgimenti e le implicazioni disegnano un quadro più complesso fin dall’organizzazione della marcia su Roma.

Per tutto il 1922 c’erano state già quelle che da molti storici sono considerate delle prove generali delle anticipazioni della marcia su Roma con l’occupazione di Bolzano, Trento, Bologna e altri centri minori che rinforzavano il ruolo politico militare del fascismo nel Paese. Il 26 settembre 1922 Mussolini si recò a Cremona tra l’entusiasmo delle camicie nere; dopo il consueto discorso introduttivo di Farinacci, parlò  il leader del fascismo: “È dalle rive del Piave che noi abbiamo iniziato una marcia che non può fermarsi fino a quando non abbiamo raggiunto la meta suprema: Roma”. Il 24 ottobre ci furono ulteriori prove generali con il grande concentramento di Napoli, il piano ormai consolidato era quello di conquistare prima la periferia come era stato su scala minore, ma questa volta l’obbiettivo era la capitale. Lo squadrismo voleva quindi forzare la mano a quella parte politica liberal-moderata monarchica, sostenuta dalla Confindustria che guardava con simpatia al fascismo, ma che avrebbe concesso in un Governo di centro-destra solo qualche ministero al fascismo. Divisa l’Italia in dodici territori, Mussolini e i quadrunviri lasciarono la grande manifestazione di Napoli, tutti avevano dei compiti precisi che dovevano svolgere in poco tempo tra il 25 e il 27 ottobre; inoltre il piano insurrezionale era stabilito in cinque tempi come ha  scritto  lo storico  Renzo De Felice:

1-Occupazione degli uffici pubblici delle principali città del Regno;

2-Concentramento delle camicie nere a Santa Marinella, Perugia, Tivoli, Monterotondo, Volturno;

3- Ultimatum al Governo di Facta per la cessione generale dei poteri dello stato;

4-Entrata a Roma e presa di possesso ad ogni costo dei ministeri. In caso di sconfitta le milizie fasciste avrebbero dovuto ripiegare verso l’Italia centrale, protette dalle riserve ammassate nell’Umbria;

5- Costituzione di un Governo fascista in una città dell’Italia centrale. Radunata rapida delle camicie nere della Vallata Padana e ripresa dell’azione su Roma fino alla vittoria ed al possesso.

Nel doloroso caso di un investimento bellico, la colonna Bottai (Tivoli e Valmontone) accerchierà il quartiere di S. Lorenzo entrando dalla Porta Tiburtina e da Porta Maggiore.  La colonna Igliori con Fara (Monterotondo) premerà da porta Salaria e da Porta Pia e la colonna Perrone (Santa Marinella) da Trastevere.

A partire dal 26 ottobre le squadre occuparono molte città dell’Italia settentrionale e centrale prendendo il possesso dei centri strategici come  le prefetture per poi muovere verso Roma. Le autorità dello Stato nelle diverse città non avevano disposizioni precise su come contrastare queste iniziative ed erano troppo abituate a lasciar correre:  gran parte cedettero pacificamente o vennero sopraffatte. L’azione vera e propria iniziò nella notte tra il 27 e il 28 ottobre. Alcuni dei comandanti di zona diedero le disposizioni attraverso delle apposite staffette ai comandanti locali e altri le diedero  in treno. L’ordine di mobilitazione comandava che questa avvenisse tra il 27-28 di notte, l’orario dipendeva dalla distanza dei vari luoghi dal capoluogo di provincia. Gli squadristi dovevano avere la tessera, dei viveri a secco per tre giorni ed essere  in assetto da guerra.

Il comportamento del re e del Governo in questa situazione mutò rapidamente; infatti se all’inizio sembrò a favore della proclamazione dello stato d’assedio e dette l’impressione di sollecitare Facta, in giro di breve tempo, come sostiene Renzo de Felice, rifiutò la firma del decreto. Questo cambiamento non è da ricercare in una preventiva intesa con Mussolini e si può escludere che i fascisti nella notte tra il 27 e il 28 ottobre abbiano fatto pressioni sul Re. La motivazione reale di questo cambiamento secondo Renzo de Felice bisogna ricercarla negli ambienti vicini a lui e sui quali riponeva fiducia tanto da influenzarlo, dato che il re era solo parzialmente a favore di Mussolini: inizialmente la sua idea era di non firmare lo stato d’assedio e di dare il governo a Salandra; è quindi ipotizzabile che avesse accettato solo metà della proposta suggeritagli.

Si arrivò quindi alla marcia su Roma con il Sovrano e il Governo senza una linea comune e questo creò solo confusione.

giovedì 23 ottobre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 23 ottobre.

Il 23 ottobre 2011, in un incidente durante una corsa di MotoGP, muore il pilota Marco Simoncelli.

Con la sua moto correva come un fulmine in pista, sempre con il gas al massimo, come tutti i suoi più illustri colleghi ed avversari. Tutti lo potevano riconoscere, senza casco, per quella sua irriverente folta e riccia capigliatura. Ma se c'era una caratteristica che lo faceva spiccare in mezzo a tutti, era proprio la simpatia, la grande amicizia che dimostrava con chiunque, fino ad arrivare a bucare radio e teleschermi per trasmetterla via etere. Ecco perché quando se n'è andato, in un tragico incidente occorso in gara il 23 ottobre 2011, ha lasciato sgomenti non solo colleghi e amici, ma anche ogni fan e ogni persona che l'aveva conosciuto attraverso i media. La sua ultima avventura in sella è stata quella di Sepang, circuito della Malesia che solo tre anni prima gli aveva regalato il titolo mondiale in classe 250.

Marco Simoncelli nasce a Cattolica (Rimini) il 20 gennaio 1987 e vive fin da piccolo a Coriano, un comune di circa diecimila abitanti sulle colline sopra Cattolica. Comincia a correre in tenerissima età, quando ha solo sette anni, in sella alle minimoto. A dodici anni è già campione italiano; l'anno dopo, nel 2000, gareggia per il titolo europeo arrivando secondo. A quattordici anni prende parte al Trofeo Honda NR (salendo in due occasioni sul podio) ed al campionato italiano 125 GP.

