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martedì 7 ottobre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 7 ottobre.

Il 7 ottobre 1948 viene presentata al salone di Parigi la Citroen 2CV.

Tutto quello che è paradossale è interessante. La 2CV è appassionante perché è totalmente paradossale, come il genio. Definita in seguito ad un’indagine di mercato di entità sconosciuta fino allora, fu commercializzata nella parsimonia di un’epoca di penuria.

Alcuni la giudicano priva di buon gusto, anche se fu disegnata dal creatore della DS e che le sue forme, frutto delle dottrine di Bauhaus, esaltano l’estetica “art déco” che si era affermata proprio fra le due guerre.

Economica, fu fin dall’inizio uno dei modelli più costosi a fabbricare. Destinata alla Francia più profonda, ha conosciuto il mondo intero. Popolare, è invece la più snob che si possa trovare e non soffre di paragoni se non per una Rolls o una Porsche.

Modesta e tranquilla, ha battuto tutti i tipi di record finendo sempre al centro della cronaca. Si prediceva un successo limitato; ha conquistato il mondo e prosperato fino agli anni 90. Più diventa anziana, più piace ai giovani. Amabile e riservata è dunque entrata dentro la mitologia del XX secolo e, come fenomeno di civilizzazione, diventa oggetto di tesi universitarie.

Eroina dei romanzi o diva cinematografica, in particolare nel nostalgico “American Graffiti”, nonostante conobbe il successo col più infimo dépliant nella storia della pubblicità: quattro pagine in bianco e nero formato Carta d’identità.

Ha la robustezza di un attrezzo da lavoro ma è tutta smontabile: tetto, bagagliaio, portiere, sedili. I suoi meno sono un più, perché la sua sofisticazione tecnica si esprime nella soppressione pura e semplice: niente spinterogeno, niente radiatore, niente guarnizioni sulle testate, niente (sulle prime) ammortizzatori.

La sua personalità si descrive grazie agli attributi che non ha: la potenza, la velocità, il lusso, l’aggressività, l’essere “in”. Questo modello “grande pubblico – grande diffusione” è stato fatto, e ben fatto, da persone che non ascoltavano nessuno.

L’automobile vera ignora l’automobile, questo perché è lei l’automobile, disse Lao Tseu. Figlia naturale di Pegaso e di un passaverdura, la 2CV sta alle automobili come il carciofo sta ai fiori.

Qualcosa di meglio perché qualcosa di più. Questo strumento marciante fa parte di una concezione del mondo, Weltanschauung.

I nostalgici della 2CV corrono dietro loro stessi. E chi non corre dietro se stesso ? La 2CV è la giovinezza del mondo.

Suoi antenati culturali sono Madre Coraggio e Pollicino. Merita altro che poche pagine sui suoi perché e sui suoi commenti.

Nel 1935 gli stabilimenti Citroen sono in mano alla Compagnia Michelin e, grazie allo strepitoso successo della Traction Avant, le prospettive sembrano favorevoli. Pierre-Jules Boulanger, presidente e Direttore generale all’epoca, ha un’idea rivoluzionaria. Vuole lanciare una vettura rappresentante il minimo utile e destinata a tutti. Riassume così la sua idea “quattro ruote sotto un’ombrella”.

Questa idea è scaturita nella mente di Pierre Boulanger in un giorno di mercato in una cittadina dell’Alvernia (si dice sia poi Lempdes, suo luogo natio). Rimasto imbottigliato fra carretti a mano, carrette coi cavalli e carriole, si meravigliò di non vedere alcun tipo di veicolo motorizzato, sebbene ne esistessero di numerosi sul mercato dell’automobile, compresi quelli di occasione.

Incarica pertanto un ingegnere di un’indagine sulle cause di questa assenza. Si rivela che le automobili sono troppo onerose, troppo grandi, difficilmente maneggiabili nelle mani di una donna. I contadini necessitano di un veicolo per andare a mungere le mucche e portare il latte alla fattoria.

Nell’autunno 1935, P. Boulanger convoca Brogly, direttore del centro Studi: “studiate una vettura che possa trasportare due persone e cinquanta Kg di patate a 60 Km/h, e non consumi che 3 litri per 100 Km. La vettura dovrà poter passare sui percorsi più accidentati, essere guidata da un principiante, avere un comfort irreprensibile.

Il suo prezzo dovrà essere inferiore ad un terzo di quello della Traction Avant 11CV”. Si è appena agli inizi ma qualcuno al Centro Studi già ironizza sul progetto, tanto da soprannominarlo “Scioccherella”! Ma l’équipe di André Lefébvre, l’uomo che concepì la Traction Avant, si dedica al progetto della “minima automobile francese”. Flaminio Bertoni e Jean Muratet disegnano la carrozzeria, Alphonse Forceau si dedica al cambio di velocità, sotto l’occhio di Roger Prud’homme, capo reparto del Centro studi.

La gestazione sarà lunga.

Un primo modello in legno viene costruito nel 1936 e il primo prototipo vede la luce nel 1937. E’ degno dello spirito d’inventiva dell’équipe di Lefébvre. Priorità alla leggerezza: quasi tutto in duralinox, le quattro ruote sono in magnesio.

Le sospensioni sono composte di una moltitudine di barre di torsione. Il motore è quello di una moto BMW 500 cm3. Un telo teso su di un’armatura in alluminio fa le veci della carrozzeria… Questo primo prototipo è un miracolo di astuzie.

Arriva il momento della prova, la vettura viene lanciata a 100 Km/h, una follia, si ha l’impressione che debba decollare! Léfebvre prende il volante, percorre 500m, ritorna smorfioso: “smontate tutto che ce ne andiamo”.

Nel maggio 1939 esistono 250 prototipi fabbricati dalla fabbrica di Levallois. Si attende di mostrarli al pubblico al Salone dell’Automobile.

Scoppia la guerra: tutti i prototipi, salvo uno, vengono volontariamente distrutti: Citroen mantiene il segreto sul “progetto TPV”.

Dieci mesi di studio fanno evolvere il progetto che ormai viene nominato “Toute Petite Voiture (TPV), la piccola automobile, come avrebbe dovuto chiamarsi sino al momento del debutto nel 1948.

Nel 1939 il prototipo è definito: la TPV è in lega leggera (duralinox), salvo i parafanghi e il cofano in lamiera.

La linea generale è già quella delle 2CV che a migliaia circoleranno pochi anni più tardi. L’altezza interna fu calcolata più che abbondantemente. Pierre-Jules Boulanger controlla tutti i dettagli da vicino, esamina lui stesso i bozzetti di carrozzeria in grandezza naturale.

Per meglio giudicare la loro abitabilità, lui entra in ciascuno di essi, il suo cappello a cilindro in testa: se il cappello cade, lo stesso succede al progetto. Le vetture vengono sottoposte a più di cinquanta test di facilità di entrata, di piacevolezza di guida, di carrozzeria e di sospensioni.

Il tetto è di tela, scopribile dall’alto del parabrezza fino alla targa posteriore. Quattro porte apribili unicamente dall’interno, vetri in mica di cui quelli anteriori composti di due metà. Cofano motore in lamiera con ondulature rettangolari.

Non ha che un solo faro, a sinistra (il codice della strada non ne imponeva ancora due). Assenza degli indicatori di direzione: la segnalazione si effettua con il braccio (ragione per la quale metà del vetro è basculante). Tergicristallo a comando manuale (una sola racchetta ma con percorso ellissoidale grazie ad un’asticina di richiamo al fine di tergere praticamente tutta la superficie del parabrezza).

Sedili ad amaca sospesi su un’armatura inferiore rigida in alluminio e una barra mobile a livello dello schienale attaccata alla traversa superiore della carrozzeria.

Il motore di 375 cm3 sviluppa una potenza di 8CV (si tratta di un bicilindrico boxer raffreddato ad acqua) e non è fornito di avviamento elettrico: l’avviamento è affidato alla manovella (che ritorna in posizione alta, pronta per un nuovo tentativo).

Si era provato anche un avviamento a strappo, come per i tosaerba o i motori fuori bordo, per l’avviamento a caldo della vettura dall’interno, ma questo sistema riservava un maneggio troppo difficile; vennero interpellate le segretarie del Centro Studi e diverse si ruppero le unghie per cui si abbandonò questo sistema poco comodo per le mani femminili. Accensione classica, piccola dinamo calettata sull’albero motore.

Cambio a tre velocità più retromarcia a comando diretto. Sterzo a cremagliera. Freni idraulici anteriormente (tamburi sui mozzi), freni meccanici a comando manuale posteriormente. Un’attenzione particolare spetta alle sospensioni: il telaio in duralinox è collegato alle ruote Michelin “Pilote” a bassa pressione mediante dei bracci indipendenti in magnesio, barre di torsione protette da una carenata sotto i sedili posteriori (tre barre e una di sovraccarico per ogni lato, in tutto otto).

Degli elementi ammortizzatori antibeccheggio assicurano il bloccaggio delle sospensioni in frenata tramite un sistema idraulico. Così com’è il prototipo pesa meno di 400 Kg, raggiunge i 50 Km/h con quattro persone a bordo e 50 Kg di bagagli consumando circa 5 litri di benzina per 100 Km. I rari privilegi che si possono apprezzare fanno di questo primo veicolo una “vettura molto piacevole da guidare”.

La guerra, poi l’occupazione che permane per lungo tempo, obbligano Pierre-Jules Boulanger a riconsiderare il suo veicolo.

L’accento è spiccatamente sull’economia, il suo motto era: “siate sordidamente economi”, ma non per questo mancano le soluzioni ingegnose; la seconda priorità, l’alleggerimento, porta all’utilizzo di materiali costosi cancellando tutti i risparmi fatti nel resto.

I materiali adottati sulla TPV, bracci in magnesio, scocca in alluminio, permettono sì un costo di mantenimento molto basso per la clientela, ma rendono il prezzo di vendita esorbitante e la lavorazione difficile.

Uno studio sui costi viene fatto nel 1941, se ne deduce che malgrado le apparenze spartane la TPV del 1939 supera del 40% il prezzo accettabile. P.J.B. non si disarma, i suoi studi ripartono quanto prima con una priorità assoluta: il costo.

Ogni pezzo è studiato in funzione di questo parametro e la prima conseguenza di questa nuova ricerca è un passo verso l’adozione dell’acciaio.

Sotto il più inviolabile segreto (Boulanger credeva che i tedeschi potessero interessarsi al progetto) un nuovo prototipo si evolve col passare dei mesi. Debutto nel 1944, il motore trova la giusta cilindrata grazie alla collaborazione di un maestro in materia, Walter Becchia.

Bloccato dal problema dell’antigelo che non è ancora risolto per il piccolo motore raffreddato ad acqua della TPV, Becchia decide di creare un nuovo motore raffreddato ad aria.

Gli bastano sei giorni per trascrivere i piani su carta e nel frattempo parte dei pezzi comincia ad essere realizzata. Ignaro dell’orrore che P.J.B. prova per la 4a marcia, (la Traction Avant aveva 3 velocità), quando quest’ultimo scopre il sacrilegio, con molto tatto e dolcezza precisa che non era una 4a velocità ma solamente una “sovramoltiplicata”.

L’astuzia tranquillizza Boulanger che permette il sotterfugio che sarà all’origine di quell’enigmatica “S” sulla griglia del cambio di velocità sul cruscotto.

La liberazione arriva e l’ideatore del progetto si impazientisce: a quando l’esordio della TPV ? Bisogna risolvere ancora dei problemi: le sospensioni (P.J.B. voleva “che si potesse attraversare un campo arato trasportando un paniere d’uova senza romperne una”. Il peso: la vettura è soggetto di una spietata cura dimagrante, i sedili perdono 6 Kg, i fari 3 Kg, etc.

Il riscaldamento: i collaudatori infreddoliti devono utilizzare le tute da aviatore. L’avviamento: la vettura deve poter essere utilizzata anche da una donna. Ma poco a poco la 2CV viene portata a termine. Venne aggiunto un secondo faro, un avviamento elettrico, un sistema di riscaldamento, i famosi battenti ad inerzia, segreto della sua aderenza stupefacente su ogni tipo di terreno.

