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lunedì 31 marzo 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 31 marzo.

Il 31 marzo 1921, nell'ambito del cosiddetto Biennio Rosso, hanno inizio le giornate allistine.

Quando si parla di Biennio Rosso, si fa riferimento a eventi caratterizzati da serie di lotte operaie e contadine, accaduti tra il 1919 e il 1921 in Italia. L’Italia meridionale non fu da meno neanche in quel momento storico. Significante è la storia delle Giornate Rosse Allistine che vanno inserite in questo contesto storico e che affondano le proprie radici in una condizione di disagio pre-unitaria.

Storicamente, nel Regno Borbonico, le terre pubbliche erano concesse dallo Stato in uso a chi le lavorava, dietro pagamento al fisco della cosiddetta “decima” sul raccolto. Nel 1806, i legislatori francesi (dopo la conquista da parte di Napoleone del Regno succitato), avviarono il processo di privatizzazione delle terre, con l’obiettivo di destinarle ai nullatenenti e ai piccoli proprietari… ma che infine furono sottratte dai grandi latifondisti.

Connesse alla questione succitata, ad Alliste e nel resto del Salento, avvennero nel corso degli anni numerose occupazioni e sommosse, come quelle del 1831, 1838 e 1848, durante le quali si chiedeva la cessione delle terre del demanio, la divisione dei latifondi signorili e l’abbattimento della monarchia borbonica. Si giunse così alla violenta agitazione dell’agosto del 1879, quando duecento contadini, invasero le terre della “Masseria Stracca”: all’occupazione fece seguito il massiccio intervento delle forze dell’ordine che arrestarono sessantacinque persone ponendo fine al moto contadino.

Nell’immediato primo dopoguerra ripresero con maggiore forza e con differente pensiero ideologico le lotte contadine e operaie che erano state bruscamente interrotte dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Il Salento, tra il 1919 e il 1922, fu scenario di scioperi, occupazioni di terre e di altre forme di lotta prettamente riconducibili in una visione ideologica socialista e pertanto di lotta di classe. Questo fu possibile grazie alla massiccia presenza socialista e comunista nelle organizzazioni contadine, che lavorava per indirizzare queste lotte verso chiari obiettivi politici ed economici. La nascita del Partito Comunista d’Italia, l’eco della Rivoluzione Russa e del bolscevismo che risuonava in tutta Europa e nel mondo, contribuirono a far crescere sempre più quelle che erano le lotte contadine e operaie alle quali si contrapponevano, a tutela degli interessi della borghesia, i Fasci di Combattimento.

Fu proprio in questo periodo, tra la fine di marzo e gli inizi di Aprile del 1921, che presero forma le cosiddette Giornate Rosse Allistine.

Il 31 marzo 1921, in seguito ad un mancato accordo tra la lega dei contadini e i proprietari terrieri allistini, fu indetto uno sciopero per il giorno successivo. L’indomani giunse ad Alliste un funzionario della prefettura che convinse i contadini a revocare lo sciopero, ma non gli agrari a sedersi al tavolo delle trattative.

Nei due giorni successivi, quindi, i rappresentanti delle leghe contadine di Alliste, Racale, Taviano e Melissano decisero di proclamare uno sciopero per il 4 aprile che si sarebbe svolto contemporaneamente nei quattro paesi.

La mattina del 4 aprile, il rappresentante della lega contadina, Cosimo Panico, si recò al municipio per consegnare al sindaco il testo del concordato che sarebbe dovuto essere firmato dai proprietari terrieri. Fuori dal municipio, attendeva la massa dei contadini che impediva a chiunque di entrare o uscire fin quando non si sarebbe firmato il tutto. Il sindaco, a nome dei proprietari, prometteva che il lavoro non sarebbe mancato per nessuno e che i salari sarebbero aumentati. I contadini, però, volevano fatti e non parole e pretendevano che i proprietari si recassero in municipio per la firma e che, se non lo avessero fatto spontaneamente, pretendevano che fossero “tradotti anche coi mezzi a ferro dei Carabinieri”. Di fronte al tergiversare del sindaco, la tensione salì a tal punto da minacciare azioni estreme, quali l’incendio del municipio. Lo slogan più significativo fra quelli urlati in piazza fu “Oggi è Repubblica e bisogna far sangue”.

Con tale espressione si può benissimo intendere quale fosse la forza di quell’evento: in “oggi è repubblica” si può benissimo sentire l’influenza politica del socialismo, dalla rivoluzione sovietica e si capisce quanto la coscienza dei contadini fosse sviluppata.

Nonostante le minacce e le intimidazioni, verso sera si era ancora in una fase provvisoria. Se la situazione non degenerò nella bruta violenza, fu grazie all’autocontrollo dei contadini che, verso le 19, decisero di terminare la manifestazione avendo ricevuto dal sindaco l’assicurazione che l’indomani sarebbero stati convocati in municipio i proprietari. Tuttavia, un’ora dopo, lo stesso sindaco inviò un telegramma al prefetto comunicando d’essere stato sequestrato dai contadini per circa dieci ore e, soprattutto, per richiedere l’invio di forze armate nella città salentina. L’indomani, i contadini bloccarono le vie d’ingresso al paese e il municipio venne tenuto chiuso.

Il 6 aprile, dopo aver rimosso le barricate, fu riaperto il Municipio: nello stesso giorno a Racale e Melissano fu firmato il concordato tra contadini e agrari, ma ad Alliste la situazione era ancora complessa. Tuttavia, essendosi indebolito il fronte degli agrari nei paesi limitrofi, anche il padronato allistino dovette scendere a patti con i contadini. Il 7 aprile, quindi, i proprietari terrieri allistini firmarono il contratto che accoglieva in toto le richieste dei braccianti.

L’evento ad Alliste segnò un importante passo avanti per quelle che erano le rivendicazioni e lotte contadine e operaie di tutto il Salento in quegli anni. Oggi, a più di un secolo dalle Giornate Rosse Allistine, è importante rivendicare quell’esperienza e prendere esempio dalla forza con la quale dei semplici contadini lottarono per i propri diritti.

domenica 30 marzo 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 30 marzo.

Il 30 marzo 1985 Pippo Calò, il tesoriese di Cosa Nostra, viene arrestato.

Giuseppe Calò, soprannominato Pippo (Palermo, 30 settembre 1931), è un mafioso italiano, legato a Cosa nostra. A lui si fa riferimento come il "cassiere di Cosa nostra" perché era fortemente coinvolto nella parte finanziaria dell'organizzazione, soprattutto nel riciclaggio di denaro.

Nato e cresciuto a Palermo, ha lavorato come commesso in un negozio di vendita di tessuti ed in seguito lavorò anche come macellaio e barista. All'età di diciotto anni, Calò si segnalò per aver inseguito e ferito a colpi di pistola l'assassino del padre. Per queste sue "qualità", all'età di 23 anni venne affiliato nella cosca mafiosa di Porta Nuova dal suo associato Tommaso Buscetta e iniziò numerose attività in imprese legali come rappresentante di tessuti a Palermo, aprì un bar e si occupò di una pompa di benzina. Giuseppe Calò ha avuto due figli, da uno di questi è nato il criminale italiano associato a Cosa nostra Leonardo Calò, condannato per riciclaggio, pluriomicidio, occultamento di cadaveri e sequestro di persona. 

Nel 1969 Calò venne scelto come nuovo capo della cosca di Porta Nuova in seguito alla morte di vecchiaia del boss Giuseppe Corvaia. In questo periodo Calò divenne il principale fiancheggiatore del boss Luciano Liggio e del suo vice Salvatore Riina: l'omicidio del procuratore Pietro Scaglione venne eseguito dagli stessi Liggio e Riina nel territorio della cosca di Calò, che fornì anche i suoi uomini per il sequestro del costruttore Luciano Cassina ordinato da Riina. Nel 1974, quando venne ricostruita la "Commissione", Calò entrò a farne parte come capo del mandamento di Porta Nuova, che comprendeva le cosche di Borgo Vecchio, Palermo centro e Porta Nuova.

All'inizio degli anni settanta Calò si trasferì a Roma. Sotto la falsa identità di Mario Aglialoro, investì in beni immobiliari e operò nel riciclaggio di denaro per conto delle cosche dello schieramento dei Corleonesi, legandosi alla Banda della Magliana, a frange eversive dell'Estrema destra e ad ambienti finanziari, in particolare con i faccendieri Umberto Ortolani, Ernesto Diotallevi e Flavio Carboni; inoltre Calò era in stretti rapporti d'amicizia con l'onorevole Francesco Cosentino. Nel primo periodo a Roma Calò si occupò inizialmente del gioco clandestino e poi, insieme al boss Stefano Bontate, controllò la distribuzione dell'eroina ai gruppi malavitosi di Testaccio, della Magliana e di Ostia-Acilia; dopo l'uccisione di Bontate, il traffico di eroina dalla Sicilia a Roma continuò, controllato soltanto da Calò.

In particolare Calò, grazie alle sue conoscenze negli ambienti finanziari, si avvaleva di Roberto Calvi e Licio Gelli per il riciclaggio di denaro sporco, che veniva investito nello IOR e nel Banco Ambrosiano, la banca di Calvi. Nel 1981, a seguito del fallimento definitivo del Banco Ambrosiano, Calvi cercherà di salvare il denaro investito da Calò per conto degli altri boss andato perduto nella bancarotta, però i suoi tentativi falliranno. Nel 1982 Roberto Rosone, vicepresidente del Banco Ambrosiano subentrato a Calvi, sopravvisse ad un agguato compiuto da esponenti della banda della Magliana legati a Calò; Calvi partì per Londra, forse per tentare un'azione di ricatto dall'estero verso i suoi precedenti alleati politici, tra cui l'onorevole Giulio Andreotti, ma il 18 giugno 1982 venne ritrovato impiccato sotto il Blackfriars Bridge.

Calò organizzò il 23 dicembre 1984 l'esplosione di una bomba sul treno Napoli-Milano con 17 morti e 267 feriti (la cosiddetta Strage del Rapido 904 o strage di Natale), per deviare l'attenzione dell'opinione pubblica dalle rivelazioni date dal pentito Tommaso Buscetta.

Calò fu arrestato il 30 marzo 1985 nel suo appartamento in Viale Tito Livio a Roma, in zona Balduina, mentre era in compagnia del mafioso Antonino Rotolo. L'11 maggio la polizia perquisì un edificio rustico presso Poggio San Lorenzo in provincia di Rieti, acquistato da Calò attraverso il suo prestanome Guido Cercola: furono trovati alcuni chili di eroina, un apparato ricetrasmittente, delle batterie, alcuni apparecchi radio, antenne, cavi, armi e diversi tipi di esplosivo.

Calò fu uno tra le centinaia di imputati sottoposti a giudizio durante il Maxiprocesso che iniziò l'anno seguente, nel quale dovette difendersi dalle accuse di associazione mafiosa, riciclaggio di denaro, e della responsabilità della strage del Rapido 904. Al termine del processo, nel 1987, Calò, riconosciuto colpevole, si vide infliggere una pena detentiva di due ergastoli.

