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giovedì 1 maggio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il primo maggio.

Il primo maggio 1786 viene messa in scena per la prima volta a Vienna l'opera "le nozze di Figaro", di Mozart.

Le nozze di Figaro, ossia la folle giornata (K 492), è un'opera lirica di Wolfgang Amadeus Mozart. È la prima delle tre opere italiane scritte dal compositore salisburghese su libretto di Lorenzo Da Ponte.Musicato da Mozart all'età di ventinove anni, il testo dapontiano fu tratto dalla commedia Le mariage de Figaro di Beaumarchais (autore della trilogia di Figaro: Il barbiere di Siviglia, Le nozze di Figaro e La madre colpevole).

La trama è di fatto la continuazione di quella del Barbiere di Siviglia, portato alla fama dall'opera omonima di Gioachino Rossini. Le nozze di Figaro, una delle più famose opere di Mozart, è la prima di una serie di felici collaborazioni tra Mozart e da Ponte, che ha portato alla creazione del Don Giovanni e Così fan tutte. Fu Mozart stesso a portare una copia della commedia di Beaumarchais a Da Ponte che l'ha adattata a libretto in sei settimane. Da Ponte la tradusse in lingua italiana (ai tempi la lingua ufficiale dell'opera lirica) e rimosse gli elementi di satira politica dalla storia.

Eppure fu solo dopo aver convinto l'imperatore Giuseppe II della rimozione delle scene più discusse che questo diede il permesso di presentare l'opera. Così Le nozze di Figaro, finita di comporre il 29 aprile, fu messa in scena al Burgtheater di Vienna, il 1 maggio, 1786. L'opera è in quattro atti e ruota attorno alle trame del Conte d'Almaviva, invaghito della cameriera della Contessa, Susanna, sulla quale cerca di imporre lo "ius primae noctis". La vicenda si svolge in un intreccio serrato e folle, in cui donne e uomini si contrappongono nel corso di una giornata di passione travolgente, piena sia di eventi drammatici che comici, e nella quale alla fine i “servi” si dimostrano più signori e intelligenti dei loro padroni. L'opera è per Mozart (e prima di lui per Beaumarchais) un pretesto per prendersi gioco delle classi sociali dell'epoca che da lì a poco saranno travolte nei fatti con la Rivoluzione francese.

Atto I

Il mattino del giorno delle proprie nozze, Figaro e Susanna sono nella stanza che il Conte ha destinato loro. Figaro misura la stanza mentre Susanna si prova il cappello che ha preparato per le nozze. Figaro si compiace della generosità del Conte, ma Susanna insinua che quella generosità non è disinteressata: il Conte vuol rivendicare lo ius primae noctis, che egli stesso aveva abolito. Le brame del Conte sono favorite da Don Basilio, maestro di musica. Figaro si irrita e trama una vendetta. Anche la non più giovane Marcellina è intenzionata a mandare all'aria i progetti di matrimonio di Figaro e reclama, con l'aiuto di Don Bartolo, il diritto a sposare Figaro in virtù di un prestito concessogli in passato e mai restituito. Don Bartolo, del resto, gode all'idea di potersi vendicare dell'ex "barbiere di Siviglia", che aveva aiutato il Conte a sottrargli Rosina, l'attuale Contessa. Entra il paggio Cherubino per chiedere a Susanna di intercedere in suo favore presso la Contessa: il giorno prima il Conte, trovandolo solo con Barbarina (figlia dodicenne del giardiniere Antonio), si è insospettito e lo ha cacciato dal palazzo. L'arrivo improvviso del Conte lo costringe a nascondersi e ad assistere suo malgrado alle proposte galanti che il Conte rivolge alla cameriera. Ma anche il Conte deve nascondersi a Don Basilio, che rivela a Susanna le attenzioni rivolte dal paggio alla Contessa. Spinto dalla gelosia, il Conte esce dal nascondiglio, poi, scoprendo a sua volta il paggio, monta su tutte le furie. Entrano i contadini che ringraziano il Conte per aver abolito il famigerato ius primae noctis.

Il Conte, con un pretesto, rimanda il giorno delle nozze e ordina la partenza immediata di Cherubino per Siviglia dove dovrà arruolarsi come ufficiale del suo reggimento. Figaro si prende gioco del paggio con una delle arie più celebri dell'opera, "Non più andrai, farfallone amoroso".

Atto II

Susanna rivela all'addolorata Contessa le pretese del Conte. Entra Figaro ed espone il suo piano di battaglia: ha fatto pervenire al Conte un biglietto anonimo dove si afferma che la Contessa ha dato un appuntamento a un ammiratore per quella sera. Quindi suggerisce a Susanna di fingere di accettare l'incontro col Conte: Cherubino (che non è ancora partito) andrà al posto di lei vestito da donna, così la Contessa smaschererà il marito, cogliendolo in fallo. Tuttavia, mentre il travestimento del paggio è ancora in corso, il Conte sopraggiunge e, insospettito dai rumori provenienti dalla stanza attigua (dove la Contessa ha rinchiuso Cherubino), decide di forzare la porta. Ma Cherubino riesce a fuggire saltando dalla finestra e Susanna ne prende il posto.

Quando dal guardaroba esce Susanna invece di Cherubino, il Conte è costretto a chiedere perdono alla moglie. Entra Figaro che spera di poter finalmente affrettare la cerimonia nuziale.

Irrompe però il giardiniere Antonio che afferma di aver visto qualcuno saltare dalla finestra della camera della Contessa. Figaro cerca di parare il colpo sostenendo di essere stato lui a saltare. Ma ecco arrivare con Don Bartolo anche Marcellina che reclama i suoi diritti: possiede ormai tutti i documenti necessari per costringere Figaro a sposarla.

Atto III

Mentre il conte si trova nella sua libreria pensoso, la Contessa spinge Susanna a concedere un appuntamento galante al Conte, il quale però si accorge dell'inganno e promette di vendicarsi.

Il giudice Don Curzio entra con le parti contendenti e dispone che Figaro debba restituire il suo debito o sposare Marcellina. Ma da un segno che Figaro porta sul braccio si scopre ch'egli è il frutto di una vecchia relazione tra Marcellina e Don Bartolo, i quali sono quindi i suoi genitori.

La Contessa intanto, determinata a riconquistare il marito, detta a Susanna un bigliettino, sigillato da una spilla, per l'appuntamento notturno da far avere al Conte. Modificando il piano di Figaro, e agendo a sua insaputa, le due donne decidono che sarà la stessa Contessa e non Cherubino a incontrare il Conte al posto di Susanna.

Mentre alcune giovani contadine recano ghirlande per la Contessa, Susanna consegna il biglietto galante al Conte che si punge il dito con la spilla. Figaro è divertito: non ha visto, infatti, chi ha dato il bigliettino al Conte. Poi si festeggiano due coppie di sposi: oltre a Susanna e Figaro, anche Marcellina e Don Bartolo.

Atto IV

È ormai notte e nell'oscurità del parco del castello Barbarina sta cercando la spilla che il Conte le ha detto di restituire a Susanna, e la fanciulla ha perduto. Figaro capisce che il biglietto ricevuto dal Conte gli era stato consegnato dalla sua promessa sposa e credendo ad una nuova trama, si nasconde per sorprendere i due 'amanti'. Susanna, che ha udito non vista le rampogne di Figaro, si sente offesa dalla sua mancanza di fiducia e decide di farlo stare sulle spine. Entra allora Cherubino e, vista Susanna, (che è in realtà la Contessa travestita) decide di importunarla; nello stesso momento giunge il Conte il quale, dopo aver scacciato il Paggio, si mette a corteggiare quella che crede essere la sua amante.

Fingendo di veder arrivare qualcuno, la Contessa travestita da Susanna fugge nel bosco mentre il Conte va a vedere cosa succede; nel contempo Figaro, che stava spiando gli amanti, rimane solo e viene raggiunto da Susanna travestita da Contessa. I due si mettono a parlare ma Susanna durante la conversazione dimentica di falsare la propria voce e Figaro la riconosce. Per punire la sua promessa sposa, questi non le comunica la cosa ma rende le proprie avances alla Contessa molto esplicite. In un turbinio di colpi di scena, alla fine Figaro chiede scusa a Susanna per aver dubitato della sua fedeltà mentre il Conte, arrivato per la seconda volta, scorge Figaro corteggiare quella che crede essere sua moglie; interviene a questo punto la vera Contessa che, con Susanna, chiarisce l'inganno davanti ad un Conte profondamente allibito. Allora questi implora con sincerità il perdono della Contessa e le nozze tra Figaro e Susanna si possono finalmente celebrare; la "folle giornata" si chiude così in modo festoso.

Nelle Nozze di Figaro Mozart abbandona le convenzioni settecentesche dello stile vocale italiano, caratterizzato da tessiture molto acute e da un pronunciato virtuosismo, a favore di nuove sfaccettature sia liriche che drammatiche: dunque riorganizza l'ordinaria e topica costellazione dei personaggi dell'opera buffa, associando ai vari caratteri determinate tinte sociali, e dando vita a nuovi tipi sociopsicologici che si sarebbero poi instaurati nella futura visione operistica europea.

Sul frontespizio del libretto leggiamo soltanto tre tipi vocali: basso, soprano e tenore, corrispondenti al “triangolo” tradizionale dell'opera buffa. Mancano i termini baritono e mezzosoprano, semplicemente perché ancora non esistevano.

Considerando la partitura e la tessitura vocale ricavabile da essa riusciamo a cogliere e a comprendere le sfumature indicate dal compositore e la scelta moderna dei ruoli vocali: Figaro, basso, è in realtà un basso-baritono, visto il timbro più brillante e più chiaro; Conte è un basso con una tessitura più acuta, che nell'Ottocento prenderà senz'altro il nome di baritono; Antonio e Bartolo, interpretati nella prima rappresentazione dallo stesso cantante Francesco Bussani, sono entrambi due bassi buffi.

Mozart affida la dicitura di soprano a tutte le donne dell'opera, differenziandone minuziosamente il carattere: Susanna, soprano lirico che si avvicina al soprano di mezzo-carattere; Contessa, soprano lirico tendente al drammatico; Barbarina, soprano leggero; Marcellina è il mezzosoprano ed antagonista; Cherubino, mezzosoprano.

La parte più sacrificata è quella del tenore lasciata a Don Curzio e Basilio. Secondo la critica del Chronik von Berlin (1790) ciò doveva essere senz'altro dipeso dalla mancanza di tenori di spessore nel cast a vantaggio delle voci gravi.