Infine all’inizio del 1948 la vettura è meccanicamente terminata e Bertoni viene incaricato di dare le ultime rifiniture alla sua carrozzeria. Sarà grigia. Prende in considerazione di verniciarla con quel tipo di pittura macchiettata tipicamente usato sulle cucine a gas, poco sporchevole, ma successivamente abbandonò l’idea.

Dopo tredici anni di studi, la vettura “tutti gli usi” destinati a tutte le categorie socio-professionali deve essere presentata al pubblico per il 35° Salone dell’Automobile.

La vigilia, un’attività fierosa, regna dentro la cinta del Grand Palais, a Parigi. Poco dopo mezzanotte, due camion contenenti 4 esemplari dell’ultima nata dalle catene Citroen, si fermano davanti al Grand Palais. Qualche giornalista e dei nottambuli si avvicinano per avere la prima vista del primo modello presentato da Citroen dopo l’uscita della celebre Traction Avant del 1934.

Peccato, le vetture vengono scaricate coperte da un telo. Finalmente, all’apertura del Salone, il 7 ottobre 1948 alle 10, Pierre-Jules Boulanger scopre lentamente la 2CV davanti al Presidente della Repubblica, M. Vincent Auriol e alle autorità stupefatte.

Il pubblico accorre per vedere questa vettura dal carattere un po’ insolito. Sfilano 1300000 visitatori, perplessi ma affascinati. Cercano di aprire il cofano, è sigillato ! Nessuno può vedere il motore.

La folla dondola la 2CV per verificare la dolcezza delle sospensioni. Molti sorridono nel vedere le astuzie impiegate, come l’indicatore di benzina, semplice astina graduata infilata direttamente nel serbatoio. La stampa non esita ad ironizzare e solo pochi giornali elogiano la piccola vettura prevedendogli un brillante avvenire, tra questi la Revue Automobile Suisse.

Un giornalista americano che assiste all’inaugurazione domanda: “a cosa serve ?”, un altro la paragona ad una scatola di conserva e un suo collega chiede se Citroen fornisce anche l’apriscatole. Un altro collega paragona ironicamente la vettura a una vasca da bagno del secolo addietro.

Ma il grande pubblico non delude e scopre presto che la 2CV offre una sintesi completa e coerente di soluzioni originali per il prezzo imbattibile di 185000 FF. Gli atti di acquisto sarebbero tanti … se la 2CV fosse in vendita: bisognerà aspettare un anno prima della sua commercializzazione.

Il Salone dell’Automobile è stato un successo, ha fatto immediatamente accettare la 2CV ai venditori della rete commerciale. Al Salone, i titolari dei concessionari non vogliono nemmeno entrare nella vettura. Qualcuno però prova ad accomodarsi all’interno e ne seguono rapidamente altri che si lasciano immediatamente conquistare. Si attende con impazienza di passare all’azione.

Il 22 settembre 1949 semaforo verde alla vendita. Il prezzo di vendita è di 228000 F, conquistando i normali consumatori che diventano la categoria prioritaria.

Si è però nel mezzo di un’economia di penuria, dopo il 6 ottobre 1948 la ripartizione delle automobili è severamente contingentata dal Ministro dell’Industria: 60% della produzione all’esportazione, 10% ai prioritari, solo il 30% sono in vendita libera. La 2CV è dunque destinata in priorità a quelli che la utilizzeranno per dei fini professionali. Ogni candidato all’acquisto deve compilare un questionario dettagliato e Citroen taglia la sua anima e coscienza.

Nel 1950 il tempo di consegna sale a 6 anni. Le cadenze di produzione passano da 5 a 100 vetture per giorno. Ben presto la 2CV conia la sua reputazione: resiste alle prove più dure, come la fantasia o l’incoscienza dei suoi utilizzatori. Un coltivatore si serviva solo della prima marcia dal primo giorno, percorse così più di 1000 Km; un albergatore in Camargue percorse 100000 Km senza mai cambiare l’olio di origine, effettuò solo i rabbocchi… Le storie di questo tipo sono innumerevoli.

Grazie a ciò nel 1983 la produzione della sola berlina supera i 3 milioni e mezzo di esemplari, senza contare le furgonette, le Dyane e le altre derivate.

La 2CV è riuscita come se ne contano poche nella storia dell’automobile: la Ford T, la Traction Avant, la prima VolksWagen (il Maggiolino). In ogni parte del mondo ha ricevuto dei soprannomi d’amicizia cominciando da “brutto anatroccolo” in Olanda, poi in Germania e in Scandinavia. Ma lei resta soprattutto quella che è in Francia, la 2CV, la “deuche”.

Non sono nomi inventati, non c’è ironia, si rispecchia un’esattezza e una mancanza di pretese: la 2CV osa dire il suo vero nome.

Dopo il 1948, più di trenta versioni di 2CV hanno visto la luce, con centinaia di miglioramenti, senza contare i modelli derivati come la Dyane, Mehari, Ami, tutti i tipi di furgoncini, AZU, AK, Acadiane e per finire LN, LNA e Visa.

La fabbrica di Levallois era la più vecchia delle fabbriche Citroën: i locali, costruiti nel 1893 da Cycles Clement, furono affittati da Citroen dal 1921 per la fabbricazione della famosa Torpedo “5CV Trèfle” e degli autocingolati per la Crociera Nera e per la Crociera Gialla.

Quando Citroen acquistò la fabbrico nel 1929, la doppia vocazione si delineava già: Levallois era allora l’unica fabbrica Citroen dove esiste un reparto carrozzeria e un grande reparto meccanico. Fu proprio per questo che Levallois assicurò dopo il 1948 la realizzazione completa di tutte le versioni della 2CV: montaggio ma anche fabbricazione dei motori bicilindrici raffreddati ad aria. Nel 1984 si fabbricavano a Levallois 250 2CV al giorno.

Negli anni ’50, una parte delle 2CV veniva costruita in Inghilterra e in Belgio. Poi la produzione si stabilì quasi interamente a Levallois, salvo piccole quantità marginali prodotte a Vigo (Spagna) e a Mangualde (Portogallo). Sebbene il progetto risaliva a parecchi anni addietro, la 2CV beneficiava dentro l’enorme complesso di Levallois di due tecniche moderne: Il procedimento di fosfatazione della scocca ad immersione, anziché a spruzzo, che permette di estendere il procedimento alle parti più difficili da raggiungere, soprattutto quelle nascoste;

Il procedimento di costruzione dell’albero motore (composto di più parti) con bielle in un sol pezzo, come le più sofisticate vetture da corsa, col metodo criogenico ad azoto liquido.

lunedì 6 ottobre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 6 ottobre.

Il 6 ottobre 1820 gli austriaci arrestano Piero Maroncelli.

Terzo di cinque figli, nacque a Forlì il 21 sett. 1795 da Antonio, un sensale di modeste condizioni, e da Maria Iraldi Bonnet. Compiuti gli studi classici in città, probabilmente sul finire del 1809 lasciò Forlì per recarsi a Napoli e lì studiare, grazie al sussidio di un’opera pia forlivese, musica e lettere nel real collegio S. Sebastiano. Fu condiscepolo, fra gli altri, di S. Mercadante e V. Bellini, ed ebbe tra i suoi maestri G. Paisiello.

Trascorse in collegio «tre anni, i quali – avrebbe ricostruito a beneficio della polizia asburgica nell’interrogatorio del 7 ott. 1820 – io credetti sufficienti ad istruirmi nel contrapunto. In questo momento, che fu dal 1810 fino al 1813 la camera dei grandi, alla quale io pure appartenni, soleva per costume essere ricevuta nella Società Massonica con intelligenza de’ superiori del Collegio, e del Ministro Zurlo, ad oggetto di formare la musica che poteva occorrere nelle feste massoniche» (Luzio, pp. 355 s.). Il Maroncelli, quindi, fu iniziato alla massoneria – e in particolare all’«unione» detta «Colonna Armonica» – in epoca murattiana, quando essa costituiva una delle forme di sociabilità predilette dal notabilato d’impronta napoleonica.

Uscito dal collegio nel 1813, rimase a Napoli ancora un biennio per continuare lo studio della musica. Fu nell’aprile del 1815, alla conclusione dell’avventura murattiana, che il Maroncelli, arruolato fra le «guardie di sicurezza interna» in seguito alla campagna del re di Napoli nell’Italia settentrionale, si trovò, tramite un capitano, a contatto con la carboneria, alla quale fu iniziato con il fratello Francesco, studente di medicina, pure lui presente in città e guardia per un breve periodo. Si trattò di un apprendistato molto rapido: dopo neppure un mese, il ritorno dei Borbone dalla Sicilia costrinse i settari a un’immediata immersione nella clandestinità. L’esperienza napoletana, tanto sotto il profilo artistico quanto sotto il profilo politico, si rivelò dunque decisiva per lui: da un lato consolidò la sua formazione musicale, dall’altro riuscì ad avere diretta esperienza di ciò che l’universo massonico e quello carbonaro significavano all’interno di un contesto politico non ostile come il Regno murattiano. Non solo: conobbe, sia pure superficialmente, tanto la funzione sociale dell’organizzazione massonica, quanto il ruolo rivestito dalla carboneria all’interno delle forze armate quale elemento di solidarietà e di fratellanza. Una peculiarità, quest’ultima, particolarmente importante nel caso meridionale, molto meno in quello padano, nel quale si trovò poi a operare.

Rientrò a Forlì sul finire del 1815, quando anche la sua città, fra le più filonapoleoniche della Romagna, era ormai stata normalizzata e restituita al legato pontificio. I legami intessuti tra la fugace amministrazione murattiana e gli ambienti liberali urbani sono testimoniati dalle molte centinaia di uomini che avevano abbandonato la città per seguire re Gioacchino nella sua ultima avventura; ed è probabile che proprio in tale milieu il giovane Maroncelli non tardasse a identificare un gruppo d’individui simile, per attitudini, esperienze e idee, a quello che aveva lasciato a Napoli.

Il padre, tuttavia, incoraggiò la sua vocazione musicale e, per sdebitarsi con l’opera pia che aveva mantenuto il figlio agli studi, lo indusse a produrre una composizione per onorare i suoi benefattori. Per assecondare la volontà del padre, il Maroncelli si trasferì a Bologna nel gennaio 1816 fondandovi una Società filedonica che, sotto l’apparenza di accademia letteraria, nascondeva una chiara matrice carbonara, visibile fin nel giuramento d’iniziazione, con il quale si prometteva «implacabile inimicizia ai tiranni».

Tornato a Forlì verso la metà del 1817, entrò in contatto con la vendita carbonica detta dell’«Amaranto», che si riuniva nella villa del conte P. Saffi a San Varano. Ne erano capi gli avvocati G.B. Masotti e L. Petrucci, oltre al conte G. Orselli e al tipografo S. Casali. La vendita costituiva il vertice di una struttura alquanto ramificata, che prevedeva l’organizzazione dei ceti artigiani all’interno di una più numerosa «turba liberale», sorta di organizzazione a metà fra la società di mutuo soccorso e il circolo politico.

In quegli anni Forlì costituiva, con Faenza, il centro propulsore dell’opposizione liberale carbonara: eredità diretta del successo che le idee rivoluzionarie e napoleoniche avevano riscosso presso il notabilato urbano, fra l’altro precocemente convertitosi alla modernizzazione amministrativa importata dai Francesi anche in virtù dell’elevazione della città a capoluogo del Dipartimento del Rubicone (1798). Esistevano, quindi, robuste continuità – sul terreno culturale e sociale – tali da rendere l’attività carbonara tutt’altro che effimera e anzi pericolosa per il governo pontificio assai più per la sopravvivenza di un centro di potere «ombra», laico e ramificato nelle botteghe e negli esercizi commerciali, che per la potenzialità eversiva del disegno politico, peraltro alquanto confuso anche presso l’élite, in tutto alcune decine di persone, raccolta nella vendita dell’«Amaranto».