Nel 2002 si laurea campione europeo classe 125cc e lo stesso anno, dopo un buon apprendistato a livello nazionale ed europeo, debutta nel Motomondiale classe 125. Nel GP della Repubblica Ceca, con il team dell'Aprilia CWF - Matteoni Racing, corre al posto di Jaroslav Hule, passato alla classe 250. Termina la sua prima stagione al 33º posto con solo 3 punti.

E' il 2003 l'anno che vede Marco Simoncelli impegnato per un'intera stagione del motomondiale: corre in squadra con Mirko Giansanti, terminando la stagione al 21º posto.

Nonostante la stagione del 2004 si dimostri difficile dimostra grandi capacità nel gestire al meglio la moto sul bagnato: a Jerez ottiene la pole position e consegue la sua prima vittoria in carriera. Termina la stagione in 11ª posizione.

Dopo un altro gran premio vinto a Jerez e alti sei podi nel 2005, coglie l'opportunità di passare alla classe superiore e correre con le moto 250. Nel 2006 sale in sella alla Gilera RSV con capotecnico Rossano Brazzi, già tecnico in passato di campioni come Valentino Rossi e Marco Melandri, il quale però si ammala dopo le prime gare lasciandolo senza una vera "guida" durante tutta la stagione. Simoncelli si classifica decimo senza ottenere risultati eclatanti (il sesto posto in Cina è il miglior risultato).

Dopo un brutto 2007, povero di risultati il pilota romagnolo conosce finalmente una stagione esaltante: come sopra citato è Sepang, in Malesia, il circuito dove Marco Simoncelli, all'età di 21 anni, si laurea campione del mondo della 250; vince poi ancora a Valencia e corona una grande stagione, in cui totalizza 281 punti.

Durante la stagione 2009, partecipa alla quattordicesima prova del campionato mondiale Superbike sull'Aprilia RSV4 in sostituzione di Shinya Nakano. Il suo compagno di squadra è Max Biaggi.

Nel 2010 passa alla classe regina, la MotoGP, guidando la RC212V del team San Carlo Honda Gresini: il suo nuovo compagno di squadra è Marco Melandri. Ottiene come miglior risultato un quarto posto in Portogallo e termina la stagione all'8º posto con 125 punti.

Nel 2011 resta nello stesso team avendo però una fornitura uguale a quella ufficiale del team HRC, questa volta con compagno di squadra Hiroshi Aoyama. Ottiene due quinti posti e due pole position. Al GP della Repubblica Ceca arriva terzo e ottiene il suo primo podio nella classe regina. Al Gran Premio motociclistico di San Marino e della Riviera di Rimini 2011 Simoncelli ottiene un quarto posto dopo un finale di gara molto concitato durante il quale, negli ultimi 3 giri, lotta con il connazionale Andrea Dovizioso e con lo statunitense Ben Spies per mantenere la sua quarta posizione. In Australia "SuperSic" - così viene da tutti soprannominato - arriva secondo, registrando il suo miglior risultato in carriera in MotoGP.

Il 23 ottobre 2011 si corre il Gran Premio della Malesia: nel corso del secondo giro, la moto del pilota romagnolo perde aderenza alla ruota posteriore, cade e taglia trasversalmente la pista; i piloti che lo seguono da brevissima distanza non possono in alcun modo evitarlo: l'impatto delle moto con il corpo del pilota è di intensità tale che gli fa addirittura perdere il casco. Marco Simoncelli muore a causa del terribile colpo, che gli procura traumi a testa, collo e torace. Aveva 24 anni.

Dopo la sua morte tifosi e appassionati hanno promosso l'idea di intitolare la pista di Misano Adriatico alla memoria del pilota italiano, il quale viveva a pochi chilometri di distanza. Il 2 novembre 2011 il consiglio di amministrazione di Santamonica S.p.A., proprietaria del tracciato, ha deciso di accogliere la richiesta e di associare il nome del circuito romagnolo a quello di Simoncelli; il cambio di denominazione è stato ufficializzato il 9 giugno 2012, in occasione del Gran Premio di Superbike di San Marino. Inoltre, alla memoria di Simoncelli è stata realizzata a Coriano l'opera Ogni domenica dallo scultore Arcangelo Sassolino.

mercoledì 22 ottobre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi



Buongiorno, oggi è il 22 ottobre.

Il 22 ottobre 1441 ha luogo a Firenze il certame coronario.

Il Certame coronario fu una gara di poesia in lingua volgare ideata nel 1441 a Firenze da Leon Battista Alberti, con il patrocinio di Piero de’ Medici.

L’intenzione era quella di dimostrare come il volgare avesse piena dignità letteraria e potesse trattare anche gli argomenti più elevati, in un periodo che assisteva, col fiorire dell’Umanesimo, ad una forte ripresa dell’uso del latino. Alla gara, che aveva come premio una corona d’alloro in argento (da ciò il nome), parteciparono sia noti letterati dell’epoca sia rimatori popolari, che dovettero comporre testi sul tema “la vera amicizia“. Si svolse il 22 ottobre 1441 nella cattedrale di Santa Maria del Fiore e vi assistette un pubblico numeroso, nonché un gruppo di autorità civili e religiose della città.

Il premio non venne assegnato a nessuno dei poeti dicitori perché le opere non vennero ritenute degne, ma fu consegnato dai dieci segretari apostoloci di Eugenio IV, come si può desumere dal codice Palatino 215 della Biblioteca Nazionale di Firenze, alla chiesa dove si era svolta la gara.

