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mercoledì 30 aprile 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 30 aprile.

Il 30 aprile 1945 la battaglia di Monte Casale segnò l'ultimo combattimento vero e proprio sul suolo italiano nella Seconda Guerra Mondiale.

La  colonna di mezzi corazzati del 68° Rgt. Fanteria " Legnano " quel mattino del 30 Aprile transitava sulla Verona-Brescia all'altezza di Ponti sul Mincio, ignara di una minaccia che si sarebbe manifestata di lì a poco, nella festa generale di paesi liberati e nel tripudio di tricolori.

All’inizio della colonna si trovava la 104° Compagnia del IX Reparto d’Assalto seguita dalla 4° e l’8°; una volta raggiunta Peschiera, nelle ore più calde che precedono il pranzo, gli Arditi furono circondati da una folla festante per effetto della liberazione. L’emozione di trovarsi li e vedere gli Italiani di nuovo liberi dall’oppressione Nazista fu interrotta da un capitano del II Corpo d’Armata il quale chiedeva al comandante della compagnia  Arditi di intervenire proprio nella zona di Ponti sul Mincio per attaccare un reparto tedesco posizionato su Monte Casale che colpiva dal monte tutti i mezzi in transito su quella rotabile.

Il comandante della compagnia si trovò a decidere nel bel mezzo della festa se continuare con gli ordini avuti in precedenza e quindi raggiungere Brescia o andare in aiuto dei partigiani della “Avesani” che già dalla mattina stavano impegnando i Tedeschi nel combattimento.

Il comandante osservava gli Arditi e rifletteva, scorrevano nella sua mente le immagini dei combattimenti fatti fino a quel momento e del sangue versato, ed ora che tutto sembrava finito ancora una volta occorreva entrare in contatto con il nemico.

La decisione fu presa, erano Italiani, erano Arditi e partirono in aiuto dei partigiani.

Il Capitano Americano guidò gli Arditi fino al contatto con il comandante “Bruto” della formazione partigiana “Avesani”. Qui studiò il terreno e osservò che nei combattimenti della mattina avevano perso già due uomini e circa ottanta tedeschi erano arroccati su quella piccola collina denominata monte Casale in onore della Brigata “Casale” che qui si scontrò durante la Prima Guerra d’Indipendenza.

I reparti tedeschi appartenevano alle SS ed alla Flak ed erano decisi a non mollare, senza paura, senza speranza, si erano arroccati all’interno di strutture militari costruite in precedenza, forse per una postazione di contraerea.

Gli arditi cercarono di indebolire le difese con l’intervento di mortai da 3 pollici e cannoni da 57-50 mentre fendevano la linea dell’orizzonte con mitragliatrici da 12,7; subito dopo partirono all’assalto.

Alle 13:30 si mossero frontalmente al nemico mentre i partigiani iniziavano la loro azione sulla destra.

La forza d’attacco degli Arditi era di 30 uomini, compresi i volontari arrivati dai plotoni mortai, plotoni cannoni e dai piloti dei carri; questi erano gli Arditi della Guerra di Liberazione, questi i ragazzi della Legnano, questi gli attori del Secondo Risorgimento Italiano.

Nelle sue memorie, il comandante di quel plotone riporta l’emozione  di vedere tutti quei volontari andare incontro alla possibile morte.

Superarono di corsa il prato, che separava la strada dalla collina e si ritrovarono, all’inizio della salita e del bosco con un solo ferito, ed iniziarono a strisciare nel sottobosco.

I tedeschi risposero, facendo fuoco con tutto quello che avevano, martellando la pianura e la base della collina, erano difficili da individuare, perfettamente mimetizzati all’interno del bosco, dentro buche e camminamenti.

Incontrarono e superarono anche un reticolato, posto alla base della collina, lo fecero passandoci sotto, non curanti delle punte aguzze ed arrugginite; l’unico ardito che tentò di saltarlo fu falciato dalle mitragliatrici, era l’ardito Marcon, un volontario del plotone cannoni forse poco esperto.. ma non meno coraggioso.

Gli Arditi partirono all’attacco e per tre ore entrarono nelle buche, e nei camminamenti conquistando postazioni di mitragliatrici e mortai; i combattimenti sono corpo a corpo, mentre a Peschiera e Brescia si festeggia con in mano le bottiglie di vino, gli Arditi hanno in mano i pugnali insanguinati ed infieriscono sulla carne del nemico, per poi ricordarlo negli incubi fino all’ultima delle loro notti.