Stimolato dal successo incontrato dalle idee carbonare, Maroncelli non tardò molto a mettersi in luce, scrivendo il 25 luglio 1817, in occasione della festa di S. Giacomo, una cantica in terzine dantesche dall’impianto involuto e criptico, il cui contenuto sovversivo, inizialmente sfuggito alle autorità di censura (che ne permisero la diffusione in 200 copie), fu ben presto causa del suo arresto, il 30 luglio 1817, e di un processo che lo vide inquisito a Roma per oltre un anno, fino all’agosto 1818. Tornato in libertà, riprese l’attività cospirativa, insieme con Masotti, che aveva sposato sua sorella Eurosia. Il ruolo del Maroncelli, autentico rivoluzionario a tempo pieno, fu quello di collegamento tra i diversi contesti locali del movimento carbonaro.

Egli avrebbe più tardi ammesso di aver tenuto i contatti con l’altro ambiente favorevole alla causa, quello faentino, e di essere stato fra i protagonisti dell’avventura editoriale del Quadragesimale italiano che, uscito per la prima volta il 24 febbraio 1819, può essere considerato fra i primi esempi di pubblicazioni a sfondo politico-patriottico-costituzionale apparse in Italia. Si collocava infatti su una linea costituzionale d’ispirazione monarchico-federalista: si sarebbe trattato di costruire un’Italia federata, garantendo le libertà fondamentali e i diritti civili, e insieme assicurando larga autonomia amministrativa ai preesistenti stati regionali.

In realtà, il circuito cui erano destinate queste proposte appariva, in Romagna, alquanto limitato; ragion per cui al Maroncelli non dovette affatto dispiacere il trasferimento a Milano, alla ricerca di un lavoro più stabile, propiziato dall’invito del fratello Francesco, che a Pavia esercitava la professione medica, nell’agosto 1819, in seguito alla morte del padre (30 aprile). A Milano lavorò dapprima presso Ricordi, quindi presso gli editori Bettoni e poi Battelli. Diede lezioni di musica, ma ciò che lo attrasse maggiormente fu l’assidua frequentazione di quello che era stato il cenacolo del Conciliatore: un’esperienza che lo avrebbe segnato per sempre e alla quale sarebbe tornato più volte nei suoi ricordi come alla stagione più ricca di speranze della sua giovinezza. Nel 1820, quando la compagnia Marchionni era a Milano per una serie di spettacoli protratti fino a tutto agosto in virtù del grande successo riscosso, fu scritturato per mettere in scena le farse in musica. In giugno in casa Marchionni conobbe Silvio Pellico, al quale si sentì subito affine per gusti e formazione; inoltre entrambi s’erano invaghiti delle due attrici Marchionni, Piero di Carlotta e Silvio di Teresa. Alla politica non pensarono fino all’estate, quando il Maroncelli lasciò Milano: fu allora che recuperò la passione patriottica manifestatasi per l’ultima volta nell’agosto precedente a Pavia, durante una riunione di studenti romagnoli. Affiliò alla carboneria l’amico Pellico, poi il conte L. Porro Lambertenghi; quindi riprese i contatti con i suoi ambienti d’origine per importare materiali e impiantare la cospirazione su una base più solida.

Fu tutto molto rapido: poche settimane al più. Coltivava l’idea di un possibile movimento in favore dell’unità di alcune regioni anche sotto la monarchia asburgica, se questa avesse assunto il volto di un’illuminata monarchia amministrativa: sempre meglio del governo del papa o dei regimi dispotici degli altri principi italiani. Le idee erano confuse ma i contatti, gli incontri, gli sguardi furtivi insospettirono la polizia austriaca che certo non mancava di informatori. Il Maroncelli fu il primo a essere arrestato, il 6 ottobre 1820. Interrogato a Milano, con il suo «costituto» del 7 ottobre spianò la via all’inquisitore A. Salvotti, che fece catturare, tra gli altri, Pellico, F. Confalonieri, Porro. Detenuto a Venezia durante il processo, si comportò come un perfetto bohémien dal temperamento irriflessivo e dall’idealismo ingenuo e retorico: leggeva con assiduità e teneva un comportamento sprezzante al limite della temerarietà. Condannato a morte con sentenza del 21 febbraio 1822, ebbe la pena commutata in venti anni di carcere e fu rinchiuso nella fortezza morava dello Spielberg, dove entrò il 10 aprile 1822 insieme con Pellico. Vi rimase fino all’estate del 1830, quando, per effetto della grazia imperiale concessa il 26 luglio, fu scarcerato.

I lunghi anni trascorsi allo Spielberg, raccontati da Pellico ne Le mie prigioni, lo resero celeberrimo, anche in virtù della sua penosa vicenda personale: l’amputazione della gamba sinistra sopra al ginocchio a causa di una cancrena, sopportata con straordinario coraggio.

Il Maroncelli uscì dunque mutilato dallo Spielberg e, fra il 1830 e il 1831, in un clima di relativa libertà alimentato dalle speranze della Rivoluzione di luglio anche in Italia, si portò a Bologna e quindi a Firenze. Ma l’ambiente italiano non faceva più per lui, che nella segregazione del carcere aveva progressivamente abbandonato la linea riformatrice della carboneria per attingere a idee più radicali. Decise così, all’inizio del 1831, di trasferirsi in Francia, dove restò fino al 1833. A Parigi – il 5 marzo 1831 incontrò il re Luigi Filippo – sperò di poter dare alle stampe le sue memorie, ma fu battuto sul tempo da Pellico, il cui capolavoro apparve nel novembre 1832. Pur riconoscendo che non avrebbe potuto competere con il «libro ammirevole» dell’amico, il Maroncelli ritenne che potesse esservi spazio per precisazioni e commenti ulteriori. Si dedicò, quindi, alla redazione delle Addizioni alle Mie prigioni di Silvio Pellico che, annunciate dall’Esule di A. Frignani e F. Pescantini (periodico italiano pubblicato a Parigi), videro la luce – sempre a Parigi – nella seconda metà del 1833.

Le Addizioni non sono un’opera infelice sotto il profilo letterario e costituiscono una utile fonte per comprendere il percorso politico-culturale del Maroncelli, in particolare la stagione del Conciliatore. Egli sosteneva che, per superare il dualismo classicismo-romanticismo, rivelatosi nocivo al «foglio azzurro», occorreva ricostruire l’estetica su nuove basi, che indicava nel «cormentalismo», sintesi di «mente» e di «core» e quindi espressione di un’ispirazione solida e di una base etica altrettanto inossidabile. Seguiva la classificazione degli autori della tradizione italiana secondo schemi ingenuamente rigidi. L’accoglienza del testo, fra gli esuli e la cerchia del Conciliatore, non fu in genere favorevole: gli si perdonò, in ragione del suo sacrificio, una prova decisamente modesta. Per tutti valga il giudizio di Pellico, contenuto in una lettera al Maroncelli del luglio 1838: «t’amo assai, non ostante quel tuo ingegnoso, ma disarmonico libro delle Addizioni, ove più cose ti furono dettate dalla fretta, dalla passione e da erronee ipotesi» (Fabretti, Briciole, p. 653).

Fu a Parigi che, fautore di un cristianesimo evangelico-umanitario e di una cultura non violenta, si avvicinò al pensiero di Cl.-H. de Saint-Simon e di Ch. Fourier, senza dubbio grazie alla frequentazione del salotto di Cristina Trivulzio Barbiano di Belgioioso. La lettura del giornale Le Phalanstère (uscito dal giugno 1832), in particolare, lo indusse ad abbracciare con entusiasmo la nuova fede nell’associazione fourierista e nel mondo «armonico», che non sarebbe più uscita dalla sua mente e dal suo cuore.

Tuttavia la Francia, culla delle grandi speranze culminate nelle giornate del luglio 1830, non era più – sotto Luigi Filippo – il luogo adatto per rifondare l’umanità. Il Maroncelli, che per tutta la vita era stato in fondo un déraciné, s’illuse di poter trovare in una società del tutto «nuova» il contesto ideale per progettare il suo futuro. Tanto più che, sposatosi a Parigi, il 1° agosto 1833 con Amalia Schneider, contralto di origine tedesca, gli si offerse l’opportunità di lavorare in una compagnia che l’impresario V. de Rivafinoli stava formando per l’apertura del primo teatro dedicato all’opera italiana a New York, fortemente voluto da Lorenzo Da Ponte. Lui e la moglie s’imbarcarono sul piroscafo «Erie» a Le Havre il 24 agosto 1833 e già alla fine di settembre un giornale newyorkese parlava di loro. Il teatro (l’Italian Opera House), dove il Maroncelli dirigeva il coro, fu inaugurato il 18 novembre 1833 con La gazza ladra di G. Rossini che mieté un grande successo. La stagione proseguì fino al 5 aprile 1834 ma, a causa della gestione avventurosa del Rivafinoli, non produsse i risultati sperati. Di conseguenza, il Maroncelli dovette cercare allievi cui insegnare musica o lingua italiana, mentre la moglie si esibiva in concerti ovunque fosse possibile. Nel frattempo, l’eco delle avventure contenute nelle Mie prigioni (rimbalzata nell’Edinburgh Review fin dal luglio 1833), disponibili in traduzione – fra cui quella, considerata scadente, pubblicata da Th. Roscoe a Londra nel 1833 – oltre a rendere l’illustre esule forlivese un personaggio della comunità newyorkese (al punto che E.A. Poe gli avrebbe dedicato un profilo), lo indusse a mettersi in contatto con intellettuali e tipografi per tentare una nuova edizione in inglese che unisse al testo principale le sue Addizioni. L’amicizia con un professore dell’università di Harvard, A. Norton, permise il conseguimento dell’obiettivo solo nel 1836, quando il Maroncelli cominciava a soffrire dei primi sintomi della cecità. Nel settembre 1835 Piero e Amalia avevano avuto una bambina, battezzata Silvia in onore del grande amico, padrino per procura.

Nonostante le difficoltà, il Maroncelli trovò a New York un luogo compatibile con la sua mentalità. Entrato nella Fourier Society, fondata nel 1837, ancora nel giugno del 1840 scriveva a Confalonieri: «non andrà guari che un Falansterio Tipo sarà il segnale onde cessino nel mondo la miseria, i delitti, lo spirito rivoluzionario, e persino i morbi contagiosi»; esortava, quindi, l’amico a farsi apostolo presso la «gioventù italiana, onde ritrarla dalle illusioni politiche alle vie organatrici e pacifiche della fondazione di una Falange» (Fabretti, Briciole, p. 654). Nell’ottobre 1841, in un’altra lettera, indirizzata a Zoé Gatti de Gamond (moglie del pittore ravennate G.B. Gatti, esule in Belgio dopo la Rivoluzione del 1831), accentuò ulteriormente la sua distanza dal «prétendu Liberalisme» della Giovine Italia, che a suo parere equivocava il termine associazione declinandolo secondo una modalità prevalentemente politica e dottrinaria (ibid., p. 656). A New York egli divenne componente del comitato esecutivo del giornale fourierista The Phalanx, ma soprattutto poté professare liberamente le sue idee eterodosse in fatto di religione, così come la sua fede umanitaria, che lo rendevano prossimo a una frazione dell’élite intellettuale composta tanto da straordinarie figure del «vecchio mondo», come il leggendario Da Ponte, quanto da scrittori e pensatori tentati dalle pratiche esoteriche e dall’occultismo, sulla scia dei nuovi cristiani che seguivano le tesi di E. Swedenborg. E se alla fine non trovò il desiderato falansterio (descrisse, anzi, con ironia, in una lettera alla moglie, un «Pik Nik Falansteriano» tenuto il 4 ag. 1842: cit., in Cetti, 1993, pp. 390 s.), tuttavia finì per adattarsi a una società assai più libera, benché altrettanto egoista e materialista di quella nella quale aveva vissuto in Europa con tanta difficoltà.

Gli anni successivi furono segnati da condizioni di salute via via sempre più precarie fino alla morte, che lo colse a New York il 1° agosto 1846.

