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martedì 21 ottobre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 21 ottobre.

Il 21 ottobre 1944 ha luogo il primo attacco kamikaze di aerei giapponesi contro navi statunitensi.

I primi attacchi suicidi di piloti giapponesi vengono effettuati con un certo successo nelle Filippine dall’ottobre 1944. La parola kamikaze significa in giapponese “vento divino” ed è riferita a un leggendario tifone che si dice abbia salvato il Giappone da una flotta di invasione mongola inviata da Kublai Khan nel 1281.

Il ricorso a questa arma estrema era il risultato dello stato dell’aviazione nipponica negli ultimi 12 mesi di guerra. L’arma aerea del Sol Levante pativa una doppia inferiorità rispetto alla controparte americana: gli F4U Corsair e i  Grumman F6F Hellcat surclassavano sotto il profilo tecnologico gli aerei nipponici e soprattutto la generazione di piloti esperti e coraggiosi era stata praticamente spazzata via nel corso delle operazioni belliche.

Contro questa schiacciante superiorità americana i piloti nipponici male addestrati e che utilizzavano tattiche convenzionali andavano incontro a perdite pesantissime. Pianificando la propria morte come una certezza invece che come un’altissima probabilità i kamikaze erano tendenzialmente in grado di infliggere danni più pesanti alla marina americana, vulnerabile soprattutto sotto il profilo psicologico a questo genere di attacchi.

L’immagine di piloti giapponesi che partono entusiasti per andare a schiantarsi sui ponti delle navi americane è però sostanzialmente fasulla. Tra i primi piloti suicidi, nell’autunno del 1944, ci furono parecchi veri piloti volontari. Successivamente però le scorte di piloti fanatici si ridussero e molte reclute vengono convinte ad accettare questo incarico “senza ritorno” al prezzo di pressioni morali insostenibili quando non di vera e propria coercizione.

Kasuga Takeo che prestava servizio nella mensa ufficiale di Tsuchiura, una base di kamikaze, fu testimone dell’isteria e della profonda malinconia che dominavano le ultime ore di vita dei piloti. Gli aviatori si spostavano da una base all’altra con una piccola borsa di effetti personali tra le cui cose spiccava la biancheria contrassegnata con la dicitura “Effetti personali del defunto tenente comandante….” indicando la promozione postuma che spettava ad ogni pilota caduto in combattimento.

Per la marina americana combattere contro i kamikaze fu una delle esperienze più sanguinose e dolorose della guerra. Tra l’11 maggio e la fine di giugno 1945 gli aviatori giapponesi eseguirono 1700 sortite verso Okinawa. Giorno dopo giorno i marinai americani si mettevano ai pezzi per effettuare un fitto fuoco di sbarramento anti aereo che i piloti nipponici cercavano di evitare per schiantarsi sul ponte delle navi nemiche. Qualcuno però riusciva sempre a passare e si immolava sul ponte di volo di una portaerei o sulle sovrastrutture di un incrociatore con effetti devastanti quando la benzina si incendiava o le munizioni esplodevano. Il 12 aprile 1945 quasi tutti e 185 kamikaze furono abbattuti a fronte di 2 navi americane affondate ed altre 14 danneggiate, compreso 2 corazzate.

Il 16 fu colpita la portaerei Intrepid. Il 4 maggio i piloti kamikaze affondarono cinque navi statunitensi e ne danneggiarono altre 11. Tra l’11 e il 14 maggio furono colpite tre navi ammiraglie tra cui le portaerei Bunker Hill ed Enterprise. Dal 6 aprile al 22 giugno, in tutto il teatro di operazioni, ci furono 10 attacchi suicidi al giorno che riguardarono 1465 aerei più 4800 sortite convenzionali. I kamikaze affondarono 27 navi e ne danneggiarono 164 mentre gli attacchi convenzionali ne affondarono una soltanto, danneggiandone 63.

La percentuale di successo delle missioni suicide fu di circa il 20%, dieci volte superiore agli esiti degli attacchi convenzionali. Alla fine della seconda guerra mondiale il servizio aeronautico della marina giapponese aveva sacrificato 2.526 piloti kamikaze, mentre quello dell’esercito ne aveva sacrificati 1.387. Secondo fonti americane, approssimativamente 2.800 attaccanti kamikaze affondarono 34 navi della marina, ne danneggiarono altre 368, uccisero 4.900 marinai e ne ferirono oltre 4.800. Nonostante l’allarme dei radar, l’intercettazione in volo ed un massiccio fuoco antiaereo il 14% degli attacchi Kamikaze giungeva fino all’impatto contro una nave; circa l’8,5% delle navi colpite dagli attacchi kamikaze affondò.

