Cerca nel web

sabato 6 dicembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 6 dicembre.

Il 6 dicembre 1969 Meredith Hunter, giovane afroamericano di 18 anni, viene accoltellato e ucciso nel corso di quello che sarebbe dovuto essere "il Woodstock del West," ma che si trasformò in una delle pagine nere della storia del rock. Succedeva al concerto gratuito dei Rolling Stones presso l'Altamont Speedway, nella California del Nord. Il concerto di Altamont divenne così la fine simbolica degli anni Sessanta della pace e amore, ma anche una sorta di campanello d'allarme che servì a ricordare al mondo intero che ottimismo e idealismo non sarebbero più bastati per tirare avanti. Quello spirito passionale, idealista e spensierato dei giovani dell'epoca aveva chiaramente dei limiti. La nuova generazione che si diceva pronta a prendere il controllo del paese in realtà non poteva riuscire a cancellare la storia del razzismo in America.

Con l'intento di emulare il successo di Woodstock di quattro mesi prima, il concerto di Altamont fu messo in piedi piuttosto frettolosamente e nella fase organizzativa la "sicurezza" fu affidata alla gang di motociclisti degli Hells Angels. Questi, buttafuori improvvisati, nel corso della giornata aveva avuto diversi scontri violenti con i partecipanti, la maggior parte bianchi. Ma sarebbe un errore trascurare la possibilità che uno degli Hells Angels abbia puntato proprio Hunter perché nero e in compagnia di una ragazza bianca. Se consideriamo poi il trascorso degli Hell's Angels, il loro passato di violenze e il fatto che si presentassero come un'organizzazione paramilitare con lo scopo di tenere le strade pulite—leggi: eliminare i neri—non è difficile ricondurre il tragico episodio di Hunter a una questione razziale.

Nel libro Just a Shot Away, Saul Austerlitz racconta la storia nel dettaglio. Sebbene molti conoscano Meredith per il film Gimmie Shelter del 1970, l'autore approfondisce la storia di Hunter prima di quel fatidico 6 dicembre, e si addentra nelle vicende che hanno coinvolto la sua famiglia negli anni successivi all'omicidio. Austerlitz parla dell'idea folle di assoldare una gang di reazionari e affidare loro la sicurezza di un evento, per capire cosa significa il verdetto finale di assoluzione e del perché questo episodio ha profonda rilevanza culturale oggi.

Negli anni, moltissime persone che erano state coinvolte hanno scritto libri e opinioni a riguardo. Spesso, il sentimento sotteso a queste pubblicazioni era "Non è stata colpa mia," oppure "Ecco con chi dovreste prendervela." 

Come riportato precedentemente, l'organizzazione del concerto era stata piuttosto precipitosa per cavalcare il successo di Woodstock, e di certo non si aspettavano oltre 300mila visitatori. Ma come hanno potuto commettere un errore così clamoroso?

Il successo può essere pericoloso. Tra i concerti gratuiti organizzati a San Francisco da gruppi come Grateful Dead e Jefferson Airplane, Woodstock e i tantissimi ritrovi di massa che hanno caratterizzato i tardi anni Sessanta, come Human Be-In, si era diffusa la sensazione che questi eventi funzionassero sempre per il meglio: semplicemente tutti si divertivano, ascoltavano la musica e si drogavano in compagnia. Nessuno si faceva domande tipo: cosa mangeranno le persone? Avranno bisogno di bagni? Dove dormiranno? Chi si occuperà della loro sicurezza? Nella mentalità di allora, erano solo tante persone che passavano del tempo insieme.

Una filosofia lodevole che però non portò a nulla di buono.

La responsabilità fu tanto dei Grateful Dead quanto dei Rolling Stones che li ingaggiarono. Furono infatti loro a garantire che gli Hells Angels avevano fatto un buon lavoro occupandosi della sicurezza a un loro concerto al Golden Gate Park.