La moglie, che nel 1842 era tornata in Europa «per salute e per raffinamento d’arte», dopo averlo assistito con continuità restò a New York con la figlia ma, probabilmente dopo il 1860, fece ritorno in Germania. Silvia, nel frattempo, aveva sposato il dottor Emil Müller. Amalia morì nel 1895, la figlia nel 1914 a Berlino.

Sepolti nel cimitero di Greenwood a Brooklyn, i resti del Maroncelli furono solennemente riportati in patria il 12 agosto 1886 per essere tumulati nel famedio del cimitero monumentale di Forlì, appena inaugurato. L’ultimo saluto al patriota, di cui si celebrava il contributo reso alla causa «nazionale» attraverso l’adesione alla carboneria e la cospirazione, fu tributato in primo luogo dal mondo radical-repubblicano e massonico, impersonato a Forlì dalla figura di A. Saffi. Si tacquero, e non poteva essere altrimenti, le idee eterodosse predicate e praticate dopo il 1830: il Maroncelli doveva restare un’icona incontaminata del Risorgimento, la quintessenza dell’eroismo e del sacrificio celebrati da Pellico nelle Mie prigioni.

domenica 5 ottobre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 5 ottobre.

Il 5 ottobre 2014 il pilota Jules Bianchi durante il Gran Premio del Giappone di Formula 1, rimane vittima di un terribile incidente.

Il 17 luglio 2015 moriva Jules Bianchi: il talento nizzardo si arrese alle conseguenze devastanti dell'incidente occorsogli nel GP del Giappone del 2014 dopo nove mesi di strenua lotta. Il danno assonale diffuso dovuto alla fortissima decelerazione sostenuta nell'impatto contro una ruspa in pista per recuperare la monoposto di Adrian Sutil non gli lasciò scampo. Dopo oltre un mese passato in Giappone, Bianchi fece ritorno nella sua Nizza, dove spirò l'anno successivo.

La morte di Bianchi, talento in ascesa della F1 con i suoi 25 anni, sconvolse sia l'ambiente che i tifosi della Formula 1: bisognava tornare al 1994, con le morti di Roland Ratzenberger e Ayrton Senna, per risalire all'ultima scomparsa di un pilota di F1 per le conseguenze di un incidente occorso in gara. «Le morti di Senna e Ratzenberger sono state le ultime. Hanno dato la vita per lo sport, grazie a loro la Formula 1 è più sicura», aveva detto lo stesso Bianchi pochi mesi prima dello schianto, ad Imola in occasione del ricordo di Senna a 20 anni dalla morte del brasiliano.

Così purtroppo non è stato: sotto la pioggia battente di Suzuka, con l'avvicinarsi dell'imbrunire, Bianchi trovò davanti a sé un destino beffardo, lo stesso del prozio Lucien, vincitore della 24 Ore di Le Mans del 1968 morto l'anno successivo in seguito ad un incidente proprio al Circuit de la Sarthe. Una famiglia votata al motorsport, quella di Bianchi: il padre di Jules, Philippe, gestiva un kartodromo su cui il piccolo Jules mosse i primi passi in pista.

Dopo i kart, il naturale passaggio alle monoposto, con la vittoria del campionato di Formula Renault 2.0 francese nel 2007 e il successo nella Formula 3 europea due anni più tardi. Un test per giovani piloti organizzato dalla Ferrari gli diede l'opportunità di farsi notare dalla Rossa e di entrare così a far parte della Ferrari Driver Academy. Il debutto in F1 arrivò nel 2013 con la Marussia, scuderia nella quale militò anche l'anno successivo.

Quando ebbe l'incidente a Suzuka, Bianchi era ancora poco conosciuto dal grande pubblico: dopotutto, correva in una scuderia di fondo classifica. Si era in ogni caso già fatto notare, grazie allo straordinario nono posto colto nel GP di Montecarlo del 2014: punti pesantissimi per la Marussia, che consentirono al team di Banbury di partecipare alla stagione successiva. Al momento dello schianto, Bianchi era apparentemente pronto ad un salto di carriera importante.

La Ferrari, infatti, aveva avuto modo di rendersi conto delle qualità di Bianchi impiegandolo come test driver nel 2011 e seguendolo attivamente nella sua avventura con la Marussia. Con l'addio di Fernando Alonso a fine 2014, Bianchi avrebbe avuto l'opportunità di una promozione alla Rossa. Proprio la scuderia di Maranello ha voluto ricordare Bianchi nel giorno della sua morte: «Sarai sempre uno di noi. Ci manchi molto, Jules», si leggeva sull'account Facebook della Ferrari. 

L'eredità di Jules, strappato troppo presto alla vita e al mondo delle corse che tanto amava, è stata raccolta da Charles Leclerc, legatissimo a Bianchi. Cresciuto anche lui sulla pista di papà Philippe, Leclerc aveva un rapporto speciale con Bianchi, che era il suo padrino. La morte di Bianchi ha segnato fortemente Leclerc, che è diventato ancora più determinato a raggiungere la F1 e a coronare il sogno di Jules, arrivando in Ferrari.

Così è stato, e a quattro anni dalla scomparsa di Bianchi, Leclerc, elegante e gentile come Jules, ha portato con sé i suoi insegnamenti, continuando idealmente il percorso interrotto anzitempo dall'amico e mentore per colpa di un tragico schianto sotto la pioggia. 

sabato 4 ottobre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 4 ottobre.

Il 4 ottobre 1959 veniva lanciata la sonda sovietica Luna 3 che consentì all'uomo, per la prima volta nella storia, di vedere la faccia nascosta della Luna.

Si chiamava “Programma Luna“, il progetto sovietico risalente alla metà del secolo scorso, quindi in piena Guerra Fredda, che vide il lancio di Luna 3, la terza sonda lunare inviata con successo per fotografare il lato nascosto del satellite terrestre. Si trattò di un vero e proprio trionfo nel contesto dell’esplorazione umana dello spazio.

Luna 3 riuscì a raggiungere e fotografare, per la prima volta nella storia, la faccia della Luna quasi del tutto invisibile dalla Terra, dando così la possibilità agli scienziati di studiarla e di crearne i primi atlanti. Fin da subito gli studiosi di resero contro che l’emisfero fino a quel momento sconosciuto era completamente diverso da quello ben visibile dal nostro pianeta. Era, infatti, formato soprattutto da valli e montagne, con solo due zone oscure chiamate poi Mare Moscoviense e Mare Desiderii.

Luna 3 era di forma cilindrica, con due lati semisferici, una lunghezza di 130 cm e un diametro massimo di 120 cm. Il cilindro era ermeticamente chiuso e pressurizzato a 0,23 atmosfere. All’esterno erano stati montati dei pannelli solari utili per ricaricare le batterie chimiche poste all’interno della macchina. Altri tipi di pannelli, invece, erano stati installati in modo da poter far raffreddare l’interno in caso la temperatura superasse i 25 gradi Celsius. Anche il sistema di acquisizione immagini Yenisey-2 era stato montato all’esterno, ed era composto da una fotocamera con due lenti AFA-E1, una unità di elaborazione automatica e uno scanner. Le lenti avevano un obiettivo con focale lunga 200 mm F/5.6 e l’altro con focale di 500mm F/9.5. All’interno, invece, Luna 3, ospitava il sistema per l’elaborazione delle immagini, la radio, le batterie, un giroscopio e delle ventole circolari per il raffreddamento.

Il 7 ottobre, raggiunta la meta dopo tre giorni dal lancio, la sonda scattò 29 foto in 40 minuti, ad una distanza di ben 64 mila km dalla Luna, riuscendo così ad immortalare il 70% dell’emisfero lunare nascosto. Il giorno successivo la macchina spaziale era già in prossimità della Terra, ma a causa della debolezza del segnale non riuscì subito a trasmettere le immagini agli scienziati sovietici. Ci vollero dieci giorni, quindi il 18 ottobre, perché 17 delle immagini scattate giungessero sulla Terra, a bassa risoluzione. Il 22 ottobre i contatti con la sonda furono persi, e la macchina rientrò nell’atmosfera solo tre anni dopo, nel 1962.

venerdì 3 ottobre 2025

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 Buongiorno, oggi è il 3 ottobre.

Il 3 ottobre 42 a.C ebbe luogo la celebre battaglia di Filippi.

"Ci rivedremo a Filippi"

(Plutarco - Vite parallele - Vita di Bruto - 36)

«Dopo che Cesare fu trafitto dal pugnale dei congiurati e tutta la popolazione fu invasa da un grande spavento e da enorme timore Bruto e Cassio, autori della congiura, invisi alla plebe, si allontanarono da Roma e si rifugiarono in Asia, dove cominciarono ad arruolare truppe e raccogliere denaro.

Contro loro fecero guerra Marco Antonio, amico di Cesare e suo luogotenente in Gallia, e Ottaviano, ambizioso adolescente figlio adottivo di Cesare. Lepido, loro alleato venne lasciato in difesa della città di Roma. Presso Filippi, città della Macedonia, si combatté a lungo ed aspramente.»

La battaglia di Filippi si svolse tra i cesariani del II triumvirato, composto da Marco Antonio (83 - 30 a.c.), Cesare Ottaviano (27 a.c. - 14 d.c.), e Marco Emilio Lepido (90 - 13 a.c.), e i due principali cospiratori ed assassini di Gaio Giulio Cesare, Giunio Bruto (85 a.c. - 42 a.c.) e Gaio Cassio Longino (86 a.c. 42 a.c.).

La battaglia si svolse nell'ottobre del 42 a.c. presso Filippi, cittadina della provincia di Macedonia, posta lungo la Via Egnatia, alle pendici del monte Pangeo. Bruto e Cassio arrivarono da sud-est, e un po' più tardi, i triumviri Marco Antonio e Ottaviano arrivarono da ovest. L'esercito dei cesaricidi usò Neapolis (Kavala) come base di rifornimento, e dovette attraversare le montagne per ottenere il suo cibo sul campo di battaglia; l'altro esercito usò Anfipoli, che era molto lontano. Il loro scontro era in primo luogo una lotta per i rifornimenti dell'esercito.

Poiché Bruto e Cassio avevano occupato le migliori posizioni, due piccole colline a ovest di Filippi, Marco Antonio cercò di aggirare Filippi costruendo una strada rialzata attraverso le zone umide a sud della città. Se avesse avuto successo, avrebbe tagliato la linea di comunicazione dei suoi nemici. Ma Cassio lo scoprì e costruì una diga trasversale.

Mentre il suo avversario era così occupato, Marco Antonio ordinò inaspettatamente ai suoi uomini di prendere d'assalto il campo di Cassio. Ebbero un grande successo e Cassio, credendo che tutto fosse perduto, si suicidò prima di aver saputo che Bruto aveva sconfitto l'esercito di Ottaviano e aveva catturato il campo di Marco Antonio e Ottaviano. In altre parole, entrambe le parti avevano vinto una vittoria e hanno subito una sconfitta.

Un secondo scontro fu decisivo: un paio di giorni dopo, Marco Antonio e Ottaviano riuscirono ad attirare Bruto in una battaglia che non avrebbe dovuto accettare. Alla fine, i triumviri furono vittoriosi. Undici anni dopo, Ottaviano sconfisse Marco Antonio ad Azio e divenne l'unico sovrano del mondo romano.

giovedì 2 ottobre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 2 ottobre.

Il 2 ottobre 1870, a seguito della Breccia di Porta Pia, a Roma si vota il plebiscito per l'annessione al regno d'Italia.