I dati giapponesi sono un po’ più importanti. Resta il fatto che il sacrificio di quasi 4.000 giovani piloti giapponesi non ebbe alcun impatto strategico sull’esito della guerra e non risparmiò né i bombardamenti strategici ed indiscriminati sulle città nipponiche né tantomeno quelli atomici su Hiroshima e Nagasaki.

 

lunedì 20 ottobre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 20 ottobre.

Il 20 ottobre 1740 Maria Teresa sale al trono di Vienna.

Maria Teresa d'Austria nasce il 13 maggio 1717 a Vienna. Il padre è l'imperatore Carlo VI e la madre è Elisabetta Cristina di Brunswick-Wolfenbüttel. Nella giovinezza le viene impartita un'istruzione di alto grado e all'età di quattordici anni, pur non avendo ricevuto un'educazione politica, partecipa con il padre ai lavori del Consiglio della Corona. Nel 1736 Maria Teresa sposa secondo il rito cattolico Francesco Stefano, duca di Lorena.

Nel 1740 l'imperatore Carlo VI muore e Maria Teresa diventa imperatrice d'Austria, d'Ungheria e Boemia grazie alla "Prammatica Sanzione", atto contenente la clausola secondo cui, in caso di mancanza di figli maschi, la Corona imperiale sarebbe stata ereditata da una delle figlie dell'imperatore. Presto però l'imperatrice d'Austria inizia ad avere innumerevoli nemici, tra cui Elisabetta Farnese, Alberto di Baviera e Augusto III di Polonia.

Il primo vero attacco all'Impero asburgico è fatto dal re di Prussia, Federico II che occupa la Slesia. Inizia così la guerra di successione austriaca che vede come protagoniste anche Francia e Spagna. La situazione è difficile, ma con coraggio Maria Teresa riesce a recuperare i territori persi grazie al sostegno degli ungheresi. La guerra si protrae per altri sette anni, l'imperatrice ottiene il sostegno anche della Sassonia, preoccupata della grande forza dell'esercito prussiano, e le simpatie di Olanda e Inghilterra.

Nel 1742 Federico II firma con l'Austria una pace separata con cui riesce a mantenere una piccola parte della Slesia. La guerra è ancora in atto a causa delle mire espansionistiche della Spagna nei possedimenti imperiali in Italia e a causa della sete di conquista francese nell'area renana. La Spagna conquista la Lombardia, ma nel 1746 le truppe dell'imperatrice aiutate da quelle sabaude riescono a riprendere sotto il loro controllo il Nord-Italia. Nel 1748 la guerra di successione si conclude con la firma della pace di Aquisgrana, la quale attribuisce a Maria Teresa tutti i territori ereditati dal padre a eccezione della Slesia, di qualche territorio lombardo concesso a Carlo Emanuele III di Savoia in cambio del sostegno dato all'Impero asburgico contro spagnoli e francesi e dei ducati di Parma e Piacenza concessi a Filippo I di Parma.

Con la fine del conflitto, la sovrana consolida i suoi poteri, servendosi di un esercito forte e di una burocrazia alle sue dipendenze. Nei quaranta anni del suo regno l'imperatrice realizza tutta una serie di riforme politiche, sociali, economiche e finanziarie. Molto importante è ad esempio la riforma sociale del 1774 volta a introdurre l'istruzione primaria obbligatoria, finanziandola con i beni posseduti dalla Compagnia di Gesù, la quale viene soppressa.

Maria Teresa introduce il catasto, creato con l'intenzione di imporre le tasse anche sulle terre possedute dai nobili. La sovrana vuole creare un impero multiculturale, con l'obiettivo di unificare tutte i popoli sotto il dominio dell'Austria dal punto di vista politico, sociale, culturale. L'imperatrice emana anche il noto "Editto di tolleranza" che concede la libertà di culto, il diritto di possedere beni e di negoziare. Tra gli altri suoi provvedimenti vi sono ad esempio anche quelli volti a diminuire i poteri del Clero, a fissare l'età in cui potere ricevere i voti monastici a ventiquattro anni.

