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venerdì 5 dicembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 5 dicembre.

Il 5 dicembre 1925 viene proiettata per la prima volta "La corazzata Potemkin".

Nel gennaio del 1905, nella Russia zarista si tenne la prima grande prova generale della guerra civile che nell’ottobre del ’17 avrebbe sollevato lo zar e il suo regime autocratico.

Tra gli episodi di rilievo di una crisi che si spense solo nel dicembre, si ricorda l’ammutinamento di una squadra navale sul Mar Nero che divenne il soggetto del film di propaganda per eccellenza, proibito in tutte le democrazie liberali e che aveva invece entusiasmato Goebbels, “La corazzata Potemkin”, appunto.

Siamo nel 1925, nel ventennale della proto-rivoluzione e il cinema sovietico è chiamato a eternarla, focalizzandone alcuni episodi memorabili.

Grande curiosità è riposta sul ventisettenne Sergej Michailovic Ejzenstejn che aveva esordito al cinematografo appena l’anno prima con “Sciopero” (Stacka, 1924), un film che aveva fortemente diviso non solo la critica cinematografica ma soprattutto l’ortodossia bolscevica che ne metteva in evidenza i peccati di magniloquenza, simbolismo, estetizzazione e, peccato mortale, “confusione ideologica”.

D’altra parte, soprattutto all’estero, se ne magnificava la potenza visiva, il montaggio dialettico e la messa in quadro basata sui conflitti.

Strutturata in cinque atti, come la classica tragedia greca, ci troviamo a bordo della corazzata dove si svolge il primo: “Uomini e vermi”.

Vakulincuk (Alexandr Antonov) e Matuchenko (Mikhaïl Gomarov) esprimono ad alta voce il desiderio di ammutinarsi e unirsi alla protesta al fianco degli operai di Mosca e San Pietroburgo.

La nave diventa lo spazio scenico della prima sineddoche: la nave è la Russia zarista, divisa in classi (ufficiali vs marinai), regno che nega le evidenze quali il riconoscere che sì, le carni a bordo sono marce e coi vermi attaccati che banchettano.

Alle rimostranze della ciurma, il corpo-ufficiali risponde con la violenza paternalistico-autocratica: chi non mangia muore.

Il secondo atto, “Dramma sul cassero”, è il faccia a faccia tra il corpo-ufficiali sostenuto dai fedelissimi e la massa disorganizzata e tendenzialmente pavida della ciurma, condannata alla fucilazione esemplare dei suoi membri più riottosi.

Entrano in gioco, in questo segmento, i conflitti tra le geometrie marziali e armoniche del potere e il disordine delle masse da sedare sulle quali è gettato un telone che li riorganizza in uno spazio geometrico che ne faciliti l’eccidio.

Basta però l’emergere di una larvale leadership per aprire le chiuse di una cascata sublime e informe, aizzata dal valoroso Vakulincuk.

Il terzo atto, “Il morto chiama”, è una curiosa inversione della dottrina leninista: Vakulincuk è morto e il suo sacrificio, raddoppiato dall’epigrafe che recita “Ucciso per un piatto di minestra”, offre la spinta di natura emotiva (non razionale né scientifica) per diffondere un sentimento di rivalsa prima sulla nave e poi nella città di Odessa presso cui sbarcano.

Come la nave infestata del “Nosferatu” di Murnau, anche nel Potemkin entra in gioco l’inversione di una epidemia, benigna, in cui il tema della tenebra è, ancora in inversione, il “sol dell’avvenire”.

Il quarto atto, “La scalinata di Odessa”, è il punto più acuto del dramma.

La fanteria da un lato e i cosacchi a cavallo dall’altro macellano i cittadini di Odessa, colpevoli solo di aver fraternizzato con i marinai ammutinati. Dalla corrazzata per tutta e indignata risposta, tuonano i cannoni puntati su alcuni edifici simbolo dell’autocrazia.

