Cerca nel web

martedì 7 ottobre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 7 ottobre.

Il 7 ottobre 1948 viene presentata al salone di Parigi la Citroen 2CV.

Tutto quello che è paradossale è interessante. La 2CV è appassionante perché è totalmente paradossale, come il genio. Definita in seguito ad un’indagine di mercato di entità sconosciuta fino allora, fu commercializzata nella parsimonia di un’epoca di penuria.

Alcuni la giudicano priva di buon gusto, anche se fu disegnata dal creatore della DS e che le sue forme, frutto delle dottrine di Bauhaus, esaltano l’estetica “art déco” che si era affermata proprio fra le due guerre.

Economica, fu fin dall’inizio uno dei modelli più costosi a fabbricare. Destinata alla Francia più profonda, ha conosciuto il mondo intero. Popolare, è invece la più snob che si possa trovare e non soffre di paragoni se non per una Rolls o una Porsche.

Modesta e tranquilla, ha battuto tutti i tipi di record finendo sempre al centro della cronaca. Si prediceva un successo limitato; ha conquistato il mondo e prosperato fino agli anni 90. Più diventa anziana, più piace ai giovani. Amabile e riservata è dunque entrata dentro la mitologia del XX secolo e, come fenomeno di civilizzazione, diventa oggetto di tesi universitarie.

Eroina dei romanzi o diva cinematografica, in particolare nel nostalgico “American Graffiti”, nonostante conobbe il successo col più infimo dépliant nella storia della pubblicità: quattro pagine in bianco e nero formato Carta d’identità.

Ha la robustezza di un attrezzo da lavoro ma è tutta smontabile: tetto, bagagliaio, portiere, sedili. I suoi meno sono un più, perché la sua sofisticazione tecnica si esprime nella soppressione pura e semplice: niente spinterogeno, niente radiatore, niente guarnizioni sulle testate, niente (sulle prime) ammortizzatori.

La sua personalità si descrive grazie agli attributi che non ha: la potenza, la velocità, il lusso, l’aggressività, l’essere “in”. Questo modello “grande pubblico – grande diffusione” è stato fatto, e ben fatto, da persone che non ascoltavano nessuno.

L’automobile vera ignora l’automobile, questo perché è lei l’automobile, disse Lao Tseu. Figlia naturale di Pegaso e di un passaverdura, la 2CV sta alle automobili come il carciofo sta ai fiori.

Qualcosa di meglio perché qualcosa di più. Questo strumento marciante fa parte di una concezione del mondo, Weltanschauung.

I nostalgici della 2CV corrono dietro loro stessi. E chi non corre dietro se stesso ? La 2CV è la giovinezza del mondo.

Suoi antenati culturali sono Madre Coraggio e Pollicino. Merita altro che poche pagine sui suoi perché e sui suoi commenti.

Nel 1935 gli stabilimenti Citroen sono in mano alla Compagnia Michelin e, grazie allo strepitoso successo della Traction Avant, le prospettive sembrano favorevoli. Pierre-Jules Boulanger, presidente e Direttore generale all’epoca, ha un’idea rivoluzionaria. Vuole lanciare una vettura rappresentante il minimo utile e destinata a tutti. Riassume così la sua idea “quattro ruote sotto un’ombrella”.

Questa idea è scaturita nella mente di Pierre Boulanger in un giorno di mercato in una cittadina dell’Alvernia (si dice sia poi Lempdes, suo luogo natio). Rimasto imbottigliato fra carretti a mano, carrette coi cavalli e carriole, si meravigliò di non vedere alcun tipo di veicolo motorizzato, sebbene ne esistessero di numerosi sul mercato dell’automobile, compresi quelli di occasione.

Incarica pertanto un ingegnere di un’indagine sulle cause di questa assenza. Si rivela che le automobili sono troppo onerose, troppo grandi, difficilmente maneggiabili nelle mani di una donna. I contadini necessitano di un veicolo per andare a mungere le mucche e portare il latte alla fattoria.

Nell’autunno 1935, P. Boulanger convoca Brogly, direttore del centro Studi: “studiate una vettura che possa trasportare due persone e cinquanta Kg di patate a 60 Km/h, e non consumi che 3 litri per 100 Km. La vettura dovrà poter passare sui percorsi più accidentati, essere guidata da un principiante, avere un comfort irreprensibile.

Il suo prezzo dovrà essere inferiore ad un terzo di quello della Traction Avant 11CV”. Si è appena agli inizi ma qualcuno al Centro Studi già ironizza sul progetto, tanto da soprannominarlo “Scioccherella”! Ma l’équipe di André Lefébvre, l’uomo che concepì la Traction Avant, si dedica al progetto della “minima automobile francese”. Flaminio Bertoni e Jean Muratet disegnano la carrozzeria, Alphonse Forceau si dedica al cambio di velocità, sotto l’occhio di Roger Prud’homme, capo reparto del Centro studi.

La gestazione sarà lunga.

Un primo modello in legno viene costruito nel 1936 e il primo prototipo vede la luce nel 1937. E’ degno dello spirito d’inventiva dell’équipe di Lefébvre. Priorità alla leggerezza: quasi tutto in duralinox, le quattro ruote sono in magnesio.