Una targa commemorativa affissa sulla facciata di Palazzo Senatorio, sul Campidoglio, sede oggi del Sindaco di Roma, ricorda un evento abbastanza recente che ha profondamente cambiato gli equilibri politici e sociali di questa millenaria città: l’annessione, mediante plebiscito, di Roma al neonato Regno d’Italia. Siamo alla domenica del 2 Ottobre del 1870, poco tempo dopo la Breccia di Porta Pia che sancì la conquista militare di Roma. Il Governo Italiano proclamò l’intenzione di permettere ai cittadini, così come fatto con le altre regioni e città italiane, di scegliere da che parte stare. Se rimanere indipendenti o meno. E la formula scelta, quella che comparve sulla schede usate per votare, fu:"Desideriamo essere uniti al Regno d’Italia, sotto la monarchia costituzionale del Re Vittorio Emanuele II e dei suoi successori". Da aggiungere anche come il Pontefice, che da subito si proclamò prigioniero di guerra, fece numerosi appelli all’astensione, consigliando ai cattolici di non partecipare al voto, abbandonando completamente la vita politica in generale. Si arrivò addirittura a non permettere la votazione nel Rione Borgo, scelta poi in tempo revocata. Il Pontefice dell’epoca, Pio IX, temeva molto il voto, anche perché la sua buona stella ed il consenso popolare erano gravemente collassate dopo alcune esperienze non felici in cui il Papa stesso, fuggito da Roma, bombardò la città per ritornare in possesso del suo trono. Nonostante tutto comunque, ecco quali furono o risultati: il 98,89% fu per il sì, l’1,11% per il no. Un totale di 40.785 romani votò per l’annessione, contro i soli 46 no. Ecco la ragione per cui si parla di plebiscito. In tempi di elezioni o referendum vari, ricordiamoci come ce ne furono alcuni che modificarono radicalmente la nostra storia. Un semplice voto modificò e alterò completamente il volto e la storia di Roma, che passò dall’essere una città a guida teocratica, considerando che il leader religioso, il Papa, era anche regnante, ad una città controllata ed amministrata da un Re. Questo perdurò fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale, quando con un altro referendum l’Italia intera decise di abbandonare la Monarchia in favore di una Repubblica. 

 

mercoledì 1 ottobre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il primo ottobre.

Il primo ottobre 844 i vichinghi saccheggiano la città di Siviglia, allora sotto la dominazione araba.

L’appellativo di Vichinghi (o “Vikingr”, in antica lingua norrena) indica il popolo di esploratori, commercianti e guerrieri scandinavi che tra l’VIII e la metà dell’XI secolo condusse i suoi traffici e le sue conquiste in Europa, Asia e nell’Atlantico del Nord.

L’età vichinga va dal 793 (data del primo saccheggio nel monastero di Lindisfarne, nel nord dell'Inghilterra) alla decisiva battaglia di Hastings del 1066. I Vichinghi ebbero un enorme impatto sulla storia medievale di tutta la Scandinavia, oltre che di Gran Bretagna, Irlanda e di molti altri paesi europei.

La religione dei Vichinghi si rifaceva alla mitologia norrena, precedente al Cristianesimo e basata sul culto di numerose divinità tra le quali Odino, Thor, Loki e Freyr. Per i Vichinghi l’uccisione in battaglia era il modo più nobile per trovare la morte, quello che garantiva un posto nel paradiso vichingo (Valhalla), un’enorme sala governata da Odino dove ogni notte si tenevano sontuosi banchetti e rituali per sostenere il dio nelle sanguinose battaglie che avrebbero preceduto la fine del mondo (Ragnarǫk). Tra il X e XI secolo la maggior parte dei Vichinghi si convertì al Cristianesimo, pur conservando molte credenze pagane fino al tardo Medioevo.

I Vichinghi sono celebri per le loro temutissime navi, lunghe imbarcazioni capaci non solo di attraversare gli oceani, ma anche di navigare in acque poco profonde e di attraccare direttamente sulle spiagge. I Vichinghi percorsero in lungo e in largo il mondo allora conosciuto. Contrariamente a quanto si crede, tuttavia, non si dedicarono solo a invasioni e saccheggi, ma furono anche abili commercianti e fondarono fiorenti insediamenti in Inghilterra, Scozia, Irlanda, Normandia e Islanda.

I primi europei a mettere piede in Nord America sono stati proprio i Vichinghi, che fondarono un insediamento nell'odierno Canada, sotto la guida di Leif Erikson. Nell’845 solcarono invece le acque della Senna e assediarono Parigi, cominciando a pretendere dalla capitale il pagamento di ingenti tributi e conducendo diversi attacchi alla città fino all’assedio dell’886, che mise fine al regno del terrore vichingo. Oltre a terrorizzare l'intera costa del Nord Atlantico, i Vichinghi si spinsero a Sud, verso il Nord Africa, e a Est, verso la Russia, Costantinopoli e il Medio Oriente.

Il termine “Danegeld” indica una tassa imposta dai Vichinghi ai territori sottomessi per garantirsi l’immunità da futuri attacchi. I governanti inglesi, i francesi e altri in tutta Europa accettarono di pagare somme anche ingenti ai Vichinghi sotto forma di monete d’argento e altri oggetti di valore per scongiurare altri attacchi.

L’alfabeto vichingo si basava sulla scrittura runica delle popolazioni germaniche, nota come Futhark. È con questa scrittura che i Vichinghi scolpivano il racconto degli avvenimenti storici su pietre note come pietre runiche. Le pietre runiche descrivevano le imprese eroiche dei capi e dei loro uomini o le vittoriose campagne condotte in giro per il mondo. Gran parte di ciò che sappiamo oggi sui Vichinghi deriva da iscrizioni runiche rinvenute in tutta la Scandinavia, nelle isole britanniche e altrove fino al Mar Nero. Le pietre runiche più famose sono quelle di Jelling, sito patrimonio mondiale dell’UNESCO.

Le false credenze a proposito dei Vichinghi non si contano e continuano a sopravvivere ancora oggi. Ecco alcuni degli aneddoti sui Vichinghi che non trovano nessun riscontro nella storia:

Non c’è alcuna prova che i Vichinghi portassero elmi con le corna, se non in occasione di alcune cerimonie; d’altronde dei copricapo del genere sarebbero risultati d’intralcio durante le battaglie. In realtà indossavano degli elmi di forma conica in cuoio con rinforzi in legno e metallo, oppure in ferro, a volte dotati di una maschera. La credenza che i Vichinghi indossassero elmi con le corna si è diffusa nel XIX secolo.

I Vichinghi non erano quei selvaggi senza pietà, guerrieri dai capelli al vento e dagli occhi infuocati che ci ha tramandato la mitologia. In realtà, gli invasori della Gran Bretagna furono descritti dagli Anglosassoni come eccessivamente votati all’igiene e alla pulizia poiché erano soliti lavarsi una volta alla settimana e tenere alla cura dei capelli!

I Vichinghi non suonavano il lur, il corno lungo con cui spesso li vediamo rappresentati.

I Vichinghi non venivano sepolti nei dolmen.

martedì 30 settembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 30 settembre.

Il 30 settembre 1935 il celebre eroe del fumetto "Dick Tracy" diventa un giallo radiofonico.

Gli Stati Uniti del 1931 erano un paese difficile, sconvolto dalla criminalità organizzata che, preso l’avvio con l’entrata in vigore del 180 Emendamento alla Costituzione e con il Volstead Act (proibizionismo), aveva ormai abbracciato con i suoi lunghi tentacoli tutti i settori della vita economica e sociale, dovunque ci fossero possibilità speculative: vendita di alcolici, gioco d’azzardo, prostituzione, « protezione » di aziende commerciali e di negozi, droga ecc. La polizia, in gran parte prezzolata dai malviventi, era praticamente inefficace e lavorava nella più completa corruzione.

Rapine, estorsioni, scandali a ripetizione sconvolgevano la vita quotidiana: il governo non poteva che predicare il ritorno alla legalità, ma erano parole disperse al vento. Roosevelt stava preparando la sua scalata alla Casa Bianca con un programma di risanamento politico e sociale, ma l’opinione pubblica era talmente sconvolta e tanto poco ottimista nei riguardi di una soluzione legale, che la situazione pareva priva di una via d’uscita.

Eppure fu proprio intorno al 1931 che qualcosa cambiò: fu in quell’anno che il giudice Wilkinson riuscì a far condannare Al Capone per evasione fiscale: un anno prima lo scrittore Dashiell Hammett aveva pubblicato The Maltese Falcon creando l’emblematico personaggio di Sam Spade e denunciando gli intrallazzi che favorivano l’attività dei gangster. L’opinione pubblica incominciava a vedere dunque uno spiraglio, ma la fiducia nella polizia era pressoché nulla. Fu in questa atmosfera che il 4 ottobre 1931, sul Detroit Mirror, apparve una tavola domenicale di fumetti con un nuovo personaggio, un certo Dick Tracy, firmata dal disegnatore Chester Gould.

Era un brevissimo episodio di soli dodici quadretti. Nel primo si vedeva un signore distinto in vestaglia da camera con la cornetta del telefono all’orecchio, che diceva: « Yeah, this is Tracy! » (« Sì, qui è Tracy »). Stava parlando con il capo della polizia che chiedeva la sua testimonianza per riconoscere un malfattore che la sera prima aveva partecipato ad una rapina. Nel terzo quadretto Tracy era a bordo di un taxi e ragionava: « Da come ha schivato quel mio pugno, deve essere senz’altro un pugile professionista ».

Nel successivo confronto all’americana, Tracy non riconosceva il suo uomo ma, posti gli occhi su una donna rinchiusa in una cella, la faceva liberare e le sferrava un pugno alla mascella. La pronta schivata permetteva a Tracy di smascherare il farabutto travestito da donna, un certo Pinkie l’Accoltellatore (Pinkie the Stabber), il primo « campione » della lunga galleria di malfattori catturati da Dick Tracy.

Dopo l’esordio del 4 ottobre, il 12 ottobre Dick Tracy diventava protagonista di una prima lunga avventura sul Daily News apportando a Chester Gould in breve tempo un notevole successo.

Ma chi era Chester Gould e come era nato Dick Tracy? Figlio di Gilbert Gould, direttore del settimanale Advance Democrat di Stillwater, Chester era nato il 20 novembre 1900 a Pawnee, nell’Oklahoma. Cresciuto nell’ambiente giornalistico e con una naturale inclinazione al disegno, a sette anni faceva già i suoi piccoli lavori per il Courier Dispatch di Pawnee.

Per desiderio del padre, Chester Gould iniziò a studiare legge presso l’A & M College dell’Oklahoma trasferendosi ad Oklahoma City, dove collaborò come disegnatore sportivo al giornale The Tulsa. Nel 1921 si spostò quindi a Chicago dove si sposò una prima volta e dove portò a termine i suoi studi alla Northwestern University, laureandosi in economia e commercio.

Iniziò così la sua attività di disegnatore presso l’American Journal di William Randolph Hearst e dal 1923 presso il Daily News di Chicago, conoscendo il capitano Joseph Medill Patterson, direttore editoriale, scopritore di talenti e capo del New York News Syndicate. Fu a Patterson che Gould propose per otto lunghi anni non meno di sessanta nuovi personaggi da realizzare a fumetti, senza mai riuscire a sfondare, se si eccettua una striscia quotidiana intitolata Fillum Fables (satira sul mondo del cinema), che ebbe però breve vita.

Il colpo di fortuna giunse nell’agosto 1931, quando il capitano Patterson, sulla base di una proposta di Gould, suggerì al disegnatore di creare un nuovo personaggio, poliziotto privato, che ben si sarebbe inquadrato nella campagna di rivincita della legge contro la malavita imperante.

« Decisi » ha dichiarato una volta Chester Gould « che se la polizia non riusciva a fermare i gangster, avrei creato io chi lo avrebbe fatto! » Il 1 settembre Gould si presentò al capitano Patterson con un plico di disegni: il materiale per un mese e mezzo di strisce del nuovo personaggio Plainclothes Tracy.

Patterson tirò un tratto di matita sul nome Plainclothes (« in abiti borghesi ») e battezzò il personaggio Dick, diminutivo di Richard, che nel gergo stava ad indicare un poliziotto privato, e approvò incondizionatamente le caratteristiche che Gould aveva dato al suo character.