Il quinto atto, “Uno contro tutti”, dovrebbe a questo punto ristabilire l’ordine sconvolto. L’episodio si svolge in mare con la corazzata che si trova di fronte un cacciatorpediniere che scorta la temibile nave ammiraglia. Le operazioni di avvicinamento suggeriscono il climax più sanguinario, i colpi di cannone che attendiamo secondo dopo secondo…

In estrema sintesi questo è il soggetto del film e chi non lo avesse mai visto potrebbe anche chiedersi perché a tutt’oggi è considerato come uno dei film più belli, più potenti e più evocativi di tutta la storia del cinema. Domanda cui cercheremo di dare qualche risposta.

Il film reca in esergo una lunga frase di Lenin inneggiante la rivoluzione in quanto atto di violenza non solo legittimo ma necessario. Non sempre presente nelle varie versioni delle pellicole in circolazione, è stata reintegrata nell’ultimo e definitivo restauro qui preso in analisi, portato a termine dal Kulturstiftung des Bundes con il supporto del Bundesarchiv-Filmarchiv di Berlino, il British Film Institute di Londra, il Filmmuseum di Monaco e il Gosfilmfond di Mosca, enti coordinati da Enno Patalas, già artefice dello splendido restauro del “Metropolis” di Fritz Lang.

La frase, a qualcuno forse ne ricorderà un’altra del medesimo tenore, firmata da Mao Tze Tung che introduceva il “Giù la testa” di Sergio Leone.

Il restauro del Potemkin ha anche restituito dignità al compositore della partitura, Edmund Meisel, che in molte versioni aveva dovuto cedere podio e bacchetta al più celebre Dimitrij Shostakovich, la cui partitura è posteriore. Entrambe, in realtà, non danno applicazione alla teoria eisenstaniana del montaggio audiovisivo che solo a partire da “Alexander Nevskji” (suo primo film sonoro, musiche di Prokof’ev) troverà i punti di applicazione.

Nel Potemkin la musica è accessoria, segue il racconto come un banale “accompagnamento” e tende semmai a mimetizzarsi.

Cosa, al contrario, che balza subito all’occhio è la messa in quadro dei singoli piani.

Si usa spesso la dicitura russa “mizankadr”, la disposizione degli elementi, che in Ejzenstejn raggiunge una quasi-scientificità: i piani sono disposti seguendo una certa dominante, volumetrica/tonale, disadorna/barocca, animata/inorganica, evidenza/sfondo, centrata/eccentrica. Questo lavoro certosino è stato reso possibile dalla sintonia del regista col suo fedelissimo direttore della fotografia, quell’Eduard Tissé che ha lavorato in tutti i suoi film e che forma insieme all’aiuto regista Grigorji Alexandrov una vera e propria triade.

A suffragio dell’importanza della mizankadr, dobbiamo ricordare che Ejzenstejn sposta molto raramente la cinepresa e fa un uso eterodosso del “primo piano” che contestava coevo a una rappresentazione di tipo capitalistica, apoteosi della star e dell’individualismo soggiacente. Per Ejzenstejn il “primo piano” non è l’immagine-affetto (come l’ha definita Gilles Deleuze), l’empatia produttiva all’immedesimazione nell’eroe e delle sue nobili gesta o nel desiderio dell’eroina e nel meccanismo sensuale del suo possesso.

Ejzenstejn, nella prima parte della sua carriera, rappresenta le masse che si muovono come un corpo solo e organico. Solo l’ostracismo di cui fu vittima lo costrinse nella seconda parte della sua carriera a rifugiarsi nel passato e a utilizzare il grande Cerkasov come l’eroe, la star, il deus ex machina (Nevskji, Ivan il Terribile) di cui avrebbe fatto volentieri a meno.

Dunque, Ejzenstejn nega la star cui comunque dona il ruolo di scintilla per la presa di coscienza; d’altro canto, il povero Vakulincuk muore fin dal primo atto.