Le sospensioni sono composte di una moltitudine di barre di torsione. Il motore è quello di una moto BMW 500 cm3. Un telo teso su di un’armatura in alluminio fa le veci della carrozzeria… Questo primo prototipo è un miracolo di astuzie.

Arriva il momento della prova, la vettura viene lanciata a 100 Km/h, una follia, si ha l’impressione che debba decollare! Léfebvre prende il volante, percorre 500m, ritorna smorfioso: “smontate tutto che ce ne andiamo”.

Nel maggio 1939 esistono 250 prototipi fabbricati dalla fabbrica di Levallois. Si attende di mostrarli al pubblico al Salone dell’Automobile.

Scoppia la guerra: tutti i prototipi, salvo uno, vengono volontariamente distrutti: Citroen mantiene il segreto sul “progetto TPV”.

Dieci mesi di studio fanno evolvere il progetto che ormai viene nominato “Toute Petite Voiture (TPV), la piccola automobile, come avrebbe dovuto chiamarsi sino al momento del debutto nel 1948.

Nel 1939 il prototipo è definito: la TPV è in lega leggera (duralinox), salvo i parafanghi e il cofano in lamiera.

La linea generale è già quella delle 2CV che a migliaia circoleranno pochi anni più tardi. L’altezza interna fu calcolata più che abbondantemente. Pierre-Jules Boulanger controlla tutti i dettagli da vicino, esamina lui stesso i bozzetti di carrozzeria in grandezza naturale.

Per meglio giudicare la loro abitabilità, lui entra in ciascuno di essi, il suo cappello a cilindro in testa: se il cappello cade, lo stesso succede al progetto. Le vetture vengono sottoposte a più di cinquanta test di facilità di entrata, di piacevolezza di guida, di carrozzeria e di sospensioni.

Il tetto è di tela, scopribile dall’alto del parabrezza fino alla targa posteriore. Quattro porte apribili unicamente dall’interno, vetri in mica di cui quelli anteriori composti di due metà. Cofano motore in lamiera con ondulature rettangolari.

Non ha che un solo faro, a sinistra (il codice della strada non ne imponeva ancora due). Assenza degli indicatori di direzione: la segnalazione si effettua con il braccio (ragione per la quale metà del vetro è basculante). Tergicristallo a comando manuale (una sola racchetta ma con percorso ellissoidale grazie ad un’asticina di richiamo al fine di tergere praticamente tutta la superficie del parabrezza).

Sedili ad amaca sospesi su un’armatura inferiore rigida in alluminio e una barra mobile a livello dello schienale attaccata alla traversa superiore della carrozzeria.

Il motore di 375 cm3 sviluppa una potenza di 8CV (si tratta di un bicilindrico boxer raffreddato ad acqua) e non è fornito di avviamento elettrico: l’avviamento è affidato alla manovella (che ritorna in posizione alta, pronta per un nuovo tentativo).

Si era provato anche un avviamento a strappo, come per i tosaerba o i motori fuori bordo, per l’avviamento a caldo della vettura dall’interno, ma questo sistema riservava un maneggio troppo difficile; vennero interpellate le segretarie del Centro Studi e diverse si ruppero le unghie per cui si abbandonò questo sistema poco comodo per le mani femminili. Accensione classica, piccola dinamo calettata sull’albero motore.

Cambio a tre velocità più retromarcia a comando diretto. Sterzo a cremagliera. Freni idraulici anteriormente (tamburi sui mozzi), freni meccanici a comando manuale posteriormente. Un’attenzione particolare spetta alle sospensioni: il telaio in duralinox è collegato alle ruote Michelin “Pilote” a bassa pressione mediante dei bracci indipendenti in magnesio, barre di torsione protette da una carenata sotto i sedili posteriori (tre barre e una di sovraccarico per ogni lato, in tutto otto).

Degli elementi ammortizzatori antibeccheggio assicurano il bloccaggio delle sospensioni in frenata tramite un sistema idraulico. Così com’è il prototipo pesa meno di 400 Kg, raggiunge i 50 Km/h con quattro persone a bordo e 50 Kg di bagagli consumando circa 5 litri di benzina per 100 Km. I rari privilegi che si possono apprezzare fanno di questo primo veicolo una “vettura molto piacevole da guidare”.

La guerra, poi l’occupazione che permane per lungo tempo, obbligano Pierre-Jules Boulanger a riconsiderare il suo veicolo.

L’accento è spiccatamente sull’economia, il suo motto era: “siate sordidamente economi”, ma non per questo mancano le soluzioni ingegnose; la seconda priorità, l’alleggerimento, porta all’utilizzo di materiali costosi cancellando tutti i risparmi fatti nel resto.

I materiali adottati sulla TPV, bracci in magnesio, scocca in alluminio, permettono sì un costo di mantenimento molto basso per la clientela, ma rendono il prezzo di vendita esorbitante e la lavorazione difficile.

Uno studio sui costi viene fatto nel 1941, se ne deduce che malgrado le apparenze spartane la TPV del 1939 supera del 40% il prezzo accettabile. P.J.B. non si disarma, i suoi studi ripartono quanto prima con una priorità assoluta: il costo.

Ogni pezzo è studiato in funzione di questo parametro e la prima conseguenza di questa nuova ricerca è un passo verso l’adozione dell’acciaio.

