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lunedì 2 luglio 2012

Discutere in #discrepanza e #crepare #decrepiti, La #Radice #CRA e la #onomatopea, Enzo #Mandruzzato, I segreti del #Latino #citazione





La cornacchia fa “cra”, e in tedesco è espressivamente chiamata Krähe; in sanscrito karavah; in italiano “gracchia”, che deriva da gracŭlus, in greco krázei,  in latino crocit e crocĭtat. Per metatesi ci sono cornix, corax, krózein

Ma basta una vocale per dare voce a tutt’altro animale: il gre della rana, conseguentemente detta in francese grenouille. Pare oggettivo il pascoliano “gre gre di ranelle”, ma in Aristofane le rane fanno coáx coáx. Con la i, non c’è dubbio che si tratta di scricchiolio, vetro o ghiaccio. Il caso più illustre  è il verso di Dante dove, per dare idea della solidità del ghiaccio della Giudecca, si dice che, ci cascasse una montagna, “non avria pur dall’orlo, fatto cric”. Verso censurato nell’età del petrarchismo, anche se Dante aveva trovato adatte a quel fondo dell’Inferno “rime aspre e chiocce”. Gozzano lo riprende con disinvoltura nei Colloqui:

Dall’orlo il ghiaccio fece cricch, più tetro…
dall’orlo il ghiaccio fece cricch, più sordo.
Tutto cambia con crac, legno che si spacca, non c’è dubbio. In inglese è lessico normale, to crack, e deve aver incoraggiato l’uso di “crac” in senso economico, in italiano onomatopeico come patatrac o patapunfete. Li citiamo perché possono essere della semanticità nascosta nelle onomatopee: -punfete sa di tonfo e perfino quel pata- non esclude il greco katá (giù), rimasto – tanto il greco entrò nel parlato – insospettabilmente nel nostro “cadauno”. Nel dialetto bolognese serpeggia un oi mimetizzato come certi suoni esclamativi, ma capita il momento in cui si percepisce che è quanto resta di un’asserzione da hoc-ille, come l’oui francese.

L’onomatopea ha sempre sedotto le menti, non solo le orecchie. Prima di tutto perché viene incontro a un interrogativo sempre privo di risposta: che rapporto intercorre tra i suoni e i significati? Ci dev’essere, si pensa, un suono del significato. E’ stata un’opinione molto condivisa in età meno scientifiche, ma non diffidata neppure oggi e sempre riaffiorante. Melchior Cesarotti, nel suo “Saggio sulla filosofia delle lingue” (1785), non dubita che sia qui l’origine e l’essenza del linguaggio. “Onomatopea”, osserva, “significa creazione della parola”. Per esempio, secondo lui, la radice sta deve la sua espressività alla “t, la più stabile di ogni altra lettera”, che blocca la sibilante. “Acqua” e “vague” troverebbero la “arcana analogia” tra suono e senso che non avrebbe il greco hýdor.

Non è qui il caso di insistere su questo materialistico concetto, oltre tutto pericoloso, perché sposta l’attenzione dal pensiero, creativo e libero, al segno che è indifferens; ci limitiamo a dire che le onomatopee sono poche, infide e di modesta levatura: qualche be, qualche mu (mūgire, Mühe…), un Klatsch (da cui klatschen applaudire), un acciaccare… Ma quante contraddizioni! I gatti tedeschi miauen, i cani romani baubabantur, ma quelli tedeschi non bauen, non “costruiscono”. Il fumettistico bang per un tedesco è terrore e angoscia, altro che onmatopea. Tra i grandi epiteti dell’eroe greco c’è smerdaléos e la Bellezza greca è Kállos.

Piuttosto penserei che le vere onomatopee siano, paradossalmente, semantiche. Non suoni che suscitano immagini, ma semantemi che ispirano, davvero per arcana analogia, suoni. Per esempio in italiano le gambe che fanno, molto bene ma chissà perché, “giacomo giacomo”.

Dalla radice onomatopeica per eccellenza nasce un verbo polifono e polisemico come il latino crĕpare. Innumerevoli cose crepant, perfino le opinioni umane: discrepare è un disputare vociante, anche se ne deriva la sussiegosa “discrepanza”. Felice è il frequentativo crepitare, che rende l’idea di una fucileria, senza bisogno di onomatopee. Crepĭtus è ogni tipo di rumore. Crepundia sono giocattoli infantili rumorosi; si sa che la gioia del rumore è inversamente proporzionale alla maturità.

Ma perché una radice indicante suono ha preso un senso di incrinatura e rottura? E’ avvenuto, ma in direzione contraria, il caso di fragor da frangere? In qualche modo lo confermerebbe decrepitus, che sa di cadente e di franante; ma resta che in latino crepare è acustico.  Questa trasformazione e la non necessaria accezione, particolarmente brutale, di morire di mala morte fa pensare che c’entri molto, per l’importanzea del fatto e la celebrità del passo, la fine di Giuda negli Atti degli Apostoli (I 18): “suspensus crepuit medius et diffusa sunt omnia viscera eius”, che un orecchio contemporaneo sentiva “appeso su risuonò in mezzo e tutte le sue viscere furono sparse”. Il testo greco, pure strano, suonerebbe: “divenuto faccia a terra, risuonò nel mezzo ecc.”.

Sia il greco prenés che il suspensus lasciano perplessi. Se non ci fosse che questa fonte, si penserebbe che Giuda comprò il suo pezzetto di terra (“possedit agrum de mercede iniquitatis”) ma poi gli capitò – forse era un terreno molto accidentato – di cadere in malo modo. Un lugubre tonfo e un brutto spettacolo. E’ Matteo che dà la famosa versione secondo cui Giuda, disperato, gettò nel tempio il denaro e corse a impiccarsi (27, 3-6). La contraddizione dei due testi ha creato gravi problemi per gli esegeti, ma gli ascoltatori di tanti secoli hanno soltanto capito che “crepò”.


(Enzo Mandruzzato, I segreti del Latino. Per ritrovare quello che abbiamo dimenticato, Milano, Mondadori, 1991, pp. 36-38)

(Nell’immagine sopra, Wassily Kandisky, Nero e viola,



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