Lanciano le bombe a mano e si gettano nei cunicoli quando ancora il fumo rende l’aria irrespirabile e finiscono gli avversari in abbracci mortali, mentre a pochi chilometri gli abbracci sono di gioia tra donne e soldati.

Gli Arditi urlano, muoiono, chiedono soccorso, le grida in italiano e tedesco rompono la pace di quel sottobosco, nella calura di un pomeriggio di primavera.

Con il coraggio e con tutto quanto li faceva essere Arditi e quindi migliori, ebbero alla fine la meglio sugli avversari che man mano si arrendevano, alzando le mani al cielo tra i raggi di sole che filtravano tra le fronde dei rami di quella collina finalmente conquistata.

L’aspetto del nemico era fiero e disperato allo stesso momento, tutto gli stava crollando intorno, tutte le certezze di un regime che li aveva illusi adesso non c’erano più e l’unica certezza erano i propri cari, il rifugio dell’uomo quando si scopre solo e vinto.

Il comandante delle SS fu ferito alla 16:30, era un tenente, dal volto fiero e provato dalla  fatica, con lui si arresero tutti gli altri e la pace tornò su quella collina forse mentre un soldato ed una ragazza si davano il primo bacio sul lungo lago di Peschiera, conquistati dal troppo vino o dalla troppa voglia di ricominciare a vivere.

Per gli Arditi di Monte Casale, quel tempo doveva ancora venire, poggiate le armi in terra era il momento di raccogliere i caduti e soccorrere i feriti.

Alla sommità della collina c’era un piccola casetta, fu il teatro principale degli scontri, qui raccolsero i caduti trovati nel bosco, per poi riportarli a valle con l’aiuto di tutti.

Tra di loro anche un Americano, la sua guerra, che poteva essere finita nella gioia di Peschiera, aveva avuto un ultimo sussulto nella voglia di seguire gli Arditi, perché all’amicizia non si comanda e Richard Albert Carlson partì all’assalto come gli altri della squadra del Serg. Mag. Serpentini per poi lasciare la sua giovane vita su quella collina accanto ai suoi amici italiani.

Tra tutti li colpisce l'Ardito Benedetti, il suo corpo è l’inno degli Arditi, ma anche un tonfo per i cuori più provati.

Lo sentirono gridare a voce alta durante i combattimenti: «Viva l’Italia! » e lo videro saltare in una trincea col pugnale in mano.

Perso di vista lo ritrovarono nella trincea abbracciato ad un tedesco entrambi con un pugnale nel cuore.  

I caduti in totale saranno sei mentre i feriti quattro.

Tornati sulla strada, inviarono i feriti all’ospedale, misero i caduti sul carro di testa, per rendere gli onori, e salirono insieme ai nemici sui carri di coda, in colonna, tutti insieme; in quell’assurdo susseguirsi di scene che fanno della fine di ogni battaglia il racconto del rispetto tra vincitori e vinti, che durerà fino all’ultimo dei loro giorni.

martedì 29 aprile 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 29 aprile.

Il 29 aprile 1969 Duke Ellington riceve la medaglia presidenziale della Libertà.

Duke Ellington (il cui vero nome era Edward Kennedy) nasce il 29 aprile 1899 a Washington. Inizia a suonare in maniera professionale ancora adolescente, negli anni Dieci, nella sua città natale come pianista. Dopo alcuni anni trascorsi a esibirsi in locali da ballo insieme con Otto Hardwick e Sonny Greer, grazie a quest'ultimo si trasferisce a New York nel 1922, per suonare con il gruppo di Wilbur Sweatman; l'anno seguente, viene ingaggiato con la "Snowden's Novelty Orchestra", che include, oltre ad Hardwick e Greer, anche Elmer Snowden, Roland Smith, Bubber Miley, Arthur Whetsol e John Anderson. Divenuto il leader della band nel 1924, ottiene un contratto con il "Cotton Club", il locale più famoso di Harlem.

Poco dopo l'orchestra, che nel frattempo ha preso il nome di "Washingtonians", vede aggiungersi Barney Bigard al clarinetto, Wellman Braud al contrabbasso, Louis Metcalf alla tromba e Harry Carney e Johnny Hodges al sassofono. I primi capolavori di Duke risalgono proprio a quegli anni, tra spettacoli pseudo-africani ("The mooche", "Black and tan fantasy") e brani più intimisti e d'atmosfera ("Mood Indigo"). Il successo non tarda ad arrivare, anche perché il jungle si rivela particolarmente gradito ai bianchi. Dopo aver accolto nel gruppo anche Juan Tizol, Rex Stewart, Cootie Williams e Lawrence Brown, Ellington chiama anche Jimmy Blanton, che rivoluziona la tecnica del suo strumento, il contrabbasso, elevato al rango di solista, come un pianoforte o una tromba.