Con la ripresa viennese dell'opera (quella del 29 agosto del 1789) Mozart modificò la partitura variando alcune parti del ruolo di Susanna, avendo a disposizione una nuova interprete: Adriana Ferrarese, già interprete di Fiordiligi nel Così fan tutte, e pertanto non da meno alla precedente Nancy Storace. I cambi riguardano due arie: “Venite inginocchiatevi” (II, 2) e “Deh vieni non tardare, o gioia bella” (IV,10) sostituite dalle meno articolate a livello musicale e meno incisive dal punto di vista drammaturgico “Un moto di gioia” e “Al desio di chi t'adora”.

La versione viennese non è stata mai preferita alla “tradizionale” (le due arie sono in genere di solito eseguite come «arie da concerto» anche se Mozart non le aveva affatto concepite come tali).

Soltanto nel 1998 al Metropolitan di New York, il direttore d'orchestra James Levine e l'allora Susanna Cecilia Bartoli decisero di introdurre in alcune recite delle Nozze le due arie sostitutive. Tale scelta fece sorgere un pubblico scandalo quando il regista, Jonathan Miller, contrario alla scelta, sollevò la questione durante la serata inaugurale a sipario aperto.

La sua visione non mutò negli anni, infatti nel 2003 in un'intervista al Paris Rewiew, ribadì la sua idea a tal proposito, ovvero che le due arie erano estranee ad una rappresentazione scenica visti i testi troppo poco congeniali alla drammaturgia. Questa posizione sia dal punto di vista storico che estetico è da considerarsi lontana dalla verità: le arie non nascono come arie da concerto e sta al regista doverle inserire nel contesto e al cantante renderle vicine al personaggio.

Esistono altre due varianti testuali, forse anch'esse nate per la ripresa viennese: il recitativo Marcellina-Susanna e Cavatina di Marcellina, in sostituzione del celeberrimo Duettino “Via resti servita” (I,4) ; Il Recitativo accompagnato per Figaro, al posto del Recitativo secco “Ehi capitano” che precede “Non più andrai farfallone amoroso”, (I,8).

mercoledì 30 aprile 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 30 aprile.

Il 30 aprile 1945 la battaglia di Monte Casale segnò l'ultimo combattimento vero e proprio sul suolo italiano nella Seconda Guerra Mondiale.

La  colonna di mezzi corazzati del 68° Rgt. Fanteria " Legnano " quel mattino del 30 Aprile transitava sulla Verona-Brescia all'altezza di Ponti sul Mincio, ignara di una minaccia che si sarebbe manifestata di lì a poco, nella festa generale di paesi liberati e nel tripudio di tricolori.

All’inizio della colonna si trovava la 104° Compagnia del IX Reparto d’Assalto seguita dalla 4° e l’8°; una volta raggiunta Peschiera, nelle ore più calde che precedono il pranzo, gli Arditi furono circondati da una folla festante per effetto della liberazione. L’emozione di trovarsi li e vedere gli Italiani di nuovo liberi dall’oppressione Nazista fu interrotta da un capitano del II Corpo d’Armata il quale chiedeva al comandante della compagnia  Arditi di intervenire proprio nella zona di Ponti sul Mincio per attaccare un reparto tedesco posizionato su Monte Casale che colpiva dal monte tutti i mezzi in transito su quella rotabile.

Il comandante della compagnia si trovò a decidere nel bel mezzo della festa se continuare con gli ordini avuti in precedenza e quindi raggiungere Brescia o andare in aiuto dei partigiani della “Avesani” che già dalla mattina stavano impegnando i Tedeschi nel combattimento.

Il comandante osservava gli Arditi e rifletteva, scorrevano nella sua mente le immagini dei combattimenti fatti fino a quel momento e del sangue versato, ed ora che tutto sembrava finito ancora una volta occorreva entrare in contatto con il nemico.

La decisione fu presa, erano Italiani, erano Arditi e partirono in aiuto dei partigiani.

Il Capitano Americano guidò gli Arditi fino al contatto con il comandante “Bruto” della formazione partigiana “Avesani”. Qui studiò il terreno e osservò che nei combattimenti della mattina avevano perso già due uomini e circa ottanta tedeschi erano arroccati su quella piccola collina denominata monte Casale in onore della Brigata “Casale” che qui si scontrò durante la Prima Guerra d’Indipendenza.

I reparti tedeschi appartenevano alle SS ed alla Flak ed erano decisi a non mollare, senza paura, senza speranza, si erano arroccati all’interno di strutture militari costruite in precedenza, forse per una postazione di contraerea.

Gli arditi cercarono di indebolire le difese con l’intervento di mortai da 3 pollici e cannoni da 57-50 mentre fendevano la linea dell’orizzonte con mitragliatrici da 12,7; subito dopo partirono all’assalto.

Alle 13:30 si mossero frontalmente al nemico mentre i partigiani iniziavano la loro azione sulla destra.

La forza d’attacco degli Arditi era di 30 uomini, compresi i volontari arrivati dai plotoni mortai, plotoni cannoni e dai piloti dei carri; questi erano gli Arditi della Guerra di Liberazione, questi i ragazzi della Legnano, questi gli attori del Secondo Risorgimento Italiano.

Nelle sue memorie, il comandante di quel plotone riporta l’emozione  di vedere tutti quei volontari andare incontro alla possibile morte.

Superarono di corsa il prato, che separava la strada dalla collina e si ritrovarono, all’inizio della salita e del bosco con un solo ferito, ed iniziarono a strisciare nel sottobosco.

I tedeschi risposero, facendo fuoco con tutto quello che avevano, martellando la pianura e la base della collina, erano difficili da individuare, perfettamente mimetizzati all’interno del bosco, dentro buche e camminamenti.

Incontrarono e superarono anche un reticolato, posto alla base della collina, lo fecero passandoci sotto, non curanti delle punte aguzze ed arrugginite; l’unico ardito che tentò di saltarlo fu falciato dalle mitragliatrici, era l’ardito Marcon, un volontario del plotone cannoni forse poco esperto.. ma non meno coraggioso.

Gli Arditi partirono all’attacco e per tre ore entrarono nelle buche, e nei camminamenti conquistando postazioni di mitragliatrici e mortai; i combattimenti sono corpo a corpo, mentre a Peschiera e Brescia si festeggia con in mano le bottiglie di vino, gli Arditi hanno in mano i pugnali insanguinati ed infieriscono sulla carne del nemico, per poi ricordarlo negli incubi fino all’ultima delle loro notti.

Lanciano le bombe a mano e si gettano nei cunicoli quando ancora il fumo rende l’aria irrespirabile e finiscono gli avversari in abbracci mortali, mentre a pochi chilometri gli abbracci sono di gioia tra donne e soldati.

Gli Arditi urlano, muoiono, chiedono soccorso, le grida in italiano e tedesco rompono la pace di quel sottobosco, nella calura di un pomeriggio di primavera.

Con il coraggio e con tutto quanto li faceva essere Arditi e quindi migliori, ebbero alla fine la meglio sugli avversari che man mano si arrendevano, alzando le mani al cielo tra i raggi di sole che filtravano tra le fronde dei rami di quella collina finalmente conquistata.

L’aspetto del nemico era fiero e disperato allo stesso momento, tutto gli stava crollando intorno, tutte le certezze di un regime che li aveva illusi adesso non c’erano più e l’unica certezza erano i propri cari, il rifugio dell’uomo quando si scopre solo e vinto.

Il comandante delle SS fu ferito alla 16:30, era un tenente, dal volto fiero e provato dalla  fatica, con lui si arresero tutti gli altri e la pace tornò su quella collina forse mentre un soldato ed una ragazza si davano il primo bacio sul lungo lago di Peschiera, conquistati dal troppo vino o dalla troppa voglia di ricominciare a vivere.

Per gli Arditi di Monte Casale, quel tempo doveva ancora venire, poggiate le armi in terra era il momento di raccogliere i caduti e soccorrere i feriti.

Alla sommità della collina c’era un piccola casetta, fu il teatro principale degli scontri, qui raccolsero i caduti trovati nel bosco, per poi riportarli a valle con l’aiuto di tutti.

Tra di loro anche un Americano, la sua guerra, che poteva essere finita nella gioia di Peschiera, aveva avuto un ultimo sussulto nella voglia di seguire gli Arditi, perché all’amicizia non si comanda e Richard Albert Carlson partì all’assalto come gli altri della squadra del Serg. Mag. Serpentini per poi lasciare la sua giovane vita su quella collina accanto ai suoi amici italiani.

Tra tutti li colpisce l'Ardito Benedetti, il suo corpo è l’inno degli Arditi, ma anche un tonfo per i cuori più provati.

Lo sentirono gridare a voce alta durante i combattimenti: «Viva l’Italia! » e lo videro saltare in una trincea col pugnale in mano.

Perso di vista lo ritrovarono nella trincea abbracciato ad un tedesco entrambi con un pugnale nel cuore.  

I caduti in totale saranno sei mentre i feriti quattro.

Tornati sulla strada, inviarono i feriti all’ospedale, misero i caduti sul carro di testa, per rendere gli onori, e salirono insieme ai nemici sui carri di coda, in colonna, tutti insieme; in quell’assurdo susseguirsi di scene che fanno della fine di ogni battaglia il racconto del rispetto tra vincitori e vinti, che durerà fino all’ultimo dei loro giorni.

martedì 29 aprile 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 29 aprile.

Il 29 aprile 1969 Duke Ellington riceve la medaglia presidenziale della Libertà.

Duke Ellington (il cui vero nome era Edward Kennedy) nasce il 29 aprile 1899 a Washington. Inizia a suonare in maniera professionale ancora adolescente, negli anni Dieci, nella sua città natale come pianista. Dopo alcuni anni trascorsi a esibirsi in locali da ballo insieme con Otto Hardwick e Sonny Greer, grazie a quest'ultimo si trasferisce a New York nel 1922, per suonare con il gruppo di Wilbur Sweatman; l'anno seguente, viene ingaggiato con la "Snowden's Novelty Orchestra", che include, oltre ad Hardwick e Greer, anche Elmer Snowden, Roland Smith, Bubber Miley, Arthur Whetsol e John Anderson. Divenuto il leader della band nel 1924, ottiene un contratto con il "Cotton Club", il locale più famoso di Harlem.

Poco dopo l'orchestra, che nel frattempo ha preso il nome di "Washingtonians", vede aggiungersi Barney Bigard al clarinetto, Wellman Braud al contrabbasso, Louis Metcalf alla tromba e Harry Carney e Johnny Hodges al sassofono. I primi capolavori di Duke risalgono proprio a quegli anni, tra spettacoli pseudo-africani ("The mooche", "Black and tan fantasy") e brani più intimisti e d'atmosfera ("Mood Indigo"). Il successo non tarda ad arrivare, anche perché il jungle si rivela particolarmente gradito ai bianchi. Dopo aver accolto nel gruppo anche Juan Tizol, Rex Stewart, Cootie Williams e Lawrence Brown, Ellington chiama anche Jimmy Blanton, che rivoluziona la tecnica del suo strumento, il contrabbasso, elevato al rango di solista, come un pianoforte o una tromba.