Le masse diventano il punto focale, sempre meglio compattate e organizzate, messe in valore dai tagli laterali e in contro-plongée dell’inquadratura per significare la forza prorompente e la potenza rivoluzionaria anche nei momenti di difficoltà più evidenti, quali quelli sulla famosa scalinata di Odessa.

È legittimo a questo punto interrogarsi sulla modernità di Ejzenstejn, nonostante l’immobilità della cinepresa.

I suoi film (soprattutto quelli muti) hanno un numero incredibile di inquadrature; “Ottobre” ne conta 3.800 e per farsi un’idea diciamo che un normale film narrativo, anche dei giorni nostri e a parità di durata, conta un numero che varia tra le 700 e le 1500 al massimo.

Le inquadrature del Potemkin sono spesso brevissime, alcune misurabili in fotogrammi (o frame video).

Emblematica, a tal riguardo, è la celebre “alzata” dei leoni di pietra, una delle sequenze più celebri della storia del cinema.

In risposta all’eccidio zarista, dal Potemkin partono sulla terraferma dei colpi di cannone; lo shock e la distruzione “aprono le orecchie” alla popolazione di Odessa che, simbolizzata dai leoni immobili, si mette in piedi e si solleva, attraverso tre inquadrature: il leone a riposo (durata: 26 frame), il leone pronto a scattare (28 frame) e il leone finalmente in piedi (26 frame). Parliamo insomma di un secondo (25 frame) cui l’idea del balzo sta tutto in quei due frame in più dell’inquadratura centrale e dalla messa in quadro frontale/contro-plongée.

 Un altro fondamentale elemento dinamizzante è il conflitto che lega le inquadrature, il montaggio. Tanto più un’inquadratura risulta dinamizzata quanto più la si lega in modo speculare: a uno sbilanciamento a destra, per esempio, se ne lega uno a sinistra, la centratura è la sintesi cognitiva dello spettatore impegnato in un processo attivo di senso. E così via.

Il momento in cui maggiormente si attua questa tecnica è l’intero quinto atto.

Quello che nella tragedia greca è il momento della catarsi, ne “La corazzata Potemkin” è il punto di massima tensione.

L’episodio si svolge in mare aperto e la nostra nave è fronteggiata da un cacciatorpediniere che fa scorta alla nave ammiraglia. I volumi delle tre imbarcazioni danno già la disparità dello scontro che per il Potemkin è il presagio di una, sia pur gloriosa, disfatta.

 Attraverso il montaggio alternato che diventa sempre più serrato, assistiamo alle manovre delle bocche dei cannoni che si preparano al primo colpo, raccordati sull’asse per dare l’idea dell’avvicinamento; si alzano, si spostano, mirano in movimenti speculari e mentre uno si alza l’altro si abbassa, quando si sposta a destra l’altro lo fa a sinistra… e il movimento è raddoppiato, triplicato, decuplicato da tutta la materia inorganica contigua: aghi delle bussole impazziti, timoni, mirini, nuvole di vapore, onde del mare, bandiere che sventolano, prue, caricatori, sforzi degli equipaggi che manovrano tutto il manovrabile ma sempre in costruzione speculare, serrata e raccordata fino al parossismo di un apice che dovrebbe essere un ordine secco (“Fuoco!”) che diventa invece un’interrogazione (“Fuoco?”) e darà una boccata d’ossigeno all’ansia che ha magistralmente costruito con un campo totale delle tre navi e una pioggia di cappelli lanciati in aria per la felicità.

Questa sequenza rima con un medesimo incontro in mare, tra la corazzata e le velocissime barche a vela che testimoniano l’incontro festoso e fraterno degli ammutinati con la popolazione di Odessa che si reca in pellegrinaggio verso il Potemkin per rifocillarli di cibo e animali da insaccare.

Lì il movimento è arioso e dinamizzato dalle vele bianche che si gonfiano e si muovono con un moto a spirale fino alla meta.