Nel 1997 Calò e altri quattro (il faccendiere Flavio Carboni, la sua ex fidanzata Manuela Kleinszig, l'ex affarista della banda della MaglianaErnesto Diotallevi e Silvano Vittor) coinvolti nell'omicidio di Roberto Calvi furono indagati ed il loro processo, cominciato nell'ottobre 2005, si è concluso nel giugno 2007 con l'assoluzione degli imputati per «insufficienza di prove» da parte della Corte d'Assise. Sul caso rimane invece aperta l'indagine-stralcio presso la procura di Roma sui mandanti dell'omicidio che vede indagate una decina di persone tra cui Licio Gelli, l'ex capo della P2.

Secondo alcuni collaboratori di giustizia, Calò sarebbe uno dei responsabili dell'omicidio del giornalista Mino Pecorelli (assassinato il 20 marzo 1979 a Roma) per via dei suoi legami con la banda della Magliana.«La tesi accusatoria nel processo prospettava che il delitto sarebbe stato deciso dal senatore Andreotti il quale, attraverso l’on. Vitalone, avrebbe chiesto ai cugini Salvo l’eliminazione di Pecorelli. I Salvo avrebbero attivato Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti, i quali, attraverso la mediazione di Giuseppe Calò, avrebbero incaricato Danilo Abbruciati e Franco Giuseppucci di organizzare il delitto che sarebbe stato eseguito da Massimo Carminati e da Michelangelo La Barbera.»(Documento del Senato della Repubblica)Dopo tre gradi di giudizio, nell'ottobre del 2003, la Corte di Cassazione emanò una sentenza di assoluzione "per non avere commesso il fatto" nei confronti di Calò, imputato insieme a Giulio Andreotti, Claudio Vitalone e Gaetano Badalamenti (accusati di essere i mandanti) e per Massimo Carminati e Michelangelo La Barbera da quella di essere gli esecutori materiali dell'omicidio, bollando le testimonianze dei collaboratori di giustizia come non attendibili..Il legame di Calò con la Banda della Magliana è testimoniato anche dai rapporti con Danilo Abbruciati (boss della Banda ucciso a Milano nell'attentato a Roberto Rosone): infatti Calò era il principale fornitore di eroina alla Banda. Lo stesso Abbruciati uccise poi Domenico Balducci, usuraio di Roma, che riciclava denaro sia per conto della Banda, sia per conto di Calò. Si dice che i motivi dell'uccisione siano in un favore fatto da Danilo Abbruciati proprio a Pippo Calò che aveva deciso di chiudere il rapporto con Domenico Balducci.

Nel 1995, nel processo per gli omicidi di Piersanti Mattarella, Pio La Torre e Michele Reina, Calò venne condannato all'ergastolo insieme ai boss Salvatore Riina, Michele Greco, Bernardo Brusca, Bernardo Provenzano, Francesco Madonia e Nenè Geraci. Sempre nel 1995, nel processo per l'omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, del capo della mobile Boris Giuliano e del professor Paolo Giaccone, Calò fu condannato all'ergastolo insieme a Bernardo Provenzano, Salvatore Riina, Bernardo Brusca, Francesco Madonia, Nenè Geraci e Francesco Spadaro. Nel 1996 fu nuovamente condannato all'ergastolo per l'omicidio del giudice Antonino Scopelliti insieme ai boss Salvatore Riina, Francesco Madonia, Giuseppe Giacomo Gambino, Giuseppe Lucchese, Bernardo Brusca, Salvatore Montalto, Salvatore Buscemi, Nenè Geraci e Pietro Aglieri.

Nel 1997, nel processo per la strage di Capaci in cui persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie e la scorta, Calò venne condannato all'ergastolo insieme ai boss Salvatore Riina, Pietro Aglieri, Bernardo Brusca, Raffaele Ganci, Nenè Geraci, Benedetto Spera, Nitto Santapaola, Bernardo Provenzano, Salvatore Montalto, Giuseppe Graviano e Matteo Motisi[16]. Lo stesso anno, nel processo per l'omicidio del giudice Cesare Terranova, Calò ricevette un altro ergastolo insieme a Michele Greco, Bernardo Brusca, Salvatore Riina, Nenè Geraci, Francesco Madonia e Bernardo Provenzano.

Inoltre nel 2004 viene accusato dal collaboratore Salvatore Cancemi di aver strangolato i due figli del pentito Tommaso Buscetta, scomparsi nel 1982 e mai più ritrovati.

Attualmente si trova in carcere a Bollate.


sabato 29 marzo 2025

Concerto etno-sinfonico rom al San Carlo

 Al Teatro di San Carlo di Napoli si celebra la Giornata Internazionale dei Rom e Sinti con un Concerto Unico. 
 Per la prima volta nella storia due solisti di etnia rom suonano nel teatro più antico del mondo in occasione della Romanì Week il Teatro di San Carlo di Napoli ospiterà un evento musicale di rilevanza internazionale.

 Venerdì 4 aprile, alle ore 15:00, il Salone degli Specchi ospiterà un concerto straordinario che vedrà esibirsi il virtuoso violinista Gennaro Spinelli e il compositore Santino Spinelli, che si esibiranno insieme da solisti in una performance che unisce la musica etnica e la sinfonica.
 Accompagnati da alcuni musicisti del Teatro di San Carlo guidati dal violinista Salvatore Lombardo e dell’Orchestra Sinfonica G. Rossini di Pesaro guidati dal violinista Marco Bartolini, i due solisti daranno vita a un viaggio musicale che spazia dal repertorio classico rivisitato in chiave etnica a composizioni originali ispirate dalla tradizione romanì. 

 L'evento è stato finanziato dall'UNAR ufficio nazionale Antidiscriminazione razziale all'interno della seconda settimana romanì 

 «La musica parla a tutti ed è il linguaggio più immediato per l’integrazione e lo scambio culturale», ha dichiarato Gennaro Spinelli, noto violinista di fama internazionale e ambasciatore dell'International Romanì Union per l’arte e la cultura romanì nel mondo.
 “La musica è un ponte che unisce i popoli e le culture. Questo concerto rappresenta per me non solo una celebrazione della musica romanì, ma anche un'opportunità per promuovere l'inclusione e il rispetto per le comunità Rom e Sinti. Siamo orgogliosi di portare la nostra arte nei luoghi più prestigiosi, come il Teatro San Carlo di Napoli, per dimostrare che la cultura romanì è parte integrante della storia musicale europea” ha dichiarato Santino Spinelli. 
 Un traguardo significativo, questo, che non solo celebra l’arte e la cultura romanì, ma segna anche un passo importante verso una maggiore inclusione sociale e culturale delle comunità Rom e Sinti. 

 Il concerto si inserisce all’interno di una serie di eventi che si svolgeranno su tutto il territorio nazionale in occasione della Giornata dell’8 aprile, un’iniziativa che quest’anno coincide con la seconda Settimana (romanì week) della Cultura Rom e Sinta lanciata dall’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Raziali (UNAR), con il supporto dell’Unione delle Comunità Romanès in Italia (UCRI), e dell’Associazione Them Romano.
«Questo evento rappresenta un passo fondamentale per promuovere una conoscenza non stereotipata delle minoranze. Promuovere il dialogo attraverso l’arte e la cultura è essenziale per il percorso di inclusione e partecipazione delle comunità rom e sinti», ha affermato Mattia Peradotto, Direttore dell’UNAR.

 Il concerto di Napoli arriva dopo il grande successo del al Teatro alla Scala di Milano dello scorso anno, consolidando ulteriormente l’importanza e la visibilità internazionale di questa iniziativa. 

 L’evento al Teatro San Carlo si preannuncia come una tappa fondamentale nel panorama musicale internazionale per celebrare la musica e la cultura romanì, con la partecipazione di artisti di spicco.

 L’iniziativa punta a valorizzare la musica romanì etno-sinfonica a livello internazionale, attirando l’attenzione mediatica e sociale sulla cultura e sull’arte romanì. 

 Con l’obiettivo di contrastare le discriminazioni etniche, l’iniziativa si arricchisce della partecipazione di partner prestigiosi come TIM/Timvision, che lancerà in anteprima un cartone animato ispirato alla cultura romanì e curato da UCRI.

 Il concerto vedrà l’esecuzione di composizioni come la “Czarda” di V. Monti e le “Danze Ungheresi” di J. Brahms, insieme a brani originali di Santino Spinelli, che attraverso la sua musica innalza la tradizione romanì a un livello artistico elevato, distillando la sua essenza più autentica, lontana dai tratti folklorici regionalisti.
L’evento si preannuncia come uno dei più significativi del panorama europeo per celebrare la Giornata internazionale dei Rom e Sinti, con la partecipazione di esponenti delle comunità rom e sinti provenienti da tutta Europa.

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 29 marzo.

Il 29 marzo 1871 apre a Londra la Royal Albert Hall.

La Royal Albert Hall è uno dei monumenti più rappresentativi della Londra vittoriana e ancora oggi ospita alcuni degli eventi di spettacolo più importanti di Londra.

Lo splendido edificio è situato all'estremità nord del quartiere di South Kensington, in un'area nota un tempo come Albertopolis. Infatti la nota arteria stradale Kensigton Gore separa la Royal Albert Hall dall'Albert Memorial, un altro monumento eretto in onore del principe Alberto, consorte della regina Vittoria. Ci troviamo al confine con Hyde Park, vicino ad importanti musei come il Natural History Museum, lo Science Museum e il Victoria & Albert Museum.

L'edificio della Royal Albert Hall, un Grade I Listed Building (vincolo di primo grado) è una fondazione culturale ed una 'registered charity' finanziariamente autosufficiente che non riceve fondi dal governo. Fu edificato per ospitare una serie notevole di eventi: concerti di musica classica (ma attualmente anche rock e pop), mostre, balletti, festival, conferenze, gare di ballo, rassegne di poesia, e persino un circo. Il teatro ha visto le esibizioni degli artisti più famosi del mondo ed ogni estate ospita, per otto settimane consecutive, la popolare rassegna nota come "The Proms" (The BBC Promenade Concerts) con concerti, rappresentazioni teatrali ed altri eventi culurali di alto livello. Vi sono ospitate anche alcune manifestazioni sportive come incontri di boxe, di wrestling, tennis e sumo.

La Royal Albert Hall nacque da un'idea dal principe Alberto, marito della regina Vittoria, dopo la Great Exhibition di Londra del 1851. Egli voleva creare una sorta di polo culturale nato con l'obiettivo di promuovere la conoscenza, la comprensione e l'apprezzamento delle Arti e delle Scienze. Il nome originario dell'edificio, infatti, avrebbe dovuto essere 'The Central Hall of Arts and Sciences' ma fu cambiato in onore del principe consorte al momento della sua morte prematura. Subito dopo, un suo stretto collaboratore, Henry Cole, si incaricò di portare a compimento l'opera e, ispirandosi alla struttura degli anfiteatri romani, diede l'incarico di eseguire i lavori prima a Francis Fowke e, in seguito, a un altro ingegnere di corte, Henry Darracott Scott. Il 20 maggio del 1867 la regina Vittoria pose la prima pietra dell'opera che venne inaugurata dalla regina stessa il 29 marzo 1871.

Oltre ad assistere ai concerti e alle svariate rappresentazioni è possibile visitare la Royal Albert Hall prendendo parte ad un Tour a pagamento con guide esperte che, durante il giorno, narrano non solo la storia dell'edificio ma portano i visitatori ad esplorare anche le parti più nascoste e normalmente inaccessibili della Hall (la Galleria, gli appartamenti privati della regina) oltre ai segreti del backstage e dei meccanismi del palcoscenico. 

