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venerdì 5 maggio 2023

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 5 maggio.
Il 5 maggio 1946 nasce la schedina della Sisal.
Prima del gioco globale, teleplanetario, e delle cento lotterie informatizzate, dei tornei quotidiani e dei multipli jackpot feriali, la gloriosa schedina - tatuata Totocalcio e Lamette Bolzano - ha navigato in solitaria anni d’autentico miracolo, regnando su domeniche italiane di puro incanto e sigillando, lei sola, i novanta minuti dagli stadi, scanditi dalle voci vorticose dei radiocronisti - «grazie Ameri, a te Ciotti» - fino al rendiconto algebrico della colonna vincente. Fino al montepremi che da qualche parte, in un bar, in una cucina al neon, avrebbe avverato tutti i sogni sognabili grazie a una parola d’azzardo innocuo, casalingo e al tempo stesso favolosa: Tredici.
Ma ora che la schedina ha concluso la sua lunga vita, ci si ricorda ancora delle stagioni d’oro - 34 miliardi di lire il record di una domenica nel 1993, neppure 1 milione di euro le schedine prima che scomparisse definitivamente nel 2022.
La schedina prevedeva dodici pronostici, una sola colonna, trenta lire per la giocata, l’equivalente di un Vermut. Il campionato di calcio   viene   dal mondo di prima. Porta la luccicanza del grande Torino di Valentino Mazzola che vincerà tutto, prima della catastrofe. Della Nazionale di Angelo Schiavio e di Silvio Piola. Ma il gioco dei pronostici è nuovo di zecca. È semplice come la vita.
Attraente come una scommessa. Imponderabile come il destino. Si chiama Sisal. Si pronuncia 1, 2, X, schedina.
La schedina compare come un fiore di carta quasi gialla tra le macerie d’Italia, dopo gli inverni di polvere e di morte, nella seconda primavera del nuovo inizio, mentre si ascolta il primo boogie-woogie nei cortili, si ricostruiscono i tetti e i ponti, ci si divide la minestra. L’Italia è talmente povera che il suo presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi, in partenza per la conferenza di Parigi, deve farsi prestare il soprabito dal ministro Piccioni.
Senza quella povertà così completa non si capirebbe l’imminente trionfo del nuovo gioco a premi. La pace ha appena vinto in casa: Uno. La guerra ha perso: Due. La vita si è rimessa in pari col destino: Ics. Si ricomincia sul verde ancora scolorito dei campi. Il pallone è di cuoio marrone. Gli atleti hanno la faccia scavata, però allegra.
Se l’è appena inventata un tipo elegante e sveglio, Massimo Della Pergola, con due amici e 300mila lire di capitale. Massimo Della Pergola all’epoca ha una trentina d’anni e una storia da film alle spalle. È nato a Trieste. Fa il giornalista sportivo. È ebreo.
Quando fugge dai tedeschi e dalle leggi razziali, il suo ex giornale, Il popolo di Trieste, titola: «Della Pergola espulso. Si respira aria nuova». Lui scappa a Firenze travestito da mendicante. Poi da Milano in una notte di coprifuoco. Recupera la moglie e il figlio piccolissimo. Approda sul lago di Como. Un paio di spalloni lo accompagnano sino al confine. Entra in Svizzera a piedi la sera di Natale del 1943. Finisce in un campo di prigionia. L’accusa di espatrio clandestino è il suo salvacondotto. La pena da scontare la sua salvezza.
Racconterà che lavorava nel campo di Pont de la Morge come manovale alla bonifica delle sponde del Rodano. Che portava cucito addosso il numero 21915 e che «per reagire alle sofferenze e a quello stato d’animo di sentirmi un numero» pensava alla sua passione, il calcio, e agli stadi bombardati e a quando sarebbe potuto rinascere lo sport in Italia. Pensava a dove e come si sarebbero rintracciati tanti soldi per innaffiare l’erba dei nuovi campi bruciati dalla guerra e le caviglie fragili dei ragazzi prossimi venturi. A come far rifiorire il tifo.
Finché non ebbe l’idea: un concorso milionario e un sogno domenicale in cambio di uno spicciolo leggero quanto un aperitivo per dissetare lo sport.
Così quella prima domenica di maggio del ‘46 - mentre a Torino sfilano gli ex partigiani coi gonfaloni e a Roma c’è il comizio dei monarchici al Palatino - sotto al cielo appiccicoso dei bar compaiono 5 milioni di schedine. L’incasso non arriva a 2 milioni. E il montepremi quasi non si vede, 463.146 lirette, tutte giocate tra le macerie, i sacchi di farina, e l’ironia dei giornali.