È un dinamismo stile “allegra scampagnata” e di tipo affettivo in quel conflitto di volumi tra le barchette minuscole e la marziale corazzata in cui percepiamo la scompostezza festosa di tanti cuccioli che abbracciano in mille modi una madre benevola e un po’ impacciata di fronte all’indisciplina dei suoi amati.

Ultimo punto strutturale del racconto del Potemkin è la figura retorica della metonimia. Vediamone un paio di esempi.

L’ufficiale medico che col pince-nez esamina la carne e sentenzia, in malafede, che marcia non è, lo sapremo morto quando rivedremo i suoi saccenti occhialini penzolare insieme ai vermi da un quarto di bue infetto. Ejzenstejn omette di rappresentarne la morte e la evoca attraverso il triste penzolare di una qualità (in realtà un difetto, alla vista) del soggetto in questione.

Allo stesso modo, nell’episodio della scalinata di Odessa, Ejzenstejn mette in moto un meccanismo complesso intorno alla celebre carrozzina.

Una madre (curiosità: è un’attrice italiana, Beatrice Vitoldi), evocativamente vestita di nero, con le labbra nere (rosse dunque) e il volto bianco latte (una figura estremamente sensualizzata, insomma) è colpita a morte e perde il controllo della carrozzina col bimbo dentro.

La sua discesa all’impazzata mette in valore (cioè in estrema tensione) la fuga dei cittadini di Odessa immortalati in una dignità di movimento che ne farebbe percepire una certa lentezza del gesto non fosse per la carrozzina che, letteralmente, vediamo sfrecciare.

Arrivata al fondo, si ribalta e la morte dell’infante è resa di gran lunga più cruenta attraverso il volto di una donna che guarda l’evento atterrita, cui segue il “piano americano” di un cosacco pronto a sferrare un colpo mortale al bambino col calcio del fucile che dà quasi l’impressione di un colpo di baseball, cui segue l’inquadratura-sintesi della faccia insanguinata della donna che pare aver lei ricevuto il colpo: una sorta di transfert, la visione dell’infanticidio che si riflette materialmente sul soggetto della visione, la materializzazione di uno scandalo insostenibile.

giovedì 4 dicembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 4 dicembre.

Il 4 dicembre 1642 il cardinale Mazzarino diventa il Segretario di Stato dell'Impero di Francia.

Giulio Mazzarino nacque a Pescina (L’Aquila) nel 1602.

Dopo gli studi presso il collegio romano dei Gesuiti, frequentò le università di Alcalá e di Madrid. Tornato in Italia, passò al servizio dei Colonna col grado di capitano (1623-1626).

Addottoratosi in utroque iure passò, durante la seconda guerra del Monferrato (1627-1631), al servizio del cardinale Antonio Barberini, legato del papa Urbano VIII, facendosi notare per la sua abilità di fine diplomatico nelle trattative tra Asburgo, Francia e duca di Savoia, concludendo la tregua di Casale e la pace di Cherasco (1631) che mise fine alle ostilità tra Francia e Savoia.

Durante queste trattative Mazzarino ebbe l’occasione di incontrare più volte il cardinale Richelieu, di cui divenne uno stretto collaboratore. Fu legato papale in Avignone (1633) e poi nunzio straordinario a Parigi. Ottenuta la cittadinanza francese (1639), passò ufficialmente al servizio di Richelieu, che lo fece nominare cardinale (1641) e lo raccomandò al re Luigi XIII come proprio successore.

Dalla morte di Richelieu, Mazzarino fu primo ministro e ascoltato consigliere di Luigi XIII, che tuttavia morì pochi mesi dopo. La reggente Anna D’Austria, non appena il Parlamento di Parigi annullò la disposizione testamentaria del marito che la poneva sotto tutela di un consiglio di reggenza, nominò suo ministro proprio il Mazzarino, al quale si disse fosse segretamente sposata, diceria già smentita da S. Vincenzo de Paoli.