La planimetria della sala ha la forma di un'ellisse, il cui asse maggiore misura 83m mentre quello minore 72m. La grande cupola realizzata in vetro e ferro battuto è alta 41m e quando venne realizzata causò notevoli fenomeni di riverbero; rimedi temporanei furono messi in atto fino alla sostituzione, nel 1949, della cupola di vetro con una di alluminio e di materiale fonoassorbente, e alla successiva installazione a fine anni sessanta di dischi acustici sospesi al soffitto (tuttora esistenti) che eliminarono il problema del suono distorto. Al tempo dell'inaugurazione, l'organo ospitato nella costruzione risultava essere il più grande del mondo. L'edificio, originariamente ideato per accogliere circa 9000 spettatori, venne ridimensionato, per motivi finanziari, in modo da poterne contenere 7.000, oggi ridotti a circa 5.500 per motivi di sicurezza.

La struttura fu realizzata con circa sei milioni di mattoni rossi (Fareham Red brick) e con decorazioni in terracotta. All'esterno, un grande fregio in mosaico circonda l'intero edificio, con scene e testi che descrivono il Trionfo delle Arti e delle Scienze: la Musica, la Scultura, la Pittura, l'Architettura, i Patroni delle Arti, i Filosofi, gli Ingegneri, i lavoratori di pietra, legno e mattoni, l'Astronomia, la Navigazione, l'Agricoltura ed altre scienze. Sopra il fregio è un'iscrizione (altra circa 3m) in cui si narra la storia della Hall (la fondazione, l'idea del principe Alberto, le finalità dell'opera) insieme ad alcune citazioni bibliche.

venerdì 28 marzo 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 28 marzo.

Il 28 marzo 1945 la partigiana Ines Bedeschi viene fucilata.

Figura molto nota nella Resistenza. Nata a Conselice il 31 agosto 1914 da una famiglia contadina, essa stessa colona. Sin dall'8 settembre 1943 aveva preso parte alla Guerra di liberazione nelle file della Resistenza emiliana. Nell'aprile del 1944, quando a Bologna si costituì il Comando unificato militare Emilia Romagna (CUMER), Ines Bedeschi, con il nome di “Bruna”, ne divenne una delle più valorose staffette. Imponendosi per intelligenza e audacia, Bruna portò a termine, sin quasi alla Liberazione, numerosi e delicati incarichi di fiducia. Dalla sua casa, uno dei tanti centri di ritrovo dei partigiani e dei loro comandi, usciva ogni giorno per adempiere al suo compito di staffetta, pedalando sulla sua bicicletta da Conselice a Ravenna, Rimini, Forlì, Bologna, portando alla tipografia clandestina il materiale da stampare, le notizie e le circolari nelle varie zone. Dopo aver corso tutto il giorno in mezzo a mille pericoli, volle imparare a scrivere a macchina e dedicò da allora lunghe ore della sera a battere a macchina relazioni e circolari.

Quando poi, fortemente sospettata e controllata, dovette allentare il suo lavoro di staffetta, ne soffrì enormemente e, per ragioni cospirative, fu deciso di trasferirla nel parmense. Qui continuò la sua lotta fino a quando, il 23 febbraio 1945, nella sua ultima missione, ad un solo mese dalla Liberazione, in quella che fu chiamata la giornata dell’Apocalisse, fu arrestata insieme a Gavino Cherchi e Alceste Benoldi dai nazifascisti inferociti per l’imminente disfatta. Per più di un mese fu sottoposta alla più indicibili torture. Ripeteva ai compagni quando la riportavano in cella stremata e disfatta dopo ogni interrogatorio: “Non ho parlato e non parlerò”. Così sino all’alba del 28 marzo 1945, quando i suoi aguzzini la fucilarono insieme ai suoi due compagni sulle rive del Po, in località Mezzano Rondani. I loro corpi furono gettati nel fiume e non furono mai ritrovati. Del loro eroico sacrificio resta un cippo commemorativo eretto dal Comune di Colorno presso il ponte sul fiume Po in località Mezzano Rondani.

Gianni Giadresco, nel suo libro “Guerra in Romagna 1943-1945”, espone i dati dell’impegno delle donne nella guerra di liberazione: 75.200 partigiane combattenti e collaboratrici della Resistenza, 623 cadute o fucilate, 2.750 deportate nei lager di sterminio, quasi 5.000 arrestate e torturate.

La vicenda di Ines Bedeschi e delle altre staffette partigiane attive in questa zona ispirarono il regista Giuliano Montaldo nella realizzazione del suo film "L'Agnese va a morire" (1976, sceneggiatura di Renata Viganò, tratta dal suo romanzo dal titolo omonimo). La instancabile attività di diffusione degli opuscoli stampati clandestinamente proprio a Conselice dalla stampante a ciclostile nascosta nel paese e oggi celebrata in un monumento, consolidò l'attività di lotta partigiana che qui era basata sulla appartenenza politica comunista.

A Conselice è visibile in Corso Garibaldi una lapide a lei dedicata il cui testo è stato redatto da Renata Viganò.

31 AGOSTO 1914 – 28 MARZO 1945

INES BEDESCHI ERA NEL FIORE DELLA VITA

E TUTTA INTERA VOLEVA VIVERLA

INVECE LA DETTE DA PARTIGIANA

AD OGNI COSA PIU’ CARA RINUNCIO’ CHE NON FOSSE LA LOTTA

DALLE SUE VALLI E MONTI DI ROMAGNA

ANDO’ DOVE ERA MAGGIORE IL BISOGNO

LA PRESERO I NAZISTI FEROCI E SPAVENTATI

LA TORTURA NON STRAPPO’ DALLA SUA BOCCA ROTTA

NEPPURE UN NOME DI COMPAGNO

INFURIATI I TEDESCHI LA PORTARONO SULLA RIVA DEL PO

MA ANCHE IN UN GIORNO DI PRIMAVERA CHE ERA FATICA MORIRE

INES BEDESCHI NON SENTI’ LA VOGLIA

DI SALVARSI COL TRADIMENTO

RENATA VIGANO’

Medaglia d’Oro al Valor Militare alla memoria con la seguente motivazione:

"Spinta da ardente amor di Patria, entrava all'armistizio nelle formazioni partigiane operanti nella sua zona, subito distinguendosi per elevato spirito e intelligente iniziativa. Assunti i compiti di staffetta, portava a termine le delicate missioni affidatele incurante dei rischi e pericoli cui andava incontro e dell'assidua sorveglianza del nemico. Scoperta, arrestata e barbaramente torturata, preferiva il supremo sacrificio anziché tradire i suoi compagni di lotta."

giovedì 27 marzo 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 27 marzo.

Il 27 marzo 1975 arrivava nelle sale "Fantozzi" diretto da Luciano Salce, primo film della saga cinematografica ideata da Paolo Villaggio, pronto a replicare sul grande schermo il successo che era già riuscito a ottenere in tv e in libreria con il suo personaggio. Un personaggio che ha guadagnato una notevole fama presso un pubblico di ogni età, archetipo del perdente, e come descritto dallo stesso Villaggio "un subitore perfetto che ha liberato tutti dalla spiacevole sensazione di sentirsi unici nel proprio essere sfigati".

Il personaggio di Fantozzi è vittima di se stesso e del suo sogno piccolo borghese di una vita confortevole anche se mediocre, e il film ha saputo cogliere il lato tragico dell'italiano medio, talmente tragico da far ridere. "In quell'Italia così competitiva di quegli anni sembrava un pagliaccio, un clown da circo, quasi un estraneo, mentre ora ci si può riconoscere tutti, persino con gratitudine", raccontava Villaggio, scomparso nel 2017. Ridendo del personaggio e delle sue "tragiche" vicissitudini, anche grazie al regista Luciano Salce, in realtà gli spettatori si ritrovano così a ridere (amaramente) di se stessi e della propria ignavia.

Il film racconta del ragionier Ugo Fantozzi, umile e sfortunato impiegato della Megaditta (la ItalPetrolCemeTermoTessilFarmoMetalChimica), perennemente vessato, servile nei confronti dei suoi superiori e ignorato dai propri colleghi, tanto da essere rimasto murato per sbaglio nei vecchi gabinetti dell’azienda per diciotto giorni senza che nessuno se ne accorgesse. E' sposato con la sfiorita Pina (Liù Bosisio) e padre della mostruosa Mariangela (Plinio Fernando). Ogni mattina deve far fronte a difficoltà e imprevisti per riuscire a timbrare il cartellino d’entrata. Fantozzi corteggia da anni una sua collega, la signorina Silvani (Anna Mazzamauro), e deve vedersela con il ragionier Filini (Gigi Reder), organizzatore di manifestazioni ricreative.

Tante le scene cult, dall’episodio della timbratura del cartellino, all'uscita dal lavoro che ha lo stesso rituale della partenza dei 100 metri di una finale olimpica. Si passa dall'annuale sfida calcistica fra scapoli e ammogliati alla partita a biliardo con il feroce cavalier Catellanni, solo per citarne alcune.

L'esordio del personaggio risale al 1968, nella trasmissione tv “Quelli della domenica”. Qui Villaggio raccontò per la prima volta le sue avventure comiche e catastrofiche, ma in terza persona.

Paolo Villaggio scrisse i racconti di Fantozzi per il settimanale l'Europeo, poi raccolti nel libro “Fantozzi”, edito nel 1971. Questo diventò ben presto un bestseller, con più di un milione di copie vendute, e fu anche tradotto in molte lingue. Nel 2011, per i 150 anni dell’Unità d’Italia, "Fantozzi" è stato scelto dal comitato scientifico del Centro per il libro e la lettura tra le centocinquanta opere che hanno segnato la storia dello Stato Italiano.

Fantozzi non è un personaggio di fantasia ma è ispirato a una persona realmente esistente: si tratta del compagno di scrivania di Villaggio, quando lavorava all’Italsider di Genova.

Per trasportare il personaggio sul grande schermo, Villaggio non pensò a se stesso come interprete. Il ruolo fu proposto prima a Renato Pozzetto e poi a Ugo Tognazzi e solo dopo il loro rifiuto fu convinto da Salce a incarnare lo sfortunato protagonista.

L’aggettivo "fantozziano" entra nei dizionari italiani nel 1977, per indicare una persona impacciata e servile con i superiori.

La vera età del personaggio è misteriosa e non è mai stata confermata, scherzando continuamente su di essa, senza mai fornire numeri certi. Se nel primo romanzo si afferma che il personaggio ha oltre 400 anni (e lavora per la Megaditta da almeno 92 anni), in "Fantozzi contro tutti" ammette invece di averne 103.

I personaggi interpretati nei film di Fantozzi hanno reso famosi anche gli attori co-protagonisti di Paolo VIllaggio. Liù Bosisio interpretò la Pina nei primi due film della serie, passando poi il testimone a Milena Vukovic. Ma è quest'ultima ad essere rimasta nell'immaginario collettivo nei panni della moglie disincantata e sottomessa. Il sogno amoroso-erotico di Fantozzi era la mitica signorina Silvani, interpretata da Anna Mazzamauro, che ha sviluppato poi una brillante carriera da caratterista e attrice comica, tra cinema, tv e teatro. Plinio Fernando è stato Mariangela, la figlia bruttina di Fantozzi in tutti i film tranne il penultimo capitolo. Dopo la saga, nel 1994, l'attore ha abbandonato il cinema. La spalla comica di Fantozzi è sempre stata il ragionier Filini, interpretato da Gigi Reder. Compare in tutti i film di Fantozzi, tranne nell'ultimo capitolo. Collega di lavoro e, per certi versi, anche migliore amico di Fantozzi, condivide le angherie subite da parte dei superiori e dei colleghi anche se appare sempre più ottimista e propositivo. L'attore è morto nel 1998.