Il fatto che la corona non venisse assegnata ad alcuno dei poeti in gara testimonia come la riabilitazione del volgare non fosse ancora del tutto matura; tuttavia il Certame coronario è indizio di una tendenza ormai in atto e irreversibile. Secondo Parronchi, che riprese una conferenza di Lanyi (1940), nell’occasione potrebbe essere stata donata al mecenate Medici la statua del David di Donatello come ringraziamento.

Nella seconda metà del secolo la ripresa letteraria del volgare avvenne in primo luogo a Firenze: e non c’è da meravigliarsi, poiché a Firenze la letteratura volgare aveva una tradizione illustre e prestigiosa, che poteva vantare veri e propri classici, come Dante, Petrarca e Boccaccio. Proprio a questa tradizione i poeti della cerchia medicea, Lorenzo il Magnifico in testa, si rifanno in cerca di modelli.

Un documento prezioso di questa attenzione alla tradizione volgare è la cosiddetta Raccolta Aragonese, un’antologia dei primi secoli della poesia toscana inviata nel 1476 da Lorenzo de’ Medici in dono a Federico d’Aragona. La lettera che funge da prefazione è firmata da Lorenzo, ma è quasi sicuramente di Angelo Poliziano. Oltre che a Firenze, però, il volgare riacquista dignità letteraria a Ferrara con Matteo Maria Boiardo e Pietro Bembo, a Napoli con Jacopo Sannazaro, Masuccio Salernitano e i poeti petrarchisti.

La ripresa del volgare è accompagnata anche dal ritorno a generi letterari consolidati come la lirica amorosa di ascendenza petrarchista, la narrativa cavalleresca di origine romanza, la novella boccacciana.

martedì 21 ottobre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 21 ottobre.

Il 21 ottobre 1944 ha luogo il primo attacco kamikaze di aerei giapponesi contro navi statunitensi.

I primi attacchi suicidi di piloti giapponesi vengono effettuati con un certo successo nelle Filippine dall’ottobre 1944. La parola kamikaze significa in giapponese “vento divino” ed è riferita a un leggendario tifone che si dice abbia salvato il Giappone da una flotta di invasione mongola inviata da Kublai Khan nel 1281.

Il ricorso a questa arma estrema era il risultato dello stato dell’aviazione nipponica negli ultimi 12 mesi di guerra. L’arma aerea del Sol Levante pativa una doppia inferiorità rispetto alla controparte americana: gli F4U Corsair e i  Grumman F6F Hellcat surclassavano sotto il profilo tecnologico gli aerei nipponici e soprattutto la generazione di piloti esperti e coraggiosi era stata praticamente spazzata via nel corso delle operazioni belliche.

Contro questa schiacciante superiorità americana i piloti nipponici male addestrati e che utilizzavano tattiche convenzionali andavano incontro a perdite pesantissime. Pianificando la propria morte come una certezza invece che come un’altissima probabilità i kamikaze erano tendenzialmente in grado di infliggere danni più pesanti alla marina americana, vulnerabile soprattutto sotto il profilo psicologico a questo genere di attacchi.

L’immagine di piloti giapponesi che partono entusiasti per andare a schiantarsi sui ponti delle navi americane è però sostanzialmente fasulla. Tra i primi piloti suicidi, nell’autunno del 1944, ci furono parecchi veri piloti volontari. Successivamente però le scorte di piloti fanatici si ridussero e molte reclute vengono convinte ad accettare questo incarico “senza ritorno” al prezzo di pressioni morali insostenibili quando non di vera e propria coercizione.

Kasuga Takeo che prestava servizio nella mensa ufficiale di Tsuchiura, una base di kamikaze, fu testimone dell’isteria e della profonda malinconia che dominavano le ultime ore di vita dei piloti. Gli aviatori si spostavano da una base all’altra con una piccola borsa di effetti personali tra le cui cose spiccava la biancheria contrassegnata con la dicitura “Effetti personali del defunto tenente comandante….” indicando la promozione postuma che spettava ad ogni pilota caduto in combattimento.

Per la marina americana combattere contro i kamikaze fu una delle esperienze più sanguinose e dolorose della guerra. Tra l’11 maggio e la fine di giugno 1945 gli aviatori giapponesi eseguirono 1700 sortite verso Okinawa. Giorno dopo giorno i marinai americani si mettevano ai pezzi per effettuare un fitto fuoco di sbarramento anti aereo che i piloti nipponici cercavano di evitare per schiantarsi sul ponte delle navi nemiche. Qualcuno però riusciva sempre a passare e si immolava sul ponte di volo di una portaerei o sulle sovrastrutture di un incrociatore con effetti devastanti quando la benzina si incendiava o le munizioni esplodevano. Il 12 aprile 1945 quasi tutti e 185 kamikaze furono abbattuti a fronte di 2 navi americane affondate ed altre 14 danneggiate, compreso 2 corazzate.

Il 16 fu colpita la portaerei Intrepid. Il 4 maggio i piloti kamikaze affondarono cinque navi statunitensi e ne danneggiarono altre 11. Tra l’11 e il 14 maggio furono colpite tre navi ammiraglie tra cui le portaerei Bunker Hill ed Enterprise. Dal 6 aprile al 22 giugno, in tutto il teatro di operazioni, ci furono 10 attacchi suicidi al giorno che riguardarono 1465 aerei più 4800 sortite convenzionali. I kamikaze affondarono 27 navi e ne danneggiarono 164 mentre gli attacchi convenzionali ne affondarono una soltanto, danneggiandone 63.

La percentuale di successo delle missioni suicide fu di circa il 20%, dieci volte superiore agli esiti degli attacchi convenzionali. Alla fine della seconda guerra mondiale il servizio aeronautico della marina giapponese aveva sacrificato 2.526 piloti kamikaze, mentre quello dell’esercito ne aveva sacrificati 1.387. Secondo fonti americane, approssimativamente 2.800 attaccanti kamikaze affondarono 34 navi della marina, ne danneggiarono altre 368, uccisero 4.900 marinai e ne ferirono oltre 4.800. Nonostante l’allarme dei radar, l’intercettazione in volo ed un massiccio fuoco antiaereo il 14% degli attacchi Kamikaze giungeva fino all’impatto contro una nave; circa l’8,5% delle navi colpite dagli attacchi kamikaze affondò.