Sotto il più inviolabile segreto (Boulanger credeva che i tedeschi potessero interessarsi al progetto) un nuovo prototipo si evolve col passare dei mesi. Debutto nel 1944, il motore trova la giusta cilindrata grazie alla collaborazione di un maestro in materia, Walter Becchia.

Bloccato dal problema dell’antigelo che non è ancora risolto per il piccolo motore raffreddato ad acqua della TPV, Becchia decide di creare un nuovo motore raffreddato ad aria.

Gli bastano sei giorni per trascrivere i piani su carta e nel frattempo parte dei pezzi comincia ad essere realizzata. Ignaro dell’orrore che P.J.B. prova per la 4a marcia, (la Traction Avant aveva 3 velocità), quando quest’ultimo scopre il sacrilegio, con molto tatto e dolcezza precisa che non era una 4a velocità ma solamente una “sovramoltiplicata”.

L’astuzia tranquillizza Boulanger che permette il sotterfugio che sarà all’origine di quell’enigmatica “S” sulla griglia del cambio di velocità sul cruscotto.

La liberazione arriva e l’ideatore del progetto si impazientisce: a quando l’esordio della TPV ? Bisogna risolvere ancora dei problemi: le sospensioni (P.J.B. voleva “che si potesse attraversare un campo arato trasportando un paniere d’uova senza romperne una”. Il peso: la vettura è soggetto di una spietata cura dimagrante, i sedili perdono 6 Kg, i fari 3 Kg, etc.

Il riscaldamento: i collaudatori infreddoliti devono utilizzare le tute da aviatore. L’avviamento: la vettura deve poter essere utilizzata anche da una donna. Ma poco a poco la 2CV viene portata a termine. Venne aggiunto un secondo faro, un avviamento elettrico, un sistema di riscaldamento, i famosi battenti ad inerzia, segreto della sua aderenza stupefacente su ogni tipo di terreno.

Infine all’inizio del 1948 la vettura è meccanicamente terminata e Bertoni viene incaricato di dare le ultime rifiniture alla sua carrozzeria. Sarà grigia. Prende in considerazione di verniciarla con quel tipo di pittura macchiettata tipicamente usato sulle cucine a gas, poco sporchevole, ma successivamente abbandonò l’idea.

Dopo tredici anni di studi, la vettura “tutti gli usi” destinati a tutte le categorie socio-professionali deve essere presentata al pubblico per il 35° Salone dell’Automobile.

La vigilia, un’attività fierosa, regna dentro la cinta del Grand Palais, a Parigi. Poco dopo mezzanotte, due camion contenenti 4 esemplari dell’ultima nata dalle catene Citroen, si fermano davanti al Grand Palais. Qualche giornalista e dei nottambuli si avvicinano per avere la prima vista del primo modello presentato da Citroen dopo l’uscita della celebre Traction Avant del 1934.

Peccato, le vetture vengono scaricate coperte da un telo. Finalmente, all’apertura del Salone, il 7 ottobre 1948 alle 10, Pierre-Jules Boulanger scopre lentamente la 2CV davanti al Presidente della Repubblica, M. Vincent Auriol e alle autorità stupefatte.

Il pubblico accorre per vedere questa vettura dal carattere un po’ insolito. Sfilano 1300000 visitatori, perplessi ma affascinati. Cercano di aprire il cofano, è sigillato ! Nessuno può vedere il motore.

La folla dondola la 2CV per verificare la dolcezza delle sospensioni. Molti sorridono nel vedere le astuzie impiegate, come l’indicatore di benzina, semplice astina graduata infilata direttamente nel serbatoio. La stampa non esita ad ironizzare e solo pochi giornali elogiano la piccola vettura prevedendogli un brillante avvenire, tra questi la Revue Automobile Suisse.

Un giornalista americano che assiste all’inaugurazione domanda: “a cosa serve ?”, un altro la paragona ad una scatola di conserva e un suo collega chiede se Citroen fornisce anche l’apriscatole. Un altro collega paragona ironicamente la vettura a una vasca da bagno del secolo addietro.

Ma il grande pubblico non delude e scopre presto che la 2CV offre una sintesi completa e coerente di soluzioni originali per il prezzo imbattibile di 185000 FF. Gli atti di acquisto sarebbero tanti … se la 2CV fosse in vendita: bisognerà aspettare un anno prima della sua commercializzazione.

Il Salone dell’Automobile è stato un successo, ha fatto immediatamente accettare la 2CV ai venditori della rete commerciale. Al Salone, i titolari dei concessionari non vogliono nemmeno entrare nella vettura. Qualcuno però prova ad accomodarsi all’interno e ne seguono rapidamente altri che si lasciano immediatamente conquistare. Si attende con impazienza di passare all’azione.

Il 22 settembre 1949 semaforo verde alla vendita. Il prezzo di vendita è di 228000 F, conquistando i normali consumatori che diventano la categoria prioritaria.

Si è però nel mezzo di un’economia di penuria, dopo il 6 ottobre 1948 la ripartizione delle automobili è severamente contingentata dal Ministro dell’Industria: 60% della produzione all’esportazione, 10% ai prioritari, solo il 30% sono in vendita libera. La 2CV è dunque destinata in priorità a quelli che la utilizzeranno per dei fini professionali. Ogni candidato all’acquisto deve compilare un questionario dettagliato e Citroen taglia la sua anima e coscienza.