L'ultima volta che abbiamo visto il ragionier Ugo è stato il 3 dicembre 2010 nel programma "I migliori anni". dove Fantozzi arrivò con la sua Bianchina ricordando le battute più celebri con il conduttore Carlo Conti.

Tra il 1975 e il 1999 sono ben 10 i film della serie: ai primi due, girati da Luciano Salce nel 1975 e nel 1976, "Fantozzi" e "Il secondo tragico Fantozzi", segue la lunga serie di regie firmate da Neri Parenti: "Fantozzi contro tutti" (1980), "Fantozzi subisce ancora" (1983), "Superfantozzi" (1986), "Fantozzi va in pensione" (1988), "Fantozzi alla riscossa" (1990), "Fantozzi in paradiso", (1993), "Fantozzi - Il ritorno" (1996).  L’ultimo arriva nel 1999, "Fantozzi 2000 - La clonazione", con la regia di Domenico Saverni.

mercoledì 26 marzo 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 26 marzo.

Il 26 marzo 1917 iniziava la prima battaglia di Gaza, durante la Grande Guerra.

Mentre in Europa, a causa delle avversità climatiche invernali, la guerra subiva una pausa, in Africa e in Medio Oriente le ostilità non accennavano ad alcuna sospensione e, anzi, denotavano un certo incremento. Se sul fronte persiano, dopo la vittoria di Kut e la conquista di Baghdad, proseguiva la vittoriosa campagna britannica, su quello palestinese, dopo aver respinto, nel gennaio 1917, dal Sinai le forze turche, si andava preparando, sempre da parte inglese, una vasta serie di operazioni il cui compito ultimo era la conquista di Gerusalemme.

Per penetrare in Palestina, però, le truppe britanniche avrebbero dovuto superare le difese ottomane, dislocate lungo una serie di alture tra Gaza e Bersheba: questo punto specifico, perciò, divenne teatro di tre offensive, assai diverse tra loro per conduzione ed esiti, tra il marzo e il novembre del 1917, note come ‘battaglie di Gaza’.

La prima di queste tre operazioni venne condotta in maniera a dir poco imbarazzante dal comandante in capo inglese, generale Murray, e dal suo vice, il generale Dobell: nonostante avessero a disposizione quasi 40.000 uomini, cioè più del doppio delle forze schierate dal difensore di Gaza, l’abile generale tedesco Kress von Kressenstein, i comandanti britannici riuscirono a trasformare la campagna in un mezzo disastro e, quel che è peggio, a convincere il British War Office di Londra di avere, invece, ottenuto un’importante vittoria. All’inizio, la mattina del 26 Marzo 1917, grazie anche all’aiuto di una fitta nebbia proveniente dal mare, la cavalleria inglese riuscì a penetrare nel dispositivo nemico, schierandosi a semicerchio sul lato est-sudest delle difese di Gaza, in modo da minacciare l’afflusso di rinforzi dalla cittadina: questa manovra risultò utilissima nella protezione dell’avanzata della 53a divisione di fanteria, che, attraverso un terreno piuttosto difficile, mosse efficacemente contro la cresta di Alì Muntar.

A questo punto, la giornata sembrava volgere a favore degli attaccanti, quando, forse credendo che la fanteria stesse subendo un rovescio, il generale Dobell ordinò alla cavalleria di ritirarsi: paradossalmente, Kressenstein si era convinto dell’esatto contrario, ed aveva ritirato il proprio ordine di far affluire rinforzi da Gaza, ritenendo perduta la battaglia. Quando, il giorno seguente, i britannici tornarono ad avanzare, la guarnigione ottomana della città era aumentata di 4.000 unità, l’effetto sorpresa era sfumato e i turchi effettuavano contrattacchi ovunque, tanto da indurre Dobell a sospendere l’azione.

La prima battaglia di Gaza era costata ai britannici circa 4.000 perdite e ai loro avversari 2.400: nonostante questo e l’evidente errore di valutazione di Dobell, Murray riuscì a presentare a Londra l’operazione come un successo, che avrebbe aperto la strada alla conquista di Gaza e, in seguito di Gerusalemme, triplicando la somma delle perdite turche. Questo avrebbe avuto esiti disastrosi, perché il BWO londinese si convinse che Gerusalemme era un obiettivo a facile portata ed ordinò a Murray di lanciare un secondo attacco appena possibile: in realtà, le forze turche erano semplicemente state allertate e non si sarebbero più fatte prendere alla sprovvista.

Da questa serie di equivoci e di mezze bugie derivò la seconda battaglia di Gaza, il 17 aprile 1917: Kressenstein, però, stavolta era pronto, ed aveva potentemente rinforzato il suo lato sudorientale, lungo la strada per Bersheba, dove era avvenuta la penetrazione della cavalleria britannica. Dobell non trovò di meglio che fare avanzare tre divisioni, direttamente contro la guarnigione avversaria, che contava circa 18.000 difensori, appoggiando il proprio attacco con 8 carri Mark I e con granate a gas: dopo tre giorni di assalti infruttuosi e la perdita di più di 6.400 uomini, contro meno di un terzo del nemico, l’operazione venne nuovamente sospesa.

A questo punto, Kressenstein avrebbe voluto contrattaccare in forze, sfruttando il momento favorevole, ma venne trattenuto dal suo prudentissimo superiore, il generale turco Gemal Pascià: lo scontro, dunque, terminò con un nulla di fatto. Iniziò a quel punto un vero e proprio balletto ai vertici dell’armata: Murray sollevò l’incapace Dobell dal comando, sostituendolo con il generale di cavalleria Chetwode, ma, a sua volta, venne rimosso per ordine di Londra, dove da un po’ di tempo si desiderava cambiare le cose in Medio Oriente, e sostituito dal generale Allenby, dal canto suo inviso al comandante del fronte occidentale, Haig.

Per Allenby, piuttosto furioso per come era stato trattato in Europa, Gaza e la guerra in Palestina rappresentarono il trampolino per il proprio rilancio, e si gettò nell’impresa con entusiasmo e determinazione, anche perché il primo ministro, Lloyd George, gli aveva chiesto la conquista di Gerusalemme entro Natale: da questi presupposti sortì la terza battaglia di Gaza.

Va detto che, anche dalla parte ottomana erano cambiate alcune cose: la più importante era che, come supervisore del fronte, era arrivato l’ex capo di stato maggiore tedesco, Von Falkenhayn, reduce dai successi nei Balcani. Allenby si mise subito al lavoro: cominciò ad accumulare riserve, rifornimenti e munizioni, per un totale di 88.000 uomini, con molte artiglierie, carri armati ed armi chimiche, e spostò il proprio quartier generale dal Cairo alla linea del fronte, per dare morale ai soldati. Schierati sul fronte opposto c’erano i 35.000 soldati della 7a ed 8a armata turche, schierati lungo una linea di 40 km, inferiori per numero e mezzi, ma poderosamente fortificati, tanto da essere un avversario da non sottovalutare.

La prima preoccupazione di Allenby fu quella di garantirsi il controllo dei rifornimenti idrici a Bersheba: nella guerra desertica, infatti, le riserve d’acqua contavano più dei cannoni e delle mitragliatrici e controllare i pozzi significava vincere la campagna. Il mattino del 31 ottobre 1917, cominciava, così, la terza ed ultima battaglia di Gaza. Il piano di Allenby consisteva nello schierare 40.000 uomini nella piana di Bersheba, relativamente poco difesa, e prendere di sorpresa il nemico, simulando, con altre tre divisioni, un attacco frontale direttamente contro Gaza: per ottenere che questo diversivo apparisse come l’attacco principale, fece bombardare la guarnigione ottomana da 218 cannoni ininterrottamente per 6 giorni, e mantenne in volo tutti i suoi aeroplani, per impedire che i velivoli avversari potessero avvistare i movimenti delle sue truppe. Il dominio dell’aria stava rivelandosi un’arma determinante, nel 1917.

A Bersheba, dopo scontri molto duri, alla fine la cavalleria leggera australiana riuscì a penetrare nelle linee nemiche e a raggiungere i pozzi d’acqua potabile, prima che i turchi mettessero in atto il loro piano per avvelenarli in caso di ritirata. La 7a armata ottomana, a questo punto, indietreggiò fino alla roccaforte di Tel es Sheria, passando sotto il comando di Kressenstein, che, normalmente, comandava soltanto l’8a armata. Grazie ad un’ulteriore azione diversiva, effettuata ad est dai reparti cammellati britannici, i difensori turchi, credendo di essere sottoposti ad un massiccio attacco, iniziarono a disperdersi, sguarnendo del tutto il fianco della 7a armata, che si trovò in una brutta situazione.

Approfittando di questa occasione, il 6 novembre, Allenby mosse alla conquista di Tel es Sheria, sperando di riuscire ad intrappolare a Gaza le forze nemiche: Kressenstein, però, aveva ordinato ai suoi soldati, lo stesso giorno, di abbandonare Gaza e di ritirarsi a Gerusalemme, in modo da salvare ciò che rimaneva della sua 8a armata.

A questo punto, la partita decisiva si sarebbe giocata nella Città Santa. Alla fine, quando Gerusalemme, finalmente, cadde in mano britannica, l’11 dicembre, le perdite della terza battaglia di Gaza erano arrivate a 18.000 uomini da parte inglese e 25.000 da quella ottomana.

martedì 25 marzo 2025

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 Buongiorno, oggi è il 25 marzo.

Il 25 marzo 1436 Papa Eugenio IV consacra la Basilica di Santa Maria del Fiore, a Firenze.

Santa Maria del Fiore, la cui costruzione fu progettata da Arnolfo di Cambio, è la terza chiesa del mondo (dopo San Pietro a Roma, San Paolo a Londra) e la più grande in Europa al momento della sua ultimazione nel '400: è lunga 153 metri, larga 90 alla crociera ed alta 90 metri dal pavimento all'apertura della lanterna. Essa, terza e ultima cattedrale fiorentina, fu intitolata nel 1412 a Santa Maria del Fiore con chiara allusione al giglio, simbolo della città.

Sorse sopra la seconda cattedrale, che la Firenze paleocristiana aveva dedicato a Santa Reparata.

Le notevoli diversità di stile rivelate nelle sue parti sono la testimonianza del variare del gusto nel lungo periodo trascorso fra la sua fondazione ed il completamento.

La prima pietra della facciata venne posta l'8 settembre 1296, su progetto di Arnolfo di Cambio. Egli lavorò per il Duomo dal 1296 al 1302. Ideò una basilica dagli spazi classici, con tre ampie navate che confluivano nel vasto coro dove è posto l'altare maggiore, a sua volta circondato dalle tribune su cui poi si innesterà la Cupola.

Il progetto di Arnolfo era notevolmente diverso dalla struttura attuale della chiesa, come è possibile notare dall'esterno. Sui fianchi dell'edificio, infatti, a nord e a sud, notiamo che le prime quattro finestre sono più basse, più strette e più ravvicinate di quelle verso est, le quali corrispondono, invece, all'ampliamento operato da Francesco Talenti, capomastro a partire dalla metà del '300.