Dopo l’esordio con la tavola domenicale del 4 ottobre 1931 che abbiamo sopra descritto, Gould diede il via alla prima lunga avventura nella quale vennero poste le basi dell’attività di Dick Tracy. Il poliziotto fa visita al droghiere Mister Trueheart che sta chiudendo il suo negozio e viene invitato a cena; la figlia del droghiere, Tess Trueheart, è l’innamorata di Tracy.

« Ciao Tess… sei un incantol » la saluta, e lei risponde: « Lo sono per il mio migliore boyfriend! Su sbrigatevi, sarete affamati! ».

I due giovani e i signori Trueheart si fanno quindi una bella cenetta, al termine della quale Dick Tracy e Tess si appartano e decidono di annunciare la loro decisione di sposarsi.

Si apprestano a festeggiare l’evento, quando sulla porta di casa si presentano due uomini mascherati (sono Crutch e un altro tirapiedi, entrambi della banda di Big Boy) che chiedono la consegna dei soldi di casa. Il droghiere si ribella ed è colpito a morte: Dick Tracy viene atterrato e stordito; i due gangster prendono il malloppo e si portano via come ostaggio la tenera Tess.

Quando Tracy rinviene, pronuncia il suo giuramento: « Tess, sul corpo di tuo padre giuro che ti troverò e vendicherò tutto questo… lo giuro! » e, pochi minuti dopo, il capo della polizia gli chiede: « Tracy, che ne direbbe di entrare nella nostra squadra in borghese? Penso che sarebbe di grande aiuto per trovare Tess Trueheart e gli assassini di suo padre! » e Tracy risponde: « Mi ha tolto la parola di bocca, capo! ».

Così inizia la prima missione del poliziotto privato, che riuscirà naturalmente a salvare Tess e a mettere in gattabuia Big Boy e i suoi uomini.

In una storia del 1932 un altro importante personaggio si unisce alla coppia: è un ragazzo di dieci anni, sfruttato da un certo Steve, un incallito tagliaborse che lo incarica di piccoli furti per sbarcare il lunario.

Il monello viene catturato da Tracy e passa subito dalla sua parte aiutandolo a sgominare Steve e compari. Vorrà poi essere adottato dal detective ed essere chiamato Dick Tracy Junior, più brevemente Junior.

« Fino ad allora » ha scritto Chester Gould « non si era mai visto nei fumetti un detective che, come Dick Tracy, si battesse faccia a faccia con i criminali, imboccando, per decidere la contesa, la scorciatoia del piombo. Era anche la prima volta che il fumetto rappresentava nei particolari la turpitudine del crimine: omicidi, rapimenti, risse, sparatorie.

Ci vollero un paio di mesi perché Dick Tracy si affermasse, ma poi esplose come un fuoco d’artificio. »

Il successo, infatti, fu strepitoso: il poliziotto di Gould rappresentava la rivincita della legge, sia pure attraverso il contributo di un privato cittadino, contro la malavita imperante, e il fatto che Tracy fosse stato mosso dal desiderio di una vendetta personale passava in secondo piano, perché Tracy rappresentava comunque la giustizia impegnata a battere gangster d'ogni risma, intenti a compiere efferatezze di ogni genere e disposti ai rimedi più drastici pur di contrastare il passo al nostro personaggio.

Tra le macchiette, per certi versi simpatiche, anche se grottesche, che Chester Gould oppose per quarant’anni al suo poliziotto, vale la pena di ricordarne alcune: da Alec Penn (1931) al playboy Kennet Grebb (1932), all’indomito Big Boy (1933), che riuscirà a mettere nei guai Dick Tracy con la giustizia, a Larceny Lu, regina della malavita, all’avvocato Spaldoni (legale di Jimmy White, capo di una banda di minorenni) a Frank Redrum (l’uomo senza faccia del 1936), al mercante d’armi Karpse (1938), a Edward Nuremoh (un profittatore che insidiò a Tracy la fidanzata Tess).

Nel 1940 Tracy dovette lottare contro una straordinaria coppia: il nano Jerome che compiva le sue imprese fuggendo a cavallo di un San Bernardo e la mastodontica Mama, una specie di mezzana adiposa, maniaca dì gioielli e di cioccolatini, che quando venne arrestata fece dire allo sceriffo: « Vacca! Guarda che faccia! … ».

Nello stesso 1940 Tracy ebbe come antagonista un certo Krome, specializzato nel trasformare i giocattoli in trappole mortali, mentre nel 1941 fece furore il gangster Talpa che, per non smentire il suo soprannome, viveva ed agiva esclusivamente nei sotterranei.

Nel 1942, con l’assistenza del poliziotto Pat, che fin dalle prime avventure gli faceva da aiutante, Dick Tracy affrontò una coppia di tremendi lestofanti, Jacques (proprietario di un night club) e il fratello B. B. Eyes, borsaro nero di copertoni, che fece di tutto per eliminare Tracy, tra l’altro seppellendolo anche in un cilindro di paraffina fusa. Si scontrò poi con Clarke Van Dyke, sosia dell’attore Yollman, che tentava di sostituirsi a lui dopo averlo fatto ipnotizzare, e quindi con il discografico Amard e con il suo socio Tigre Lilly, dalla faccia butterata, che era a capo di una banda di criminali che organizzava colossali imbrogli.

La galleria degli straordinari avversari di Tracy si arricchì nel 1942 anche di Pruneface (Faccia di Prugna), un sabotatore al servizio di una potenza nemica, e così il nostro detective poté dare il suo contributo alla causa americana nella seconda guerra mondiale.

Nel 1943 Tracy si dedicò al ritrovamento di un piccolo bimbo biondo, chiamato Johnny, che si era perso cadendo dal camion sul quale viaggiava con i suoi genitori. Toccò poi a « 88 Tasti », un pianista che cercava di arrotondare il suo stipendio facendo il killer professionista, e alla ripugnante vedova di Faccia di Prugna che tentò invano di vendicare il marito e che andava in giro con il volto coperto da una maschera.

I successivi avversari di Tracy furono Laffy e l’assassino professionista Flattop, caratterizzato da una faccia trapezoidale e da una boccuccia a bocciolo di rosa. Ma uno dei più caratteristici nemici apparve nel 1944: un tic nervoso gli dava un continuo tremito e per questo veniva soprannominato Shaky, cioè Tremolio. Fu anche lui battuto in modo irrimediabile e morì congelato in una buca, dopo aver tentato in cento modi di eliminare Tracy.

La galleria si arricchì di mese in mese e di anno in anno: nel 1945 fu la volta di Itchy, un racketeer che tentò di far morire Tracy di fame; nel 1946 di Influence, un assassino che ipnotizzava le sue vittime grazie a speciali lenti a contatto; nel 1948 di Mister Volts che amava eliminare i suoi avversari con scariche elettriche; nel 1949 di Sketch Paree che soffocava tutte le sue vittime con una maschera. Fu proprio nel 1949, mentre stava affrontando il suo ennesimo avversario (un certo Wormy con il viso perpetuamente avvolto nel fumo della sua sigaretta), che nella vita di Dick Tracy si verificò un avvenimento fondamentale: lo sposalizio con la sua eterna fidanzata Tess Trueheart.

La cosa fu ed è singolare perché raramente gli eroi dei fumetti sposano la loro fidanzata, ma evidentemente Dick Tracy non aveva paura di nulla, tant’è vero che due anni dopo Tess metteva al mondo la sua unica e adorabile figlioletta, Bonny Braids (in italiano Bonny Treccina) che, manco a dirlo, venne subito coinvolta in una avventura di cui fu protagonista la fotografa ladra Crewy Lou.

Scorrendo i successivi dossiers di Tracy troviamo, tra i « cattivi », tipi sempre più strambi: Tonsils, un cantante specializzato in un’unica canzone, Open Mind con la mania dei fiori, le sorelle Kitten acrobate criminali, Headache, un assassino tormentato dal continuo mal di capo, Rhodent, altro collezionista di reati con il complesso della sua testa a becco di uccello, Nah-Tay specializzato nel ridurre a proporzioni minime i crani dei suoi avversari.

E’ insomma una galleria lunga e inesauribile nella quale si sono allineati nuovi personaggi, tutti, come abbiamo visto finora, caratterizzati da qualche difetto fisico o mentale, quasi a sottolineare il fatto (in linea con le più moderne teorie scientifiche) che la criminalità non è altro che una malattia. Ma è certo che i « recuperati » di Tracy si contano sulle dita e che la medicina da lui preferita per quel genere di ammalati è sempre una pallottola in testa.

Nel 1964, Junior, il monello che si era unito a Tracy nel 1932, si è sposato con Moon Maid, una ragazza selenita, figlia del governatore della Luna, che periodicamente ha bisogno di raggi solari per rinvigorirsi e che ha introdotto nelle strisce di Gould l’ormai immancabile ingrediente fantascientifico.

La crociata di Dick Tracy contro la criminalità continuò con lo stesso accanimento dell’epoca del proibizionismo e di Scarface; in tutti quegli anni il nostro detective ha sempre adottato i più moderni ritrovati scientifici.

Nel 1946, per esempio, ha iniziato ad usare una ricetrasmittente da polso e pochi anni più tardi vi ha fatto anche inserire un televisore piccolo come il quadrante di un orologio; si vale normalmente di un impianto televisivo a circuito chiuso e degli apparecchi più raffinati per l’individuazione e l’identificazione delle impronte digitali; frequenta stabilmente il laboratorio della polizia scientifica, al punto che per molti anni nelle strisce quotidiane e nelle tavole domenicali era spesso presente una vignetta contrassegnata dal titolo « Crimestoppers », nella quale venivano forniti ai lettori i rudimenti scientifici delle procedure adottate dalla polizia e venivano presentati gli ultimi ritrovati tecnici.

Chester Gould si ritirò nel 1977, e Dick Tracy fu portato avanti da Rick Fletcher e Max Allan Collins. Il vignettista si spense a Woodstock l'11 maggio 1985.


lunedì 29 settembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 29 settembre.

Il 29 settembre 1941 ha luogo il massacro di Babij Jar.

Gli ucraini hanno pagato un prezzo di sangue altissimo negli anni, infernali, in cui furono stretti nella morsa russo-tedesca. I morti furono 11 milioni su una popolazione di 40 milioni. Prima Stalin con le sue Purghe, poi Hitler, finita la guerra fu di nuovo il turno di Stalin di calare una coltre asfittica sul Confine. Ucraina significa questo: confine. Un nome un destino.

Appena fuori Kiev si trova Babij Jar, una grande fossa naturale di morbida terra sabbiosa, di un bianco candido che risplende in un meraviglioso gioco di colori con il cielo blu. Qui l’uomo ha scritto una delle pagine peggiori della sua storia.

29 settembre 1941 – i tedeschi iniziano il loro lavoro di sterminio degli ebrei. Metodico e organizzato. Hanno pianificato tutto, due giorni sono sufficienti per eliminare 33.771 esseri umani, uomini, donne bambini, ebrei. E’ prevista anche la pausa pranzo per i soldati impegnati nella carneficina. Un’ora. Tanto basta per mangiare qualcosa, fumare una sigaretta, liberare la vescica, e riprendere a falciare vite. 

Per evitare che si diffondesse il panico le persone in attesa della morte era convinte di essere in attesa di un treno che li avrebbe portati chissà dove, ma vivi. Tenuti a debita distanza perché non vedessero né sentissero chiaramente il crepitio delle armi, venivano fatti passare, pochi per volta, da un baffuto ucraino lieto di aiutare i nuovi padroni.

Costretti a spogliarsi, dovevano passare in mezzo a due file di sadici aguzzini che li bastonavano senza pietà. Giunti sul limite della grande fossa bianca, arrivava il comando secco dell’ufficiale nazista, un colpo di pistola alla nuca e il corpo cadeva giù. Due ucraini muniti di pala gettavano un sottile strato di terra sui cadaveri. Un tedesco nella fossa camminava per sincerarsi che nessuno fosse in grado di muoversi e fuggire, per i moribondi non si sprecavano munizioni, un altro strato di cadaveri e terra li avrebbe sepolti vivi.