Nel 1950 il tempo di consegna sale a 6 anni. Le cadenze di produzione passano da 5 a 100 vetture per giorno. Ben presto la 2CV conia la sua reputazione: resiste alle prove più dure, come la fantasia o l’incoscienza dei suoi utilizzatori. Un coltivatore si serviva solo della prima marcia dal primo giorno, percorse così più di 1000 Km; un albergatore in Camargue percorse 100000 Km senza mai cambiare l’olio di origine, effettuò solo i rabbocchi… Le storie di questo tipo sono innumerevoli.

Grazie a ciò nel 1983 la produzione della sola berlina supera i 3 milioni e mezzo di esemplari, senza contare le furgonette, le Dyane e le altre derivate.

La 2CV è riuscita come se ne contano poche nella storia dell’automobile: la Ford T, la Traction Avant, la prima VolksWagen (il Maggiolino). In ogni parte del mondo ha ricevuto dei soprannomi d’amicizia cominciando da “brutto anatroccolo” in Olanda, poi in Germania e in Scandinavia. Ma lei resta soprattutto quella che è in Francia, la 2CV, la “deuche”.

Non sono nomi inventati, non c’è ironia, si rispecchia un’esattezza e una mancanza di pretese: la 2CV osa dire il suo vero nome.

Dopo il 1948, più di trenta versioni di 2CV hanno visto la luce, con centinaia di miglioramenti, senza contare i modelli derivati come la Dyane, Mehari, Ami, tutti i tipi di furgoncini, AZU, AK, Acadiane e per finire LN, LNA e Visa.

La fabbrica di Levallois era la più vecchia delle fabbriche Citroën: i locali, costruiti nel 1893 da Cycles Clement, furono affittati da Citroen dal 1921 per la fabbricazione della famosa Torpedo “5CV Trèfle” e degli autocingolati per la Crociera Nera e per la Crociera Gialla.

Quando Citroen acquistò la fabbrico nel 1929, la doppia vocazione si delineava già: Levallois era allora l’unica fabbrica Citroen dove esiste un reparto carrozzeria e un grande reparto meccanico. Fu proprio per questo che Levallois assicurò dopo il 1948 la realizzazione completa di tutte le versioni della 2CV: montaggio ma anche fabbricazione dei motori bicilindrici raffreddati ad aria. Nel 1984 si fabbricavano a Levallois 250 2CV al giorno.

Negli anni ’50, una parte delle 2CV veniva costruita in Inghilterra e in Belgio. Poi la produzione si stabilì quasi interamente a Levallois, salvo piccole quantità marginali prodotte a Vigo (Spagna) e a Mangualde (Portogallo). Sebbene il progetto risaliva a parecchi anni addietro, la 2CV beneficiava dentro l’enorme complesso di Levallois di due tecniche moderne: Il procedimento di fosfatazione della scocca ad immersione, anziché a spruzzo, che permette di estendere il procedimento alle parti più difficili da raggiungere, soprattutto quelle nascoste;

Il procedimento di costruzione dell’albero motore (composto di più parti) con bielle in un sol pezzo, come le più sofisticate vetture da corsa, col metodo criogenico ad azoto liquido.

lunedì 6 ottobre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 6 ottobre.

Il 6 ottobre 1820 gli austriaci arrestano Piero Maroncelli.

Terzo di cinque figli, nacque a Forlì il 21 sett. 1795 da Antonio, un sensale di modeste condizioni, e da Maria Iraldi Bonnet. Compiuti gli studi classici in città, probabilmente sul finire del 1809 lasciò Forlì per recarsi a Napoli e lì studiare, grazie al sussidio di un’opera pia forlivese, musica e lettere nel real collegio S. Sebastiano. Fu condiscepolo, fra gli altri, di S. Mercadante e V. Bellini, ed ebbe tra i suoi maestri G. Paisiello.

Trascorse in collegio «tre anni, i quali – avrebbe ricostruito a beneficio della polizia asburgica nell’interrogatorio del 7 ott. 1820 – io credetti sufficienti ad istruirmi nel contrapunto. In questo momento, che fu dal 1810 fino al 1813 la camera dei grandi, alla quale io pure appartenni, soleva per costume essere ricevuta nella Società Massonica con intelligenza de’ superiori del Collegio, e del Ministro Zurlo, ad oggetto di formare la musica che poteva occorrere nelle feste massoniche» (Luzio, pp. 355 s.). Il Maroncelli, quindi, fu iniziato alla massoneria – e in particolare all’«unione» detta «Colonna Armonica» – in epoca murattiana, quando essa costituiva una delle forme di sociabilità predilette dal notabilato d’impronta napoleonica.