Arnolfo arriva a finire due campate e metà della nuova facciata. Le sue sculture saranno tolte e spostate nel Museo Storico dell'Opera nel 1586, poiché il Granduca Francesco I de' Medici decise di costruire una nuova facciata.

Alla morte d'Arnolfo, avvenuta intorno al 1310, i lavori subirono un rallentamento, per riprendere certamente nel 1331 quando i magistrati dell'Arte della Lana si assunsero la cura della costruzione. Nel 1334 fu nominato capomastro dell'Opera Giotto che si occupò prevalentemente della costruzione del campanile e morì tre anni dopo. A Giotto subentrò Andrea Pisano fino al 1348, anno della terribile peste che decimò la popolazione cittadina da 90.000 a 45.000 abitanti.

I lavori proseguirono fra interruzioni e riprese fino a quando, in seguito al concorso bandito nel 1367, fu accettato il modello definitivo della chiesa proposto da quattro architetti e quattro pittori, tra i quali Andrea di Bonaiuto, Benci e Andrea di Cione, Taddeo Gaddi e Neri di Fioravante.

Dal 1349 al '59 la direzione tocca a Francesco Talenti, che completa il Campanile e prepara un nuovo progetto coadiuvato (dal 1360 al '69) da Giovanni di Lapo Ghini. Nel 1378 fu ultimata la volta della navata centrale, e nel 1380 furono terminate le navate minori. Tra il 1380 ed il 1421 furono costruite le tribune e forse anche il tamburo della Cupola.

All'esterno proseguirono i lavori di rivestimento in marmo e la decorazione degli ingressi laterali, fra cui la Porta dei Canonici (a sud) e la Porta della Mandorla (a nord), coronata dal rilievo con l'Assunta (1414-1421), opera raffinata di Nanni di Banco.

Eleganti anche le altre due porte: quella del Campanile (a sud), nella seconda campata, con rilievi della scuola di Andrea Pisano e la porta della Balla (a nord), il cui nome deriva dall'antica apertura sulle mura fiorentine in Via dei Servi (Borgo di Balla), in cui si trovavano i tiratoi dell'Arte della Lana.

La parte absidale chiude dignitosamente la Cattedrale con tre grandi tribune con bifore gotiche. Quattro esedre, o tribune morte, decorano la base del tamburo.

Nell'Ottocento, una serie di interventi, - tra i più importanti ricordiamo le nuove cantorie di Santa Maria del Fiore e la semplificazione del coro bandinelliano, che venne privato dell'intera sovrastruttura a colonne e delle statue sull'altare - completarono la Cattedrale. L'opera più impegnativa in assoluto fu comunque la facciata del Duomo, eseguita da Emilio De Fabris e collaboratori tra il 1871 e 1884 che aspirava a riprodurre il decorativismo fiorentino del '300, riscontrabile nel Campanile e sulle porte laterali della Cattedrale.

lunedì 24 marzo 2025

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 Buongiorno, oggi è il 24 marzo.

Il 24 marzo 1401 l'imperatore Tamerlano saccheggia Damasco.

Nato a Samarcanda nell'anno 1336, Timur Barlas o Temur-i lang (Temur "lo zoppo"), italianizzato in Tamerlano, visse per quasi settant'anni, affermandosi come il conquistatore più feroce della storia. Se dobbiamo credere a quanto raccontavano i suoi nemici il signore della guerra tartara, che nel XIV secolo creò un impero che si estendeva dalla Cina fino al cuore dell'Asia Minore, fu proprio il più sanguinario di tutti i tempi.

Il suo esercito composto di arcieri mongoli e di Tartari armati di scimitarra, devastò l'Asia dalla Siria e dalla Turchia, fino ai confini della Cina, da Mosca a Delhi. Tamerlano era spietato con i nemici che resistevano, persino con le loro famiglie.

In Siria Tamerlano accolse una domanda di grazia di migliaia di cittadini terrorizzati consigliando loro di rifugiarsi nella grande moschea.

Secondo uno storico contemporaneo, che probabilmente volle diffamare Tamerlano, i suoi luogotenenti fecero entrare circa 30.000 persone tra donne, bambini, preti e altri fuggiaschi nella costruzione di legno, sbarrarono tutte le uscite e poi diedero fuoco al gigantesco santuario.

Stessa misericordia venne concessa dal conquistatore agli anziani di Sivas, in Turchia. Disse che non ci sarebbe stato alcun spargimento di sangue se i difensori della città si fossero arresi. Ed invece quattromila soldati armeni che avevano animato la resistenza turca furono sepolti vivi, i cristiani furono strangolati o legati e poi annegati, e i bambini furono raggruppati in un campo dove vennero uccisi sotto gli zoccoli della cavalleria mongola.

Tra le pratiche più ricorrenti c'era la decapitazione di massa. Quando i Tartari annientarono un presidio di crociati a Smirne, sulla costa turca, navi cariche di rinforzi provenienti dall'Europa si presentarono davanti alla costa; gli uomini di Tamerlano indussero i nuovi venuti ad arretrare lanciando loro contro una raffica di teste umane, erano quelle mozzate dei prigionieri.

Dopo aver conquistato la città di Aleppo, in Siria, costruirono piramidi alte cinque metri con il lato di tre, usando le teste di ventimila cittadini.

Queste macabre torri dovevano servire da monito per chi non temeva l'ira di Tamerlano. La più grande fu eretta nel 1387 dopo che una ribellione generale a Isfahan (nell'odierno Iran) aveva portato al massacro di tremila soldati dell'esercito di occupazione di Tamerlano.

Informato della rivolta, Tamerlano ordinò ai suoi comandanti di raccogliere teste umane, stabilendo quante ciascuno di essi doveva procurare.

Alcuni dei soldati erano musulmani come lo stesso Tamerlano, ed erano riluttanti ad uccidere altri musulmani, comprarono perciò da compagni meno scrupolosi le teste che avrebbero dovuto mozzare. Il risultato fu un disgustoso mercato di morte.

All'inizio, le teste iraniane venivano vendute a venti dinari ciascuna, alla fine la quota era scesa a mezzo dinaro. Quando ormai sazio di sangue l'esercito se ne andò, settantamila teste erano accatastate attorno alle mura della città.

Tamerlano dedicò tutta la sua vita alla guerra. Il gusto della battaglia era in lui così forte che persino quando tornava a Samarcanda, per celebrare le sue vittorie, preferiva accamparsi fuori dalle mura anziché alloggiare in un lussuoso palazzo.

Nel 1404 l'imperatore iniziò a radunare uno sterminato esercito per la conquista della Cina, da dove i mongoli della Dinastia Yuan, fondata da Kublai Khan, nipote di Gengis Khan, erano stati cacciati nel 1368 dalla Dinastia Ming.

L'impresa, secondo la consueta strategia di Tamerlano di iniziare le proprie campagne nei mesi invernali in modo da cogliere di sorpresa il nemico, prese avvio nel dicembre del 1404 quando il grande esercito guidato da Tamerlano si mosse da Samarcanda, ma fallì sul nascere. Il clima dell'Asia Centrale era tremendo, ma quel periodo era stato scelto con consapevolezza nella convinzione che lo avrebbe agevolato, consentendogli di attraversare il Syr Darya sul ghiaccio solido e di raggiungere la Cina in primavera. Tamerlano fu tuttavia colto da fortissime febbri, forse causate da polmonite, e la sua pur fortissima fibra cedette. La morte avvenne il 19 gennaio 1405 a Otrar, appena al di là del Syr Darya, in territorio oggi kazako.

Il corpo di Tamerlano fu esumato dalla sua tomba nel Mausoleo Gur-e Amir a Samarcanda nel 1941 dall'antropologo russo Mikhail M. Gerasimov, il quale scoprì che - malgrado la statura molto alta dello scheletro - le caratteristiche facciali si conformavano a fattezze mongolidi; secondo lui questo confermava la pretesa dello stesso Tamerlano di discendere da Gengis Khan. L'esumazione confermò inoltre che il morto era zoppo per una ferita alla gamba destra. Vi erano tracce di altre ferite che avevano invalidato l'uso del braccio destro. Dal teschio, Gerasimov riuscì anche a ricostruire l'aspetto di Tamerlano.

domenica 23 marzo 2025

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 Buongiorno, oggi è il 23 marzo.

Il 23 marzo 1989 i ricercatori Stanley Pons e Martin Fleishmann annunciano di essere riusciti a generare la cosiddetta "fusione fredda".

Un’energia pulita, economica, sostenibile e pressoché illimitata. Queste le mirabolanti promesse che aleggiano attorno al meccanismo della cosiddetta fusione nucleare fredda. Ovvero, per dirla in parole semplici, una replica di quello che accade nel nucleo delle stelle – dove atomi leggeri si fondono tra loro emettendo energia – ma realizzata a temperature infinitamente più basse. Se state pensando che è troppo bello per essere vero, avete quasi certamente ragione: al momento, tutte le evidenze sperimentali indicano con chiarezza che la fusione nucleare fredda, semplicemente, non esiste. Ultima in ordine di tempo quella osservata da un’équipe di scienziati finanziati da Google, che per due anni hanno indagato il fenomeno arrivando ahinoi alla conclusione che “non c’è alcuna prova dell’esistenza della fusione fredda”. Tuttavia, come spesso accade nella scienza, il tempo passato a studiare un fenomeno che non esiste è tutt’altro che sprecato: gli sforzi dei debunker hanno infatti portato a una serie di scoperte collaterali che potrebbero avere ricadute tecnologiche inaspettate e imprevedibili.

Ripercorriamo la vicenda cominciando dall’inizio. È il 23 marzo del 1989, e siamo nei laboratori della University of Utah di Salt Lake City, in Utah, Stati Uniti. Due ricercatori, Stanley Pons e Martin Fleischmann, mostrano al mondo una macchina da laboratorio, dalle dimensioni relativamente contenute e a loro dire in grado di produrre una grande quantità di energia attraverso la fusione di due nuclei di deuterio (un isotopo pesante dell’idrogeno). Sostanzialmente, la macchina sarebbe riuscita (sempre a detta di Pons e Fleischmann) a riprodurre le reazioni nucleari che avvengono nel nucleo del Sole e delle altre stelle, a temperature di milioni di gradi, sprigionando così enormi quantità di energia. Il dispositivo era sostanzialmente una cella elettrolitica, ossia un contenitore in vetro riempito con acqua pesante (cioè acqua in cui l’idrogeno è sostituito dal deuterio) in cui erano immersi due elettrodi: facendo passare della corrente attraverso la cella, l’acqua si scomponeva nei suoi costituenti, ossigeno e deuterio. I due scienziati dissero di aver tenuto acceso il loro sole per alcuni giorni, continuando a far circolare la corrente elettrica e rimboccando di tanto in tanto la cella di acqua, e di aver osservato degli occasionali e improvvisi aumenti di temperatura del liquido. Che, spiegarono, non erano imputabili a reazioni chimiche note, ma per l’appunto a un meccanismo in cui due nuclei di deuterio si fondevano insieme formando un nucleo di elio (l’isotopo 3He), la liberazione di un neutrone e l’emissione di raggi gamma. Ovvero, in altre parole, a un fenomeno di fusione nucleare. Boom.