Fu chiaramente un errore. Come fu un errore pagarli in alcol, aggravando la situazione. I Grateful Dead avevano già lavorato con gli Angels, ma questa era una situazione del tutto nuova. Erano in un posto che non conoscevano, avevano a che fare con un pubblico forse 100 volte più grande ed erano stati scelti come unici addetti alla sicurezza per uno show di questa portata. Tutti questi errori hanno portato al disastro che sappiamo.

Gli Hells Angels sono considerati oggi come un'organizzazione criminale. Com'era la situazione nel 1969, subito dopo che Hunter S. Thompson li presentò al mondo nel suo libro, appunto, Hell's Angel?

La pubblicazione del libro di Thompson è stata una grande svolta: era la prima volta che tanti americani si imbattevano negli Angels—e per molti quello era il primo contatto con la cultura del motociclismo in generale. Avevano già avuto un ruolo in qualche film anni Cinquanta, come The Wild Ones, ma Thompson riuscì a caratterizzare i personaggi della gang in modo reale, raccontando quali erano i loro interessi, i loro comportamenti all'interno della gang e nei confronti del mondo esterno.

Già al tempo, gli Angels erano praticamente un'organizzazione criminale. Erano stati loro a interrompere le manifestazione di pace contro la guerra in Vietnam a Berkeley, intervenendo e picchiando i manifestanti. Erano già stati accusati di crimini razzisti e violenza razziale. Dopo Altamont, però—quando ci fu la rottura del movimento della controcultura—si spostarono in modo irrevocabile verso la criminalità più pura. Ora avevano dimostrato a tutto il mondo criminale che erano fedeli a stessi e a un'organizzazione.

Fu così che iniziarono a essere direttamente coinvolti nel traffico di cocaina e divennero i messaggeri della droga negli anni a venire. Altamont è stato un momento di transizione per il movimento. Ruppero con tantissime persone con cui avevano contatti e che li consideravano dalla loro parte, quelle stesse persone che all'inizio pensarono Bene, a noi non piace la polizia, e a voi neanche, quindi possiamo essere amici, dopo Altamont cambiarono idea sul loro conto.

Alan Passaro, membro della gang, fu accusato di aver accoltellato Hunter, ma fu poi scagionato per legittima difesa. Questa storia non è certo nuova agli americani di oggi.

Probabilmente, era colpevole. Le riprese che sembravano inizialmente condannare Passaro alla fine lo scagionarono, perché la giuria considerò esclusivamente quanto si vede in video. Ma nelle immagini è difficile capire cosa succeda veramente. Si sentono delle voci di sottofondo, e diversi testimoni hanno parlato di quanto successo quel giorno, cose davvero terribili. Nel video, effettivamente, si vede Hunter con una pistola in mano, ma quello che i testimoni raccontano sia successo dopo che Hunter fu disarmato, e non ripreso in video, è assolutamente spaventoso.

Invece di agire come avrebbe fatto un normale addetto alla sicurezza, ammanettando Hunter e allontanandolo, gli agenti avrebbero semplicemente portato Hunter in un posto più nascosto e continuato a picchiarlo fino a ucciderlo.

L'avvocato di Passaro, George Walker—lui stesso afroamericano—sostenne che Passaro fosse intervenuto per difendere i presenti, cioè non perché si sentiva in pericolo di vita ma perché temeva che Meredith Hunter potesse fare del male agli altri. La difesa di Passaro riuscì ad aggirare i principali problemi in molti modi. Per questo, l'Hells Angel fu scagionato.

I fatti a cui abbiamo assistito e continuiamo ad assistere negli ultimi anni ci ricordano quanto quei sentimenti che predominavano la cultura nel 1969 non siano affatto svaniti. Abbiamo fatto molti progressi, anche in ambito di discriminazione razziale, ma se consideriamo il Presidente degli Stati Uniti, il linguaggio che usa, il fatto che i suoi sostenitori siano disposti a passare sopra alle sue dichiarazioni razziste, credo che tutto questo dovrebbe farci riflettere sul fatto che la discriminazione razziale sia ancora profondamente radicata.