Uscito dal collegio nel 1813, rimase a Napoli ancora un biennio per continuare lo studio della musica. Fu nell’aprile del 1815, alla conclusione dell’avventura murattiana, che il Maroncelli, arruolato fra le «guardie di sicurezza interna» in seguito alla campagna del re di Napoli nell’Italia settentrionale, si trovò, tramite un capitano, a contatto con la carboneria, alla quale fu iniziato con il fratello Francesco, studente di medicina, pure lui presente in città e guardia per un breve periodo. Si trattò di un apprendistato molto rapido: dopo neppure un mese, il ritorno dei Borbone dalla Sicilia costrinse i settari a un’immediata immersione nella clandestinità. L’esperienza napoletana, tanto sotto il profilo artistico quanto sotto il profilo politico, si rivelò dunque decisiva per lui: da un lato consolidò la sua formazione musicale, dall’altro riuscì ad avere diretta esperienza di ciò che l’universo massonico e quello carbonaro significavano all’interno di un contesto politico non ostile come il Regno murattiano. Non solo: conobbe, sia pure superficialmente, tanto la funzione sociale dell’organizzazione massonica, quanto il ruolo rivestito dalla carboneria all’interno delle forze armate quale elemento di solidarietà e di fratellanza. Una peculiarità, quest’ultima, particolarmente importante nel caso meridionale, molto meno in quello padano, nel quale si trovò poi a operare.

Rientrò a Forlì sul finire del 1815, quando anche la sua città, fra le più filonapoleoniche della Romagna, era ormai stata normalizzata e restituita al legato pontificio. I legami intessuti tra la fugace amministrazione murattiana e gli ambienti liberali urbani sono testimoniati dalle molte centinaia di uomini che avevano abbandonato la città per seguire re Gioacchino nella sua ultima avventura; ed è probabile che proprio in tale milieu il giovane Maroncelli non tardasse a identificare un gruppo d’individui simile, per attitudini, esperienze e idee, a quello che aveva lasciato a Napoli.

Il padre, tuttavia, incoraggiò la sua vocazione musicale e, per sdebitarsi con l’opera pia che aveva mantenuto il figlio agli studi, lo indusse a produrre una composizione per onorare i suoi benefattori. Per assecondare la volontà del padre, il Maroncelli si trasferì a Bologna nel gennaio 1816 fondandovi una Società filedonica che, sotto l’apparenza di accademia letteraria, nascondeva una chiara matrice carbonara, visibile fin nel giuramento d’iniziazione, con il quale si prometteva «implacabile inimicizia ai tiranni».

Tornato a Forlì verso la metà del 1817, entrò in contatto con la vendita carbonica detta dell’«Amaranto», che si riuniva nella villa del conte P. Saffi a San Varano. Ne erano capi gli avvocati G.B. Masotti e L. Petrucci, oltre al conte G. Orselli e al tipografo S. Casali. La vendita costituiva il vertice di una struttura alquanto ramificata, che prevedeva l’organizzazione dei ceti artigiani all’interno di una più numerosa «turba liberale», sorta di organizzazione a metà fra la società di mutuo soccorso e il circolo politico.

In quegli anni Forlì costituiva, con Faenza, il centro propulsore dell’opposizione liberale carbonara: eredità diretta del successo che le idee rivoluzionarie e napoleoniche avevano riscosso presso il notabilato urbano, fra l’altro precocemente convertitosi alla modernizzazione amministrativa importata dai Francesi anche in virtù dell’elevazione della città a capoluogo del Dipartimento del Rubicone (1798). Esistevano, quindi, robuste continuità – sul terreno culturale e sociale – tali da rendere l’attività carbonara tutt’altro che effimera e anzi pericolosa per il governo pontificio assai più per la sopravvivenza di un centro di potere «ombra», laico e ramificato nelle botteghe e negli esercizi commerciali, che per la potenzialità eversiva del disegno politico, peraltro alquanto confuso anche presso l’élite, in tutto alcune decine di persone, raccolta nella vendita dell’«Amaranto».

Stimolato dal successo incontrato dalle idee carbonare, Maroncelli non tardò molto a mettersi in luce, scrivendo il 25 luglio 1817, in occasione della festa di S. Giacomo, una cantica in terzine dantesche dall’impianto involuto e criptico, il cui contenuto sovversivo, inizialmente sfuggito alle autorità di censura (che ne permisero la diffusione in 200 copie), fu ben presto causa del suo arresto, il 30 luglio 1817, e di un processo che lo vide inquisito a Roma per oltre un anno, fino all’agosto 1818. Tornato in libertà, riprese l’attività cospirativa, insieme con Masotti, che aveva sposato sua sorella Eurosia. Il ruolo del Maroncelli, autentico rivoluzionario a tempo pieno, fu quello di collegamento tra i diversi contesti locali del movimento carbonaro.

Egli avrebbe più tardi ammesso di aver tenuto i contatti con l’altro ambiente favorevole alla causa, quello faentino, e di essere stato fra i protagonisti dell’avventura editoriale del Quadragesimale italiano che, uscito per la prima volta il 24 febbraio 1819, può essere considerato fra i primi esempi di pubblicazioni a sfondo politico-patriottico-costituzionale apparse in Italia. Si collocava infatti su una linea costituzionale d’ispirazione monarchico-federalista: si sarebbe trattato di costruire un’Italia federata, garantendo le libertà fondamentali e i diritti civili, e insieme assicurando larga autonomia amministrativa ai preesistenti stati regionali.