È facile immaginare la reazione della comunità scientifica – e, più in generale, di tutta l’opinione pubblica – davanti a un annuncio di questa portata. Se la scoperta di Fleischmann e Pons fosse stata confermata, si sarebbe immediatamente aperta una nuova felicissima era. In cui sarebbero stati risolti in un sol colpo tutti i problemi legati all’utilizzo dei combustibili fossili, vista la possibilità di produrre energia a basso costo senza rilasciare anidride carbonica, e della fissione nucleare, meccanismo che, al contrario della fusione, coinvolge atomi pesanti e quindi molto radioattivi. Però, come si diceva all’inizio, il sogno è troppo bello per essere vero. E presto è arrivato il momento di aprire gli occhi. Le dichiarazioni e soprattutto il protocollo di Fleischmann e Pons sono state passate sotto l’attento vaglio della comunità scientifica, che non ha impiegato troppo tempo a rendersi conto che non tutti i conti tornavano: i dati relativi all’emissione di neutroni, raggi gamma e l’eventuale presenza di elio non supportavano affatto l’idea di una reazione nucleare. Tutti i ricercatori che hanno cercato di riprodurre gli esperimenti di Fleischmann e Pons non sono riusciti a ottenere gli stessi risultati né tantomeno a rivelare la presenza di neutroni come prova dell’avvenuta reazione nucleare. Tanto che la rivista Nature, a novembre del 1989, ha smentito ufficialmente la scoperta. E lo Us Department of Energy ha dichiarato espressamente che non sussisteva alcuna base teorica né sperimentale per parlare di fusione fredda. Argomento chiuso e archiviato per sempre, quindi? Tutt’altro.

Nel trentennio successivo, diverse équipe di scienziati hanno continuato a credere nel sogno della fusione fredda, cercando di riprodurre i risultati dichiarati da Fleischmann e Pons – e imbarcandosi addirittura in avventure che di scientifico avevano ben poco, come nel caso dell’E-Cat di Rossi e Focardi, ma questa è un’altra storia – senza ottenere alcun risultato degno di nota. Lo sforzo più significativo, di cui finalmente siamo arrivati a conoscere gli esiti, è quello avviato da Google nel 2015. Big G, in particolare, ha assoldato trenta ricercatori, afferenti a diversi laboratori in tutto il mondo, affidando loro il compito di ricontrollare pedissequamente il lavoro e i risultati di Fleischmann e Pons e di “sviluppare una serie di esperimenti, rigorosi e riproducibili, per determinare se esistono delle condizioni sperimentali (e quali siano queste condizioni) in cui potrebbe avere luogo la fusione fredda”. Dopotutto, ragionavano pragmaticamente a Google, “the absence of evidence is not the evidence of absence”: l’assenza di prove (in questo caso a supporto della fusione fredda) è diversa, in linea di principio, dalle prove di assenza.

I risultati degli studi e degli esperimenti sono stati pubblicati su Nature. Tagliamo corto: “I successivi fallimenti di riprodurre l’effetto [dichiarato da Fleischmann e Pons, ndr] hanno accentuato lo scetticismo di questa affermazione nella comunità accademica, e hanno effettivamente portato all’esclusione di questo campo di ricerca da studi più approfonditi”, scrivono nel paper. “Motivati dalla possibilità che tali giudizi siano stati prematuri, abbiamo intrapreso un programma multi-istituzionale per riesaminare la fusione fredda con i più alti standard di rigore scientifico. In questo articolo descriviamo i nostri sforzi, che ancora non hanno fornito alcuna prova dell’esistenza di questo effetto”. In sostanza, dicono gli scienziati, la fusione fredda continua a essere un fenomeno al momento inosservabile. C’è ancora, però, una tenue speranza. E una stoccata ai debunker dell’epoca: “Il nostro progetto”, continuano, “ha mostrato quanto è difficile riprodurre le condizioni sperimentali in cui, in linea teorica, la fusione fredda potrebbe aver luogo: il fenomeno potrebbe avvenire, ma con una probabilità davvero molto remota. In ogni caso, il nostro risultato, date le difficoltà osservate, suggerisce che il debunking del 1989 potrebbe essere stato prematuro”.

Tra l’altro, va evidenziato che gli sforzi degli scienziati hanno prodotto risultati che vanno al di là del campo della fusione fredda: per realizzare i loro esperimenti, i ricercatori hanno dovuto per esempio mettere a punto dei calorimetri in grado di funzionare in condizioni estreme, e sviluppare tecniche per produrre e caratterizzare materiali altamente idrati. Serviranno a qualcosa? Ne è valsa la pena? Bisogna proseguire in questa linea di ricerca? Come spesso accade nella scienza, che procede a zig-zag e per collegamenti sommersi, è difficile stabilirlo a priori. E dunque, al momento, non possiamo far altro che attendere.

sabato 22 marzo 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


Buongiorno, oggi è il 22 marzo.

Il 22 marzo 1959 si ebbe l'incidente della diga sul lago di Pontesei, avvisaglia di quello che sarebbe successo qualche anno più tardi al Vajont.

Nel marzo del 1959 la diga di Pontesei, nel comune di Zoldo Alto (Belluno), era in fase di completamento a poca distanza da quella del Vajont e faceva parte dello stesso sistema idroelettrico che collegava gli impianti degli affluenti del Piave (sistema Piave-Boite-Maè-Vajont). Concepita nel progetto iniziale della S.A.D.E. (Società Adriatica di Elettricità) del 1939, sarà realizzata soltanto dopo la metà degli anni '50, quando la crescente domanda di energia elettrica nell'Italia del boom economico determinò l'accelerazione dei lavori al sistema che collegava gli affluenti del Piave al confine tra Veneto e Friuli.

Lo sbarramento del lago di Pontesei, alimentato dal torrente Maè, fu completato nel 1960 ed alimentava le turbine della centrale omonima con un salto idraulico di circa 90 metri alla quota di 735 m/slm lungo la strada che collega Longarone con Forno di Zoldo, lungo la vallata prospiciente a quella dove era cominciata la costruzione della diga del Vajont. La distanza tra il lago di Pontesei e il centro di Longarone è di appena 13 chilometri.

L'anno prima dell'entrata in funzione della centrale idroelettrica, il 22 marzo 1959, domenica delle Palme, l'incidente.

Durante le prove d'invaso precedenti il collaudo, con il livello del bacino mantenuto a 13 metri sotto la portata massima, i tecnici della S.A.D.E. iniziarono a notare chiazze di acqua giallastra nelle acque del lago di Pontesei, seguite poco dopo da inquietanti brontolii provenienti dal ventre della montagna. Per precauzione iniziarono le operazioni di svuotamento dell'invaso mentre veniva monitorato il movimento dello smottamento del fronte della montagna ormai fradicio d'acqua infiltrata dalle acque del lago. Mentre si svolgevano ancora le operazioni di messa in sicurezza, la frana accelerò e in meno di un minuto circa 3 milioni di metri cubi di detriti piombarono nelle acque gelide del bacino, generando un'onda di piena alta oltre 20 metri. Per la medesima causa che determinerà la tragedia alla vicina diga del Vajont appena 4 anni più tardi, soltanto per un caso vi fu una sola vittima. La massa d'acqua e fango generata dal fianco del Fagarè (sponda sinistra del lago) investì il custode dell'impianto Arcangelo Tiziani, il cui corpo non verrà mai ritrovato. A causa della frana e della massa di fango rimasero isolati i tre comuni di Zoldo Alto, Forno di Zoldo e Zoppé (6.500 abitanti complessivamente).

Nonostante le similitudini geomorfologiche tra le due dighe dello stesso sistema, dopo l'incidente di Pontesei i responsabili della Società Adriatica (che poco dopo sarebbe stata nazionalizzata nell'Enel) non fecero tesoro dell'esperienza dell'incidente del 1959. Le omissioni su quella frana che anticipò il disastro del 1963 emersero durante l'iter giudiziario sulla strage del Vajont, quando nel 1969 fu ascoltata la deposizione dell'Ing. Camillo Linari, responsabile dell'impianto di Pontesei. Scampato egli stesso alla morte in occasione della frana del 1959 dopo essersi arrampicato sul fianco della montagna inseguito dalla furia delle acque, Linari dichiarò di non aver mai accennato ad uno studio comparativo tra Pontesei e il vicino Vajont, e neppure di averne ricevuto richiesta dai vertici S.A.D.E.

Dalle parole di Linari emerse anche il disinteresse di alcuni dei personaggi chiave della tragedia del 1963, come il geologo Edoardo Semenza (figlio del progettista del Vajont e responsabile dei rilievi al monte Toc). Altrettanto silenzio opposero altri responsabili della società elettrica e del Genio Civile, tra cui il più assordante fu quello dell'Ing. Alberico Biadene, uno dei condannati nella sentenza del 1971 per il disastro che cancellò la vita a Longarone. Anche lui all'incidente di Pontesei non farà mai cenno. 

venerdì 21 marzo 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 21 marzo.

Il 21 marzo 1871 Otto Von Bismark viene nominato Cancelliere del Reich.

Otto von Bismarck-Schönhausen nasce il giorno 1 aprile del 1815, a Schönhausen (Germania), da una famiglia della borghesia terriera. Avviato alla carriera diplomatica, diviene deputato alla Dieta prussiana, l'Assemblea costituente tedesca, nel 1848.

Grazie alle sue abilità ed al suo prestigio, nel corso degli anni colleziona titoli nobiliari: è conte nel 1865, principe nel 1871 e duca nel 1890. Animato sin da giovanissimo da un profondo attaccamento alla sua Germania, che vede in un'ottica unitaria e di grande potenza, dedica il suo impegno politico all'affermazione di tali idee attraverso il ridimensionamento dell'Austria rispetto alla Prussia.

Nel 1851 Federico Guglielmo IV lo invia, quale ministro plenipotenziario, alla dieta di Francoforte (1851-1859), grato per le sue battaglie contro i liberali. Bismarck è poi ambasciatore in Russia e in Francia. Nel 1862 il re e futuro imperatore Guglielmo I gli conferisce l'incarico di Primo Ministro con il mandato specifico di consolidare la potenza militare della Prussia.

Nonostante gli ostacoli incontrati in Parlamento, riesce nell'intento e nel 1864 ne sperimenta l'efficacia nella guerra contro la Danimarca ed al fianco dell'Austria per la "questione dei ducati danesi", risoltasi l'anno successivo con la spartizione degli stessi tramite la convenzione di Gastein. Bismarck, che di quella convenzione rimane insoddisfatto e risentito nei confronti dell'Austria, decide che è giunto il momento di dare avvio al suo progetto di una nuova confederazione germanica sotto l'egemonia prussiana e non più austriaca.

Si allea dunque con Francia ed Italia, promettendo a quest'ultima il Veneto, e determina una guerra che l'Austria perde in maniera disastrosa nella battaglia di Sadowa, il 3 ottobre 1866. L'Italia ottiene il Veneto e Bismarck l'agognata egemonia prussiana. L'anno successivo riunisce 22 Stati nella Federazione del Nord, sotto la presidenza di Guglielmo I. La successione al trono di Spagna, nel 1868, dopo la cacciata dei Borboni, determina fra Napoleone III e la Prussia un duro scontro che genera un nuovo conflitto.