Dirà Della Pergola: «Nessuno ci credeva alla mia Sisal. Quando andavo al Coni dicendo che con quei soldi si sarebbero ricostruite le piste di atletica, le palestre, gli stadi, mi sfottevano: è arrivato quello dei regali milionari, ecco a voi babbo Natale. Ma io ero deciso, ero un idealista».
Un idealista che però conosce gli italiani. Sa che la febbre del gioco ha una sua forza autonoma. Che la speranza settimanale è contagiosa. Perciò il montepremi cresce. Le schedine entrano nel paesaggio quotidiano del tempo libero maschile, come le giocate del Lotto, come le tappe del nuovo giro d’Italia con Bartali in testa, come il ramino o le Alfa senza filtro.
E anche quando scompaiono dai bar, riaffiorano sui banconi dei barbieri: alimentano le discussioni sulle prossime partite, moltiplicano le contese, ripuliscono i rasoi.
In due stagioni la Sisal triplica gli incassi, conquista gli italiani, e tutta intera l’attenzione dello Stato. Il presidente Luigi Einaudi la nazionalizza con un decreto, anno 1948. Il ministero la ribattezza Totocalcio, le assegna 13 squadre. Della Pergola protesta, chiede un indennizzo, fa causa, ma è una partita di carte bollate all’italiana, si trascina senza reti per sei anni, poi amen, neanche le scuse.
Ma non è che Della Pergola ci perda l’anima e il buon umore. La sua creatura funziona a meraviglia e cresce come l’economia, il reddito, le strade. Il Coni d'ora in avanti incassa un terzo delle giocate.
Un terzo va all'erario. L'ultima fetta ai vincitori.
I titoli dei giornali lanciano i nuovi milionari della domenica. Il Cinegiornale intervista il minatore sardo Giovanni Mannu, 77 milioni di vincita, che alza le  braccia  come un atleta quando s’accendono i flash e lo speaker grida: «Eccolo a Roma mentre ritira il primo milione di anticipo».
O il bigliettaio della Salemi-Messina Giovanni   Cappello che fa frusciare i pacchi di diecimila lire formato lenzuolo. O la signora Giovanna Taoro che «contro il parere del figlio e del buon senso» ha dato l’Inter sconfitta a Catania e adesso incassa 60 milioni.
Nei primissimi anni c’è ancora qualcuno che scrive sul retro della schedina cognome, nome e indirizzo, come all’anagrafe, poi si smagano tutti, per via dell’odiato ministro Vanoni, predatore di tasse nascoste. In televisione nasce il nuovo tormentone del lunedì la caccia al tredicista fuggitivo: «Si insegue uno zoppo con un soprabito verde. Forse è un ex carcerato. Forse il giornalaio. L’indiziato nega».
I rotocalchi inquadrano facce di contadini con occhi sbarrati su titoli a scatola: «Cento milioni di felicità», con l’elenco dei sogni da realizzare, il matrimonio, l’automobile, la cucina americana, il bar da comprare, il milioncino «alla nonna e ai parenti tutti». Ma poi a seguire anche esiti meno edificanti e più realistici, tipo: «Quei 150 milioni che mi hanno rovinato la vita», magari con un sovrappiù di moralismo che disseta le invidie, ma che in fin dei conti non dissuade nessuno.
Con il Miracolo economico la schedina diventa uno degli emblemi del sogno consumista, una serratura a portata di mano. Entra nella commedia all’italiana come le bionde, la spider, la spiaggia.
Scrive lo storico Giuseppe Imbucci: «Il Totocalcio e la sua schedina trasportata dal vento, così come appariva in una famosa pubblicità, sono stati una delle scorciatoie di questa nuova etica dei consumi. Un’ideale ricchezza straripante e milionaria».
Tanto reale da avverarsi ogni settimana e lentamente moltiplicarsi fino agli anni stellari, gli Ottanta e specialmente i Novanta, quando distribuisce fino a mille miliardi di premi all’anno. II declino comincia da quelle vette, per ridondanza di troppi trionfi. Per moltiplicazione dei concorsi, Intertoto, Totogol, per i montepremi astronomici del Superenalotto, per la legalizzazione delle scommesse, per gli ascolti televisivi che si nutrono di nuovi campionati, nuovi trofei con incognite da calcolare.
L’immensità della tavola da gioco internettiana ha finito col rendere residuale quella promessa di fortuna impaginata in un solo rettangolo di carta. Massimo Della Pergola, che se n’è andato nel 2006, sempre con quel suo mezzo sorriso in faccia diceva: «No, non ho mai giocato in vita mia».
Contento però di avere vinto l'unico montepremi che contasse, quando si sentiva un numero da nulla e così infelice da inventarsi un destino con tre variabili, perpetuo. O quasi.

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