Durante il suo lungo regno sono realizzate all'interno dei territori imperiali numerose opere pubbliche e Vienna diventa una capitale culturale in grado di ospitare intellettuali e artisti di grande fama. Nel 1765 il marito Francesco I muore, per cui Maria Teresa si fa aiutare nella gestione politica dell'Impero dal figlio Giuseppe II, il futuro imperatore d'Austria.

Nell'ultimo decennio del suo regno, su suggerimento del figlio, attua una politica espansionistica, caratterizzata dalla spartizione della Polonia con la Russia, ottenendo la Lodomiria e la Galizia. L'Austria partecipa anche alla guerra bavarese, ottenendo nel 1778 il territorio dell'Innviertel.

Maria Teresa d'Asburgo muore a Vienna il 29 novembre 1780, lasciando la Corona imperiale nelle mani del figlio Giuseppe II.

Fu madre di sedici figli, tra cui gli imperatori Giuseppe II e Leopoldo II, nonché di Maria Antonietta, regina di Francia, e Maria Carolina, regina di Napoli e Sicilia.

domenica 19 ottobre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 19 ottobre.

Il 19 ottobre 202 a.C. ebbe luogo la battaglia di Zama tra le forze romane di Scipione e quelle cartaginesi di Annibale, che decretò la fine della Seconda Guerra Punica.

Ci restano due tradizioni sulla battaglia di Zama:

- una di Tito Livio (Patavium, 59 a.c. – Patavium, 17) e una di Polibio (Megalopoli, 206 a.c. – Grecia, 124 a.c.), seguita dalla maggior parte degli storici moderni,

- l'altra di Appiano (Alessandria d'Egitto, 95 – 165) e Cassio Dione ( Nicea, 155 – 235), meno attendibile e meno seguita.

Le differenze tra le due versioni sono notevoli, differendo per i luoghi, i tempi, le strategie e i numeri. I testi storici antichi, ma pure quelli moderni, non sempre erano attendibili, perché ciò che è riferito muta nel tempo arricchendosi di variazioni anche inventate, ma pure quando si tratti di documenti scritti da generali, la tentazione di incensarsi un po' era grande, o perché volevano osannare i romani per far piacere agli imperatori. Nei resoconti di Zama si ha qualche perplessità.

Scipione era un genio della strategia, forse pari o comunque vicino al grande Giulio Cesare. Anche Annibale però fu un grandissimo stratega e tra i due uomini vi fu sempre un grande rispetto reciproco, non consueto per Annibale che spesso disprezzava i suoi nemici romani.

Scipione si recò fino ai pressi di Narraggara, vicino Zama, e annunciò ad Annibale che si poteva iniziare a discutere del luogo migliore per i colloqui. Annibale seguì Scipione verso ovest, spostando il proprio campo nei pressi di Sicca Veneria. Entrambe le armate erano lontanissime dalle loro basi, ma mentre per Annibale Hadrumentum sarebbe stata un rifugio sicuro in caso di sconfitta, per Scipione i Castra Cornelia erano solo un punto di imbarco.

Come narrano Polibio e Livio, Annibale cerca di convincere Scipione a non rischiare una sconfitta, ma di stipulare una pace più giusta per Cartagine, perché "oggi sei tu quello che io fui a Trasimeno e a Canne" (Livio XXX 30 12).

Annibale ha 45 anni, con molta più esperienza di Scipione che ha solo 33 anni, ma che in realtà sta nell'esercito da 16 anni. E' giovane, risoluto, ammira Annibale di cui riconosce il valore tattico ma comunque è certo di poterlo battere. Scipione chiede la guerra e guerra fu…

Il luogo della battaglia di Zama non è certo; è stata di recente collocata a Naraggara (per es. da De Sanctis) o a Margaron (da Veith); ma senza prove inoppugnabili.

La legione romana era generalmente schierata “a scacchiera” su tre file di combattimento divise in manipoli. La prima fila era formata dai manipoli degli hastati, intervallati dallo spazio di un manipolo; dietro al quale si locavano i manipoli dei principes, che si schieravano sulla seconda fila; l’ultima fila era formata dai triarii che coprivano gli intervalli lasciati vuoti dai manipoli dei principes.

Gli hastati e i principes, sempre piuttosto giovani, erano equipaggiati con un elmo di bronzo, una corazza e un grande scudo ovale. L'armamento era composto di due giavellotti di peso diverso (s. pilum - pl. pila) e da una spada corta per il corpo a corpo dopo avere scagliato i giavellotti.