Dopo varie e rovinose sconfitte della Francia, l'impero ne esce distrutto e Bismarck raccoglie i risultati del suo genio politico. A Versailles, il 21 gennaio 1871, nasce il II Reich germanico, con Guglielmo I che diviene imperatore di Germania e Bismarck Gran Cancelliere dell'Impero. Per conservarne l'integrità si scontra prima con i cattolici e poi con i socialisti. Attua importanti riforme sociali.

Nel 1872 si riavvicina all'Austria ed alla Russia, concludendo l'"Alleanza dei tre imperatori". Con il Congresso di Berlino, da lui presieduto nel 1878, per la definizione della "Questione d'Oriente", cioè della spartizione dell'Africa, fa della Germania anche una potenza coloniale. Nel 1882 stabilisce la nuova Triplice Alleanza, con Austria e Italia, che va a contrapporsi all'intesa tra Francia e Russia.

Dopo la morte di Guglielmo I, avvenuta nel 1888, non ritrova la stessa intesa né con Federico III, che peraltro regna per soli tre mesi, né con Guglielmo II. Il 20 marzo del 1890 si dimette da Cancelliere e si ritira a Friedrichsruh. Qui Otto von Bismarck si spegne il 30 luglio 1898, all'età di 83 anni, ma fa in tempo a pubblicare "Pensieri e ricordi", il libro delle sue memorie, che riscuote notevole successo ed è tradotto in molte lingue.

Bismarck rimane uno dei principali protagonisti dell'Ottocento europeo: grande statista e finissimo stratega, la sua opera è valsa a porre fine al bonapartismo ed allo strapotere austro-ungarico, sconvolgendo gli equilibri preesistenti e dando definitiva dignità al suo popolo ed alla sua nazione.

giovedì 20 marzo 2025

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 Buongiorno, oggi è il 20 marzo. 

Il 20 marzo 1852 Harriet Beecher Stowe pubblica il romanzo "La capanna dello zio Tom".

Lo zio Tom è uno schiavo che vive in una piantagione americana nella prima metà dell’Ottocento.

Il suo è un padrone buono. Sfortunatamente, per un dissesto finanziario questo buon padrone è costretto a vendere le sue proprietà.

E quando si parla di proprietà, si intendono anche gli esseri umani.

Perché, in quel periodo, gli afroamericani schiavi erano considerati al pari del mobilio di una casa.

Tra gli schiavi pronti per essere venduti c’è anche un bambino, Henry, che rischia di venire strappato per sempre alla propria famiglia (situazione assai comune in quel periodo, purtroppo).

Ma sua madre, Elise, riesce a strapparlo ai mercanti e a fuggire con lui e a raggiungere il Canada, libero da ogni forma di schiavitù.

Sorte diversa spetta al buon Tom.

Viene venduto a Simon Legree, un brutale coltivatore di cotone, che vuole fare di lui un sorvegliante/aguzzino.

Ma Tom si rifiuta di eseguire gli ordini. Non si ribella, non decide di rivoltarsi contro il padrone. Semplicemente dice di no. E viene punito. Legree lo fa frustare a morte.

E il figlio del suo primo padrone, che nel frattempo era riuscito a ricostruire la sua ricchezza e lo stava cercando per riportarlo a casa, non riesce ad arrivare in tempo. Lo trova agonizzante. E, con le ultime forze rimaste, e nonostante il trattamento ricevuto, riesce a perdonare.

Pubblicato nel 1852, in seguito ad un atto legislativo promulgato nel 1850, il Fugitive Slave Law, che decretava un dovere la denuncia degli schiavi fuggiti e la restituzione ai proprietari, il romanzo ebbe un profondo effetto sugli atteggiamenti nei confronti degli afro-americani e la schiavitù negli Stati Uniti e rese più acuto il conflitto che condusse alla guerra civile americana.

Harriett Beecher Stowe era un’abolizionista convinta. Questo romanzo è stato il suo tentativo, assai riuscito, di sollevare le coscienze delle persone dell’epoca.

La capanna dello zio Tom colpì talmente l’opinione pubblica che Abramo Lincoln, parlando della sua autrice, alla fine della guerra civile americana che sancì l’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti: “E’ la piccola donna che ha vinto la guerra”.

La Stowe focalizzò il romanzo sul personaggio di zio Tom e sulla lunga sofferenza degli schiavi neri attorno alla quale si intrecciano le storie di altri personaggi. Il romanzo descrive la  realtà della schiavitù e afferma che l’amore cristiano può superare la distruzione e la riduzione in schiavitù di altri esseri umani.

La critica che la comunità afroamericana rivolge oggi a questo libro è il fatto di aver rappresentato la figura dello schiavo in modo troppo negativo e rassegnato, senza nessun impulso alla lotta contro il potere dei padroni.

Nonostante gli stereotipi che ha contribuito a creare sugli afroamericani, e nonostante sia scritto in una forma letteraria non eccelsa, questo libro ha avuto il grande pregio di svegliare le coscienze di una gran parte del popolo americano.

Ed è entrato di prepotenza nei classici della letteratura nordamericana.

E’ un libro commovente, da leggere in compagnia dei propri figli (perché è, di fatto, una lettura per ragazzi). Ed è un ottimo modo per aiutarli a capire che le differenze vanno coltivate e non eliminate.

mercoledì 19 marzo 2025

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 Buongiorno, oggi è il 19 marzo.

Il 19 marzo 1981, festa di San Giuseppe Lavoratore, papa Giovanni Paolo II, invitato dal vescovo Santo Quadri, faceva la sua visita alla città di Terni.

Una visita storica, che ebbe echi in tutto il mondo, perché si trattava del primo approccio con il mondo del lavoro di un papa che era stato egli stesso operaio, in gioventù, nelle fabbriche polacche della Solvay.

Prima tappa del soggiorno ternano di papa Wojtyla furono quindi le acciaierie della Terni: il papa visitò gli stabilimenti, si confrontò con il consiglio di fabbrica, pranzò con i lavoratori nella mensa aziendale.

Nel pomeriggio ci fu invece l’incontro con la città: prima in cattedrale, con il preti e i religiosi, poi con i malati, e infine la grande messa celebrata allo stadio “Liberati” di fronte a 40000 persone.

La visita fu annunciata alla diocesi dal vescovo Quadri il 23 gennaio 1981. “Il Papa – commentò dopo la visita – ha dissipato ogni pregiudizio e ha permesso di vedere l’uomo con gli uomini e il Papa per gli uomini. Nella situazione di crisi che da tempo ci stringe, il Papa ha presentato il Vangelo del lavoro per aiutarci a scoprire tutti i valori, umani e cristiani, che la nostra attività quotidiana porta con sé”.

“Gli operai delle acciaierie – ricorda invece l’allora sindaco Giacomo Porrazzini – in lotta proprio in quei giorni per difendere la fabbrica e il posto di lavoro, hanno certamente parlato al Papa dei loro problemi, delle loro ansie, ma non anteponendole ad un orizzonte più vasto, dove si collocava il valore dell’uomo e, con la sua universalità, la sua stessa carica liberatrice”.

Giovanni Paolo II arriva alle 8.40 di mattina in elicottero allo stadio di viale Brin. All’interno della Terninoss sosta brevemente per piantare un albero a ricordo della visita. A riceverlo il sindaco Porrazzini e il ministro del Commercio Estero Enrico Manca in rappresentanza del governo italiano.

Alle acciaierie giunge alle 9.30 dove viene ricevuto dal presidente Romolo Arena. Alle 10 ha inizio la visita allo stabilimento. Il Papa si reca in fucinatura dove incontra gli operai del reparto ed assiste ad alcune fasi del processo produttivo alla pressa da 12000 tonnellate. Alle 10.30 raggiunge il reparto acciaieria, mentre ha luogo una colata al forno elettrico n.5. Il Papa di sua iniziativa, sale alle cabine di comando e controllo dei forni. Alle 11 raggiunge la sede del Consiglio di Fabbrica dove presiede la riunione plenaria dei consigli di fabbrica della Terni, Terninoss e dellla Icrot, alla quale partecipano esponenti sindacali nazionali, regionali e provinciali.

Alle 12 il Papa incontra, nel piazzale antistante la direzione, novemila lavoratori e riceve il saluto del Presidente dell’IRI Piero Sette e dell’operaio Roberto Giovannelli, che parla al papa del problema di cassa integrazione e della minaccia di decurtazione dei salari, dei posti di lavoro a rischio.

“Gli operai, gli impiegati i tecnici – dice – porgono il più cordiale benvenuto ad un ex lavoratore, che, divenuto papa, ritorna tra i lavoratori nel loro luogo di lavoro. I credenti vedono nella sua figura la presenza misteriosa ma reale del “Dio con noi”, i non credenti potranno apprezzare il messaggio di giustizia, di pace e di fratellanza da lei annunciato a tutto il mondo”.

Dopo aver pronunciato un discorso a tutti gli operai, alle 12.30 il Papa lascia la fabbrica per pranzare insieme ai lavoratori nella mensa aziendale, al termine del quale c’è uno scambio spontaneo di brindisi.

“Abbiamo fatto un buon lavoro – dice De Guidi, che aggiunge – il Vangelo ci racconta di numerosi banchetti ai quali partecipò Gesù di Nazareth, tanto da offrire l’occasione ai denigratori del Cristo di appellarlo ‘il mangione’. Noi conosciamo il valore eccezionale che hanno i banchetti del Vangelo, con tutta la simbologia collegata allo “spezzare il pane” che è divenuta poi il momento centrale del culto cristiano”.

“Se abbiamo lavorato bene – risponde il Papa scherzando – allora abbiamo meritato il salario. Io perciò mi presento alla Direzione… non so a chi… alla direzione di fabbrica o al Vescovo per chiedere il salario? Vedremo, vedremo, vedremo se la giustizia sociale governa in questa città!”.

Alle 14.30 il Papa lascia la “Terni” e inizia la visita alla città. Il corteo pontificio sosta di fronte a Palazzo Spada e si conclude in Vescovado , dove Giovanni Paolo II rivolge un messaggio ai sacerdoti delle diocesi di Terni, Narni e Amelia, mentre in cattedrale incontra i malati e le suore della città.

Infine la messa, alle 17.15 allo stadio Libero Liberati, dove il papa concelebra la messa con i vescovi umbri e i sacerdoti di Terni, Narni e Amelia.

Alle 19.15 la visita si conclude: Karol Wojtyla, soddisfatto per la giornata trascorsa a Terni, esprime la sua gioia al vescovo ringraziandolo dell’invito. Lascia quindi Terni in elicottero, sorvolando l’ospedale e la Cascata delle Marmore illuminata.

martedì 18 marzo 2025

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 Buongiorno, oggi è il 18 marzo.

Il 18 marzo 1944 i soldati americani di stanza a Napoli filmano l'eruzione del Vesuvio. Questa è l'unica eruzione del vulcano che sia stata documentata con foto e filmati.

Questa eruzione è considerata come il termine di un periodo eruttivo iniziato nel 1913. L'attività stromboliana cominciò da allora a costituire un conetto di scorie all'interno del cratere che aveva raggiunto, nel marzo del '44, un'altezza di 100 m., portando l'altezza del vulcano a 1260 m.

L'eruzione del 1944, descritta in maniera dettagliata da Giuseppe Imbò, allora direttore dell'Osservatorio Vesuviano, fu preceduta da chiari segni premonitori a partire dal 13 marzo, quando si ebbe il collasso del cono di scorie presente all'interno del cratere.