Alla fine degli anni Trenta, Duke accetta la collaborazione di Billy Strayhorn, arrangiatore e pianista: diventerà il suo uomo di fiducia, addirittura un suo alter ego musicale, anche dal punto di vista della composizione. Tra le opere che vedono la luce tra il 1940 e il 1943 si ricordano "Concerto for Cootie", "Cotton Tail", "Jack the Bear" e "Harlem Air Shaft": si tratta di capolavori che difficilmente possono essere etichettati, poiché vanno al di là di schemi interpretativi ben definiti. Lo stesso Ellington, parlando dei propri brani, si riferisce a quadri musicali, e alla sua capacità di dipingere attraverso i suoni (egli, non a caso, prima di intraprendere la carriera musicale aveva manifestato interesse per la pittura, desiderando diventare cartellonista pubblicitario).

Dal 1943, il musicista tiene concerti presso la "Carnegie Hall", tempio sacro di un certo genere di musica colta: in quegli anni, inoltre, il gruppo (che pure era rimasto unito per moltissimi anni) perde alcuni pezzi come Greer (che deve fare i conti con problemi di alcol), Bigard e Webster. Dopo un periodo di appannamento nei primi anni Cinquanta, corrispondente all'uscita di scena dell'altosassofonista Johnny Hodges e del trombonista Lawrence Brown, il grande successo ritorna con l'esibizione del 1956 al "Festival del Jazz" di Newport, con l'esecuzione, tra l'altro, di "Diminuendo in Blue". Questo brano, insieme a "Jeep's Blues" e a "Crescendo in Blue", rappresenta la sola registrazione live del disco, uscito nell'estate di quell'anno, "Ellington at Newport", che invece contiene numerose altre tracce che sono dichiarate "live" pur essendo state incise in studio e mixate con applausi finti (solo nel 1998 il concerto integrale verrà pubblicato, nel doppio disco "Ellington at Newport - Complete"), grazie alla scoperta casuale dei nastri di quella sera da parte dell'emittente radiofonica "The voice of America".

Dagli anni Sessanta, Duke è sempre in giro per il mondo, impegnato tra tour, concerti e nuove registrazioni: si segnalano, tra le altre, la suite del 1958 "Such sweet thunder", ispirata a William Shakespeare; quella del 1966 "Far East suite"; e quella del 1970 "New Orleans suite". In precedenza, il 31 maggio del 1967 il musicista di Washington aveva interrotto la tournée in cui era impegnato in seguito alla morte di Billy Strayhorn, il suo collaboratore che era anche diventato suo intimo amico, dovuta a un tumore all'esofago: per venti giorni, Duke non era mai uscito dalla sua camera da letto. Superato il periodo di depressione (per tre mesi si era rifiutato di tenere concerti), Ellington torna a lavorare con la registrazione di "And his mother called him", celebre album che include alcune tra le partiture più celebri del suo amico. Dopo il "Second Sacred Concert", registrato con l'interprete svedese Alice Babs, Ellington deve fare i conti con un altro evento funesto: durante una seduta dentistica, Johnny Hodges muore a causa di un infarto l'11 maggio del 1970.

Dopo aver accolto nella sua orchestra, tra gli altri, Buster Cooper al trombone, Rufus Jones alla batteria, Joe Benjamin al contrabbasso e Fred Stone al flicorno, Duke Ellington nel 1971 ottiene dal Berklee College of Music un Honorary Doctorate Degree e nel 1973 dalla Columbia University un Honorary Degree in Music; muore a New York il 24 maggio 1974 a causa di un cancro ai polmoni, al fianco del figlio Mercer, e a pochi giorni di distanza dalla morte (avvenuta a sua insaputa) di Paul Gonsalves, suo fidato collaboratore, deceduto a causa di un'overdose di eroina. Le sue spoglie riposano nel Woodlawn Cemetery di New York, nel Bronx, lo stesso in cui si trovano le tombe di Miles Davis e Lionel Hampton.

Direttore d'orchestra, compositore e pianista vincitore, tra l'altro, di un Grammy Lifetime Achievement Award e di un Grammy Trustees Award, Ellington è stato nominato "Medaglia presidenziale della libertà" nel 1969 e "Cavaliere della Legion d'Onore" quattro anni più tardi. Ritenuto unanimemente uno dei compositori più importanti statunitensi del suo secolo e uno dei più significativi della storia del jazz, ha toccato, nel corso della sua ultra-sessantennale carriera, anche generi diversi come la musica classica, il gospel ed il blues.

lunedì 28 aprile 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 28 aprile.