Tuttavia, il tempo è servito per comprendere al meglio la storia di Hunter. All'epoca, si era discusso principalmente del fatto che l'incidente fosse accaduto a un concerto rock, si era parlato della controcultura e degli Hells Angels. In realtà, questa storia è molto più connessa alla nostra cultura contemporanea che a quella del 1969. L'episodio è un esempio di quello che accade quando un cittadino afroamericano si trova in un posto dove, secondo le autorità, non dovrebbe stare. In questo senso, trovo che sia una storia quanto mai attuale e, purtroppo, già sentita troppe volte.

venerdì 5 dicembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 5 dicembre.

Il 5 dicembre 1925 viene proiettata per la prima volta "La corazzata Potemkin".

Nel gennaio del 1905, nella Russia zarista si tenne la prima grande prova generale della guerra civile che nell’ottobre del ’17 avrebbe sollevato lo zar e il suo regime autocratico.

Tra gli episodi di rilievo di una crisi che si spense solo nel dicembre, si ricorda l’ammutinamento di una squadra navale sul Mar Nero che divenne il soggetto del film di propaganda per eccellenza, proibito in tutte le democrazie liberali e che aveva invece entusiasmato Goebbels, “La corazzata Potemkin”, appunto.

Siamo nel 1925, nel ventennale della proto-rivoluzione e il cinema sovietico è chiamato a eternarla, focalizzandone alcuni episodi memorabili.

Grande curiosità è riposta sul ventisettenne Sergej Michailovic Ejzenstejn che aveva esordito al cinematografo appena l’anno prima con “Sciopero” (Stacka, 1924), un film che aveva fortemente diviso non solo la critica cinematografica ma soprattutto l’ortodossia bolscevica che ne metteva in evidenza i peccati di magniloquenza, simbolismo, estetizzazione e, peccato mortale, “confusione ideologica”.

D’altra parte, soprattutto all’estero, se ne magnificava la potenza visiva, il montaggio dialettico e la messa in quadro basata sui conflitti.

Strutturata in cinque atti, come la classica tragedia greca, ci troviamo a bordo della corazzata dove si svolge il primo: “Uomini e vermi”.

Vakulincuk (Alexandr Antonov) e Matuchenko (Mikhaïl Gomarov) esprimono ad alta voce il desiderio di ammutinarsi e unirsi alla protesta al fianco degli operai di Mosca e San Pietroburgo.

La nave diventa lo spazio scenico della prima sineddoche: la nave è la Russia zarista, divisa in classi (ufficiali vs marinai), regno che nega le evidenze quali il riconoscere che sì, le carni a bordo sono marce e coi vermi attaccati che banchettano.

Alle rimostranze della ciurma, il corpo-ufficiali risponde con la violenza paternalistico-autocratica: chi non mangia muore.

Il secondo atto, “Dramma sul cassero”, è il faccia a faccia tra il corpo-ufficiali sostenuto dai fedelissimi e la massa disorganizzata e tendenzialmente pavida della ciurma, condannata alla fucilazione esemplare dei suoi membri più riottosi.

Entrano in gioco, in questo segmento, i conflitti tra le geometrie marziali e armoniche del potere e il disordine delle masse da sedare sulle quali è gettato un telone che li riorganizza in uno spazio geometrico che ne faciliti l’eccidio.

Basta però l’emergere di una larvale leadership per aprire le chiuse di una cascata sublime e informe, aizzata dal valoroso Vakulincuk.

Il terzo atto, “Il morto chiama”, è una curiosa inversione della dottrina leninista: Vakulincuk è morto e il suo sacrificio, raddoppiato dall’epigrafe che recita “Ucciso per un piatto di minestra”, offre la spinta di natura emotiva (non razionale né scientifica) per diffondere un sentimento di rivalsa prima sulla nave e poi nella città di Odessa presso cui sbarcano.