La sera del 30 settembre, puntuali come da programma, i telegrafi batterono l’informazione attesa a Berlino prima di andare a cena. Kiev judenfrei. Il massacro di Babij Jar è una macchia che l’uomo non potrà mai cancellare.

domenica 28 settembre 2025

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 Buongiorno, oggi è il 28 settembre.

Il 28 settembre 235 d. C. papa Ponziano, primo nella storia, abdica dal suo ufficio.

Una felice e fondata congettura di Emanuela Prinzivalli fa cominciare il pontificato del vescovo di Roma Ponziano nel 230. La fonte principale di questa e di altre notizie è il Catalogo Liberiano, che offre informazioni sull’episcopato di Ponziano, durato poco più di cinque anni, e della sua deportazione in Sardegna, condannato ad metalla cioè ai lavori forzati nelle miniere. Dopo l’imperatore Alessandro Severo (222-235), tollerante con i cristiani, salì al potere Massimino il Trace (235-238), che diversamente dal predecessore si volse contro i cristiani, mirando a colpire i capi delle cristianesimo. «La fine violenta di Alessandro Severo, assassinato durante una rivolta militare che espresse come nuovo imperatore Massimino il Trace, segnò un brusco mutamento nelle condizioni generali della politica romana che si tradusse sul piano religioso in una sistematica offensiva anticristiana mirata a colpire gli esponenti del clero», scrive Marcella Forlin Patrucco. Papa Ponziano ne fu una illustre vittima, ma non da solo: con lui fu condannato e deportato un altro capo dei cristiani, il sacerdote Ippolito, passato alla storia come antipapa; successivamente, entrambi sarebbero stati riconosciuti martiri e perciò degni di menzione nella storia della Chiesa. L’anno dell’esilio di Ponziano è il 235 e questo dovrebbe esserne anche l’anno della morte. Il citato Catalogo ricorda con precisione una data e un fatto: il 28 settembre 235 Ponziano abdica cioè volontariamente rinuncia al pontificato; è il primo caso nella storia della Chiesa ed è il primo elemento biografico nella storia dei papi di cui sia nota la data esatta.

Anche un’altra fonte, la Depositio martyrum, accosta Ponziano e Ippolito, dando la notizia della loro sepoltura avvenuta a Roma nello stesso giorno, il 13 agosto: Ponziano fu sepolto nel cimitero cosiddetto di Callisto, sulla via Appia, Ippolito nel cimitero sulla via Tiburtina. Il Martirologio Romano, alla data del 13 agosto, appunta: «Santi martiri Ponziano, papa, e Ippolito, sacerdote, che furono deportati insieme in Sardegna, dove entrambi scontarono una comune condanna e furono cinti, come pare, da un’unica corona. I loro corpi, infine, furono sepolti a Roma, il primo nel cimitero di Callisto, il secondo nel cimitero sulla via Tiburtina».

Come ricorda Emanuela Prinzivalli, l’epitaffio di Ponziano fu ritrovato nel 1909 sotto la pavimentazione del cubicolo di Santa Cecilia contiguo alla cripta papale del cimitero di Callisto; l’iscrizione è in greco: «Pontianos episk[opos] m[a]rt[ys]». Le spoglie di Ponziano, con quelle di altri cristiani importanti sepolti nel cimitero callistiano, furono traslate nella chiesa di Santa Prassede durante il pontificato di Pasquale I (817-824).

Secondo il Liber pontificalis, Ponziano fu romano, figlio di un tale Calpurnio, e morì a causa di molte sofferenze, probabilmente le sofferenze dovute alle crudeli fustigazioni riservate ai condannati alle miniere. Una notizia abbastanza sicura riguarda l’assenso di Ponziano alla decisione del vescovo di Alessandria Demetrio di condannare il teologo Origene – legato alla Chiesa di Alessandria e allo stesso Demetrio – che, a insaputa di Demetrio, era stato ordinato sacerdote dai vescovi Teoctisto di Cesarea e Alessandro di Gerusalemme.

Evidentemente il fatto più rilevante del pontificato di Ponziano – per quello che emerge dalle fonti – è la sua rinuncia all’ufficio di pontefice, rinuncia espressa con il termine tecnico «discinctus est»: si tratterebbe del primo caso nella storia del papato. Perché Ponziano rinuncia al pontificato? In primo luogo, potrebbe aver considerato realisticamente la sua situazione: non sarebbe uscito vivo dalla condanna e dalle sofferenze ad metalla, eppure la Chiesa aveva bisogno di un Pontefice che la guidasse; per questo, occorreva la propria personale e volontaria rinuncia. In secondo luogo, considerando che il sacerdote Ippolito condannato con lui era probabilmente il capo di una parte minoritaria e dissidente della comunità romana, il gesto di una abdicazione avrebbe significato una mano tesa verso l’unità e la riconciliazione.

sabato 27 settembre 2025

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 Buongiorno, oggi è il 27 settembre.

Il 27 settembre 1943 hanno inizio le quattro giornate di Napoli.

Ogni anno Napoli celebra in maniera potente e carica di ricordi, racconti, suggestioni, l'anniversario di quelle che sono passate alla storia come le Quattro Giornate di Napoli. Dal 27 al 30 settembre del 1943 i cittadini di Partenope insorsero e, con coraggio e determinazione, da soli cacciarono via le truppe naziste. Quando, il primo ottobre, gli Alleati fecero il loro ingresso in città, la trovarono sì devastata, ma già liberata: Napoli divenne così la prima città in tutta l'Europa occupata a cacciare via i soldati del Terzo Reich. L'intera città, inoltre, è stata insignita della medaglia d'oro al valore militare.

Quando i napoletani decidono di insorgere contro gli occupanti nazisti, il popolo è stremato da anni di guerra, da privazioni, dalla fame e dalla carestia: tra il 1940 e il 1943, inoltre, Napoli è oggetto di pesanti bombardamenti da parte degli Alleati. La scintilla che accende la rivolta, appunto, il 27 settembre del '43: nel corso di una retata tedesca vengono catturati migliaia di napoletani; centinaia di uomini, così, si armano e danno vita all'insurrezione. Uno dei primi scontri tra i napoletani e i tedeschi avvenne al Vomero, quartiere collinare della città, dove gli insorti arrestarono una vettura nazista, uccidendo il maresciallo alla guida. Sempre al Vomero, i napoletani assaltarono l'armeria di Castel Sant'Elmo e, al termine della prima giornata di scontri, anche gli arsenali delle caserme di via Foria e via Carbonara.

Fondamentale alla causa il contributo di Enzo Stimolo, tenente del Regio Esercito Italiano, considerato forse la vera e propria guida dell'insurrezione. Nei giorni successivi il popolo in rivolta – il numero dei cittadini armati cresceva sempre più – impedirono l'esecuzione di alcuni prigionieri sia al Bosco di Capodimonte che allo Stadio del Littorio (l'attuale Stadio Collana), mentre gli scontri proseguivano in tutta la città – causando ingenti vittime da una parte e dall'altra – che, nonostante l'insurrezione, i tedeschi continuavano a bombardare a colpi di cannone.

Il 29 settembre, forse, quella che può essere definita la svolta: il tenente Stimolo si recò presso il quartier generale tedesco in corso Vittorio Emanuele per trattare con il colonnello Walter Scholl. In cambio della liberazione dei cittadini prigionieri nello Stadio Collana, Stimolo concedeva a Scholl e alle truppe naziste di lasciare Napoli senza pericolo di ritorsioni, imboscate o rappresaglie. Il 30 settembre, nonostante avessero iniziato lo sgombero della città, i tedeschi continuarono a bombardare Napoli, colpendo soprattutto Materdei e Port'Alba, mentre nelle altre zone della città continuavano i combattimenti. In ritirata, i tedeschi non si fermarono con uccisioni, stragi e incendi. Quando, nella mattinata del primo ottobre, i primi carri Alleati provenienti da Nocera Inferiore entrarono in città, trovarono i cittadini stremati, le case rase al suolo, ma nemmeno l'ombra delle truppe della Wehrmacht: Napoli divenne così la prima città Europea a liberarsi dall'occupazione nazista.


venerdì 26 settembre 2025

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 Buongiorno, oggi è il 26 settembre.

il 26 settembre 1687 l'esercito veneziano, durante un assedio contro i Turchi, distrugge parzialmente il Partenone di Atene durante un bombardamento.

Il Partenone di Atene è il simbolo della Grecia Classica, essenza della bellezza ellenica conosciuta in tutto il mondo. Ciriaco d’Ancona, considerato il padre dell’Archeologia stessa, nel XV Secolo descrisse il Partenone come: “il meraviglioso tempio della dea Atena, opera divina di Fidia“. La storia di questo capolavoro di ingegno e creatività umana è tanto antica quanto triste per gli amanti della bellezza dei templi greci.

Durante i suoi 25 secoli di vita è stato usato con diverse finalità d’uso, fra cui tempio di Atena, chiesa cattolica e moschea musulmana, ma anche come “cava” per materiali da fortificazione e deposito di munizioni. Bizantini, Veneziani, Ottomani ma anche (e con maggior colpa) Inglesi e Francesi, in epoca moderna, hanno distrutto e spogliato delle sue magnifiche opere quello che fu un faro di cultura e bellezza rimasto quasi intatto per secoli e secoli di storia.

Progettato dagli architetti Callicrate, Ictino, e Mnesicle, facenti capo al direttore dei lavori e leggendario scultore greco Fidia, fu realizzato a seguito della distruzione del preesistente tempio di Atena Pòlias da parte dei persiani guidati da Serse, respinti dall’alleanza greca durante la seconda guerra Persiana.

Il tempio subì i primi danni durante il III e IV Secolo dopo Cristo. Di quel periodo è la caduta del tetto e la distruzione del colonnato interno, forse ad opera degli Eruli, forse di Alarico o, ancora, per cause naturali quali un terremoto o incendi accidentali. Sia il colonnato sia il tetto furono ricostruiti, con ogni probabilità somiglianti all’antica struttura del Tempio.

Durante il periodo di dominio della Grecia e dell’Attica da parte dei Bizantini, il tempio fu convertito (590 d.C.) in una chiesa dedicata alla “Madre di Dio”, Theotokos, e durante il brevissimo periodo dell’Impero Latino (1204-1261) divenne una chiesa cattolica. La necessità di trasformare le geometrie perfette dell’edificio in una chiesa secondo gli stilemi cattolici portò alla rimozione di diverse colonne interne, alla creazione di un abside e alla distruzione di molteplici metope scolpite da Fidia e dai suoi collaboratori. Il danno fu enorme ma, dove non era stato necessario modificare elementi progettuali, la struttura fu lasciata intatta.

Nel 1456 Atene fu conquistata dall’Impero Ottomano che, contrariamente a quanto si è soliti pensare, non distrusse le opere d’arte della città. Il Partenone, a quell’epoca una chiesa dedicata a Maria, fu convertito in una Moschea, costruendo un minareto. L’edificio non venne però significativamente danneggiato.

Il 26 Settembre 1687 un colpo di bombarda veneziana distrusse gran parte del Partenone, trasformato nell’occasione in polveriera dagli ottomani. Il tetto e praticamente tutto l’interno vennero dilaniati, lasciando ai posteri soltanto le briciole di una storia millenaria. Il colpo fu esploso durante le campagne veneziane di ri-conquista dei territori greci, il breve lasso di tempo (1687/1718) in cui la Serenissima rientrò in possesso di alcuni territori che aveva perso. Con un singolo colpo di mortaio i Greci videro sbriciolarsi buona parte della propria eredità culturale, un patrimonio senza pari nella storia umana.

Gran parte dei particolari di pregio che restavano del Partenone, nel XIX Secolo, vennero letteralmente saccheggiati dagli Inglesi e dai Francesi che, grazie ad un accordo fra questi ultimi e l’Impero Ottomano padrone della Grecia, non esitarono a spogliare il Partenone di tutte le rimanenti Metope e sculture presenti, o almeno quelle che riuscirono a trafugare. Essi non si limitarono a rubare le opere, ma distrussero anche parti limitrofe alle sculture, con il solo scopo di rubare le parti più preziose.