Il 28 aprile 1990 va in scena a Broadway l'ultima replica del Musical "a chorus line", dopo quasi 15 anni dalla prima.

Quando è storia, è storia. "A CHORUS LINE", da quella leggendaria sera del 25 luglio 1975 in cui andò in scena al Public Theatre, dove 300 persone sedute sui 300 posti "off broadway" si passarono subito parola, è diventato il re dei "musical". Non solo perché ha battuto tutti i record di gradimento e programmazione (trasferitosi subito "in" Broadway per merito dell’impresario shakespeariano Joseph Papp, è rimasto in scena alla Shubert Theatre 15 anni fino al 28 aprile ’90, 6137 repliche), diventando nell’85 anche un film di Sir Richard Attenborough con Michael Douglas, ma perché ha rivoluzionato la tecnica, e, si può dire, la morale di questo genere di spettacolo che nasce direttamente dalla costola del teatro americano.

Il musical si è così creato sera per sera, adattandosi ai suoi protagonisti che sono mutati nel corso del tempo: giacché si tratta di teatro nel teatro, ovvero come un regista "manhattese" passa un pomeriggio di audizioni per scegliere il balletto di un nuovo spettacolo. Ragazzi e ragazze pronti a sgambettare sotto i riflettori traslocando da una città all’altra, col cuore protetto dalle insegne al neon (in americano li chiamano "gipsies", zingari) si "confessano" in palcoscenico sulla "chorus line", la linea bianca che delimita lo spazio del balletto di fila da quello delle star.

"A CHORUS LINE" è soprattutto un omaggio al teatro, all’etica del "si va in scena", dei sacrifici occulti che gli attori sostengono e dei traumi che vivono, perché ogni volta che si apre il sipario ciascuno porta alla ribalta un pezzo della propria vita. Nel musical probabilmente sapete come va a finire, qualcuno verrà scelto, qualcun altro no (tu, tu, tu, tu e gli altri a casa, la prossima volta, grazie), ma tutti alla fine, come per magia, appariranno in lustrini, paillettes a dirci cantando "one", il motivo più orecchiabile dello show, che si tratta comunque di una "singular sensation".

Una singolare sensazione che prende anche il pubblico. Il musical infatti ci commuove ribaltando le classiche convinzioni del genere, che ha fatto i primi passi (vedi i film hollywoodiani degli anni ruggenti) proprio curiosando dietro le quinte, quando anonime "girls" uscivano tremanti in palcoscenico e tornavano in camerino "stelle", come ha sempre insegnato "Quarantaduesima Strada". Ma Michael Bennett, il regista che per primo mise in scena "A CHORUS LINE" non solo ha intuito un potenziale di attori, ma ha adeguato la grande trovata del testo di Kirkwood e Dante, ritmato dalle bellissime musiche di Marvin Hamlish, ai tempi interiori ed esteriori del teatro moderno. Poche scene, anzi nessuna, solo uno specchio sullo sfondo, ed un gioco "elettrico" che cambia continuamente voltaggio tra finzione e realtà.

Se insomma "Quarantaduesima Strada" raccontava i pettegolezzi dei camerini, "A CHORUS LINE" ha un modo di esprimersi netto, preciso, diverso, in cui ogni aspirante ballerino racconta, già esibendosi, come e perché si trova lì.

Ed ecco quindi brandelli di vita vissuta, ora amari, ora buffi, ora divertenti, come una seduta psicoanalitica cantata e ballata.

E dopo il verdetto del regista, il musical si impenna, sogna, e diventa per un attimo fuggente sfarzoso: il doppio sogno di un musical alla sera della prima. Lo spettacolo che ha vinto 9 Tony Awards ed il premio Pulitzer, ha rivoluzionato il musical, perché davvero, per la prima volta, adopera sullo stesso piano il testo, la musica, la coreografia ed il personale carisma degli attori, che diventano subito amici e nostri complici, portandoci per mano in una visita guidata tra illusioni e delusioni del teatro moltiplicati all’infinito dallo specchio. La simpatia sta nell’affiatamento che nasce sul palcoscenico, dove i nuovi talenti si fanno le ossa e magari utilizzano un poco di autobiografia. Perché il fascino di questo show appartiene all’eterno della domanda sul bisogno della finzione, quando la curva del teatro incontra, complice un refrain, quello della poesia.


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