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domenica 28 maggio 2023

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 28 maggio.
Il 28 maggio 1980 viene ammazzato Walter Tobagi, giornalista di punta del Corriere della Sera.
La carriera giornalistica di Walter Tobagi cominciò al ginnasio come redattore della Zanzara, il celebre giornale del liceo milanese Parini. Dopo il liceo, entrò all’Avanti! di Milano, ma pochi mesi dopo passò al quotidiano cattolico Avvenire. Furono anni di pratica alla scuola di “cronista sul campo” che lo portarono prima al Corriere d’Informazione e infine al Corriere della Sera. Il suo interesse prioritario era per i temi sociali, l’informazione, la politica e il movimento sindacale. Ma il suo impegno professionale maggiore Tobagi lo dedicò alle vicende del terrorismo. Al Corriere della Sera seguì tutte le vicende relative agli “anni di piombo”. Uno dei suoi ultimi articoli sui terroristi rossi è considerato tra i più significativi sin dal titolo: “Non sono samurai invincibili”.
Walter Tobagi – 33 anni, moglie e due figli, scrittore e docente universitario, presidente dell’Associazione lombarda dei giornalisti – venne ucciso alle 11 di mattina sotto casa con cinque colpi di pistola da un gruppo di assassini della Brigata 28 Marzo poco dopo essere uscito di casa. A sparare furono Marco Barbone e Mario Marano.
Gli assassini furono catturati in fretta e ancora più in fretta uscirono di galera perché al tempo era così: se parlavi, a prescindere da cosa dicessi, ti davano una pacca sulle spalle e ti lasciavano andare. Erano ragazzi borghesi, figli di dirigenti e di giornalisti, stupidi, conformisti e quindi fatalmente brigatisti o qualcosa del genere, comunque comunisti e smaniosi di segnalarsi ai compagni armati. L’esatto contrario di Tobagi che, pur essendo poco più che trentenne, non aveva mai seguito le mode, neppure quelle ideologiche, e si dedicava al lavoro con slancio e passione. Era già un buon motivo, dato il clima, per farlo fuori.
Walter poi non era un giornalista qualunque, ma uno che ci sapeva fare. Colto, analitico e profondo, seppe approfittare dell’arrivo di Franco Di Bella alla direzione del Corriere, che lo aveva promosso alla «scrittura» riconoscendone l’abilità (anche politica e diplomatica), per emergere dall’anonimato cui gran parte dei corrieristi erano condannati causa l’appiattimento imposto all’epoca dal sindacalismo rosso. In pochi mesi, Tobagi imparò a volare e divenne una firma. Ma nell'ambiente era già qualcuno perché nelle assemblee redazionali, da semplice redattore, si era distinto sconfiggendo il branco della falce e martello. Era «padrone» della Associazione Lombarda e la sua opinione pesava.
Pacioso, cordiale, grassoccio e sorridente, aveva l’aspetto e i modi di un giovane parroco; e in effetti era cattolico benché vicino ai socialisti. Mai aggressivo, al termine di ogni discussione aveva sempre ragione. Nell’arte di convincere era un maestro senza essere un trascinatore. Insomma, aveva qualità di leader, personalità, conoscenza, pazienza. Tutto ciò che occorreva per rendersi detestabile agli avversari comunisti a lui non mancava.
Non è  chiaro se l’idea di uccidere Walter sia nata negli scantinati del Corriere, come qualcuno ha sostenuto; certo è che gli esecutori materiali dell’omicidio sono stati ispirati, se non istigati, da chi identificava in Tobagi un nemico politico, un concorrente professionale e sindacale. Colleghi? E chi altri avrebbe avuto interesse a sopprimerlo coi metodi in voga negli anni di piombo: tre o quattro colpi di pistola sparati a bruciapelo? Indubbiamente, l’inviato grazie al suo lavoro e alle attività collaterali non era un anonimo cronista; ma la sua fama era circoscritta alla cittadella giornalistica e ai recinti del partito armato che egli aveva raccontato con perizia e spirito critico. Il fatto poi che gli assassini gravitassero attorno al mondo dell’informazione, e fossero addirittura famigliari di addetti all’editoria, rafforza il sospetto che il la all’agguato sia partito dalla zona di via Solferino.
Un delitto, questo, come quasi tutti quelli dei comunisti combattenti, di una idiozia sconfinata. Si è tentato di saperne di più rispetto all’ufficialità, ma gli assassini una volta riconquistata la libertà, senza troppa fatica, si sono chiusi in sé guardandosi dal dire la verità. Forse se ne vergognano, giustamente, perché se è vero che non esiste ragione per ammazzare un uomo, uccidere un ragazzo quale Walter, generoso e pacifico, innocuo e onesto, richiede una tale meschinità e una tale incoscienza che solo dei figli di papà comunisti improvvisati potevano avere. E sono loro ad aver dato un’impronta conformistica a quegli anni di imbecillità collettiva che portarono scompiglio nella miserrima società italiana infatuata dall’utopia. Fa rabbia costatare che la morte di Walter non sia servita neppure a capire che il passato non è migliore del presente.
Marco Barbone (Milano, 1958), il leader del gruppo terrorista, che esplose probabilmente il colpo mortale, fu condannato nel 1983 a soli 8 anni e nove mesi, poiché divenuto immediatamente collaboratore di giustizia, ed ebbe subito la libertà provvisoria, dopo tre anni di carcere scontati (uscì dopo la sentenza). Negli anni successivi Barbone si è convertito al cattolicesimo e ha aderito a Comunione e Liberazione, è responsabile comunicazione della Compagnia delle Opere. Per un periodo ha collaborato con il settimanale Tempi del quotidiano Il Giornale.
Paolo Morandini, anche lui immediatamente "pentito", ebbe la medesima condanna di Barbone.
Mario Marano (Milano, 1953), che sparò il primo colpo, confessò e fu condannato a 20 anni e 4 mesi, ridotti per la sua collaborazione, a 12 anni in appello (poi 10 con un condono). Fu condannato anche a undici anni nel processo alle Unità Comuniste Combattenti e a tre anni e mezzo nel processo a Prima Linea, per un totale di circa 24 anni. Scontò la pena ai domiciliari a partire dal 1986. Scarcerato ufficialmente negli anni novanta.
Manfredi De Stefano (Salerno, 23 maggio 1957), condannato a 28 anni e otto mesi; morì in carcere nel 1984, colpito da aneurisma.
Daniele Laus, l'autista del delitto, confessò ma poi ritrattò e aggredì con un punteruolo il giudice istruttore. Condannato a 27 anni e otto mesi, in secondo grado ebbe sedici anni. Dal dicembre 1985 fu rimesso in libertà provvisoria.
Francesco Giordano, che fece la copertura del gruppo di fuoco, non volle ammettere la partecipazione né collaborare, anche se condannò l'esperienza del terrorismo e la sua affiliazione al gruppo. Fu condannato a 30 anni e otto mesi, in appello divenuti 21. Fu l'unico che scontò l'intera pena: uscì di prigione nel 2004. Fu condannato anche a 13 anni nel processo alle Unità Comuniste Combattenti. Giordano sostenne di essere stato torturato da polizia e carabinieri nel 1980, dopo il suo arresto.

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