In realtà, il circuito cui erano destinate queste proposte appariva, in Romagna, alquanto limitato; ragion per cui al Maroncelli non dovette affatto dispiacere il trasferimento a Milano, alla ricerca di un lavoro più stabile, propiziato dall’invito del fratello Francesco, che a Pavia esercitava la professione medica, nell’agosto 1819, in seguito alla morte del padre (30 aprile). A Milano lavorò dapprima presso Ricordi, quindi presso gli editori Bettoni e poi Battelli. Diede lezioni di musica, ma ciò che lo attrasse maggiormente fu l’assidua frequentazione di quello che era stato il cenacolo del Conciliatore: un’esperienza che lo avrebbe segnato per sempre e alla quale sarebbe tornato più volte nei suoi ricordi come alla stagione più ricca di speranze della sua giovinezza. Nel 1820, quando la compagnia Marchionni era a Milano per una serie di spettacoli protratti fino a tutto agosto in virtù del grande successo riscosso, fu scritturato per mettere in scena le farse in musica. In giugno in casa Marchionni conobbe Silvio Pellico, al quale si sentì subito affine per gusti e formazione; inoltre entrambi s’erano invaghiti delle due attrici Marchionni, Piero di Carlotta e Silvio di Teresa. Alla politica non pensarono fino all’estate, quando il Maroncelli lasciò Milano: fu allora che recuperò la passione patriottica manifestatasi per l’ultima volta nell’agosto precedente a Pavia, durante una riunione di studenti romagnoli. Affiliò alla carboneria l’amico Pellico, poi il conte L. Porro Lambertenghi; quindi riprese i contatti con i suoi ambienti d’origine per importare materiali e impiantare la cospirazione su una base più solida.

Fu tutto molto rapido: poche settimane al più. Coltivava l’idea di un possibile movimento in favore dell’unità di alcune regioni anche sotto la monarchia asburgica, se questa avesse assunto il volto di un’illuminata monarchia amministrativa: sempre meglio del governo del papa o dei regimi dispotici degli altri principi italiani. Le idee erano confuse ma i contatti, gli incontri, gli sguardi furtivi insospettirono la polizia austriaca che certo non mancava di informatori. Il Maroncelli fu il primo a essere arrestato, il 6 ottobre 1820. Interrogato a Milano, con il suo «costituto» del 7 ottobre spianò la via all’inquisitore A. Salvotti, che fece catturare, tra gli altri, Pellico, F. Confalonieri, Porro. Detenuto a Venezia durante il processo, si comportò come un perfetto bohémien dal temperamento irriflessivo e dall’idealismo ingenuo e retorico: leggeva con assiduità e teneva un comportamento sprezzante al limite della temerarietà. Condannato a morte con sentenza del 21 febbraio 1822, ebbe la pena commutata in venti anni di carcere e fu rinchiuso nella fortezza morava dello Spielberg, dove entrò il 10 aprile 1822 insieme con Pellico. Vi rimase fino all’estate del 1830, quando, per effetto della grazia imperiale concessa il 26 luglio, fu scarcerato.

I lunghi anni trascorsi allo Spielberg, raccontati da Pellico ne Le mie prigioni, lo resero celeberrimo, anche in virtù della sua penosa vicenda personale: l’amputazione della gamba sinistra sopra al ginocchio a causa di una cancrena, sopportata con straordinario coraggio.

Il Maroncelli uscì dunque mutilato dallo Spielberg e, fra il 1830 e il 1831, in un clima di relativa libertà alimentato dalle speranze della Rivoluzione di luglio anche in Italia, si portò a Bologna e quindi a Firenze. Ma l’ambiente italiano non faceva più per lui, che nella segregazione del carcere aveva progressivamente abbandonato la linea riformatrice della carboneria per attingere a idee più radicali. Decise così, all’inizio del 1831, di trasferirsi in Francia, dove restò fino al 1833. A Parigi – il 5 marzo 1831 incontrò il re Luigi Filippo – sperò di poter dare alle stampe le sue memorie, ma fu battuto sul tempo da Pellico, il cui capolavoro apparve nel novembre 1832. Pur riconoscendo che non avrebbe potuto competere con il «libro ammirevole» dell’amico, il Maroncelli ritenne che potesse esservi spazio per precisazioni e commenti ulteriori. Si dedicò, quindi, alla redazione delle Addizioni alle Mie prigioni di Silvio Pellico che, annunciate dall’Esule di A. Frignani e F. Pescantini (periodico italiano pubblicato a Parigi), videro la luce – sempre a Parigi – nella seconda metà del 1833.

Le Addizioni non sono un’opera infelice sotto il profilo letterario e costituiscono una utile fonte per comprendere il percorso politico-culturale del Maroncelli, in particolare la stagione del Conciliatore. Egli sosteneva che, per superare il dualismo classicismo-romanticismo, rivelatosi nocivo al «foglio azzurro», occorreva ricostruire l’estetica su nuove basi, che indicava nel «cormentalismo», sintesi di «mente» e di «core» e quindi espressione di un’ispirazione solida e di una base etica altrettanto inossidabile. Seguiva la classificazione degli autori della tradizione italiana secondo schemi ingenuamente rigidi. L’accoglienza del testo, fra gli esuli e la cerchia del Conciliatore, non fu in genere favorevole: gli si perdonò, in ragione del suo sacrificio, una prova decisamente modesta. Per tutti valga il giudizio di Pellico, contenuto in una lettera al Maroncelli del luglio 1838: «t’amo assai, non ostante quel tuo ingegnoso, ma disarmonico libro delle Addizioni, ove più cose ti furono dettate dalla fretta, dalla passione e da erronee ipotesi» (Fabretti, Briciole, p. 653).