I dati giapponesi sono un po’ più importanti. Resta il fatto che il sacrificio di quasi 4.000 giovani piloti giapponesi non ebbe alcun impatto strategico sull’esito della guerra e non risparmiò né i bombardamenti strategici ed indiscriminati sulle città nipponiche né tantomeno quelli atomici su Hiroshima e Nagasaki.

 

lunedì 20 ottobre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 20 ottobre.

Il 20 ottobre 1740 Maria Teresa sale al trono di Vienna.

Maria Teresa d'Austria nasce il 13 maggio 1717 a Vienna. Il padre è l'imperatore Carlo VI e la madre è Elisabetta Cristina di Brunswick-Wolfenbüttel. Nella giovinezza le viene impartita un'istruzione di alto grado e all'età di quattordici anni, pur non avendo ricevuto un'educazione politica, partecipa con il padre ai lavori del Consiglio della Corona. Nel 1736 Maria Teresa sposa secondo il rito cattolico Francesco Stefano, duca di Lorena.

Nel 1740 l'imperatore Carlo VI muore e Maria Teresa diventa imperatrice d'Austria, d'Ungheria e Boemia grazie alla "Prammatica Sanzione", atto contenente la clausola secondo cui, in caso di mancanza di figli maschi, la Corona imperiale sarebbe stata ereditata da una delle figlie dell'imperatore. Presto però l'imperatrice d'Austria inizia ad avere innumerevoli nemici, tra cui Elisabetta Farnese, Alberto di Baviera e Augusto III di Polonia.

Il primo vero attacco all'Impero asburgico è fatto dal re di Prussia, Federico II che occupa la Slesia. Inizia così la guerra di successione austriaca che vede come protagoniste anche Francia e Spagna. La situazione è difficile, ma con coraggio Maria Teresa riesce a recuperare i territori persi grazie al sostegno degli ungheresi. La guerra si protrae per altri sette anni, l'imperatrice ottiene il sostegno anche della Sassonia, preoccupata della grande forza dell'esercito prussiano, e le simpatie di Olanda e Inghilterra.

Nel 1742 Federico II firma con l'Austria una pace separata con cui riesce a mantenere una piccola parte della Slesia. La guerra è ancora in atto a causa delle mire espansionistiche della Spagna nei possedimenti imperiali in Italia e a causa della sete di conquista francese nell'area renana. La Spagna conquista la Lombardia, ma nel 1746 le truppe dell'imperatrice aiutate da quelle sabaude riescono a riprendere sotto il loro controllo il Nord-Italia. Nel 1748 la guerra di successione si conclude con la firma della pace di Aquisgrana, la quale attribuisce a Maria Teresa tutti i territori ereditati dal padre a eccezione della Slesia, di qualche territorio lombardo concesso a Carlo Emanuele III di Savoia in cambio del sostegno dato all'Impero asburgico contro spagnoli e francesi e dei ducati di Parma e Piacenza concessi a Filippo I di Parma.

Con la fine del conflitto, la sovrana consolida i suoi poteri, servendosi di un esercito forte e di una burocrazia alle sue dipendenze. Nei quaranta anni del suo regno l'imperatrice realizza tutta una serie di riforme politiche, sociali, economiche e finanziarie. Molto importante è ad esempio la riforma sociale del 1774 volta a introdurre l'istruzione primaria obbligatoria, finanziandola con i beni posseduti dalla Compagnia di Gesù, la quale viene soppressa.

Maria Teresa introduce il catasto, creato con l'intenzione di imporre le tasse anche sulle terre possedute dai nobili. La sovrana vuole creare un impero multiculturale, con l'obiettivo di unificare tutte i popoli sotto il dominio dell'Austria dal punto di vista politico, sociale, culturale. L'imperatrice emana anche il noto "Editto di tolleranza" che concede la libertà di culto, il diritto di possedere beni e di negoziare. Tra gli altri suoi provvedimenti vi sono ad esempio anche quelli volti a diminuire i poteri del Clero, a fissare l'età in cui potere ricevere i voti monastici a ventiquattro anni.

Durante il suo lungo regno sono realizzate all'interno dei territori imperiali numerose opere pubbliche e Vienna diventa una capitale culturale in grado di ospitare intellettuali e artisti di grande fama. Nel 1765 il marito Francesco I muore, per cui Maria Teresa si fa aiutare nella gestione politica dell'Impero dal figlio Giuseppe II, il futuro imperatore d'Austria.

Nell'ultimo decennio del suo regno, su suggerimento del figlio, attua una politica espansionistica, caratterizzata dalla spartizione della Polonia con la Russia, ottenendo la Lodomiria e la Galizia. L'Austria partecipa anche alla guerra bavarese, ottenendo nel 1778 il territorio dell'Innviertel.

Maria Teresa d'Asburgo muore a Vienna il 29 novembre 1780, lasciando la Corona imperiale nelle mani del figlio Giuseppe II.

Fu madre di sedici figli, tra cui gli imperatori Giuseppe II e Leopoldo II, nonché di Maria Antonietta, regina di Francia, e Maria Carolina, regina di Napoli e Sicilia.

domenica 19 ottobre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 19 ottobre.

Il 19 ottobre 202 a.C. ebbe luogo la battaglia di Zama tra le forze romane di Scipione e quelle cartaginesi di Annibale, che decretò la fine della Seconda Guerra Punica.