La fanteria leggera era costituita dai velites, soldati giovanissimi a supporto del manipolo. Portavano un elmo di bronzo, spesso coperto da una pelle di lupo, uno scudo rotondo (Parma), alcuni giavellotti leggeri e una corta spada di tipo italico o spagnolo come quella dei fanti pesanti.

I legionari meno giovani formavano i manipoli dei triarii che nello schieramento della legione erano disposti in terza fila. Erano equipaggiati come i principes e gli hastati, ma al posto del pilum avevano una lunga lancia di tipo oplitico. I triarii erano una riserva mobile alle spalle della legione, o per respingere con le lunghe aste gli attacchi dei cavalieri nemici, o per attaccare i fianchi o il retro delle formazioni avversarie.

L’esercito cartaginese era formato da truppe mercenarie reclutate tra le popolazioni soggette al dominio cartaginese. Popoli diversi con lingue diverse e diversi stili di combattimento. Nella II guerra punica vennero reclutati nell’entroterra africano, come i famosi cavalieri leggeri numidi, e la fanteria pesante libo-fenicia, nonché i coloni iberici, con un'ottima fanteria medio-leggera e una buona cavalleria.

Le vittorie di Annibale in Italia fecero accorrere nel suo esercito i Galli della pianura padana e molti Italici del centro-sud.

Nel corso della campagna di Annibale, le sue truppe spesso si riequipaggiarono con il materiale catturato ai Romani sul campo di battaglia, e saranno questi i suoi “veterani” a Zama.

Annibale, come Scipione aveva previsto, lanciò la carica degli elefanti. 

Però i romani avevano avevano già avuto a che fare con questi giganteschi animali; che se da un lato si lanciavano pungolati dai loro padroni, dall'altro si frastornavano se udivano suoni forti e acuti.

Infatti i romani iniziarono a trarre suoni acutissimi dalle trombe, batterono sugli scudi e innalzarono alte grida, al che gli elefanti si imbizzarrirono.

Così gli animali fuggirono volgendosi contro la cavalleria numidica dell'ala sinistra cartaginese che si scompaginò. Scipione ne approfittò mandando Massinissa, che era stato posto di fronte a questa, con i suoi cavalieri, per sbaragliare gli avversari già disorientati..

Tuttavia qualche elefante non imbizzarrito proseguì la corsa iniziale avventandosi sui romani. Subentrarono allora i veliti a bersagliare da distanza i pachidermi, che per sfuggire ai dardi, cercarono di fuggire, trovando aperti gli spazi che i manipoli degli hastati romani avevano liberato, tirandosi di lato e creando dei corridoi nello schieramento romano.

Una strategia simile a quella di Annibale l'aveva usata il re indiano Poro contro l'esercito macedone di Alessandro Magno nella battaglia di Idaspe, ponendo gli elefanti in prima linea.

Comunque i Romani già conoscevano gli elefanti: infatti, nella battaglia di Benevento (275 a.c.) riuscirono ad avere la meglio sulle truppe epirote e tarantine, facendo scagliare dai propri arcieri frecce infuocate e torce contro le torri montate dagli elefanti, in modo da far imbizzarrire i pachidermi e creare così scompiglio tra le stesse truppe amiche (Floro, I, XVIII).

(Livio e Polibio riferiscono che ottanta elefanti furono utilizzati da Annibale nella battaglia di Zama, undici dei quali furono poi portati a Roma. Tra le condizioni di pace imposte ai Cartaginesi, Polibio ci informa che era richiesta anche la consegna di tutti gli elefanti.)

Colpiti dai veliti, che si erano riparati dietro le file degli hastati, e dai principes, questi elefanti fuggirono addosso all'altra ala della cavalleria cartaginese.

Le prime file di Annibale come previsto arretrarono fra le seconde file, mentre la cavalleria fuggì inseguita da Massinissa e Lelio.

La cavalleria romana in effetti non temeva rivali, i cavalieri sapevano tirare da cavallo, salire o scendere al volo, sapevano far fare grossi salti ai cavalli e pure comandarli con la voce.

Gli astati romani ebbero la meglio sulla prima linea cartaginese (del resto erano quasi tutti mercenari), che iniziò ad arretrare. 

Ma la seconda linea formata dai veterani di Annibale resistette e ingaggiarono i corpo a corpo della fanteria. Alla fine gli astati di Scipione erano stanchi per cui subentrarono i principi che contrattaccarono seriamente.