Alla fine degli anni Trenta, Duke accetta la collaborazione di Billy Strayhorn, arrangiatore e pianista: diventerà il suo uomo di fiducia, addirittura un suo alter ego musicale, anche dal punto di vista della composizione. Tra le opere che vedono la luce tra il 1940 e il 1943 si ricordano "Concerto for Cootie", "Cotton Tail", "Jack the Bear" e "Harlem Air Shaft": si tratta di capolavori che difficilmente possono essere etichettati, poiché vanno al di là di schemi interpretativi ben definiti. Lo stesso Ellington, parlando dei propri brani, si riferisce a quadri musicali, e alla sua capacità di dipingere attraverso i suoni (egli, non a caso, prima di intraprendere la carriera musicale aveva manifestato interesse per la pittura, desiderando diventare cartellonista pubblicitario).

Dal 1943, il musicista tiene concerti presso la "Carnegie Hall", tempio sacro di un certo genere di musica colta: in quegli anni, inoltre, il gruppo (che pure era rimasto unito per moltissimi anni) perde alcuni pezzi come Greer (che deve fare i conti con problemi di alcol), Bigard e Webster. Dopo un periodo di appannamento nei primi anni Cinquanta, corrispondente all'uscita di scena dell'altosassofonista Johnny Hodges e del trombonista Lawrence Brown, il grande successo ritorna con l'esibizione del 1956 al "Festival del Jazz" di Newport, con l'esecuzione, tra l'altro, di "Diminuendo in Blue". Questo brano, insieme a "Jeep's Blues" e a "Crescendo in Blue", rappresenta la sola registrazione live del disco, uscito nell'estate di quell'anno, "Ellington at Newport", che invece contiene numerose altre tracce che sono dichiarate "live" pur essendo state incise in studio e mixate con applausi finti (solo nel 1998 il concerto integrale verrà pubblicato, nel doppio disco "Ellington at Newport - Complete"), grazie alla scoperta casuale dei nastri di quella sera da parte dell'emittente radiofonica "The voice of America".

Dagli anni Sessanta, Duke è sempre in giro per il mondo, impegnato tra tour, concerti e nuove registrazioni: si segnalano, tra le altre, la suite del 1958 "Such sweet thunder", ispirata a William Shakespeare; quella del 1966 "Far East suite"; e quella del 1970 "New Orleans suite". In precedenza, il 31 maggio del 1967 il musicista di Washington aveva interrotto la tournée in cui era impegnato in seguito alla morte di Billy Strayhorn, il suo collaboratore che era anche diventato suo intimo amico, dovuta a un tumore all'esofago: per venti giorni, Duke non era mai uscito dalla sua camera da letto. Superato il periodo di depressione (per tre mesi si era rifiutato di tenere concerti), Ellington torna a lavorare con la registrazione di "And his mother called him", celebre album che include alcune tra le partiture più celebri del suo amico. Dopo il "Second Sacred Concert", registrato con l'interprete svedese Alice Babs, Ellington deve fare i conti con un altro evento funesto: durante una seduta dentistica, Johnny Hodges muore a causa di un infarto l'11 maggio del 1970.

Dopo aver accolto nella sua orchestra, tra gli altri, Buster Cooper al trombone, Rufus Jones alla batteria, Joe Benjamin al contrabbasso e Fred Stone al flicorno, Duke Ellington nel 1971 ottiene dal Berklee College of Music un Honorary Doctorate Degree e nel 1973 dalla Columbia University un Honorary Degree in Music; muore a New York il 24 maggio 1974 a causa di un cancro ai polmoni, al fianco del figlio Mercer, e a pochi giorni di distanza dalla morte (avvenuta a sua insaputa) di Paul Gonsalves, suo fidato collaboratore, deceduto a causa di un'overdose di eroina. Le sue spoglie riposano nel Woodlawn Cemetery di New York, nel Bronx, lo stesso in cui si trovano le tombe di Miles Davis e Lionel Hampton.

Direttore d'orchestra, compositore e pianista vincitore, tra l'altro, di un Grammy Lifetime Achievement Award e di un Grammy Trustees Award, Ellington è stato nominato "Medaglia presidenziale della libertà" nel 1969 e "Cavaliere della Legion d'Onore" quattro anni più tardi. Ritenuto unanimemente uno dei compositori più importanti statunitensi del suo secolo e uno dei più significativi della storia del jazz, ha toccato, nel corso della sua ultra-sessantennale carriera, anche generi diversi come la musica classica, il gospel ed il blues.

lunedì 28 aprile 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 28 aprile.

Il 28 aprile 1990 va in scena a Broadway l'ultima replica del Musical "a chorus line", dopo quasi 15 anni dalla prima.

Quando è storia, è storia. "A CHORUS LINE", da quella leggendaria sera del 25 luglio 1975 in cui andò in scena al Public Theatre, dove 300 persone sedute sui 300 posti "off broadway" si passarono subito parola, è diventato il re dei "musical". Non solo perché ha battuto tutti i record di gradimento e programmazione (trasferitosi subito "in" Broadway per merito dell’impresario shakespeariano Joseph Papp, è rimasto in scena alla Shubert Theatre 15 anni fino al 28 aprile ’90, 6137 repliche), diventando nell’85 anche un film di Sir Richard Attenborough con Michael Douglas, ma perché ha rivoluzionato la tecnica, e, si può dire, la morale di questo genere di spettacolo che nasce direttamente dalla costola del teatro americano.

Il musical si è così creato sera per sera, adattandosi ai suoi protagonisti che sono mutati nel corso del tempo: giacché si tratta di teatro nel teatro, ovvero come un regista "manhattese" passa un pomeriggio di audizioni per scegliere il balletto di un nuovo spettacolo. Ragazzi e ragazze pronti a sgambettare sotto i riflettori traslocando da una città all’altra, col cuore protetto dalle insegne al neon (in americano li chiamano "gipsies", zingari) si "confessano" in palcoscenico sulla "chorus line", la linea bianca che delimita lo spazio del balletto di fila da quello delle star.

"A CHORUS LINE" è soprattutto un omaggio al teatro, all’etica del "si va in scena", dei sacrifici occulti che gli attori sostengono e dei traumi che vivono, perché ogni volta che si apre il sipario ciascuno porta alla ribalta un pezzo della propria vita. Nel musical probabilmente sapete come va a finire, qualcuno verrà scelto, qualcun altro no (tu, tu, tu, tu e gli altri a casa, la prossima volta, grazie), ma tutti alla fine, come per magia, appariranno in lustrini, paillettes a dirci cantando "one", il motivo più orecchiabile dello show, che si tratta comunque di una "singular sensation".

Una singolare sensazione che prende anche il pubblico. Il musical infatti ci commuove ribaltando le classiche convinzioni del genere, che ha fatto i primi passi (vedi i film hollywoodiani degli anni ruggenti) proprio curiosando dietro le quinte, quando anonime "girls" uscivano tremanti in palcoscenico e tornavano in camerino "stelle", come ha sempre insegnato "Quarantaduesima Strada". Ma Michael Bennett, il regista che per primo mise in scena "A CHORUS LINE" non solo ha intuito un potenziale di attori, ma ha adeguato la grande trovata del testo di Kirkwood e Dante, ritmato dalle bellissime musiche di Marvin Hamlish, ai tempi interiori ed esteriori del teatro moderno. Poche scene, anzi nessuna, solo uno specchio sullo sfondo, ed un gioco "elettrico" che cambia continuamente voltaggio tra finzione e realtà.

Se insomma "Quarantaduesima Strada" raccontava i pettegolezzi dei camerini, "A CHORUS LINE" ha un modo di esprimersi netto, preciso, diverso, in cui ogni aspirante ballerino racconta, già esibendosi, come e perché si trova lì.

Ed ecco quindi brandelli di vita vissuta, ora amari, ora buffi, ora divertenti, come una seduta psicoanalitica cantata e ballata.

E dopo il verdetto del regista, il musical si impenna, sogna, e diventa per un attimo fuggente sfarzoso: il doppio sogno di un musical alla sera della prima. Lo spettacolo che ha vinto 9 Tony Awards ed il premio Pulitzer, ha rivoluzionato il musical, perché davvero, per la prima volta, adopera sullo stesso piano il testo, la musica, la coreografia ed il personale carisma degli attori, che diventano subito amici e nostri complici, portandoci per mano in una visita guidata tra illusioni e delusioni del teatro moltiplicati all’infinito dallo specchio. La simpatia sta nell’affiatamento che nasce sul palcoscenico, dove i nuovi talenti si fanno le ossa e magari utilizzano un poco di autobiografia. Perché il fascino di questo show appartiene all’eterno della domanda sul bisogno della finzione, quando la curva del teatro incontra, complice un refrain, quello della poesia.


domenica 27 aprile 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 27 aprile.

Il 27 aprile 1923 nasce Lelio Luttazzi.

Durante la sua lunga e prestigiosa carriera Lelio Luttazzi è stato musicista, cantante, compositore, direttore d'orchestra, attore e presentatore tv.

Nato a Trieste il 27 aprile 1923 è figlio di Sidonia Semani (maestra elementare a Prosecco, paesino nelle vicinanze di Trieste) e di Mario Luttazzi.

E' grazie al parroco di Prosecco che il giovane Lelio si avvicina alla musica e allo studio del pianoforte.

Studia presso il Liceo Petrarca di Trieste, dove instaura una profonda amicizia con il compagno di classe Sergio Fonda Savio, nipote di Italo Svevo.

Prosegue gli studi iscrivendosi alla facoltà di Giurisprudenza presso l'Università di Trieste; durante questi anni - in cui scoppia la Seconda guerra mondiale - Lelio Luttazzi inizia a suonare il pianoforte a Radio Trieste; compone inoltre le sue prime canzoni.

Il 1943 è caratterizzato da un incontro che cambia la sua vita: assieme ad altri compagni di ateneo, Lelio si esibisce al teatro Politeama in uno spettacolo musicale; i ragazzi aprono il concerto di Ernesto Bonino, cantante torinese molto in voga all'epoca. Quest'ultimo rimane tanto colpito da Luttazzi che al termine dell'esibizione gli chiede di comporre una canzone per lui.

Lelio accetta la sfida: dopo poco tempo invia il suo pezzo e Bonino nel 1944 lo incide su vinile. La canzone è la celeberrima "Il giovanotto matto", che diventa un grande successo.