Ci restano due tradizioni sulla battaglia di Zama:

- una di Tito Livio (Patavium, 59 a.c. – Patavium, 17) e una di Polibio (Megalopoli, 206 a.c. – Grecia, 124 a.c.), seguita dalla maggior parte degli storici moderni,

- l'altra di Appiano (Alessandria d'Egitto, 95 – 165) e Cassio Dione ( Nicea, 155 – 235), meno attendibile e meno seguita.

Le differenze tra le due versioni sono notevoli, differendo per i luoghi, i tempi, le strategie e i numeri. I testi storici antichi, ma pure quelli moderni, non sempre erano attendibili, perché ciò che è riferito muta nel tempo arricchendosi di variazioni anche inventate, ma pure quando si tratti di documenti scritti da generali, la tentazione di incensarsi un po' era grande, o perché volevano osannare i romani per far piacere agli imperatori. Nei resoconti di Zama si ha qualche perplessità.

Scipione era un genio della strategia, forse pari o comunque vicino al grande Giulio Cesare. Anche Annibale però fu un grandissimo stratega e tra i due uomini vi fu sempre un grande rispetto reciproco, non consueto per Annibale che spesso disprezzava i suoi nemici romani.

Scipione si recò fino ai pressi di Narraggara, vicino Zama, e annunciò ad Annibale che si poteva iniziare a discutere del luogo migliore per i colloqui. Annibale seguì Scipione verso ovest, spostando il proprio campo nei pressi di Sicca Veneria. Entrambe le armate erano lontanissime dalle loro basi, ma mentre per Annibale Hadrumentum sarebbe stata un rifugio sicuro in caso di sconfitta, per Scipione i Castra Cornelia erano solo un punto di imbarco.

Come narrano Polibio e Livio, Annibale cerca di convincere Scipione a non rischiare una sconfitta, ma di stipulare una pace più giusta per Cartagine, perché "oggi sei tu quello che io fui a Trasimeno e a Canne" (Livio XXX 30 12).

Annibale ha 45 anni, con molta più esperienza di Scipione che ha solo 33 anni, ma che in realtà sta nell'esercito da 16 anni. E' giovane, risoluto, ammira Annibale di cui riconosce il valore tattico ma comunque è certo di poterlo battere. Scipione chiede la guerra e guerra fu…

Il luogo della battaglia di Zama non è certo; è stata di recente collocata a Naraggara (per es. da De Sanctis) o a Margaron (da Veith); ma senza prove inoppugnabili.

La legione romana era generalmente schierata “a scacchiera” su tre file di combattimento divise in manipoli. La prima fila era formata dai manipoli degli hastati, intervallati dallo spazio di un manipolo; dietro al quale si locavano i manipoli dei principes, che si schieravano sulla seconda fila; l’ultima fila era formata dai triarii che coprivano gli intervalli lasciati vuoti dai manipoli dei principes.

Gli hastati e i principes, sempre piuttosto giovani, erano equipaggiati con un elmo di bronzo, una corazza e un grande scudo ovale. L'armamento era composto di due giavellotti di peso diverso (s. pilum - pl. pila) e da una spada corta per il corpo a corpo dopo avere scagliato i giavellotti.

La fanteria leggera era costituita dai velites, soldati giovanissimi a supporto del manipolo. Portavano un elmo di bronzo, spesso coperto da una pelle di lupo, uno scudo rotondo (Parma), alcuni giavellotti leggeri e una corta spada di tipo italico o spagnolo come quella dei fanti pesanti.

I legionari meno giovani formavano i manipoli dei triarii che nello schieramento della legione erano disposti in terza fila. Erano equipaggiati come i principes e gli hastati, ma al posto del pilum avevano una lunga lancia di tipo oplitico. I triarii erano una riserva mobile alle spalle della legione, o per respingere con le lunghe aste gli attacchi dei cavalieri nemici, o per attaccare i fianchi o il retro delle formazioni avversarie.

L’esercito cartaginese era formato da truppe mercenarie reclutate tra le popolazioni soggette al dominio cartaginese. Popoli diversi con lingue diverse e diversi stili di combattimento. Nella II guerra punica vennero reclutati nell’entroterra africano, come i famosi cavalieri leggeri numidi, e la fanteria pesante libo-fenicia, nonché i coloni iberici, con un'ottima fanteria medio-leggera e una buona cavalleria.

Le vittorie di Annibale in Italia fecero accorrere nel suo esercito i Galli della pianura padana e molti Italici del centro-sud.

Nel corso della campagna di Annibale, le sue truppe spesso si riequipaggiarono con il materiale catturato ai Romani sul campo di battaglia, e saranno questi i suoi “veterani” a Zama.

Annibale, come Scipione aveva previsto, lanciò la carica degli elefanti. 

Però i romani avevano avevano già avuto a che fare con questi giganteschi animali; che se da un lato si lanciavano pungolati dai loro padroni, dall'altro si frastornavano se udivano suoni forti e acuti.

Infatti i romani iniziarono a trarre suoni acutissimi dalle trombe, batterono sugli scudi e innalzarono alte grida, al che gli elefanti si imbizzarrirono.

Così gli animali fuggirono volgendosi contro la cavalleria numidica dell'ala sinistra cartaginese che si scompaginò. Scipione ne approfittò mandando Massinissa, che era stato posto di fronte a questa, con i suoi cavalieri, per sbaragliare gli avversari già disorientati..

Tuttavia qualche elefante non imbizzarrito proseguì la corsa iniziale avventandosi sui romani. Subentrarono allora i veliti a bersagliare da distanza i pachidermi, che per sfuggire ai dardi, cercarono di fuggire, trovando aperti gli spazi che i manipoli degli hastati romani avevano liberato, tirandosi di lato e creando dei corridoi nello schieramento romano.

Una strategia simile a quella di Annibale l'aveva usata il re indiano Poro contro l'esercito macedone di Alessandro Magno nella battaglia di Idaspe, ponendo gli elefanti in prima linea.