Fu a Parigi che, fautore di un cristianesimo evangelico-umanitario e di una cultura non violenta, si avvicinò al pensiero di Cl.-H. de Saint-Simon e di Ch. Fourier, senza dubbio grazie alla frequentazione del salotto di Cristina Trivulzio Barbiano di Belgioioso. La lettura del giornale Le Phalanstère (uscito dal giugno 1832), in particolare, lo indusse ad abbracciare con entusiasmo la nuova fede nell’associazione fourierista e nel mondo «armonico», che non sarebbe più uscita dalla sua mente e dal suo cuore.

Tuttavia la Francia, culla delle grandi speranze culminate nelle giornate del luglio 1830, non era più – sotto Luigi Filippo – il luogo adatto per rifondare l’umanità. Il Maroncelli, che per tutta la vita era stato in fondo un déraciné, s’illuse di poter trovare in una società del tutto «nuova» il contesto ideale per progettare il suo futuro. Tanto più che, sposatosi a Parigi, il 1° agosto 1833 con Amalia Schneider, contralto di origine tedesca, gli si offerse l’opportunità di lavorare in una compagnia che l’impresario V. de Rivafinoli stava formando per l’apertura del primo teatro dedicato all’opera italiana a New York, fortemente voluto da Lorenzo Da Ponte. Lui e la moglie s’imbarcarono sul piroscafo «Erie» a Le Havre il 24 agosto 1833 e già alla fine di settembre un giornale newyorkese parlava di loro. Il teatro (l’Italian Opera House), dove il Maroncelli dirigeva il coro, fu inaugurato il 18 novembre 1833 con La gazza ladra di G. Rossini che mieté un grande successo. La stagione proseguì fino al 5 aprile 1834 ma, a causa della gestione avventurosa del Rivafinoli, non produsse i risultati sperati. Di conseguenza, il Maroncelli dovette cercare allievi cui insegnare musica o lingua italiana, mentre la moglie si esibiva in concerti ovunque fosse possibile. Nel frattempo, l’eco delle avventure contenute nelle Mie prigioni (rimbalzata nell’Edinburgh Review fin dal luglio 1833), disponibili in traduzione – fra cui quella, considerata scadente, pubblicata da Th. Roscoe a Londra nel 1833 – oltre a rendere l’illustre esule forlivese un personaggio della comunità newyorkese (al punto che E.A. Poe gli avrebbe dedicato un profilo), lo indusse a mettersi in contatto con intellettuali e tipografi per tentare una nuova edizione in inglese che unisse al testo principale le sue Addizioni. L’amicizia con un professore dell’università di Harvard, A. Norton, permise il conseguimento dell’obiettivo solo nel 1836, quando il Maroncelli cominciava a soffrire dei primi sintomi della cecità. Nel settembre 1835 Piero e Amalia avevano avuto una bambina, battezzata Silvia in onore del grande amico, padrino per procura.

Nonostante le difficoltà, il Maroncelli trovò a New York un luogo compatibile con la sua mentalità. Entrato nella Fourier Society, fondata nel 1837, ancora nel giugno del 1840 scriveva a Confalonieri: «non andrà guari che un Falansterio Tipo sarà il segnale onde cessino nel mondo la miseria, i delitti, lo spirito rivoluzionario, e persino i morbi contagiosi»; esortava, quindi, l’amico a farsi apostolo presso la «gioventù italiana, onde ritrarla dalle illusioni politiche alle vie organatrici e pacifiche della fondazione di una Falange» (Fabretti, Briciole, p. 654). Nell’ottobre 1841, in un’altra lettera, indirizzata a Zoé Gatti de Gamond (moglie del pittore ravennate G.B. Gatti, esule in Belgio dopo la Rivoluzione del 1831), accentuò ulteriormente la sua distanza dal «prétendu Liberalisme» della Giovine Italia, che a suo parere equivocava il termine associazione declinandolo secondo una modalità prevalentemente politica e dottrinaria (ibid., p. 656). A New York egli divenne componente del comitato esecutivo del giornale fourierista The Phalanx, ma soprattutto poté professare liberamente le sue idee eterodosse in fatto di religione, così come la sua fede umanitaria, che lo rendevano prossimo a una frazione dell’élite intellettuale composta tanto da straordinarie figure del «vecchio mondo», come il leggendario Da Ponte, quanto da scrittori e pensatori tentati dalle pratiche esoteriche e dall’occultismo, sulla scia dei nuovi cristiani che seguivano le tesi di E. Swedenborg. E se alla fine non trovò il desiderato falansterio (descrisse, anzi, con ironia, in una lettera alla moglie, un «Pik Nik Falansteriano» tenuto il 4 ag. 1842: cit., in Cetti, 1993, pp. 390 s.), tuttavia finì per adattarsi a una società assai più libera, benché altrettanto egoista e materialista di quella nella quale aveva vissuto in Europa con tanta difficoltà.

Gli anni successivi furono segnati da condizioni di salute via via sempre più precarie fino alla morte, che lo colse a New York il 1° agosto 1846.