Finita la guerra la SIAE riconosce a Luttazzi un guadagno di 350.000 lire, che allora era davvero da considerarsi una somma notevole. Lelio non ha più dubbi, vuole intraprendere la carriera di musicista, così decide di abbandonare l'università. Nel 1948 si trasferisce a Milano e inizia a lavorare come direttore musicale con il concittadino Teddy Reno, presso la casa discografica CGD. Per Teddy Reno nel 1948 scrive "Muleta mia".

Due anni più tardi (1950) diventa direttore d'orchestra a Torino per la RAI. Lelio Luttazzi dà il via a una strepitosa carriera che lo vedrà imporsi come artista a tutto tondo.

Tra il 1954 e il 1956 lavora nel programma radiofonico a quiz "Il motivo in maschera", presentato da Mike Bongiorno. Intanto scrive canzoni dal carattere apertamente jazz, piene di swing, interpretandole al pianoforte e cantandole in uno stile molto personale: tra le più note ricordiamo "Senza cerini", "Legata ad uno scoglio", "Timido twist", "Chiedimi tutto". Compone brani immortali quali "Una zebra a pois" (cantata da Mina), "Vecchia America" (per il Quartetto Cetra), "Eccezionalmente, sì" (per Jula De Palma), "You'll say to-morrow" (registrato in italiano da Sophia Loren). Di questo periodo è anche "El can de Trieste", da Lelio stesso cantata in dialetto triestino.

Come conduttore televisivo presenta trasmissioni come "Studio 1" (con Mina), "Doppia coppia" (con Sylvie Vartan), "Teatro 10".

Lelio Luttazzi è anche attore: recita in "L'avventura" di Michelangelo Antonioni e ne "L'ombrellone" di Dino Risi.

Compone poi la colonna sonora di diversi film tra cui "Totò, Peppino e la malafemmina", "Totò lascia o raddoppia?" e "Venezia, la luna e tu".

La trasmissione che più di tutte gli procura grande fama è la radiofonica "Hit Parade", una vetrina settimanale dei dischi più venduti, andata in onda ininterrottamente per 10 anni dal 1966 al 1976.

Proprio mentre si trova all'apice del suo successo, nel giugno del 1970 la vita di Lelio Luttazzi viene scossa da un fulmine: con l'accusa di detenzione e spaccio di stupefacenti l'artista viene arrestato, assieme all'attore Walter Chiari. Dopo circa un mese di carcere è libero di uscire, completamente scagionato. Durante gli anni successivi a questo fatto - che profondamente lo segna - rimane amareggiato dalla lapidazione mediatica cui viene sottoposto. Lavora saltuariamente tra radio e tv, preferendo alla fine ritirarsi a vita privata.

Dopo il 2000 torna a essere ospitato da varie trasmissioni sia radiofoniche che televisive. Torna sullo schermo come interprete nel febbraio 2009, quando durante il Festival di Sanremo 2009 (condotto da Paolo Bonolis), Lelio Luttazzi - in qualità di ospite illustre - accompagna Arisa, la quale vincerà il Festival con il brano "Sincerità" nella categoria delle "Nuove proposte".

Nel maggio del 2009 Lelio Luttazzi, dopo oltre 57 anni trascorsi tra Milano, Torino e soprattutto nella capitale, dove ha abitato dal 1953, decide di trasferirsi definitivamente insieme alla moglie nella sua città natale, a Trieste.

Da tempo affetto da una neuropatia, si spegne il giorno 8 luglio 2010 all'età di 87 anni.

Dopo una cerimonia privata, il corpo è stato cremato e le ceneri disperse nel mare del golfo della città giuliana, dalla sua barca chiamata "Oblomov".

sabato 26 aprile 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 26 aprile.

Il 26 aprile 1518 ad Heidelberg Martin Lutero espone le sue tesi relative alla Teologia dela Croce nella omonima disputa.

La Teologia della Croce ha preso corpo e si è rivelata nella famosa “Disputa di Heidelberg” del 26 Aprile 1518. E' in questa disputa che per la prima volta Lutero manifesta pubblicamente e decisamente la sua originalità e la sua opposizione alla teologia imperante, la quale tentava di capire Dio in termini di pensiero logico, ragionando dal visibile verso l’invisibile, deducendo l'esistenza di Dio dalla realtà del creato.

La disputa fu parte dell'azione della Santa Sede romana contro Martin Lutero per screditarlo. Roma aveva assegnato il compito agli Agostiniani di effettuare una "disputatio", in cui Lutero avrebbe dovuto spiegare le sue tesi sulle indulgenze. Nella disputa Lutero entrò, ma non sulla questione delle indulgenze, ma trattando il soggetto del Principio di legalità (dal punto di vista religioso) e la theologia crucis in contrasto con la theologia gloriae. Nella tesi da lui sostenute nel corso della disputa, Lutero ha fornito l'idea di base della sua nuova teologia, la completa dipendenza dell'uomo dalla grazia di Dio. Non dalle opere degli uomini si può ottenere la grazia di Dio, ma soltanto attraverso la sua fede.

Tra i docenti coinvolti nella difesa della facoltà teologica Lutero non ha avuto consenso, ma ha guadagnato molti seguaci tra gli studenti e i maestri della Facoltà di Arti. Riformatori degli anni successivi come Martin Bucer, Erhard Schnepf, Franciscus Irenicus, Martin Frecht e Johannes Brenz erano tra il pubblico.

La Disputa di Heidelberg ha avuto grande importanza per la diffusione della dottrina della Riforma di Lutero. Molti dei suoi ascoltatori diffusero la Riforma in Germania sud-occidentale. Nella riforma nella regione del Kraichgau, in particolare, hanno avuto grande influenza Johannes Brenz ed Erhard Schnepf, che predicarono dal 1520 la dottrina luterana. La maggior parte dei pastori più tardi attivi nel Kraichgau e predicatori nelle Prädikaturen (Predicature) avevano studiato a Heidelberg nel 1518 e sono stati impegnati dalla difesa della Riforma.

Non è facile esporre in una breve sintesi sistematica un pensiero teologico, per natura sua fortemente dinamico, nato e progredito in modo vulcanico a partire da concrete situazioni storiche, sia personali che collettive. Si può dire che il nucleo centrale dell’eccezionale ricerca religiosa di Lutero, e di conseguenza, anche della sua riflessione teologica, sia la realtà, umanamente incomprensibile, di un Dio, il quale nell’insondabile mistero del suo amore totalmente gratuito, ha immolato il Figlio suo sulla croce, a favore dell’uomo peccatore.

Non è possibile comprendere Lutero senza esaminare con una certa accuratezza quella che egli chiama la “Teologia della croce”, che è il centro di tutto il suo pensiero e dalla quale scaturiscono come conseguenze logiche tutte le sue altre concezioni teologiche.

Nell’ottica di una Theologia crucis, quindi, Dio è per Lutero un Deus absconditus, che si rivela “di spalle” (posteriora Dei per passione set crucem), cioè sub opposita specie (sotto l’apparenza contraria) nell’abbassamento del Figlio. Lutero parla quindi di un Deus absconditus, un Dio nascosto. È un Dio che non possiamo afferrare con le nostre capacità razionali, un Dio che è al di sopra delle nostre categorie del bene e del male, quindi è un Dio del tutto inaccessibile a noi. Se noi conosciamo Dio, lo facciamo grazie alla sua rivelazione. In Gesù Cristo Egli si rivela come Dio d’amore. «In Gesù Cristo Dio ha scelto di soffrire con la sua creatura e di vincere la lotta contro il male nel luogo più inaspettato, scandaloso: la croce. Il Cristo in croce è la solidificazione dell’amore di Dio. Diceva il mistico Angelo Silesio: “L’amore trascina Dio nella morte”. All’apice della sofferenza, avviene la vittoria di Dio sulla sofferenza. Il redentore sofferente è la forma più sublime ed esclusiva del pensiero cristiano. Qui l’onnipotenza di Dio si mostra come la potenza della sua impotenza. Il patibolo (la croce) che doveva manifestare la vittoria della morte e la morte di Dio, svela invece la vittoria della vita e la morte della morte». (Quest’espressione viene riportata in “Giornale di Metafisica” IV, Tilgher edizioni, Genova 1982)

Non lo fa, togliendo tutta la sofferenza in un solo colpo, ma egli rivela il suo amore nella debolezza, condividendo la sofferenza umana e morendo sulla croce. Nella fede riconosciamo Dio come Dio d’amore. È una rivelazione che in un certo senso contraddice la nostra percezione della natura crudele. Lutero parlava di un credere in Dio contro Dio, cioè credere nella rivelazione di Dio contro l'impressione suscitata dai fatti incomprensibili.

«Fin dai primi scritti, Lutero affermava che in qualche modo Dio si rivela in maniera paradossale, e lo fa attraverso l’umanità sofferente di Gesù Cristo. Vale a dire che Dio si nasconde per rivelarsi, e che la sua rivelazione può essere colta soltanto dal credente che si affida alla Parola e che accetta nella vita e nella sofferenza personale la presenza paradossale di Dio». (M. Lienhard, Martin Lutero la passione di Dio)

Perciò l’uomo è sempre giusto nella fede in Cristo, ma anche sempre peccatore, se considerato in se stesso (simul iustus et peccator). Sicché è sempre in stato di penitenza, in quanto a partire dall’esame del proprio peccato è sempre di nuovo proteso verso Cristo, giustizia del peccatore. La fede, allora in ultima analisi è un comprendere, in un’appropriazione personale Cristo come dono “per me”; un Cristo “per me” morto e risorto, “per me” vincitore del peccato, della morte, della narrazione.

Certamente questa distinzione luterana tra Deus absconditus e Deus revelatus è soltanto concettuale, ma è comunque di grande valore. Essa non cerca di spiegare ciò che non è spiegabile e rispetta con ciò la “sacralità” della sofferenza umana, richiamando nello stesso tempo l’uomo all’umiltà e alla fede. 

venerdì 25 aprile 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 25 aprile.

Il 25 aprile 2005 viene completato il ritorno in Etiopia della stele di Axum.

La cosiddetta stele di Axum è un obelisco in pietra basaltica a sezione rettangolare conservato ad Axum, in Etiopia.

Il monumento è alto 23,40 metri e pesa circa 150 tonnellate.

La stele fu realizzata tra il I e il IV secolo dagli abitanti del Regno di Axum. In epoca moderna venne rinvenuta semi-interrata e spezzata in tre tronconi alla fine del 1935 da soldati italiani impegnati nella guerra d'Etiopia. La stele era una dei circa cinquanta obelischi che si trovavano nella città di Axum al momento del ritrovamento.

I frammenti della stele furono trascinati da centinaia di soldati italiani ed eritrei con un viaggio di due mesi fino al porto di Massaua, trasportati fino a Napoli a bordo del piroscafo Adua, dove giunsero il 27 marzo 1937.