Comunque i Romani già conoscevano gli elefanti: infatti, nella battaglia di Benevento (275 a.c.) riuscirono ad avere la meglio sulle truppe epirote e tarantine, facendo scagliare dai propri arcieri frecce infuocate e torce contro le torri montate dagli elefanti, in modo da far imbizzarrire i pachidermi e creare così scompiglio tra le stesse truppe amiche (Floro, I, XVIII).

(Livio e Polibio riferiscono che ottanta elefanti furono utilizzati da Annibale nella battaglia di Zama, undici dei quali furono poi portati a Roma. Tra le condizioni di pace imposte ai Cartaginesi, Polibio ci informa che era richiesta anche la consegna di tutti gli elefanti.)

Colpiti dai veliti, che si erano riparati dietro le file degli hastati, e dai principes, questi elefanti fuggirono addosso all'altra ala della cavalleria cartaginese.

Le prime file di Annibale come previsto arretrarono fra le seconde file, mentre la cavalleria fuggì inseguita da Massinissa e Lelio.

La cavalleria romana in effetti non temeva rivali, i cavalieri sapevano tirare da cavallo, salire o scendere al volo, sapevano far fare grossi salti ai cavalli e pure comandarli con la voce.

Gli astati romani ebbero la meglio sulla prima linea cartaginese (del resto erano quasi tutti mercenari), che iniziò ad arretrare. 

Ma la seconda linea formata dai veterani di Annibale resistette e ingaggiarono i corpo a corpo della fanteria. Alla fine gli astati di Scipione erano stanchi per cui subentrarono i principi che contrattaccarono seriamente.

Scipione tentò di ripetere la manovra dei Campi Magni e mosse le sue file di principi e triari sui fianchi per accerchiare le forze di Annibale, ma i veterani che Annibale teneva di riserva nella terza linea, ne rimasero fuori, e Inoltre lo spazio tra loro e i romani era disseminato di cadaveri, formando una barriera invalicabile.

Scipione dovette rinunciare e far retrocedere le seconde file per reggere l'urto dei cartaginesi. Inoltre i corridoi creati per far fuggire gli elefanti, non permettevano l'utilizzo della tattica manipolare, che necessitava di una disposizione a scacchiera. Perciò, gli hastati furono i più penalizzati nell'urto del combattimento. 

Ora la battaglia per i romani era diventata molto dura, e i fanti erano stanchi.

Aveva si fatto compiere ai suoi legionari il movimento sui fianchi, già utilizzato con successo in precedenza, ma questa volta solo per estendere da entrambi i lati il fronte degli hastati, non per aggirare il nemico.

Così il fronte romano risultò pari o di poco superiore a quello cartaginese ma con principes e triarii, finora poco impegnati, che si trovarono a combattere sulle ali contro forze più stanche, anche se gli hastati, impegnati finora nello scontro, dovevano ora vedersela con i veterani cartaginesi ancora freschi.

La manovra geniale di Scipione aveva esteso il suo fronte, assottigliando i ranghi fino a coprire tutto il fronte punico, evitando così un possibile accerchiamento da parte dei cartaginesi… Però ora i romani dovevano arrivare allo scontro frontale con un nemico che li soverchiava per numero e per la maggiore freschezza.

La cavalleria avversaria era dispersa, ma pure quella di Scipione che li inseguiva e che venne tosto richiamata. Finalmente tornarono Lelio e Massinissa con i loro cavalieri e si avventarono alle spalle delle forze cartaginesi, accerchiandoli e massacrandoli. Annibale aveva contato di poter fiaccare i romani sullo scontro con ben tre linee: elefanti, mercenari, e soldati cartaginesi, prima di arrivare al confronto decisivo con i veterani dell'ultima linea, dove i romani dovevano essere ormai stanchissimi.

Ma i legionari romani non erano soldati qualsiasi. Non era la leva dei contadini che abbandonavano il campo per una guerra tornandovi l'anno dopo. Erano volontari scelti e addestrati in tutti i modi e con tutti i tempi. 

Scipione, come Cesare, addestrava i suoi uomini col sole e con la pioggia, e magari con la neve, di giorno e di notte, con un compito molto specialistico per ciascuno ma in grande sintonia con gli altri.

La legione romana era un corpo unico e come tale funzionava senza personalismi o privilegi. 

I romani sapevano combattere bene e a lungo, e i veterani di Annibale non poterono competere con quelli di Scipione, seppure più stanchi. 

Come al solito i romani ebbero la meglio.

Finita la battaglia iniziò I 'inseguimento e il massacro, come era accaduto a Canne sui romani, ma stavolta era sui cartaginesi…

Annibale riuscì a fuggire verso Cartagine. Scipione aveva avuto la sua battaglia campale e come ne aveva avuto in anticipo la certezza, aveva vinto.

Cartagine era finita.

La vittoria di Zama pose fine alla II guerra punica (219-202 a.c.) e sancì il crollo della potenza cartaginese nel Mediterraneo.

Cartagine che per sessant’anni aveva conteso a Roma il predominio sul Mediterraneo occidentale, era sconfitta per sempre.

Roma non fu tenera con la sua rivale:  le fece smantellare completamente la flotta da guerra, consentendole solo poche decine di navi, tutte le colonie cartaginesi in Spagna passavano al dominio romano; in più Cartagine doveva pagare un pesantissimo tributo che per cinquant'anni avrebbe gravato sulla sua economia.

Mezzo secolo dopo ci sarebbe stata una III guerra punica, culminata con la distruzione di Cartagine, ma fu la vendetta su di un rivale già distrutto.

Per paura della vendetta romana la città costrinse il grande Annibale, il vincitore di tante battaglie, ad andare in esilio presso il re di Siria Antioco III; ma dopo la sconfitta di quest'ultimo contro i Romani in Bitinia, Annibale si avvelenò per non essere consegnato a Roma.

sabato 18 ottobre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 18 ottobre.

La notte del 18 ottobre 1534, i protestanti francesi pubblicarono proclami contro la Messa in varie parti del paese e persino sulla porta della stanza di Francesco I ad Amboise.

