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domenica 30 ottobre 2022

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 30 ottobre.
Domenica 30 ottobre 1977, a Perugia, nello stadio di Pian di Massiano, si gioca Perugia-Ju­ventus.
Gli umbri, guidati da Ila­rio Castagner, sono protagonisti di un piccolo miracolo di provin­cia e benché il campionato tocchi quel giorno appena la quinta giornata, il primo posto in gra­duatoria a pari merito con le grandi Juventus e Milan ha acce­so nuovamente i riflettori su que­sta nuova realtà del calcio italia­no. Fatta di un modulo in qualche modo "totale" (in omaggio alla moda dei tempi), che significa so­prattutto una squadra in cui tutti corrono e si sacrificano per il bene comune. E in cui peraltro non mancano individualità magari non di assoluto spicco, ma certo di valore. Se Novellino ha le stimmate del campione, due centrocampisti, il regista Curi e l'interno Vannini, l'uno il più piccolo del torneo (1,65) l'altro l'a­nima più lunga (1,90), sono con­siderati esponenti tipici delle mi­gliori qualità della provincia. Hanno classe insomma, e posso­no portare lontano la squadra.
La partita con la Signora del Trap è di quelle bloccate, marto­riata da una pioggia battente, su un terreno zuppo d'acqua, fatico­sissimo da tenere per i giocatori. Nel primo tempo Curi, uno dei migliori in campo per la puntua­lità della gestione della manovra, si infortuna leggermente in uno scontro con Causio. Nella ripresa tuttavia rientra, ma dopo cinque minuti, sotto la pioggia, si accascia improvvisamente al suolo.
Il gesticolare disperato dei giocato­ri juventini accanto a lui, Benetti, Bettega e Scirea, fa pensare a qualcosa di grave, ma nessuno riesce a comprendere, non essen­dosi visti contrasti di gioco vio­lenti. Arriva la barella, il giocato­re esanime viene portato fuori dal campo.
I medici del Perugia gli praticano due iniezioni, il massaggio cardiaco, la respira­zione bocca a bocca: Curi è pao­nazzo, il battito del cuore è incep­pato. Mentre la partita, tra com­pagni e avversari ignari, prose­gue, viene caricato su un'au­toambulanza e portato al Policli­nico di Perugia. Dove tuttavia ar­riva praticamente cadavere: i tentativi di rianimarlo proseguo­no per una quarantina dì minuti, finché, alle 16,30 (in lugubre, perfetta contemporaneità con la fine della partita fischiata dal­l'arbitro Menegali) il giocatore viene dichiarato ufficialmente morto. Una fine terribile per la sua fulmineità.
Riaffiorano i brividi, sull'onda di un singolare scambio via radio. «Scusa Ameri, qui a Perugia...» «Ho già capito tutto, Ciotti, e ti passo la linea». Ma il grande En­rico Ameri non poteva immagi­nare, come tutti gli sportivi in ascolto quella maledetta dome­nica, che Sandro Ciotti non chie­deva il collegamento per intervi­stare qualche personaggio cattu­rato al volo dopo il calcio minu­to per minuto, ma per consegna­re un terribile annuncio: «Il cen­trocampista Curi del Perugia è morto».
Come sempre accade, un atti­mo dopo sì scatenano le polemiche. Si apprende che il giocatore ammetteva senza problemi, scherzandoci su, di avere "il cuo­re matto", dunque i medici po­trebbero avere avuto qualche responsabilità nella sua tragica fine. Perché non gli era sta­to impedito di mettere a repen­taglio la propria vita? E poi: il giocatore era reduce da un infor­tunio a una caviglia, fino all'ulti­mo la sua presenza in campo era stata incerta.
Curi era importan­tissimo per il gioco del Perugia e anche dal punto di vista psicolo­gico contava averlo in campo: suo era stato il gol alla Juventus che nell'ultima giornata del campionato 1975-76 aveva sottratto lo scudetto alla Signora, regalan­dolo al Torino. «In termini clini­ci» aveva assicurato il medico del Perugia alla vigilia «il gioca­tore è perfettamente guarito: le uniche perplessità riguardano la sua attuale tenuta atletica». E al­lora non era stato forse forzato quel rientro? Due giorni dopo, martedì 1 novembre, la "Gazzet­ta dello Sport" annuncia: «Curi non è stato fermato in tempo». Decisiva la dichiarazione del pro­fessor Severi, autore dell'auto­psia: «È stata trovata una malattia cronica del cuore capace di dare morte improvvisa».
Le pole­miche sì scatenano furiose, per placarsi a poco a poco, secondo consolidato quanto cinico copio­ne, dopo qualche giorno, sull'ur­gere dì altre attualità. Il compa­gno di squadra Lamberto Boranga, portiere e medico, avanza l'ipotesi che il giocatore conosces­se i rischi cui andava incontro, ma li mettesse nel conto della sua passione per il calcio, cui gli sa­rebbe parso impossibile rinun­ciare.
Ma chi era Renato Curi? Non un campione nel senso pieno del termine, forse stava diventando­lo, come spesso capita al culmi­ne di carriere nate in sordina e costruite con serietà e professio­nalità anno dopo anno.
Era nato ad Ascoli Piceno il 20 settembre 1953 ed era cresciuto nel Giulianova, con cui aveva esordito in Serie D. Quattro stagioni, con la promozione in C, e il posto da ti­tolare a diciassette anni, segno di un talento autentico. Instanca­bile motorino di centrocampo, aveva il dono di saper far girare i compagni, trovandosi sempre nel vivo del gioco. A vent'anni, la prima occasione gliel'aveva of­ferta il Como, ma quella stagione in B non era stata esaltante. Al­lora lo aveva preso Castagner al Perugia, venendone ripagato con la pronta promozione in A. Un evento storico, così come la brillantissima salvezza dell'anno successivo. L'umile gregario, avanzando l'esperienza, si sco­priva regista di eccellente pun­tualità anche nella massima se­rie.
In una intervista, così aveva spiegato il "moto perpe­tuo " del suo gioco: «Non so dire come mai corro tanto. Ho pol­moni come gli altri, una certa vo­cazione per la corsa, da ragazzo ero buon mezzofondista, 800, 1500, 3000 metri. E poi ho un cuore matto, capriccioso. Dice­vano che ero malato, pensate un pò. Dal Giulianova al Como eb­bi un intoppo. E mi mandarono al Centro Tecnico di Coverciano perché il cuore aveva battiti irre­golari. Però è un cuore di atleta, si assesta appena compio degli sforzi. Quando corro, quando mi affatico, i battiti diventano per­fetti. Come capitava a Bitossi, il campione ciclista che chiamava­no appunto Cuore matto».
La vicenda giudiziaria si tra­scinò per qualche anno, chiuden­dosi in primo grado con l'assolu­zione e poi in appello con una lieve condanna (un anno coi benefici di legge) per il medico del Perugia e quello del Centro Tec­nico di Coverciano. Il pubblico ministero nella sua appassionata arringa aveva detto: «Quando un giocatore entra in una squa­dra professionistica, diventa solo un numero per tecnici, medici, dirigenti».
Oggi lo stadio di Perugia è intitolato a lui.

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