Scipione tentò di ripetere la manovra dei Campi Magni e mosse le sue file di principi e triari sui fianchi per accerchiare le forze di Annibale, ma i veterani che Annibale teneva di riserva nella terza linea, ne rimasero fuori, e Inoltre lo spazio tra loro e i romani era disseminato di cadaveri, formando una barriera invalicabile.

Scipione dovette rinunciare e far retrocedere le seconde file per reggere l'urto dei cartaginesi. Inoltre i corridoi creati per far fuggire gli elefanti, non permettevano l'utilizzo della tattica manipolare, che necessitava di una disposizione a scacchiera. Perciò, gli hastati furono i più penalizzati nell'urto del combattimento. 

Ora la battaglia per i romani era diventata molto dura, e i fanti erano stanchi.

Aveva si fatto compiere ai suoi legionari il movimento sui fianchi, già utilizzato con successo in precedenza, ma questa volta solo per estendere da entrambi i lati il fronte degli hastati, non per aggirare il nemico.

Così il fronte romano risultò pari o di poco superiore a quello cartaginese ma con principes e triarii, finora poco impegnati, che si trovarono a combattere sulle ali contro forze più stanche, anche se gli hastati, impegnati finora nello scontro, dovevano ora vedersela con i veterani cartaginesi ancora freschi.

La manovra geniale di Scipione aveva esteso il suo fronte, assottigliando i ranghi fino a coprire tutto il fronte punico, evitando così un possibile accerchiamento da parte dei cartaginesi… Però ora i romani dovevano arrivare allo scontro frontale con un nemico che li soverchiava per numero e per la maggiore freschezza.

La cavalleria avversaria era dispersa, ma pure quella di Scipione che li inseguiva e che venne tosto richiamata. Finalmente tornarono Lelio e Massinissa con i loro cavalieri e si avventarono alle spalle delle forze cartaginesi, accerchiandoli e massacrandoli. Annibale aveva contato di poter fiaccare i romani sullo scontro con ben tre linee: elefanti, mercenari, e soldati cartaginesi, prima di arrivare al confronto decisivo con i veterani dell'ultima linea, dove i romani dovevano essere ormai stanchissimi.

Ma i legionari romani non erano soldati qualsiasi. Non era la leva dei contadini che abbandonavano il campo per una guerra tornandovi l'anno dopo. Erano volontari scelti e addestrati in tutti i modi e con tutti i tempi. 

Scipione, come Cesare, addestrava i suoi uomini col sole e con la pioggia, e magari con la neve, di giorno e di notte, con un compito molto specialistico per ciascuno ma in grande sintonia con gli altri.

La legione romana era un corpo unico e come tale funzionava senza personalismi o privilegi. 

I romani sapevano combattere bene e a lungo, e i veterani di Annibale non poterono competere con quelli di Scipione, seppure più stanchi. 

Come al solito i romani ebbero la meglio.

Finita la battaglia iniziò I 'inseguimento e il massacro, come era accaduto a Canne sui romani, ma stavolta era sui cartaginesi…

Annibale riuscì a fuggire verso Cartagine. Scipione aveva avuto la sua battaglia campale e come ne aveva avuto in anticipo la certezza, aveva vinto.

Cartagine era finita.

La vittoria di Zama pose fine alla II guerra punica (219-202 a.c.) e sancì il crollo della potenza cartaginese nel Mediterraneo.

Cartagine che per sessant’anni aveva conteso a Roma il predominio sul Mediterraneo occidentale, era sconfitta per sempre.

Roma non fu tenera con la sua rivale:  le fece smantellare completamente la flotta da guerra, consentendole solo poche decine di navi, tutte le colonie cartaginesi in Spagna passavano al dominio romano; in più Cartagine doveva pagare un pesantissimo tributo che per cinquant'anni avrebbe gravato sulla sua economia.

Mezzo secolo dopo ci sarebbe stata una III guerra punica, culminata con la distruzione di Cartagine, ma fu la vendetta su di un rivale già distrutto.

Per paura della vendetta romana la città costrinse il grande Annibale, il vincitore di tante battaglie, ad andare in esilio presso il re di Siria Antioco III; ma dopo la sconfitta di quest'ultimo contro i Romani in Bitinia, Annibale si avvelenò per non essere consegnato a Roma.

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