Fu la prima manifestazione di ostilità tra protestanti e cattolici in Francia. Venticinque anni dopo, condusse alle guerre di religione…

Nata in Germania circa quindici anni prima, la Riforma luterana era entrata lentamente in Francia. Nel 1522, un monaco francese scomunicato si  sposò a Wittenberg, la "Roma" della nuova religione. Altri chierici seguirono le sue orme e formarono la nuova dottrina che tornarono a insegnare in Francia.

Contro questi eretici, i teologi della Sorbona e del Parlamento adottarono una vecchia ricetta, usata anche contro la stregoneria: la pira.

Il primo a pagare il prezzo, l'8 agosto 1523, di fronte a Notre-Dame de Paris, fu un ex monaco di Livry-en-Aulnois (ora Livry-Gargan), Jean Vallière. A Meaux, a est di Parigi, Jean Leclerc, un ex cardatore di lana, fu torturato e ucciso il 29 luglio 1525. Ma la maggior parte dei processi per eresia ebbero un esito meno tragico.

La notte del 10 giugno 1528, la mutilazione di una statua della Vergine (i protestanti sfidarono il culto rivolto alla madre di Cristo) commosse i parigini e il re. Francesco I stesso condusse una processione di espiazione. Il passare degli anni ammorbidì gli animi, ma inaspettatamente  il "caso dei manifesti", che minava l'istituzione ecclesiastica e, di conseguenza, la monarchia per diritto divino, riportò a una recrudescenza dei malumori.

Questi manifesti furono scritti da Antoine Marcourt, un pastore di Neuchàtel, Svizzera, un seguace di Ewingli, e stampati nella stessa città.

Su di essi era scritto: "Veri articoli sugli orribili, grandi e insopportabili abusi della Messa papista, inventati direttamente contro la Santa Cena di Nostro Signore, l'unico mediatore e salvatore Gesù Cristo".

I manifesti insultavano la religione cattolica, il suo clero e i suoi riti in termini così offensivi che anche i protestanti li disapprovarono. Così denunciavano la Messa: "Non dobbiamo ripetere il sacrificio di Cristo" e il dogma dell'Eucaristia che afferma la presenza reale del corpo di Cristo nell'ospite consacrato: "Non può essere che un uomo di venti o trent'anni sia nascosto in un pezzo di pasta".

Non è il re stesso "re per grazia di Dio", l'unico laico autorizzato alla comunione con pane e vino, al momento dell'incoronazione? L'idea che tutti i seguaci di Lutero si permettano la comunione contribuì ad accrescere la sua rabbia.

Per rappresaglia, il re giurò di reprimere i "mali della fede". Emise un bando che prometteva 200 scudi  a chiunque avesse denunciato gli autori dei manifesti: gli arresti si moltiplicarono.

Il 13 novembre fu bruciato un primo eretico. Il 13 gennaio 1535, il Parlamento di Parigi creò una commissione speciale, la "camera ardente" per rintracciare libri sediziosi. Un editto reale vietò la stampa e chiuse le librerie. Fu il primo atto di censura dall'invenzione della macchina da stampa.

Infine, il 21 gennaio 1535, un giorno di solenne espiazione terminò con la morte sul rogo di sei nuovi eretici protestanti. La sera stessa, il re dichiarò davanti a un'assemblea di notabili: "Se il mio braccio fosse stato infettato da tale marciume, lo avrei separato dal mio corpo".

Il giurista Jean Calvin, padre del Calvinismo, che viveva a Nérac, sotto la protezione della sorella del re, Margherita di Navarra, si vide improvvisamente in pericolo. Preferì rifugiarsi a Basilea, dove pubblicò L'Istituzione della Religione Cristiana nel tentativo di convincere il re dei meriti della Riforma.

A quel punto, la rabbia del re svanì, specialmente sotto l'influenza di sua sorella, che era vicina ai circoli protestanti. Il 29 luglio 1535, mentre rafforzava la sua alleanza con i principi protestanti di Germania contro il suo rivale Carlo V, pubblicò l'editto di Coucy, che emise un'amnistia generale.

Un nuovo colpo di scena si ebbe con un editto pubblicato a Fontainebleau nel 1541, che ordinò agli inquisitori di riprendere la caccia agli eretici. Nel 1546, il parroco di Meaux, fratello del martire Jean Leclerc, fu arrestato e condotto al rogo insieme ad altri tredici fedeli.

Tra il 15 e il 20 aprile 1545, Francesco I acconsentì al massacro di 3000 Valdesi che vivevano nel sud della Francia. Circa 20 villaggi furono devastati, su ordine del parlamento di Aix. 600 sopravvissuti vennero inviati nelle galere.

Questa azione offuscò gli ultimi anni del re, che morì due anni dopo con, si dice, un forte rammarico per questa decisione.

La scomparsa di Francesco I fu seguita da una breve tregua, ma l'intolleranza religiosa riacquistò il sopravvento dopo la morte del suo successore Enrico II e portò alle guerre di religione.

venerdì 17 ottobre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 17 ottobre.

Il 17 ottobre 1860 si disputa il primo Open Championship di Golf.

Sport tipicamente anglosassone, dove anche gli italiani iniziano a distinguersi sempre più, ma la storia è lì: il 17 ottobre 1860, al Prestwick Golf Club, si disputa la prima edizione del “The Open championship”. Per tutti è il British Open, uno dei quattro tornei “Major”. Il terzo nel calendario golfistico annuale, ma il primo in assoluto se consideriamo la sua storia. E, soprattutto, talmente prestigioso e universalmente riconosciuto da essere l’unico “Major” che si disputa al di fuori dei confini statunitensi.