Come la nave infestata del “Nosferatu” di Murnau, anche nel Potemkin entra in gioco l’inversione di una epidemia, benigna, in cui il tema della tenebra è, ancora in inversione, il “sol dell’avvenire”.

Il quarto atto, “La scalinata di Odessa”, è il punto più acuto del dramma.

La fanteria da un lato e i cosacchi a cavallo dall’altro macellano i cittadini di Odessa, colpevoli solo di aver fraternizzato con i marinai ammutinati. Dalla corrazzata per tutta e indignata risposta, tuonano i cannoni puntati su alcuni edifici simbolo dell’autocrazia.

Il quinto atto, “Uno contro tutti”, dovrebbe a questo punto ristabilire l’ordine sconvolto. L’episodio si svolge in mare con la corazzata che si trova di fronte un cacciatorpediniere che scorta la temibile nave ammiraglia. Le operazioni di avvicinamento suggeriscono il climax più sanguinario, i colpi di cannone che attendiamo secondo dopo secondo…

In estrema sintesi questo è il soggetto del film e chi non lo avesse mai visto potrebbe anche chiedersi perché a tutt’oggi è considerato come uno dei film più belli, più potenti e più evocativi di tutta la storia del cinema. Domanda cui cercheremo di dare qualche risposta.

Il film reca in esergo una lunga frase di Lenin inneggiante la rivoluzione in quanto atto di violenza non solo legittimo ma necessario. Non sempre presente nelle varie versioni delle pellicole in circolazione, è stata reintegrata nell’ultimo e definitivo restauro qui preso in analisi, portato a termine dal Kulturstiftung des Bundes con il supporto del Bundesarchiv-Filmarchiv di Berlino, il British Film Institute di Londra, il Filmmuseum di Monaco e il Gosfilmfond di Mosca, enti coordinati da Enno Patalas, già artefice dello splendido restauro del “Metropolis” di Fritz Lang.

La frase, a qualcuno forse ne ricorderà un’altra del medesimo tenore, firmata da Mao Tze Tung che introduceva il “Giù la testa” di Sergio Leone.

Il restauro del Potemkin ha anche restituito dignità al compositore della partitura, Edmund Meisel, che in molte versioni aveva dovuto cedere podio e bacchetta al più celebre Dimitrij Shostakovich, la cui partitura è posteriore. Entrambe, in realtà, non danno applicazione alla teoria eisenstaniana del montaggio audiovisivo che solo a partire da “Alexander Nevskji” (suo primo film sonoro, musiche di Prokof’ev) troverà i punti di applicazione.

Nel Potemkin la musica è accessoria, segue il racconto come un banale “accompagnamento” e tende semmai a mimetizzarsi.

Cosa, al contrario, che balza subito all’occhio è la messa in quadro dei singoli piani.

Si usa spesso la dicitura russa “mizankadr”, la disposizione degli elementi, che in Ejzenstejn raggiunge una quasi-scientificità: i piani sono disposti seguendo una certa dominante, volumetrica/tonale, disadorna/barocca, animata/inorganica, evidenza/sfondo, centrata/eccentrica. Questo lavoro certosino è stato reso possibile dalla sintonia del regista col suo fedelissimo direttore della fotografia, quell’Eduard Tissé che ha lavorato in tutti i suoi film e che forma insieme all’aiuto regista Grigorji Alexandrov una vera e propria triade.

A suffragio dell’importanza della mizankadr, dobbiamo ricordare che Ejzenstejn sposta molto raramente la cinepresa e fa un uso eterodosso del “primo piano” che contestava coevo a una rappresentazione di tipo capitalistica, apoteosi della star e dell’individualismo soggiacente. Per Ejzenstejn il “primo piano” non è l’immagine-affetto (come l’ha definita Gilles Deleuze), l’empatia produttiva all’immedesimazione nell’eroe e delle sue nobili gesta o nel desiderio dell’eroina e nel meccanismo sensuale del suo possesso.