Nonostante Richelieu avesse lasciato precise indicazioni di comportamento politico e gli strumenti per realizzarli, le difficoltà del Mazzarino furono notevoli. La Francia si trovò impegnata, fino al 1648, nell’ultima fase della guerra dei trent’anni e fino al 1659 nel conflitto con la sola Spagna (durante il quale Mazzarino dovette far fronte anche al tradimento del Principe di Condé passato agli spagnoli). Col trattato di Vestfalia Mazzarino ottenne il riconoscimento della annessione dei vescovati di Metz, Toul e Verdun, il possesso di gran parte dell’Alsazia e la definitiva frammentazione di una Germania devastata aperta all’influenza politica e culturale francese. Con la pace dei Pirenei ottenne invece il ridimensionamento della potenza della Spagna, privata della Cerdagne, del Rossiglione, dell’Artois e di altre piazzeforti. Grazie al matrimonio fortemente voluto da Mazzarino tra Luigi XIV e l’infante Maria Teresa, la Spagna veniva poi costretta a muoversi nell’orbita politica francese.

Sul piano interno dovette affrontare la grave crisi della Fronda (dapprima – 1648 – la cosiddetta Fronda Parlamentare, successivamente – 1650-1652 – la Fronda Principesca) che lo costrinse due volte all’esilio ma che lo vide comunque trionfare sugli oppositori grazie a un abile e accurato dosaggio dell’uso della forza e di quello delle trattative, giungendo appunto fino all’apparente cedimento e alla fuga.

Dal 1653 al 1661 l’unico serio elemento di disturbo nella politica interna fu il giansenismo. Finché la polemica tra gesuiti e giansenisti si mantenne sul piano strettamente religioso, Mazzarino si astenne dall’intervenire in modo deciso, ma dopo la pubblicazione delle anonime “Lettere Provinciali”, non appena le critiche dei giansenisti si appuntarono sull’assetto politico e sociale vigente, la reazione del cardinale divenne dura: fece condannare dalla Sorbona le Cinque Tesi, fece chiudere manu militari il convento di Port-Royal e compilare un formulario di condanna del giansenismo la cui sottoscrizione fu imposta a tutti gli ecclesiastici del regno.

Alla sua morte, avvenuta a Vincennes (Parigi) nel 1661, Mazzarino, tanto odiato e disprezzato dalla maggior parte dei francesi, lasciava al suo paese di adozione, oltre alla sua splendida biblioteca personale (divenuta poi sede della Biblioteca nazionale), la pace all’interno e all’esterno e un sovrano da lui personalmente e accuratamente formato all’arte del governo e circondato da abili collaboratori. Lasciava peraltro anche una situazione finanziaria non certo brillante, determinata, oltre che dalle spese belliche, anche dalla eccessiva disinvoltura sua e dei suoi collaboratori nella gestione del pubblico denaro.

Le sue spoglie riposano nella cappella del Collège des Quatre-Nations, a Parigi.


mercoledì 3 dicembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 3 dicembre.

Il 3 dicembre 1957 a Città del Capo, Christiaan Barnard effettua il primo trapianto di cuore al mondo.

“Era egocentrico, gran lavoratore, intelligente, ambizioso, insolente e arrogante; agiva con la convinzione che qualsiasi cosa gli altri sapessero fare, era in grado di farla anche lui. Quando scoprì che un chirurgo russo aveva trapiantato a un cane una seconda testa, andò subito nello stabulario e ripeté l’esperimento, mostrandoci con fierezza il grottesco risultato. Eppure l’intervento non serviva a nulla, se non a esibire il suo virtuosismo tecnico”. L’uomo in questione è Christiaan Barnard, il chirurgo sudafricano autore del primo trapianto cardiaco. A tracciarne questo ritratto, non proprio lusinghiero – soprattutto se si considera che fu scritto in occasione della sua morte (il 2 settembre del 2001) – fu un vecchio collega, l’endocrinologo Raymond Hoffenberg. Ma perché questa malcelata acrimonia?