Vennero quindi trasportati a Roma, dove furono restaurati e ricomposti. L'obelisco fu collocato il 28 ottobre 1937 in Piazza di Porta Capena in occasione dei 15 anni della Marcia su Roma e del primo anniversario dell'Impero, di fronte al Ministero delle Colonie (oggi sede della FAO) e al Circo Massimo, e le cui operazioni furono coordinate da Ugo Monneret de Villard.

Assieme alla stele arrivò in Italia anche il monumento al Leone di Giuda, per anni esposto alla Stazione Termini e infine restituito all'Etiopia nel 1970 e collocato di fronte alla Stazione di Addis Abeba.

Per assicurarne la tenuta, l'obelisco fu rinforzato dall'interno con cunei di metallo, mentre la superficie dovette essere restaurata in più punti.

Il 10 settembre 1943 l'obelisco, colpito da raffiche di armi automatiche durante la battaglia di Porta San Paolo, subì ulteriori danni, e negli anni successivi il suo posizionamento ai margini di una zona di grande traffico lo espose a un forte inquinamento atmosferico.

L'Italia si propose di restituire la stele all'Etiopia, in quanto prelevato come bottino di guerra, il 15 settembre 1947, data di entrata in vigore del trattato di pace del 10 febbraio 1947, con la promessa di restituzione in diciotto mesi di tutto il bottino della Guerra di Etiopia. Nel 1969 il Ministero degli Affari Esteri decise di rinviarlo alla corte dell'imperatore Hailé Selassié.

Questi tuttavia, di fronte agli enormi costi relativi al trasporto, lo dichiarò un suo dono personale agli italiani, lasciandolo quindi sul territorio italiano stesso. Un'altra versione recita che la Farnesina addirittura pagò l'equivalente stimato per il trasporto all'Etiopia, la quale, al momento di riprendere il monumento, non avendo più la somma concessagli, decise di lasciarlo all'Italia come pegno della rinnovata amicizia. Le successive vicende politiche etiopiche, la deposizione dell'imperatore nel 1974 e la rinnovata richiesta di restituzione del nuovo governo rimisero in moto l'obelisco. In Italia ci furono tuttavia vari tentennamenti e perplessità sull'opportunità di restituire il monumento, che alla fine venne prima restaurato nell'ottobre 2002, e poi smontato in 3 parti il 7 novembre dell'anno successivo.

Numerose polemiche accompagnarono lo smantellamento, che fu contestato in particolare dal critico d'arte Vittorio Sgarbi, argomentando che un legittimo governo etiope lo avrebbe, infine, donato all'Italia, come testimoniato anche dal duca Amedeo d'Aosta, il quale in un'intervista aveva parlato di «un dono del clero di Axum alla città di Roma».

Il primo frammento dell'obelisco ripartì per l'Etiopia il 18 aprile 2005 dall'aeroporto di Pratica di Mare. L'aereo utilizzato fu l'Antonov An-124. Il suo ritorno fu accolto in Etiopia con grandi festeggiamenti, anche se nei primi tempi la stele rimase ancora smontata, abbandonata ed esposta alle intemperie sotto una tettoia nel Parco Archeologico di Axum. Ciò diede fiato, in Italia, a nuove polemiche sulla restituzione: non mancarono proposte di ricostruirne una copia nel luogo dove si trovava davanti alla sede della FAO, o di richiederla indietro (nel 2008 Vittorio Sgarbi incoraggiava il neosindaco di Roma Gianni Alemanno a tentare di riavere indietro l'obelisco dall'Etiopia, dato lo stato di degrado in cui si trovava).

Il 4 giugno 2008 fu aperto ad Axum il cantiere per ricomporre il monumento, con l'assistenza dell'Istituto Centrale per il Restauro come da accordi fra il governo etiope e quello italiano. La rierezione dell'obelisco fu ufficialmente celebrata il 4 settembre 2008 alla presenza di migliaia di persone, delle massime autorità etiopi e della delegazione italiana guidata dal sottosegretario agli Esteri Alfredo Mantica (compagno di partito dell'allora neo-sindaco di Roma), e la stele ricollocata accanto alla stele gemella nella valle del Tigrè.

giovedì 24 aprile 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 24 aprile.

Il 24 aprile 1953 la regina Elisabetta II nomina cavaliere Winston Churchill.

Sir Leonard Winston Churchill Spencer, uno dei più importanti uomini di Stato della storia inglese, nasce a Woodstock, nell'Oxfordshire, il 30 novembre 1874.

I genitori provengono da due ambienti molto diversi tra loro: Lord Randolph Churchill, il padre, appartiene alla migliore aristocrazia britannica, mentre la madre, Jenny Jerome, è figlia del proprietario del New York Times; il sangue americano che scorre nelle vene di Winston ne farà sempre un fervente sostenitore dell'amicizia dei popoli anglosassoni e dei particolari vincoli che legano tra loro Gran Bretagna e Stati Uniti.

Trascorsa l'infanzia in Irlanda, studia presso la celebre scuola di Harrow e nel 1893 è ammesso alla scuola di Sandhurst, nonostante la sua scarsa inclinazione allo studio. Il giovane cadetto insegue sogni di gloria. Nominato sottotenente nel IV battaglione ussari, parte come osservatore al seguito dell'esercito spagnolo incaricato di reprimere la rivolta di Cuba. Poi è inviato in India e partecipa a una campagna contro le tribù afgane alla frontiera nord-occidentale: questa spedizione gli ispirerà il suo primo libro. In seguito fa poi parte di una missione come ufficiale e corrispondente di guerra del Morning Post nel Sudan dove assiste alla carica a cavallo dei dervisci nella battaglia di Omdurman che farà da spunto al suo secondo servizio giornalistico. Tentato dall'attività politica, Churchill si ritira dalla vita militare e si presenta come candidato alle elezioni a Oldham. Non è eletto, ma nuove occasioni gli si offriranno in Africa del Sud. La guerra del Transvaal è appena scoppiata e Churchill si reca in quei luoghi e vi assiste in qualità di corrispondente di guerra.

È fatto prigioniero dai Boeri ma presto riesce a evadere e può in questo modo inviare al suo giornale il racconto delle proprie esperienze. Così l'Inghilterra conosce l'avventuroso discendente di Malborough. Furbescamente, Churchill approfitta immediatamente della notorietà acquisita per lanciarsi nella campagna elettorale (sono le elezioni "kaki" del 1900): è eletto deputato conservatore di Oldham. Sicuro di sé, affascinante e arrogante, non resta a lungo conservatore: nel 1904 si avvicina ai liberali e si lega d'amicizia con i rappresentanti radicali del partito, in particolare con Lloyd George; nel 1906 viene eletto deputato liberale di Manchester. Gli viene in seguito assegnato il posto di segretario di Stato presso il gabinetto di Campbell-Bannerman, iniziando così la sua carriera ministeriale.

Nel 1908 viene nominato ministro del Commercio nel governo liberale di Herbert Henry Asquith. Con questa carica e poi come ministro dell'Interno (1910-11) si impegna in una serie di riforme collaborando con David Lloyd George. Come primo lord dell'Ammiragliato (1911-1915) Churchill avvia un processo di profonda modernizzazione della Marina militare.

Il ruolo di Churchill nella prima guerra mondiale è contraddittorio e rischia di compromettere la sua carriera politica. I problemi con la Marina militare e il suo appoggio alla disastrosa campagna di Gallipoli lo costringono a dimettersi dall'Ammiragliato. Dopo aver trascorso un periodo al comando di un battaglione in Francia, entra a far parte del gabinetto di coalizione di Lloyd George e tra il 1917 e il 1922 ricopre numerosi incarichi di rilievo, fra cui quello di ministro dei Rifornimenti e di ministro della Guerra.

Dopo la caduta di Lloyd George e il collasso del Partito liberale nel 1922, Churchill rimane escluso dal parlamento per tre anni. Entrato nuovamente a farvi parte, è nominato cancelliere dello Scacchiere nel governo conservatore di Stanley Baldwin (1924-1929). Tra le misure da lui adottate in questo periodo vi sono la reintroduzione della parità aurea e la decisa opposizione ai sindacati in occasione dello sciopero generale del 1926.

Negli anni della Grande Depressione (1929-1939) a Churchill vengono preclusi incarichi di governo. Baldwin e successivamente Neville Chamberlain, figura di rilievo nella vita politica del paese dal 1931 al 1940, non approvano la sua opposizione all'autogoverno dell'India e il sostegno da lui espresso nei confronti di Edoardo VIII in occasione della crisi del 1936, conclusasi con l'abdicazione del re. La sua insistenza sulla necessità del riarmo e l'aperta condanna del patto di Monaco, firmato nel 1938, erano guardate con sospetto. Quando però, nel settembre del 1939, l'Inghilterra dichiara guerra alla Germania, il punto di vista di Churchill viene rivalutato e l'opinione pubblica si esprime apertamente a favore del suo ritorno all'Ammiragliato.

Churchill succede a Chamberlain come primo ministro nel 1940. Nei difficili giorni di guerra che seguono la rotta di Dunkerque, la battaglia d'Inghilterra e la guerra lampo, la sua combattività e i suoi discorsi incitano gli inglesi a continuare la lotta. Collaborando con il presidente americano Franklin Delano Roosevelt, Churchill riesce a ottenere aiuti militari e il sostegno degli Stati Uniti.

Dalle sue stesse parole apprendiamo: "Da questi primi inizi" - scrive Churchill dopo avere descritto gli sforzi del presidente Roosevelt per aiutare l'Inghilterra con la legge sugli affitti e prestiti, ai primi del 1940, e per aggirare gli isolazionisti del Congresso - "nacque il vasto disegno di una difesa combinata dell'Oceano Atlantico da parte delle due potenze di lingua inglese". L'anno di nascita della Nato è ufficialmente il 1949, ma l'Alleanza informale risale al luglio 1940, quando Roosevelt manda in Inghilterra, quasi segretamente, una missione militare ad altissimo livello.

Quando nel 1941 l'Unione Sovietica e gli Stati Uniti entrano in guerra, Churchill stabilisce rapporti molto stretti con i leader di quella che definisce la "grande alleanza". Spostandosi incessantemente da un paese all'altro fornisce un contributo importante al coordinamento della strategia militare nel corso del conflitto e alla sconfitta di Hitler.

Le conferenze con Roosevelt e Stalin, in particolare il vertice di Jalta del 1945, serviranno a ridisegnare la carta dell'Europa postbellica.