Ejzenstejn, nella prima parte della sua carriera, rappresenta le masse che si muovono come un corpo solo e organico. Solo l’ostracismo di cui fu vittima lo costrinse nella seconda parte della sua carriera a rifugiarsi nel passato e a utilizzare il grande Cerkasov come l’eroe, la star, il deus ex machina (Nevskji, Ivan il Terribile) di cui avrebbe fatto volentieri a meno.

Dunque, Ejzenstejn nega la star cui comunque dona il ruolo di scintilla per la presa di coscienza; d’altro canto, il povero Vakulincuk muore fin dal primo atto.

Le masse diventano il punto focale, sempre meglio compattate e organizzate, messe in valore dai tagli laterali e in contro-plongée dell’inquadratura per significare la forza prorompente e la potenza rivoluzionaria anche nei momenti di difficoltà più evidenti, quali quelli sulla famosa scalinata di Odessa.

È legittimo a questo punto interrogarsi sulla modernità di Ejzenstejn, nonostante l’immobilità della cinepresa.

I suoi film (soprattutto quelli muti) hanno un numero incredibile di inquadrature; “Ottobre” ne conta 3.800 e per farsi un’idea diciamo che un normale film narrativo, anche dei giorni nostri e a parità di durata, conta un numero che varia tra le 700 e le 1500 al massimo.

Le inquadrature del Potemkin sono spesso brevissime, alcune misurabili in fotogrammi (o frame video).

Emblematica, a tal riguardo, è la celebre “alzata” dei leoni di pietra, una delle sequenze più celebri della storia del cinema.

In risposta all’eccidio zarista, dal Potemkin partono sulla terraferma dei colpi di cannone; lo shock e la distruzione “aprono le orecchie” alla popolazione di Odessa che, simbolizzata dai leoni immobili, si mette in piedi e si solleva, attraverso tre inquadrature: il leone a riposo (durata: 26 frame), il leone pronto a scattare (28 frame) e il leone finalmente in piedi (26 frame). Parliamo insomma di un secondo (25 frame) cui l’idea del balzo sta tutto in quei due frame in più dell’inquadratura centrale e dalla messa in quadro frontale/contro-plongée.

 Un altro fondamentale elemento dinamizzante è il conflitto che lega le inquadrature, il montaggio. Tanto più un’inquadratura risulta dinamizzata quanto più la si lega in modo speculare: a uno sbilanciamento a destra, per esempio, se ne lega uno a sinistra, la centratura è la sintesi cognitiva dello spettatore impegnato in un processo attivo di senso. E così via.

Il momento in cui maggiormente si attua questa tecnica è l’intero quinto atto.

Quello che nella tragedia greca è il momento della catarsi, ne “La corazzata Potemkin” è il punto di massima tensione.

L’episodio si svolge in mare aperto e la nostra nave è fronteggiata da un cacciatorpediniere che fa scorta alla nave ammiraglia. I volumi delle tre imbarcazioni danno già la disparità dello scontro che per il Potemkin è il presagio di una, sia pur gloriosa, disfatta.

 Attraverso il montaggio alternato che diventa sempre più serrato, assistiamo alle manovre delle bocche dei cannoni che si preparano al primo colpo, raccordati sull’asse per dare l’idea dell’avvicinamento; si alzano, si spostano, mirano in movimenti speculari e mentre uno si alza l’altro si abbassa, quando si sposta a destra l’altro lo fa a sinistra… e il movimento è raddoppiato, triplicato, decuplicato da tutta la materia inorganica contigua: aghi delle bussole impazziti, timoni, mirini, nuvole di vapore, onde del mare, bandiere che sventolano, prue, caricatori, sforzi degli equipaggi che manovrano tutto il manovrabile ma sempre in costruzione speculare, serrata e raccordata fino al parossismo di un apice che dovrebbe essere un ordine secco (“Fuoco!”) che diventa invece un’interrogazione (“Fuoco?”) e darà una boccata d’ossigeno all’ansia che ha magistralmente costruito con un campo totale delle tre navi e una pioggia di cappelli lanciati in aria per la felicità.