La prima edizione, naturalmente, non ha nulla a che vedere con il ricco torneo che si disputa ora nel mese di luglio. La prima edizione viene disputata su 36 buche, un’unica giornata di gara, tra otto atleti che vogliono stabilire chi è il più bravo dopo la scomparsa di Allan Robertson che, da tutti, era indicato come il migliore in circolazione. Il successo sarà di Willie Park che, per due colpi, riuscirà ad avere la meglio su Tom Morris. Sarà un’edizione del tutto speciale, visto che dall’anno successivo, il 1861, il torneo apre anche ai non professionisti (di qui l’appellativo di Open).

Negli anni non mancheranno le novità. Tra le maggiori l’aggiunta di altri club finché, dal 1920, il British Open finisce esclusivamente nelle mani del Royal and Ancient Golf Club di Saint Andrews. Nel frattempo, dal 1892, l’Open non rimane confinato alla 36 buche, bensì si passa alle 72. E, nel 1898, per la prima volta si passa all’introduzione del “cut”, ovvero del taglio dei giocatori più indietro nella graduatoria, al termine dei primi due giri.

Malgrado l’unico organizzatore, tuttavia, il British Open al giorno d’oggi prevede ben nove campi da gioco che, a rotazione, si alternano quale sede della manifestazione.

Uno di questi, il Carnoustie Golf Links, non molto distante da Dundee, a noi dice qualcosa in particolare: è il campo dove si è disputata l’edizione 2018 che ha visto il trionfo di Francesco Molinari. Un successo che lo porta direttamente nella storia di questo sport, primo italiano di sempre non solo a vincere il British Open ma, addirittura, ad aggiudicarsi un “Major”.

giovedì 16 ottobre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 16 ottobre.

Il 16 ottobre 2002 viene inaugurata ad Alessandria d'Egitto la nuova Biblioteca Alexandrina, a ricordo della grande biblioteca dell'antichità.

La Biblioteca di Alessandria ha origini molto antiche. Essa infatti fu opera dei Tolomei e in particolare di Tolomeo I. Egli diede l’ordine di costruire la Biblioteca di Alessandria, nel III Secolo a.C.. In quel momento, infatti, aveva in mente un progetto particolarmente arduo cioè quello di custodire tutta la sapienza umana, rendendo così questo posto un fiore all’occhiello nonché la culla della cultura dei paesi del Mediterraneo.

L’idea iniziale era quella di conservare le nozioni attraverso la scrittura e raccogliere in veri e propri volumi partendo dall’Antica Grecia con le celeberrime opere di Aristotele.

La realtà però fu molto diversa. Infatti, fu solo Tolomeo a capire quanto fosse utile conservare il sapere, cristallizzandolo, non solo per i colti del tempo ma soprattutto per tramandarlo intatto alle generazioni future.

Anche se fino ad allora la conservazione dei testi veniva comunque effettuata, essa era riservata solo agli scribi o ai sacerdoti che avevano le competenze adeguate, con pergamene e papiri.

Tolomeo prese ispirazione dalla biblioteca aristotelica, fu proprio un greco a collaborare con lui per realizzare questo progetto. L’idea era quella di mettere a disposizione tutti i testi per un pubblico molto più vasto, infatti si credeva già allora nel forte potere della cultura, dunque si voleva arrivare a istruire il popolo rendendolo saggio e sapiente.

La Biblioteca di Alessandria era molto estesa e presentava una struttura che comprendeva al suo interno anche un museo. Essa era situata nell’area che ospitava il Palazzo dell’Imperatore.

Nel museo venivano custodite per lo più le critiche alle opere presenti nella biblioteca. La crescita della popolarità di questa magnifica struttura andava di pari passo con l’aumento delle raccolte, non solo quelle classiche greche ma anche le più moderne pseudo scientifiche.

Il nome del primo custode, nonché bibliotecario fu Zenodoto di Efeso, in seguito a lui successe un poeta molto famoso ancora oggi cioè Callimaco, il quale ebbe la grande idea dell’inserimento di un apposito catalogo per trovare le opere da leggere e studiare, dato che il numero delle raccolte presenti era sempre più vasto.

Alessandria grazie a questa struttura divenne una vera e propria culla per la cultura classica, infatti divenne una tappa fissa per tutti i poeti e gli scienziati del tempo.

Durante il corso degli anni, questo suggestivo luogo fu cornice di numerosi incendi e ricostruzioni. Il primo avvenne nel 48 a.C., sotto l’impero di Giulio Cesare. Fonti ufficiali sostengono che solo una parte dei testi conservati andò bruciata durante un tragico incendio.

Il secondo evento che portò alla parziale distruzione della biblioteca fu l’attacco di Aureliano contro la regina Zenobia di Palmira del 270 d.C. In quell’occasione, gli scontri portarono alla distruzione dell’intero quartiere in cui aveva sede la biblioteca.

Purtroppo la gloria di questo posto era destinata a decadere, e con l’avvento dei romani venne incendiata per la terza volta un’area della biblioteca, per poi susseguirsi tutta una serie di saccheggi e danni dolosi fino alla totale distruzione dopo il 300 d.C. da parte dei turchi.

Nel 391 d.C., infatti, fu emanato l’editto dell’imperatore romano Teodosio I, il quale stabilì la distruzione di quella che veniva chiamata saggezza pagana custodita e promulgata dai testi.

I resti della biblioteca poi si sono conservati nel tempo, nonostante l’incendio abbia avuto notevole importanza, in quanto alimentato dai volumi stessi. Dopo la distruzione è rimasta nel tempo, nell’immaginario collettivo, l’idea di questo luogo come culla della cultura.

Nel 2002 è stata inaugurata una nuova biblioteca. La costruzione di essa è stata gestita da architetti di tutto il mondo che hanno saputo creare una miscela tra classico e moderno, tradizione e prospettiva per il futuro, per dare a questo luogo finalmente la vita che merita.

Negli anni si sono anche susseguite diverse teorie e leggende sulla distruzione di questo luogo che sembra aver acquisito una connotazione mistica.

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