In effetti Barnard, uno dei pochissimi chirurghi a essere passato alla Storia, era poco apprezzato dai compagni di lavoro. Non tanto per le capacità tecniche (indiscusse) ma piuttosto per quell’insieme di comportamenti che gli antichi Greci avrebbero definito hybris: la tracotanza di chi ritiene di poter superare qualsiasi limite, di chi persegue i propri obiettivi violando leggi, usanze e tradizioni condivise. Tanto per dirne una, quando il 3 dicembre 1967 espiantò il cuore da una giovane donna per trapiantarlo in un uomo di mezza età, Barnard era, almeno secondo le leggi di allora, un omicida. Non solo. Ai tempi della sua storica impresa non era il cardiochirurgo più quotato al mondo, né l’ospedale Groote-Schuur di Città del Capo, dove operò, era considerato la punta di diamante per i trapianti d’organo.

Nell’ambiente erano tutti convinti che il primo a cimentarsi nell’intervento sarebbe stato Norman Shumway, che alla Stanford University di Palo Alto, in California, aveva passato anni a esercitarsi sui cani per poter essere in grado di effettuare il trapianto cardiaco perfetto. Era lui il chirurgo più pronto, ma era frenato da limiti etici e legali. Per la buona riuscita di un trapianto di cuore, infatti, l’organo da utilizzare doveva essere prelevato ancora battente, ovvero da una persona tecnicamente viva.

A quei tempi, infatti, per decretare la morte di una persona si faceva riferimento al cuore: si era ufficialmente deceduti quando questo cessava di battere. Va detto però che alcune innovazioni mediche stavano minando questa convenzione. L’introduzione della respirazione artificiale (prima con il polmone d’acciaio e poi con la ventilazione artificiale), il perfezionamento del massaggio cardiaco (la compressione ritmica del torace per permettere a un cuore in arresto di riprendere a battere) e l’invenzione della defibrillazione cardiaca (una scossa di corrente alternata che interrompe le gravi aritmie) avevano portato alla nascita di una nuova disciplina che “resuscitava” persone dal destino segnato, che non a caso fu chiamata “rianimazione”.

I medici si trovarono così alle prese con una serie di casi mai visti prima. Alcuni individui colpiti da gravi lesioni cerebrali, una volta sottoposti a ventilazione meccanica, invece di morire o riprendersi restavano in uno stato di completa incoscienza: non avevano segni di attività nervosa, non rispondevano a stimoli esterni, non respiravano da soli.

Questo nuovo stato fu battezzato coma depassé, cioè “al di là del coma”, ma era evidente che si poneva un dilemma: che fare di queste persone, il cui cuore continuava a battere? La maggior parte dei medici riteneva che per loro non vi fosse possibilità di ripresa, essendo il cervello completamente danneggiato. Ma tutto era ancora incerto e la decisione di “staccare la spina” restava discrezione dei medici.

Insomma: l’idea di asportare un cuore ancora battente, anche se da una persona che la scienza medica indicava come morta, per impiantarlo in un altro corpo, significava andare oltre un limite. E non era una passeggiata. Ecco perché nessuno osava fare il primo passo, temendo polemiche soprattutto nel caso (tutt’altro che improbabile) di un fallimento. Serviva una persona disposta a correre quei rischi e Barnard cascava a fagiolo: non era dilaniato da scrupoli morali e scalpitava per mettere a frutto le competenze che riteneva di possedere.

L’intervento non era in realtà così difficile, specie se paragonato per esempio alle operazioni per riparare alcune deformità congenite del cuore. Così, a differenza dei colleghi, Barnard non tergiversò e individuò subito il candidato ideale per il trapianto: un droghiere di mezza età, Louis Washkansky, che oltre a un cuore completamente spompato aveva reni e fegato pressoché fuori uso. Praticamente un caso disperato. Proprio quello che ci voleva per un intervento ad alto rischio, mai sperimentato prima, ma che certamente avrebbe fatto clamore.