Nel 1945 Churchill è ammirato in tutto il mondo, anche se ormai il ruolo militare della Gran Bretagna è diventato secondario. Ciononostante, a causa della sua scarsa attenzione alla richiesta popolare di riforme sociali nel dopoguerra, viene sconfitto dal Partito laburista nelle elezioni del 1945.

Terminato il conflitto Churchill vuole comunque raccontare la seconda guerra mondiale a modo suo, scrivendo migliaia di pagine. Studiando questo monumento storico e letterario (il cui autore verrà premiato nel 1953 con il Nobel) possiamo seguire, giorno per giorno, il nascere e l'evolversi dell'atlantismo anglo-americano come fatto, oltre che morale, anche politico.

In seguito Churchill avrebbe criticato gli interventi sullo stato sociale attuati dal suo successore Clement Attlee. Nel discorso di Fulton (Missouri) del 1946, detto "della cortina di ferro", mette inoltre in guardia dai pericoli legati all'espansione sovietica.

Viene nuovamente eletto primo ministro e rimane in carica dal 1951 al 1955 (nel 1953 è decorato cavaliere dell'ordine della Giarrettiera, diventando "Sir"), ma l'età avanzata e i problemi di salute lo inducono a ritirarsi a vita privata.

Ormai privato della stimolante attività politica, sotto il peso dell'età e della malattia, trascorre gli ultimi dieci anni della sua esistenza nella casa di campagna di Chartwell, nel Kent, e nella Francia meridionale.

Winston Churchill si spegne a Londra il 24 gennaio 1965. Le sue esequie, alla presenza della regina, sono trionfali.

Dal suo matrimonio con Clementine Hozier, avvenuto nel 1908, sono nati un figlio, giornalista e scrittore, Randolph Churchill (1911-1968) e tre figlie.

Le opere scritte da Winston Churchill sono considerevoli e varie. Da ricordare: My African Journey (1908), The World Crisis, 1911-1918 (La crisi mondiale 6 voll., 1923-31), il suo diario politico (Step by Step 1936-1939, 1939), War speeches (6 voll., 1941-46), A History of the English-speaking Peoples (Storia dei popoli di lingua inglese 4 voll., 1956-58) e la Seconda guerra mondiale (1948-54).

mercoledì 23 aprile 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 23 aprile.

Il 23 aprile 1982 viene presentato il computer Zx Spectrum.

Quando aprivate la scatola dello Zx Spectrum Sinclair si trovava:

• Un calcolatore che aveva 3 prese jack ( 9V DC IN, EAR e MIC) una presa per il cavo televisivo e un connettore multipista per collegare altre periferiche.

• L’alimentatore da 9V in DC a 1,2 A. Lo ZX non aveva interruttori, per accenderlo s’inseriva lo spinotto dell’alimentatore.

• Un cavetto televisivo schermato per il collegamento al televisore.

• Una coppia di cavetti con dei jack da 3,5 mm a ogni capo per il collegamento con il registratore.

Veniva collegato all’entrata UHF del televisore con un adattatore d’impedenza (non era commercializzato un monitor dedicato), si collegava a televisore PAL UHF a colori o B/N, sul canale 36, mentre a partire dal modello 128k del 1985, oltre a un chip audio AY e una uscita RS232 , si aggiunse anche una porta RGB.

La memoria del calcolatore poteva essere usata per memorizzare qualunque tipo di dati; ad esempio con la funzione PRINT, per stampare lettere e numeri. É singolare oggi pensare che si doveva introdurre nel calcolatore un programma ogni volta che lo si voleva usare. Per questo c’era la possibilità di registrare i programmi su un nastro magnetico di un qualunque registratore a cassette e ricaricarli. 

Il Sinclair ZX Spectrum era un home computer creato nel 1982 e prodotto fino al 1986 dall’azienda inglese Sinclair Research Ltd, poi dal 1986 al 1992 dalla Amstrad. Fa parte della storia dell’informatica.

Fu il principale concorrente del Commodore 64 e conquistò una buon successo in Europa, grazie al prezzo di listino più abbordabile. Fu anche distribuito negli USA con il marchio Timex, con il nome Timex Sinclair 2068. Le piccole dimensioni, la velocità di calcolo e il prezzo relativamente basso, lo resero popolare negli anni ottanta in tutto il mondo.

Se ne ebbero versioni clonate e praticamente uguali in estetica ma con nomi diversi, come l'”Inves Spectrum” in Spagna, il “Moscow” e poi il “Baltic” in Russia.

Con lo ZX Spectrum la Sinclair intendeva riproporre la filosofia minimale introdotta negli anni precedenti con lo ZX80 (1980) e lo ZX81 (1981). Il nome in codice, ZX82 (o ZX81 Colour) venne sostituito dal nome commerciale ZX Spectrum. Con tale nome si voleva sottolineare la possibilità di visualizzare immagini con un ampio spettro di colori . I due modelli proposti sul mercato disponevano di 16kB e di 48kB di memoria.

Lo Spectrum venne venduto in milioni di unità in Europa (fino alla prima metà del 1983 lo Spectrum doveva essere acquistato direttamente in Inghilterra) e riscosse immediatamente un notevole interesse. Le prime crisi settoriali dopo il 1984 e la concorrenza, soprattutto del Commodore 64 e dell’Amstrad CPC 464, intaccarono solo in parte la sua quota di mercato. Più che altro furono altri progetti di Sinclair che si rivelarono infruttuosi, come lo ZX Microdrive (da tempo annunciato per lo Spectrum e reso disponibile solo nella metà del 1984) e il Sinclair C5, e determinarono il fallimento dell’azienda produttrice.

Nel marzo 1986 la Sinclair Research fu venduta alla società che era stata la sua più accanita concorrente, la Amstrad.

L’Amstrad invece di eliminare i prodotti Sinclair in favore della propria linea di macchine (denominate “CPC”), promosse lo ZX Spectrum 128K +2, dotato di 128 Kb di RAM e di una tastiera migliorata. La nuova macchina presentava tre caratteristiche derivate dagli Amstrad CPC 464 e 4128: un registratore a cassette incorporato, una interfaccia joystick, e soprattutto un chip audio. Così facendo continuò a detenere un alto livello di vendite nella fascia bassa del mercato. Nel 1987 incominciarono a comparire i primi computer a 16 bit, con il boom dei 16 bit i possessori di Spectrum si spostarono verso altre piattaforme. La produzione della macchina finì nel 1992 ma non scomparve del tutto: la sua economicità e la vastissima libreria di software lo fecero diventare uno dei computer più venduti nei paesi dell’est europeo.

Lo ZX Spectrum era basato su un microprocessore a 8 bit Zilog Z80A, originariamente dotato di 16 kB di ROM contenenti il linguaggio BASIC, di 16kB di RAM espandibili a 48kB e di una caratteristica tastiera in lattice con 40 tasti multifunzione. L’interprete BASIC venne fortemente personalizzato dalla Sinclair Research Ltd per compensare i limiti della tastiera e per sfruttare al massimo le caratteristiche grafiche e sonore della macchina.

Furono prodotte varie versioni dello Spectrum: oltre alle prime con 16 o 48kB di RAM, si ricorda quella con una tastiera migliorata (a membrana, ma con i tasti in plastica rigida) derivata da quella del Sinclair QL (Spectrum +) e le ultime, dopo l’acquisizione del progetto da parte di Amstrad, con BASIC esteso, 128kB di RAM e registratore a cassette o floppy incorporato (Spectrum +2 e Spectrum +3).

Lo ZX Spectrum opera costantemente in modalità grafica, e la sua memoria video può essere indirizzata direttamente. La mappa dello schermo prevede 256×192 pixel, e il font di caratteri, di dimensioni 8×8 pixel, permette la visualizzazione di 24 righe da 32 caratteri. Con l’utilizzo di caratteri più compatti i programmatori arrivarono comunque a ottenere fino a 85 caratteri per riga, sebbene raramente si superasse il limite delle 64 colonne.

Testo e grafica possono essere tranquillamente usati contemporaneamente. Lo schermo è diviso in due sezioni: quella superiore normalmente occupa le prime 22 linee di caratteri e mostra il listato o l’output dei programmi in esecuzione; quella inferiore, costituita dalle ultime 2 righe, mostra il comando digitato o la linea di programma che si sta modificando o eventuali messaggi di sistema. I comandi possono essere editati con l’ausilio dei tasti cursor left, cursor right, insert e delete con ripetizione automatica.

A differenza delle console per videogiochi dell’epoca (e di diversi home-computer indirizzati al mercato dei videogiochi), l’hardware dello ZX Spectrum non implementava un chip grafico in grado di generare i cosiddetti sprite, né vi erano porte joystick di serie.

Come molti altri microcomputer dei primi anni ottanta, per la generazione dei suoni lo ZX Spectrum è dotato solo di un limitato buzzer. Esso teoricamente è in grado di generare esclusivamente segnali a onda quadra. Grazie alla discreta velocità di calcolo del microprocessore questi limiti sono stati comunque spesso superati con accorgimenti software. Tramite accurate temporizzazioni infatti i programmatori hanno sintetizzato svariati effetti sonori, brani polifonici e addirittura un minimo di sintesi vocale.

martedì 22 aprile 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 22 aprile.

Il 22 aprile 1967 la Fiat presenta la 125.

Due auto italiane che si sfidano al top del segmento delle berline medie, quello che oggi, di fatto, è monopolizzato da Audi A4, BMW Serie 3 e Mercedes Classe C: non è una storia di fantasia, ma è storia. Sì, leggerlo oggi sembra quasi incredibile, ma c’è stato un tempo in cui questo accadeva, davvero. Erano gli anni Sessanta e, nel 1962, Alfa Romeo presenta la Giulia. Macchina azzeccata sotto ogni punto di vista e che mette “fuori gioco” immediatamente la Fiat 1500. Cosa di cui a Torino non si accorgono immediatamente, a dir la verità, come dimostra il fatto che prima di dare il via al progetto attendono fino al 1966, perché nel frattempo si sta lavorando alla vera erede della 1500, la 132. Anzi, questo ritardo è uno dei primi segnali che qualcosa è destinato a cambiare, che l’industria tedesca, più organizzata, di lì a qualche anno farà suo il mercato; delle berline e non solo… Ma torniamo a lei, alla 125, che è una sorta di ancora di salvataggio in attesa, appunto della 132. Va da sé che le risorse investite non sono da record, anzi, e i grandi capi Fiat chiedono al mitico Dante Giacosa (il papà, tra le altre, della 500 del 1957), di ricavare qualcosa di buono da quanto disponibile in casa. Un’operazione “al risparmio” che a Giacosa e al suo team riesce benissimo, date le risorse a disposizione, ma che il cliente, non solo il più esigente, non può non notare.