Questa sequenza rima con un medesimo incontro in mare, tra la corazzata e le velocissime barche a vela che testimoniano l’incontro festoso e fraterno degli ammutinati con la popolazione di Odessa che si reca in pellegrinaggio verso il Potemkin per rifocillarli di cibo e animali da insaccare.

Lì il movimento è arioso e dinamizzato dalle vele bianche che si gonfiano e si muovono con un moto a spirale fino alla meta.

È un dinamismo stile “allegra scampagnata” e di tipo affettivo in quel conflitto di volumi tra le barchette minuscole e la marziale corazzata in cui percepiamo la scompostezza festosa di tanti cuccioli che abbracciano in mille modi una madre benevola e un po’ impacciata di fronte all’indisciplina dei suoi amati.

Ultimo punto strutturale del racconto del Potemkin è la figura retorica della metonimia. Vediamone un paio di esempi.

L’ufficiale medico che col pince-nez esamina la carne e sentenzia, in malafede, che marcia non è, lo sapremo morto quando rivedremo i suoi saccenti occhialini penzolare insieme ai vermi da un quarto di bue infetto. Ejzenstejn omette di rappresentarne la morte e la evoca attraverso il triste penzolare di una qualità (in realtà un difetto, alla vista) del soggetto in questione.

Allo stesso modo, nell’episodio della scalinata di Odessa, Ejzenstejn mette in moto un meccanismo complesso intorno alla celebre carrozzina.

Una madre (curiosità: è un’attrice italiana, Beatrice Vitoldi), evocativamente vestita di nero, con le labbra nere (rosse dunque) e il volto bianco latte (una figura estremamente sensualizzata, insomma) è colpita a morte e perde il controllo della carrozzina col bimbo dentro.

La sua discesa all’impazzata mette in valore (cioè in estrema tensione) la fuga dei cittadini di Odessa immortalati in una dignità di movimento che ne farebbe percepire una certa lentezza del gesto non fosse per la carrozzina che, letteralmente, vediamo sfrecciare.

Arrivata al fondo, si ribalta e la morte dell’infante è resa di gran lunga più cruenta attraverso il volto di una donna che guarda l’evento atterrita, cui segue il “piano americano” di un cosacco pronto a sferrare un colpo mortale al bambino col calcio del fucile che dà quasi l’impressione di un colpo di baseball, cui segue l’inquadratura-sintesi della faccia insanguinata della donna che pare aver lei ricevuto il colpo: una sorta di transfert, la visione dell’infanticidio che si riflette materialmente sul soggetto della visione, la materializzazione di uno scandalo insostenibile.

giovedì 4 dicembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 4 dicembre.

Il 4 dicembre 1642 il cardinale Mazzarino diventa il Segretario di Stato dell'Impero di Francia.

Giulio Mazzarino nacque a Pescina (L’Aquila) nel 1602.

Dopo gli studi presso il collegio romano dei Gesuiti, frequentò le università di Alcalá e di Madrid. Tornato in Italia, passò al servizio dei Colonna col grado di capitano (1623-1626).

Addottoratosi in utroque iure passò, durante la seconda guerra del Monferrato (1627-1631), al servizio del cardinale Antonio Barberini, legato del papa Urbano VIII, facendosi notare per la sua abilità di fine diplomatico nelle trattative tra Asburgo, Francia e duca di Savoia, concludendo la tregua di Casale e la pace di Cherasco (1631) che mise fine alle ostilità tra Francia e Savoia.