L’opportunità si presentò la notte fra il 2 e il 3 dicembre 1967, quando fu ricoverata una giovane donna in coma irreversibile dopo un incidente d’auto. Barnard prese l’iniziativa senza avvisare nessuno (per questo non esistono foto dell’intervento) e solo dopo 5 ore di sala operatoria telefonò al direttore dell’ospedale comunicandogli l’esito: intervento riuscito. Poco importa se Washkansky morì appena 18 giorni dopo di polmonite: il primo trapianto di cuore fu presentato dai media come un grande trionfo della medicina e Barnard, forte del suo innato carisma, non solo non venne mai accusato di omicidio, ma divenne in breve una star internazionale (a differenza di altri colleghi che prima di lui avevano trapiantato altri organi, quali rene e fegato, che colpivano molto meno l’immaginazione del pubblico).

Ancora una volta il chirurgo sudafricano non perse tempo. Appurato che l’operazione era tecnicamente riuscita, il 2 gennaio 1968 tentò un secondo intervento. A ricevere un cuore nuovo di zecca fu stavolta Philip Blaiberg, dentista 59enne che sopravvisse per più di un anno e mezzo: di fatto fu questo successo a dare il via libera ai trapianti di cuore. Ancora una volta con la complicità dei media, stregati dal fascino di quella sfida con la morte. A dispetto delle cronache del tempo (che parlarono di rinascita, indugiando persino sul recupero del vigore sessuale) la salute di Blaiberg era gravemente compromessa. Una fotografia ripresa da tutti i giornali, in cui il secondo trapiantato sguazza allegro tra le onde del mare, ha retroscena poco noti: testimoni riferiscono che Blaiberg fu trasportato in acqua di peso, giusto il tempo di scattare la foto, e poi subito strappato ai flutti.

Solo recentemente, decenni dopo l’intervento, si sono scatenate le polemiche su quella sfida più etica che medica: secondo Hoffenberg, Barnard partì troppo presto, “prima del segnale di via”, quando lo stato delle conoscenze era ancora limitato. Sull’onda dell’entusiasmo e presi dallo spirito di emulazione molti chirurghi si cimentarono in trapianti di cuore (un centinaio solo nel primo anno) per i quali non erano tecnicamente preparati e senza aver risolto il problema cruciale della possibile crisi di rigetto del nuovo organo (la ciclosporina fu introdotta solo nel 1971).

Ma un merito a Barnard bisogna riconoscerlo. Fu grazie a quell’atto di “tracotanza” che la comunità medica si decise in tutta fretta ad adottare criteri comuni per la definizione di “morte cerebrale”. Nel 1968, infatti, un comitato di esperti dell’Università di Harvard pubblicò su Jama (una delle più autorevoli riviste mediche) il rapporto Una definizione del coma irreversibile, poi diventato la base di tutte le legislazioni nazionali, in cui si stabiliva quando è lecito interrompere la rianimazione perché il paziente è clinicamente morto. Nel rapporto veniva definita la “sindrome della morte cerebrale”: il soggetto non dà segni di recettività, non presenta alcun movimento, non respira spontaneamente, non conserva riflessi e l’elettroencefalogramma è piatto. Criteri che si mantengono quasi invariati ancora oggi.

Barnard, dal canto suo, divenuto sui giornali “il profeta dei cuori” e “il mago dei trapianti”, smise invece di operare (anche per via di una brutta artrite reumatoide), dedicandosi alle conferenze e soprattutto alla bella vita e alle belle donne. Come la seconda moglie Barbara Zoellner, ricchissima e appena diciannovenne quando la sposò nel 1970; o come la terza, Karin Setzkorn, di una cinquantina d’anni più giovane di lui. Non si sa invece chi fosse al suo fianco quando, nel 2001, si spense a Cipro ai bordi di una piscina. Lo uccise un attacco d’asma. Ma tutti i giornali scrissero che aveva avuto un infarto al cuore.

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