La base meccanica che Giacosa si trova a disposizione è quella della 1500C (è quella col passo più lungo disponibile in Fiat), mentre per quello che riguarda la carrozzeria decide di utilizzare, dopo averla modificata, quella molto squadrata della 124. Il motore? Preso dalla 124 Sport e aumentato da 1,4 a 1,6 litri di cilindrata. Anno inizio lavori: 1966. Tempo a disposizione per completare il lavoro: meno di 18 mesi. Il tutto, reso più complicato dal fatto che i manager Fiat impongono a Giacosa di spendere poco, pochissimo, perché la vera novità sarà la 132 e la 125 è destinata ad avere vita breve. Queste le sue caratteristiche tecniche principali: motore anteriore; trazione posteriore; alimentazione a carburatore doppio corpo Weber 34; due alberi a camme in testa; carrozzeria portante; sterzo a vite e rullo; avantreno a ruote indipendenti; retrotreno ad assale rigido; peso di 1.000 kg; lunghezza/larghezza/altezza/passo di 4,22/1,61/1,39/2,5 metri. Le prestazioni? 160 km/h di velocità massima, per 9,5 l/100 km di consumo medio.

Nonostante le condizioni a dir poco sfavorevoli, il pubblico, almeno in Italia, gradisce questa berlina a 3 volumi, dotata di retrotreno ad assale rigido e sospensioni a balestra, trazione posteriore e cambio a 4 marce, proposta al prezzo di 1.300.000 lire. Esteticamente, i 4 fari quadrati anteriori e i due rettangolari verticali in coda (di sapore vagamente americano) sono gli elementi maggiormente caratterizzanti. Sono tipiche di quegli anni, invece, le abbondanti cromature sparse un po’ ovunque. Quanto agli interni, la qualità generale non è male, sia dal punto di vista dei materiali sia da quello della cura per le finiture; i più esigenti non apprezzano del tutto il trattamento di superficie del finto legno della plancia e lo skay dei sedili. La 125, in compenso, era una delle poche macchine del suo segmento (e di quell’epoca) senza lamiera a vista nell’abitacolo; soprattutto, si tratta di una macchina molto solida e affidabile, che offre un buon comfort e una guidabilità soddisfacente, anche se non all’altezza di quella della Giulia.

Un solo anno dopo il debutto della 125, ecco la Special: 90.000 lire in più di prezzo per avere, in cambio: nuovi profili cromati sui passaruota, le griglie sul cofano motore anch’esse cromate, sfoghi dell’aria sui montanti posteriori più ampie. Qualche attenzione in più viene posta anche nella realizzazione dell’abitacolo (fascia in tessuto nella parte centrale dei sedili, portaoggetti aggiuntivi sulla plancia, nuovo impianto di riscaldamento, rivestimenti in plastica dove prima c’era finto legno), mentre la potenza del 4 cilindri con due alberi a camme in testa aumenta fino a quota 100 cavalli, sfruttati al meglio da un cambio che mette una marcia in più: la quinta. Nonostante la sua vita breve (la 132 arriverà nel 1972), la 125 passa anche attraverso un restyling: è del 1970 e apporta una mascherina rivisitata, gli indicatori di direzione “annegati” nel paraurti, fari posteriori più grandi e nuovi, ricercati accessori a pagamento. Fra tutti, spicca il cambio automatico a tre marce di fabbricazione americana, General Motors per la precisione.

lunedì 21 aprile 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 21 aprile.

Il 21 aprile 272 d.C., secondo alcune agiografie, è la data in cui nacque San Gennaro.

Fra i santi dell’antichità è certamente uno dei più venerati dai fedeli e se poi consideriamo che questi fedeli, sono primariamente napoletani, si può comprendere per la nota estemporaneità e focosa fede che li distingue, perché il suo culto, travalicando i secoli, sia giunto intatto fino a noi, accompagnato periodicamente dal misterioso prodigio della liquefazione del suo sangue, che tanto attira i napoletani.

Prima di tutto il suo nome diffuso in Campania e anche nel Sud Italia, risale al latino ‘Ianuarius’ derivato da ‘Ianus’ (Giano) il dio bifronte delle chiavi del cielo, dell’inizio dell’anno e del passaggio delle porte e delle case.

Il nome era in genere attribuito ai bambini nati nel mese di gennaio “Ianuarius”, undicesimo mese dell’anno secondo il calendario romano, ma il primo dopo la riforma del II secolo d.C.

Gennaro appartenne alla gens Ianuaria, perché Ianuarius che significa “consacrato al dio Ianus” non era il suo nome, che non ci è pervenuto, ma il gentilizio corrispondente al nostro cognome.

Vi sono ben sette antichi ‘Atti’, ‘Passio’, ‘Vitae’, che parlano di Gennaro, fra i più celebri gli “Atti Bolognesi” e gli “Atti Vaticani”. Da questi documenti si apprende che Gennaro nato a Napoli (?) nella seconda metà del III secolo, fu eletto vescovo di Benevento, dove svolse il suo apostolato, amato dalla comunità cristiana e rispettato anche dai pagani per la cura, che impiegava nelle opere di carità a tutti indistintamente; si era nel primo periodo dell’impero di Diocleziano (243-313), il quale permise ai cristiani di occupare anche posti di prestigio e una certa libertà di culto.

Nella sua vecchiaia però, sotto la pressione del suo cesare Galerio (293), firmò ben tre editti contro i cristiani, provocando una delle più feroci persecuzioni, colpendo la Chiesa nei suoi membri e nei suoi averi per impedirle di soccorrere i poveri e spezzare così il favore popolare.

E in questo contesto s’inserisce la storia del martirio di Gennaro; egli conosceva il diacono Sosso (o Sossio) che guidava la comunità cristiana di Miseno, importante porto romano sulla costa occidentale del litorale flegreo; Sosso fu incarcerato dal giudice Dragonio, proconsole della Campania, per le funzioni religiose che quotidianamente venivano celebrate nonostante i divieti.

In quel periodo il vescovo di Benevento Gennaro, accompagnato dal diacono Festo e dal lettore Desiderio, si trovava a Pozzuoli in incognito, visto il gran numero di pagani che si recavano nella vicinissima Cuma ad ascoltare gli oracoli della Sibilla Cumana e aveva ricevuto di nascosto anche qualche visita del diacono di Miseno (località tutte vicinissime tra loro).

Gennaro, saputo dell’arresto di Sosso, volle recarsi insieme ai suoi due compagni Festo e Desiderio a portargli il suo conforto in carcere e anche con alcuni scritti, per esortarlo insieme agli altri cristiani prigionieri a resistere nella fede.

Il giudice Dragonio informato della sua presenza e intromissione, fece arrestare anche loro tre, provocando le proteste di Procolo, diacono di Pozzuoli e di due fedeli cristiani della stessa città, Eutiche ed Acuzio.

Anche questi tre furono arrestati e condannati insieme agli altri a morire nell’anfiteatro, ancora oggi esistente, per essere sbranati dagli orsi, in un pubblico spettacolo. Ma durante i preparativi, il proconsole Dragonio si accorse che il popolo dimostrava simpatia verso i prigionieri e quindi prevedendo disordini durante i cosiddetti giochi, cambiò decisione e il 19 settembre del 305 fece decapitare i prigionieri cristiani nel Foro di Vulcano, presso la celebre Solfatara di Pozzuoli.

Si racconta che una donna di nome Eusebia riuscì a raccogliere in due ampolle (i cosiddetti lacrimatoi) parte del sangue del vescovo e conservarlo con molta venerazione; era usanza dei cristiani dell’epoca di cercare di raccogliere corpi o parte di corpi, abiti, ecc. per poter poi venerarli come reliquie dei loro martiri.

I cristiani di Pozzuoli nottetempo seppellirono i corpi dei martiri nell’agro Marciano presso la Solfatara; si presume che s. Gennaro avesse sui 35 anni, come pure giovani erano i suoi compagni di martirio. Oltre un secolo dopo, nel 431 (13 aprile) si trasportarono le reliquie del solo s. Gennaro da Pozzuoli nelle catacombe di Capodimonte a Napoli, dette poi “Catacombe di S. Gennaro”, per volontà del vescovo di Napoli, s. Giovanni I e sistemate vicino a quelle di s. Agrippino vescovo.

Le reliquie degli altri sei martiri hanno una storia a parte per le loro traslazioni, ma in maggioranza ebbero culto e spostamento nelle loro zone di origine.

Durante il trasporto delle reliquie di s. Gennaro a Napoli, la suddetta Eusebia o altra donna, alla quale le aveva affidate prima di morire, consegnò al vescovo le due ampolline contenenti il sangue del martire; a ricordo delle tappe della solenne traslazione vennero erette due cappelle: S. Gennariello al Vomero e San Gennaro ad Antignano.

Il culto per il santo vescovo si diffuse fortemente con il trascorrere del tempo, per cui fu necessario l’ampliamento della catacomba. Affreschi, iscrizioni, mosaici e dipinti, rinvenuti nel cimitero sotterraneo, dimostrano che il culto del martire era vivo sin dal V secolo, tanto è vero che molti cristiani volevano essere seppelliti accanto a lui e le loro tombe erano ornate di sue immagini.

Va notato che già nel V secolo il martire Gennaro era considerato ‘santo’ secondo l’antica usanza ecclesiastica, canonizzazione poi confermata da papa Sisto V nel 1586. La tomba divenne, come già detto, meta di continui pellegrinaggi per i grandi prodigi che gli venivano attribuiti; nel 472 ad esempio, in occasione di una violenta eruzione del Vesuvio, i napoletani accorsero in massa nella catacomba per chiedere la sua intercessione, iniziando così l’abitudine ad invocarlo nei terremoti e nelle eruzioni, e mentre aumentava il culto per s. Gennaro, diminuiva man mano quello per s. Agrippino vescovo, fino allora patrono della città di Napoli; dal 472 s. Gennaro cominciò ad assumere il rango di patrono principale della città.

Durante un’altra eruzione nel 512, fu lo stesso vescovo di Napoli, s. Stefano I, ad iniziare le preghiere propiziatorie; dopo fece costruire in suo onore, accanto alla basilica costantiniana di S. Restituta (prima cattedrale di Napoli), una chiesa detta Stefania, sulla quale verso la fine del secolo XIII, venne eretto il Duomo; riponendo nella cripta il cranio e la teca con le ampolle del sangue.

Questa provvidenziale decisione preservò le suddette reliquie dal furto operato dal longobardo Sicone, che durante l’assedio di Napoli dell’831, penetrò nelle catacombe, allora fuori della cinta muraria della città, asportando le altre ossa del santo che furono portate a Benevento, sede del ducato longobardo.