Famosi sono i “Marmi di Elgin”, una serie di sculture trafugate dal Partenone e portate al British Museum. Fra queste si trovano le metope che costituivano la magnifica decorazione dell’architrave che rappresentavano la presa di Troia, la Gigantomachia, l’Amazzonomachia e la Centauromachia. Altre sculture rubate furono il racconto della Genesi di Atena, della battaglia fra la Dea e Poseidone, il Re del Mare, per il dominio sulla regione Attica, ma anche l’intero fregio continuo che decorava, ancora, l’interno della cella contenente la statua della Dea e le sculture che raffiguravano le festività Panatenaiche.

Il grande poeta Lord Byron, che fu paladino della liberazione del popolo Greco contro i Musulmani, descrisse Elgin come il “predone” che saccheggiò “le misere reliquie di una terra sanguinante“.

L’impero Ottomano, sull’orlo del declino, perse il proprio dominio sui popoli greci durante il periodo che andò dal 1821 al 1832. Nel 1827 l’alleanza greca riuscì a liberare Atene, ma i turchi riuscirono ad apportare altri danni (qualora ve ne fosse stato ancora bisogno) all’antico Tempio di Atena. Durante l’ultimo assedio alla città, infatti, i Turchi asserragliati sull’Acropoli iniziarono a smontare pezzo per pezzo le colonne del Partenone, con lo scopo di ricavarne pallottole e materiale di fortificazione. I poveri Greci, disperati sotto l’Acropoli, arrivarono ad offrire le pallottole per combattere ai Turchi, purché non distruggessero (ulteriormente) il Tempio.

Nel 1839 Joly de Lotbinière scattò la prima fotografia conosciuta del Partenone, ritraendone la completa distruzione e la Moschea interna.

Di quello che fu un edificio di magnifica bellezza, rimasto sostanzialmente integro sino al XVII Secolo, oggi rimane ben poco. Gli stupendi Marmi, gli altorilievi e le sculture che resero l’opera di Fidia leggendaria in tutto il mondo sono distrutti o dispersi in musei lontano dalla propria terra d’origine. Le guerre e l’avidità degli Inglesi (in parte anche dei Francesi) hanno reso l’opera Architettonica più famosa della Grecia e una delle più famose al mondo un cumulo di pietre e macerie. Nonostante il Governo Greco abbia finanziato diversi restauri, lo stato dell’edificio è completamente differente rispetto a quello che era anche solo 400 anni orsono, quando aveva già 2.000 anni di storia.

Per ammirare il Partenone somigliante a come doveva essere durante l’Antichità si deve andare dall’altra parte del globo, a Nashville, in Tennessee, e osservare la fedele ricostruzione realizzata durante il 1897 per l’Esposizione Centennale del Tennessee, e poi trasformata in un edificio di calcestruzzo durante gli anni ’20 e ’30.

La speranza è che, il prima possibile, almeno le opere trafugate da Inglesi e Francesi tornino a casa sotto il sole di Atene, ospitate nel magnifico museo dell’Acropoli che, oggi, è adorno soltanto di copie recenti.


giovedì 25 settembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 25 settembre.

Il 25 settembre 2003 muore, all'età di 85 anni, il grande economista, premio Nobel, Franco Modigliani.

Franco Modigliani nasce nel 1918 a Roma da una famiglia di origine ebraica. Studia presso l’Università di Roma e si laurea nel 1939. Nello stesso anno, in seguito alla promulgazione delle leggi razziali, lascia l’Italia e si reca prima in Francia e poi negli Stati Uniti. L’intera carriera accademica di Modigliani ha luogo in questo Paese, inizia con un incarico presso la Columbia University e, dopo una serie di trasferimenti, si conclude con una cattedra presso il MIT di Boston. Nel 1985 riceve il premio Nobel per l’Economia. Modigliani muore a Boston nel 2003.

I principali contributi di Franco Modigliani alla teoria economica sono due e sono entrambi citati nelle motivazioni per il conferimento del premio Nobel. Il primo contributo è rappresentato dall’analisi delle decisioni di consumo e di risparmio. Il secondo contributo è il cosiddetto teorema Modigliani-Miller, che segna l’inizio della moderna corporate finance. Nel prosieguo sarà trattato solo il primo contributo. Il secondo è oggettivamente troppo complicato per essere discusso in questa sede e qualsiasi esemplificazione risulterebbe fuorviante. D’altra parte, fu Modigliani stesso a scegliere di discutere solo di consumo e risparmio nella sua Nobel Lecture.

Prima degli studi di Modigliani sulle decisioni di consumo e di risparmio il punto di vista dominante era quello di Keynes. Keynes credeva che il consumo aggregato di un paese dipendesse esclusivamente dal reddito aggregato dello stesso. Inoltre, per Keynes il consumo non cresceva allo stesso ritmo del reddito generando un ulteriore meccanismo per cui la domanda sarebbe stata insufficiente ad acquistare i beni prodotti. Dopo la morte di Keynes, tuttavia, Simon Kuznets aveva puntato l’indice contro questa teoria del consumo dimostrando empiricamente che la ridotta crescita del consumo rispetto al reddito era un fenomeno solo di breve periodo mentre nel lungo periodo consumo e reddito crescevano allo stesso ritmo.

Le evidenze di Kuznets scatenarono un animato dibattito all’interno delle teoria economica e Modigliani, insieme al suo allievo Richard Brumberg, partecipò attivamente a questo dibattito producendo una serie di articoli scientifici nei quali proponeva una nuova teoria del consumo. Alla base di questa nuova teoria si collocava innanzitutto l’osservazione che il consumo aggregato non fosse altro che la somma del consumo di tanti individui e che, pertanto, occorreva studiare meglio come si formano le decisioni di consumo di questi ultimi.

L’idea centrale di Modigliani era che gli individui preferiscono mantenere uno standard di consumo stabile nell’arco della loro vita anche se i loro redditi non sono affatto stabili. In particolare, i redditi sono di solito elevati nel corso della vita lavorativa e sono bassi quando ci si ritira dal mercato del lavoro. Questo significa che, per mantenere un consumo stabile, gli individui devono risparmiare nel corso della loro vita lavorativa e devono consumare il risparmio accumulato nel corso della loro vita da pensionati. Insomma, da giovani si ha un risparmio positivo in quanto si consuma di meno rispetto al reddito mentre da anziani si ha un risparmio negativo in quanto si consuma di più rispetto al reddito. Il risparmio aggregato è dato dalla somma algebrica del risparmio positivo dei giovani e di quello negativo degli anziani.

Si trattava di una teoria semplice e di buon senso. Dopo l’esposizione di Modigliani, molti si chiesero per quale ragione nessuno ci avesse pensato prima. La teoria entrò quindi subito a far parte del (ristretto) numero di idee veramente condivise da tutti gli economisti. Ancora oggi, la cosiddetta teoria del ciclo vitale di Modigliani è parte del bagaglio di conoscenze di qualsiasi economista.

Quali erano le implicazioni di questa teoria che al tempo risultavano più rilevanti? In primo luogo, la teoria implicava che il consumo di ogni generazione, nell’arco dell’intera vita, fosse pari ai redditi di quella generazione. Quindi, se il reddito cresceva di generazione in generazione per effetto del progresso economico così pure doveva accadere per il consumo. Ovvero, nel lungo periodo, reddito e consumo crescevano insieme allo stesso ritmo proprio come risultava dagli studi empirici di Kuznets. In secondo luogo, se il reddito corrente fosse cresciuto per qualche anno al di sopra della norma – in seguito ad un boom economico transitorio, ad esempio – gli individui non avrebbero consumato per intero tale aumento di reddito ma solo una piccola parte. La loro preferenza per un consumo stabile li avrebbe indotti a risparmiare buona parte di questi redditi aggiuntivi al fine di poterli poi “spalmare” sul consumo degli anni a venire. Questo significava che, nel breve periodo, il consumo cresceva meno rispetto al reddito proprio come aveva indicato Keynes.

La teoria di Modigliani riusciva dunque a mettere d’accordo Keynes e Kuznets e questo la rese immediatamente popolare all’interno della professione economica fin dai primi mesi della sua pubblicazione.

Ma la teoria del ciclo vitale consente di derivare anche altre implicazioni fondamentali per comprendere i fattori da cui dipende il risparmio di un paese. In primo luogo, il risparmio di un paese dipende dal suo tasso di crescita economica. Se la crescita economica è sostenuta allora il risparmio totale è positivo. Questo è vero perché i giovani di oggi, che hanno un risparmio positivo, percepiscono redditi più elevati rispetto ai giovani di ieri, che oggi sono anziani ed hanno un risparmio negativo. In secondo luogo, il risparmio complessivo dipende dalla dinamica demografica del paese. Se la dinamica demografica è vivace allora il risparmio totale è positivo. Infatti, se la dinamica è vivace il numero di giovani è superiore a quello degli anziani, ovvero il numero di coloro che hanno un risparmio positivo è superiore al numero di coloro che hanno un risparmio negativo. Infine, per ovvie ragioni, il livello di risparmio dipende dall’età media di pensionamento. Se il pensionamento avviene tardi nel ciclo di vita delle persone allora non sarà necessario risparmiare tanto ed il risparmio complessivo sarà inferiore.

Fino a questo punto è stato trattato il contributo di Modigliani alla scienza economica. L’economista, tuttavia, non era solo uno scienziato di grande valore ma anche un appassionato critico e, a volte, un influente ispiratore delle decisioni di politica economica che sono state adottate nel nostro Paese nel corso del trentennio che va dai primi anni settanta ai primi anni del duemila. Probabilmente, la questione su cui l’influenza di Modigliani e del suo allievo Ezio Tarantelli è stata più determinate è quella relativa all’abolizione della scala mobile.

La scala mobile era un meccanismo di indicizzazione automatica dei salari all’inflazione (il cosiddetto “costo della vita”) introdotto in Italia agli inizi degli anni ‘70. In linea di principio il meccanismo aveva un’ottima giustificazione in quanto consentiva di proteggere il potere di acquisto delle classi lavoratrici. Nella pratica, tuttavia, esso produceva un effetto collaterale perverso in quanto era parzialmente responsabile del circolo vizioso di rincorsa prezzi-salari alla base della elevata inflazione di quegli anni. I prezzi aumentavano perché le imprese dovevano pagare salari più elevati e i salari aumentavano perché la scala mobile li adeguava automaticamente ai prezzi (spirale prezzi-salari).

Il suggerimento di Modigliani e di Tarantelli al Governo tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ‘80 è quello di abolire la scala mobile e, allo stesso tempo, di annunciare un obiettivo di inflazione per il prossimo anno sulla base del quale sarebbero stati poi aggiornati i contratti salariali. Per Modigliani e Tarantelli, l’inflazione-obiettivo avrebbe anche svolto in automatico un secondo ruolo, quello di fare da riferimento per le imprese quando queste dovevano decidere l’adeguamento dei loro prezzi. Il ruolo di riferimento non è un semplice dettaglio. Infatti, se l’inflazione-obiettivo avesse svolto questo ruolo allora l’inflazione effettiva sarebbe stata proprio uguale a quella obiettivo e questo avrebbe comportato una salvaguardia del potere di acquisto delle classi lavoratrici senza ricorrere agli automatismi della scala mobile. In definitiva, abolire la scala mobile ed introdurre il meccanismo di adeguamento basato sull’inflazione-obiettivo avrebbe attenuato la spirale prezzi-salati senza pregiudicare il potere d’acquisto delle classi più deboli.

Lo smantellamento della scala mobile avverrà per tappe successive nel corso degli anni ’80 e la sua abolizione definitiva avrà luogo solo nel 1993. Al tempo in cui Modigliani e Tarantelli iniziarono a denunciarne gli effetti negativi il clima non era certo favorevole a questo tipo di denunce. Ezio Tarantelli, il più esposto dei due nel dibattito politico-sindacale sulla scala mobile, verrà assassinato dalle Brigate Rosse nel 1985.

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