Durante queste trattative Mazzarino ebbe l’occasione di incontrare più volte il cardinale Richelieu, di cui divenne uno stretto collaboratore. Fu legato papale in Avignone (1633) e poi nunzio straordinario a Parigi. Ottenuta la cittadinanza francese (1639), passò ufficialmente al servizio di Richelieu, che lo fece nominare cardinale (1641) e lo raccomandò al re Luigi XIII come proprio successore.

Dalla morte di Richelieu, Mazzarino fu primo ministro e ascoltato consigliere di Luigi XIII, che tuttavia morì pochi mesi dopo. La reggente Anna D’Austria, non appena il Parlamento di Parigi annullò la disposizione testamentaria del marito che la poneva sotto tutela di un consiglio di reggenza, nominò suo ministro proprio il Mazzarino, al quale si disse fosse segretamente sposata, diceria già smentita da S. Vincenzo de Paoli.

Nonostante Richelieu avesse lasciato precise indicazioni di comportamento politico e gli strumenti per realizzarli, le difficoltà del Mazzarino furono notevoli. La Francia si trovò impegnata, fino al 1648, nell’ultima fase della guerra dei trent’anni e fino al 1659 nel conflitto con la sola Spagna (durante il quale Mazzarino dovette far fronte anche al tradimento del Principe di Condé passato agli spagnoli). Col trattato di Vestfalia Mazzarino ottenne il riconoscimento della annessione dei vescovati di Metz, Toul e Verdun, il possesso di gran parte dell’Alsazia e la definitiva frammentazione di una Germania devastata aperta all’influenza politica e culturale francese. Con la pace dei Pirenei ottenne invece il ridimensionamento della potenza della Spagna, privata della Cerdagne, del Rossiglione, dell’Artois e di altre piazzeforti. Grazie al matrimonio fortemente voluto da Mazzarino tra Luigi XIV e l’infante Maria Teresa, la Spagna veniva poi costretta a muoversi nell’orbita politica francese.

Sul piano interno dovette affrontare la grave crisi della Fronda (dapprima – 1648 – la cosiddetta Fronda Parlamentare, successivamente – 1650-1652 – la Fronda Principesca) che lo costrinse due volte all’esilio ma che lo vide comunque trionfare sugli oppositori grazie a un abile e accurato dosaggio dell’uso della forza e di quello delle trattative, giungendo appunto fino all’apparente cedimento e alla fuga.

Dal 1653 al 1661 l’unico serio elemento di disturbo nella politica interna fu il giansenismo. Finché la polemica tra gesuiti e giansenisti si mantenne sul piano strettamente religioso, Mazzarino si astenne dall’intervenire in modo deciso, ma dopo la pubblicazione delle anonime “Lettere Provinciali”, non appena le critiche dei giansenisti si appuntarono sull’assetto politico e sociale vigente, la reazione del cardinale divenne dura: fece condannare dalla Sorbona le Cinque Tesi, fece chiudere manu militari il convento di Port-Royal e compilare un formulario di condanna del giansenismo la cui sottoscrizione fu imposta a tutti gli ecclesiastici del regno.

Alla sua morte, avvenuta a Vincennes (Parigi) nel 1661, Mazzarino, tanto odiato e disprezzato dalla maggior parte dei francesi, lasciava al suo paese di adozione, oltre alla sua splendida biblioteca personale (divenuta poi sede della Biblioteca nazionale), la pace all’interno e all’esterno e un sovrano da lui personalmente e accuratamente formato all’arte del governo e circondato da abili collaboratori. Lasciava peraltro anche una situazione finanziaria non certo brillante, determinata, oltre che dalle spese belliche, anche dalla eccessiva disinvoltura sua e dei suoi collaboratori nella gestione del pubblico denaro.

Le sue spoglie riposano nella cappella del Collège des Quatre-Nations, a Parigi.


Cerca nel blog

Archivio blog