La moglie, che nel 1842 era tornata in Europa «per salute e per raffinamento d’arte», dopo averlo assistito con continuità restò a New York con la figlia ma, probabilmente dopo il 1860, fece ritorno in Germania. Silvia, nel frattempo, aveva sposato il dottor Emil Müller. Amalia morì nel 1895, la figlia nel 1914 a Berlino.

Sepolti nel cimitero di Greenwood a Brooklyn, i resti del Maroncelli furono solennemente riportati in patria il 12 agosto 1886 per essere tumulati nel famedio del cimitero monumentale di Forlì, appena inaugurato. L’ultimo saluto al patriota, di cui si celebrava il contributo reso alla causa «nazionale» attraverso l’adesione alla carboneria e la cospirazione, fu tributato in primo luogo dal mondo radical-repubblicano e massonico, impersonato a Forlì dalla figura di A. Saffi. Si tacquero, e non poteva essere altrimenti, le idee eterodosse predicate e praticate dopo il 1830: il Maroncelli doveva restare un’icona incontaminata del Risorgimento, la quintessenza dell’eroismo e del sacrificio celebrati da Pellico nelle Mie prigioni.

domenica 5 ottobre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 5 ottobre.

Il 5 ottobre 2014 il pilota Jules Bianchi durante il Gran Premio del Giappone di Formula 1, rimane vittima di un terribile incidente.

Il 17 luglio 2015 moriva Jules Bianchi: il talento nizzardo si arrese alle conseguenze devastanti dell'incidente occorsogli nel GP del Giappone del 2014 dopo nove mesi di strenua lotta. Il danno assonale diffuso dovuto alla fortissima decelerazione sostenuta nell'impatto contro una ruspa in pista per recuperare la monoposto di Adrian Sutil non gli lasciò scampo. Dopo oltre un mese passato in Giappone, Bianchi fece ritorno nella sua Nizza, dove spirò l'anno successivo.

La morte di Bianchi, talento in ascesa della F1 con i suoi 25 anni, sconvolse sia l'ambiente che i tifosi della Formula 1: bisognava tornare al 1994, con le morti di Roland Ratzenberger e Ayrton Senna, per risalire all'ultima scomparsa di un pilota di F1 per le conseguenze di un incidente occorso in gara. «Le morti di Senna e Ratzenberger sono state le ultime. Hanno dato la vita per lo sport, grazie a loro la Formula 1 è più sicura», aveva detto lo stesso Bianchi pochi mesi prima dello schianto, ad Imola in occasione del ricordo di Senna a 20 anni dalla morte del brasiliano.

Così purtroppo non è stato: sotto la pioggia battente di Suzuka, con l'avvicinarsi dell'imbrunire, Bianchi trovò davanti a sé un destino beffardo, lo stesso del prozio Lucien, vincitore della 24 Ore di Le Mans del 1968 morto l'anno successivo in seguito ad un incidente proprio al Circuit de la Sarthe. Una famiglia votata al motorsport, quella di Bianchi: il padre di Jules, Philippe, gestiva un kartodromo su cui il piccolo Jules mosse i primi passi in pista.

Dopo i kart, il naturale passaggio alle monoposto, con la vittoria del campionato di Formula Renault 2.0 francese nel 2007 e il successo nella Formula 3 europea due anni più tardi. Un test per giovani piloti organizzato dalla Ferrari gli diede l'opportunità di farsi notare dalla Rossa e di entrare così a far parte della Ferrari Driver Academy. Il debutto in F1 arrivò nel 2013 con la Marussia, scuderia nella quale militò anche l'anno successivo.

Quando ebbe l'incidente a Suzuka, Bianchi era ancora poco conosciuto dal grande pubblico: dopotutto, correva in una scuderia di fondo classifica. Si era in ogni caso già fatto notare, grazie allo straordinario nono posto colto nel GP di Montecarlo del 2014: punti pesantissimi per la Marussia, che consentirono al team di Banbury di partecipare alla stagione successiva. Al momento dello schianto, Bianchi era apparentemente pronto ad un salto di carriera importante.

La Ferrari, infatti, aveva avuto modo di rendersi conto delle qualità di Bianchi impiegandolo come test driver nel 2011 e seguendolo attivamente nella sua avventura con la Marussia. Con l'addio di Fernando Alonso a fine 2014, Bianchi avrebbe avuto l'opportunità di una promozione alla Rossa. Proprio la scuderia di Maranello ha voluto ricordare Bianchi nel giorno della sua morte: «Sarai sempre uno di noi. Ci manchi molto, Jules», si leggeva sull'account Facebook della Ferrari. 

L'eredità di Jules, strappato troppo presto alla vita e al mondo delle corse che tanto amava, è stata raccolta da Charles Leclerc, legatissimo a Bianchi. Cresciuto anche lui sulla pista di papà Philippe, Leclerc aveva un rapporto speciale con Bianchi, che era il suo padrino. La morte di Bianchi ha segnato fortemente Leclerc, che è diventato ancora più determinato a raggiungere la F1 e a coronare il sogno di Jules, arrivando in Ferrari.

Così è stato, e a quattro anni dalla scomparsa di Bianchi, Leclerc, elegante e gentile come Jules, ha portato con sé i suoi insegnamenti, continuando idealmente il percorso interrotto anzitempo dall'amico e mentore per colpa di un tragico schianto sotto la pioggia. 

Cerca nel blog

Archivio blog