L'eruzione iniziò il 18 Marzo con un aumento dell'attività stromboliana e con piccole colate laviche sul versante orientale e verso Sud. Subito dopo un altro flusso lavico si riversò nell'Atrio del Cavallo e si fermò a 1,2 km da Cercola, dopo aver invaso e parzialmente distrutto gli abitati di Massa di Somma e di S. Sebastiano. Nel pomeriggio del 21 marzo iniziò la seconda fase dell'eruzione caratterizzata da fontane di lava che determinarono l'arresto dell'alimentazione lavica.

A partire da mezzogiorno del 22 marzo si verificò un sensibile cambiamento nello stile eruttivo: la nube eruttiva raggiunse un'altezza di 5 km, mentre lungo i fianchi del cono si innescarono valanghe di detriti caldi e piccoli flussi piroclastici.

Si verificò, inoltre, una intensa attività sismica fino al mattino del 23 in cui l'attività eruttiva si ridusse alla sola emissione di cenere. L'emissione di cenere chiara che ebbe luogo il 24 marzo preannunciò il termine dell'attività eruttiva, imbiancando il Gran Cono come dopo una nevicata. Le esplosioni gradualmente si ridussero fino a scomparire il giorno 29, quando l'attività si ridusse a nubi di polvere, da attribuire prevalentemente a frane dell'orlo craterico.

I paesi più danneggiati dai depositi piroclastici da caduta furono Terzigno, Pompei, Scafati, Angri, Nocera, Poggiomarino e Cava. Gli abitanti di S. Sebastiano, di Massa e di Cercola, circa 12.000 persone, furono costretti all'evacuazione. Napoli fu favorita dalla direzione dei venti che allontanarono dalla città la nuvola di cenere e lapilli. 

L'eruzione del 1944 è l'ultima eruzione del Vesuvio e segna la transizione del vulcano da stato di attività caratterizzato da condizioni di condotto aperto a condizioni di condotto ostruito, in cui ci troviamo attualmente.

I danni prodotti dall'eruzione furono:

26 persone morte nell'area interessata da ricaduta di ceneri a causa dei crolli dei tetti delle abitazioni;

2 centri abitati in parte distrutti dalle colate laviche;

3 anni di raccolti persi nelle aree interessate da ricaduta di ceneri.

L'agente dell'Intelligence Service britannico Norman Lewis, testimone dell'eruzione, nel suo libro "Naples '44" (1978), fornisce un'interessante descrizione dell'avanzata del fronte lavico nella città di San Sebastiano:

[...] la lava si stava inoltrando tranquillamente lungo la strada principale, e ad una cinquantina di metri dal margine di questo cumulo di scorie che lentamente avanzava, una folla di diverse centinaia di persone, in gran parte vestite di nero, pregava inginocchiata. [...] La lava si muoveva alla velocità di pochi metri all'ora, e aveva coperto metà della città con uno spessore di circa 10 metri. La cupola di una chiesa, emergendo intatta dall'edificio sommerso, veniva verso di noi sobbalzando sul suo letto di cenere. L'intero processo era stranamente tranquillo. La nera collina di scorie si scosse, tremò e vibrò un poco e blocchi cinerei rotolarono lungo i suoi pendii. Una casa, prima accuratamente circondata e poi sommersa, scomparve intatta dalla nostra vista. Un rumore da macina, debole e distante, indicò che la lava aveva cominciato a stritolarla. Vidi un grande edificio con diversi appartamenti, che ospitava quello che chiaramente era stato il miglior caffè della città, affrontare la spinta della lava in movimento. Riuscì a resistere per quindici o venti minuti, poi il tremito, gli spasmi della lava sembrarono passare alle sue strutture e anch'esso cominciò a tremare, finché le sue mura si gonfiarono e anch'esso crollò. 

Su tutte le statue che affrontavano la lava dominava in tutti i sensi, per dimensioni, per numero di persone che reggevano la piattaforma, quella dello stesso San Sebastiano.

La scrittrice Maria Orsini Natale nel suo libro "La bambina dietro la porta" ricorda il trenino per il Vesuvio: La funicolare del Vesuvio

Prima dell'eruzione del 1944 partiva da Pugliano, una stazione della Circumvesuviana, il trenino per il Vesuvio.

In un tratto di forte pendenza veniva preso a rimorchio da una motrice con ruota a cremagliera.

Passava poi per la fermata dell'Osservatorio e dell'Eremo e arrivava alla base del gran cono, alla stazione della funicolare per il cratere: quella mitica, quella di Funiculì funiculà, che fu sepolta dalle ceneri dell'eruzione.

I binari del trenino, sempre in quell'ultima catastrofe, furono invasi dalla lava e chi sa dove è andata perduta la fotografia che nella mia casa raccontò quella rovina.

Una rotaia divelta sporgeva dal mare di pietra come naufrago disperato.

lunedì 17 marzo 2025

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 Buongiorno, oggi è il 17 marzo.

Il 17 marzo 1861 veniva ufficialmente proclamato il Regno d'Italia.

«Il Senato e la Camera dei Deputati hanno approvato; noi abbiamo sanzionato e promulghiamo quanto segue: Articolo unico: Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e suoi Successori il titolo di Re d’Italia. Ordiniamo che la presente, munita del Sigillo dello Stato, sia inserita nella raccolta degli atti del Governo, mandando a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato. Da Torino addì 17 marzo 1861».

Queste parole rappresentano il testo della legge n. 4671 del Regno di Sardegna. Pochi giorni dopo quel 17 marzo, lo stesso testo sarebbe diventato la legge n. 1 del Regno d’Italia. Era nato un Regno, era nato uno Stato unitario laddove, appena un paio d’anni prima, ve n’erano addirittura sette.

Il primo dato che emerge dall’analisi del testo è che il numerale che accompagna il nome del sovrano non viene modificato: è sempre Vittorio Emanuele II, non I come avrebbe voluto larga parte dell’opinione pubblica patriottica. Il dato è significativo e tutt’altro che simbolico. “Vittorio Emanuele I” avrebbe sottolineato la specificità e la novità dell’Italia unita. “Vittorio Emanuele II”, invece, significava implicitamente che il nuovo Stato era l’allargamento territoriale del Regno di Sardegna e delle sue istituzioni.

La reazione internazionale alla proclamazione del Regno fu repentina e, in alcuni casi, entusiastica. Il nuovo Stato venne riconosciuto, nel volgere di poche settimane, dai governi svizzero, britannico e statunitense. Questi guardavano infatti con favore alla creazione di uno Stato mediterraneo abbastanza popoloso (oltre 22 milioni di abitanti) che fosse in grado di dare stabilità all’intero continente, attraversato in quegli anni dalla lotta tra Francia e Austria per il controllo dell’Europa meridionale e dalla contrapposizione franco-britannica per il dominio delle rotte mediterranee.

Il Regno d’Italia era stato dunque “generato” da una decisione presa dal Parlamento riunito a Torino, nella sede di Palazzo Carignano. I suoi rappresentanti erano stati eletti pochi mesi prima, nel gennaio dello stesso anno, e la loro provenienza già aveva attestato la realizzazione, de facto, dell’Unità. Le elezioni si erano infatti tenute in tutte quelle regioni che, attraverso i plebisciti, nel corso dell’anno precedente avevano chiesto l’annessione al Regno sabaudo.

In quel Parlamento una grande maggioranza degli eletti si riconosceva apertamente nelle posizioni politiche di Camillo Benso di Cavour. E, infatti, fu proprio il conte piemontese a ricoprire, per primo, la carica di presidente del consiglio dei ministri del Regno d’Italia. In quell’esecutivo il conte ricopriva anche i dicasteri della Marina e, soprattutto, degli Esteri. Gli altri ministri erano specchio dell’unità appena dichiarata. Alla Giustizia un piemontese (Cassinis), all’Agricoltura un siciliano (Natoli), alla Guerra un emiliano (Fanti), alle Finanze un livornese (Bastogi) e ai Lavori pubblici un fiorentino (Peruzzi), all’Istruzione un napoletano (De Sanctis).

Ma, improvvisamente, ad appena una decina di settimane dalla proclamazione dell’Unità, Cavour, il principale architetto dell’Unità, moriva a soli 51 anni nella sua residenza di famiglia, probabilmente stroncato dalla malaria (a dispetto delle tesi complottiste succedutesi nel tempo). Decine di migliaia di persone parteciparono ai suoi funerali in piazza San Carlo, a Torino. L’intero  paese aveva perso, forse nel momento di maggior bisogno, uno statista le cui qualità sarebbero state rimpiante da molti.

domenica 16 marzo 2025

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 Buongiorno, oggi è il 16 marzo.

Il 16 marzo 2010 un incendio distrugge le tombe di Kasubi in Uganda, uno dei luoghi Patrimonio dell'Umanità UNESCO.

Le tombe di Kasubi si trovavano sulle colline del distretto di Kampala, in Uganda. Quattro tombe reali erano situate in un edificio chiamato Muzibu Azaala Mpanga, di forma circolare e coperto da una cupola di stoppia. Il sito è considerato un importante centro spirituale per gli abitanti della regione e perciò attira un numero considerevole di turisti. Le tombe sono un patrimonio dell'umanità a partire dal 2001. Sono considerate resti esemplari dell'architettura dei popoli del Buganda.

Il recinto reale di Kasubi Hill fu costruito nel 1881. Conosciute anche come tombe dei Ssekabaka, queste sono le tombe reali dove quattro Kabakas sono tuttora sepolti.

I quattro kabakas (re) sepolti al sito sono:

Muteesa I di Buganda (1835–1884)

Mwanga II di Buganda (1867–1903)

Daudi Cwa II di Buganda (1896–1939)

Mutesa II di Buganda (1924–1969)

Il 16 marzo 2010, verso le 20:30 ora locale, le tombe di Kasubi sono state quasi completamente distrutte da un incendio. La causa dell'incendio è ancora sconosciuta. Il regno di Buganda ha promesso di condurre indagini accanto alle forze di polizia nazionali. 

Il 17 marzo 2010, il Kabaka di Buganda, Muwenda Mutebi II, e il Presidente dell'Uganda, Yoweri Museveni, hanno visitato il sito delle tombe. Centinaia di persone hanno viaggiato verso il sito per aiutare a recuperare qualsiasi cosa sia rimasta di esso. Durante la visita del Presidente, sono scoppiati dei tumulti. Le forze di sicurezza hanno ucciso due rivoltosi e cinque sono stati feriti. I soldati ugandesi e la polizia si sono scontrati anche con i rivoltosi nella città-capitale di Kampala. Le forze hanno usato i lacrimogeni per disperdere i rivoltosi del Baganda gruppo etnico.

La distruzione è arrivata sulla scia di un rapporto imbarazzante tra il governo dell'Uganda e il Regno di Buganda, in particolare dopo le sommosse del settembre 2009. In vista di questi disordini, i rivoltosi sono stati arrestati e posti in attesa di giudizio.

Per fortuna, tutto quello che c'era all'interno della struttura è ancora intatto. L'amministrazione del Regno di Buganda ha promesso allora di ricostruire le tombe, e il presidente Museveni ha detto che il governo nazionale parteciperà al restauro.

I lavori, finanziati dal Giappone, hanno avuto inizio nel 2014 e sono terminati a settembre del 2023. 

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