Le ossa restarono in questa città fino al 1156, quando vennero traslate nel santuario di Montevergine (AV), dove rimasero per tre secoli; addirittura se ne persero le tracce, finché durante alcuni scavi effettuati nel 1480 furono ritrovate casualmente sotto l’altare maggiore, insieme a quelle di altri santi, ma ben individuate da una lamina di piombo con il nome.

Il 13 gennaio 1492, dopo interminabili discussioni e trattative con i monaci dell’abbazia verginiana, le ossa furono riportate a Napoli nel succorpo del Duomo ed unite al capo ed alle ampolle. Intanto le ossa del cranio erano state sistemate in un preziosissimo busto d’argento, opera di tre orafi provenzali, dono di Carlo II d’Angiò nel 1305, al Duomo di Napoli.

Successivamente nel 1646 il busto d’argento con il cranio e le ormai famose ampolline col sangue furono poste nella nuova artistica Cappella del Tesoro, ricca di capolavori d’arte d’ogni genere. Le ampolle erano state incastonate in una teca preziosa fatta realizzare da Roberto d’Angiò, in un periodo imprecisato del suo lungo regno (1309-1343).

La teca assunse l’aspetto attuale nel XVII secolo: racchiuse fra due vetri circolari di circa dodici centimetri di diametro, vi sono le due ampolline, una più grande di forma ellittica schiacciata, ripiena per circa il 60% di sangue e quella più piccola cilindrica con solo alcune macchie rosso-brunastre sulle pareti; la liquefazione del sangue avviene solo in quella più grande.

Le altre reliquie poste in un’antica anfora sono rimaste nella cripta del Duomo, su cui s’innalza l’abside e l’altare maggiore della grande Cattedrale. San Gennaro è conosciuto in tutto il mondo, grazie anche al culto esportato insieme ai tantissimi emigranti napoletani, suoi fedeli, non solo per i suoi prodigiosi interventi nel bloccare le calamità naturali, purtroppo ricorrenti che colpivano Napoli, come pestilenze, terremoti e le numerose eruzioni del vulcano Vesuvio, croce e vanto di tutto il Golfo di Napoli; ma anche per il famoso prodigio della liquefazione del sangue contenuto nelle antiche ampolle, completamente sigillate e custodite in una nicchia chiusa con porte d’argento, situata dietro l’altare principale, della già menzionata Cappella del Tesoro.

Il Tesoro è oggi custodito in un caveau di una banca, essendo ingente e preziosissimo, quale testimonianza dei doni fatti al santo patrono da sovrani, nobili e quanti altri abbiano ricevuto grazie per sua intercessione, o alla loro persona e famiglia o alla città stessa.

Le chiavi della nicchia sono conservate dalla Deputazione del Tesoro di S. Gennaro, da secoli composta da nobili e illustri personaggi napoletani con a capo il sindaco della città. Il miracolo della liquefazione del sangue, che è opportuno dire non è un’esclusiva del santo vescovo, ma anche di altri santi e in altre città, ma che a Napoli ha assunto una valenza incredibile, secondo un antico documento è avvenuto per la prima volta nel lontano 17 agosto 1389; non è escluso, perché non documentato, che sia avvenuto anche in precedenza.

Detto prodigio avviene da allora tre volte l’anno; nel primo sabato di maggio, in cui il busto ornato di preziosissimi paramenti vescovili e il reliquiario con la teca e le ampolle viene portato in processione, insieme ai busti d’argento dei numerosi santi compatroni di Napoli, anch’essi esposti nella suddetta Cappella del Tesoro, dal Duomo alla Basilica di S. Chiara, in ricordo della prima traslazione da Pozzuoli a Napoli, e qui dopo le rituali preghiere, avviene la liquefazione del sangue raggrumito; la seconda avviene il 19 settembre, ricorrenza della decapitazione; una volta avveniva nella Cappella del Tesoro, ma per il gran numero di fedeli il busto e le reliquie sono oggi esposte sull’altare maggiore del Duomo, dove anche qui dopo ripetute preghiere, con la presenza del cardinale arcivescovo, autorità civili e fedeli, avviene il prodigio tra il tripudio generale.

Avvenuta la liquefazione, la teca sorretta dall’arcivescovo viene mostrata quasi capovolgendola ai fedeli e al bacio dei più vicini; il sangue rimane sciolto per tutta l’ottava successiva e i fedeli sono ammessi a vedere da vicini la teca e baciarla con un prelato che la muove per far constatare la liquidità, dopo gli otto giorni viene di nuovo riposta nella nicchia e chiusa a chiave.

Una terza liquefazione avviene il 16 dicembre “festa del patrocinio di s. Gennaro”, in memoria della disastrosa eruzione del Vesuvio nel 1631, bloccata dopo le invocazioni al santo. Il prodigio così puntuale non è sempre avvenuto, esiste un diario dei Canonici del Duomo che riporta nei secoli anche le volte che il sangue non si è sciolto, oppure con ore e giorni di ritardo, oppure a volte è stato trovato già liquefatto quando sono state aperte le porte argentee per prelevare le ampolle; il miracolo a volte è avvenuto al di fuori delle date solite, per eventi straordinari.

Il popolo napoletano nei secoli ha voluto vedere nella velocità del prodigio un auspicio positivo per il futuro della città, mentre una sua assenza o un prolungato ritardo è visto come fatto negativo per possibili calamità da venire. La catechesi costante degli ultimi arcivescovi di Napoli ha convinto la maggioranza dei fedeli che anche la mancanza del prodigio o il ritardo vanno vissuti con serenità e intensificazione semmai di una vita più cristiana.

Del resto questo “miracolo ballerino”, imprevedibile, è stato oggetto di profondi studi scientifici, l’ultimo nel 1988, con i quali usando l’esame spettroscopico, non potendosi aprire le ampolline sigillate da tanti secoli, si è potuto stabilire la presenza nel liquido di emoglobina, dunque sangue.

La liquefazione del sangue è innegabile e spiegazioni scientifiche finora non se ne sono trovate, come tutte le ipotesi contrarie formulate nei secoli, non sono mai state provate. È singolare il fatto che a Pozzuoli, contemporaneamente al miracolo che avviene a Napoli, la pietra conservata nella chiesa di S. Gennaro vicino alla Solfatara e che si crede sia il ceppo su cui il martire poggiò la testa per essere decapitato, diventa più rossa.

Pur essendo venuti tanti papi a Napoli in devoto omaggio, baciando personalmente la teca e lasciando doni, la Chiesa, è bene ricordarlo, non si è mai pronunciata ufficialmente sul miracolo di s. Gennaro.

Papa Paolo VI nel 1966, in un discorso ad un gruppo di pellegrini partenopei, richiamò chiaramente il prodigio: “…come questo sangue che ribolle ad ogni festa, così la fede del popolo di Napoli possa ribollire, rifiorire ed affermarsi”.


domenica 20 aprile 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 20 aprile.

Il 20 aprile 1992 allo stadio di Wembley si riuniscono moltissime star della musica mondiale per il celeberrimo concerto tributo alla memoria di Freddie Mercury.

Sono trascorsi 33 anni dal più grande tributo della storia della musica rock: The Freddie Mercury Tribute Concert For Aids Awareness.

Quel lungo sogno musicale si svolse al Wembley Stadium dal primo pomeriggio fino a tarda sera del 20 aprile 1992.

Mai così tante star della musica mondiale si sono riunite per celebrare la vita, la carriera e la musica di un solo artista: Freddie Mercury.

Nel febbraio del 1992, alla cerimonia annuale dei Brit Awards, Brian May e Roger Taylor, annunciarono il desiderio di organizzare un grande evento per rendere omaggio al frontman dei Queen, scomparso il 24 novembre del 1991 in seguito a una broncopolmonite dovuta alla deficienza immunitaria.

Il giorno seguente vennero messi in vendita i biglietti per il concerto e tutti i 72.000 tagliandi andarono esauriti in sole due ore, nonostante ancora non fosse stato diffusa la minima informazione su chi avrebbe suonato oltre ai componenti restanti della band.

Si comincia con Lady Diana Spencer e il Principe Carlo sugli spalti, mentre Brian, Roger e John aprono lo spettacolo con un breve discorso.

A fine concerto, la marea umana assetata di musica “sarà sorda, cieca e con la voglia di tornare il giorno dopo” (Brian May).

Aprono i Metallica con un trittico da far paura (Enter Sandman, Sad but True e Nothing Else Matter e poi gli Extreme (“Loro sono dei veri amici ed è il gruppo che più di tutti al mondo ha compreso la musica dei Queen” parole di Brian May) con un medley che comprende tra le altre Mustapha, Another One Bites The Dust, Fat Bottomed Girls, Bycycle Race e Love of My life.

Def Leppard (che duetteranno con Brian May su Now I’m Here), Bob Geldof , Spinal Tap e i Guns ‘n’ Roses con Paradise City e Knockin’ on Heaven’s Door.

Oltre alla musica ci sarà spazio anche per l’impegno sociale perché i proventi dell’incasso del Freddie Mercury Tribute Concert for Aids Awareness serviranno per dare vita all’associazione benefica The Mercury Phoenix Trust: il tema dell’Aids è stato ripreso in più occasioni durante il concerto con l’intervento di un giovane Ian Mackellen da Parliament Hill e il discorso di Elizabeth Taylor.

Durante la prima parte del Freddie Mercury Tribute vennero proiettati diversi video dei Queen mentre i tecnici eseguivano i cambi palco.

Quando il concerto venne trasmesso su MTV, gli U2 dedicarono a Freddie una performance via satellite dalla California dal vivo di Until The End Of The World.

Ma il bello doveva ancora venire perché una volta calata la sera, il palco del Wembley Stadium si sarebbe riempito di stelle.

La scaletta

Queen e Joe Elliott/Slash – Tie Your Mother Down

Queen e Roger Daltrey (con Tony Iommi) – Heaven And Hell (intro), Pinball Wizard (intro), I Want It All

Queen e Zucchero – Las Palabras de Amor

Queen e Gary Cherone (con Tony Iommi) – Hammer to Fall

Queen e James Hetfield (con Tony Iommi) – Stone Cold Crazy

Queen e Robert Plant – Innuendo (con estratti da Kashmir), Thank You (intro), Crazy Little Thing Called Love

Queen (Brian May con Spike Edney) – Too Much Love Will Kill You

Queen e Paul Young – Radio Ga Ga

Queen e Seal – Who Wants to Live Forever

Queen e Lisa Stansfield – I Want to Break Free

Queen e David Bowie/Annie Lennox – Under Pressure

Queen e Ian Hunter/David Bowie/Mick Ronson/Joe Elliott/Phil Collen – All the Young Dudes

Queen e David Bowie/Mick Ronson – Heroes/The Lord’s Prayer

Queen e George Michael – 39

Queen e George Michael/Lisa Stansfield – These Are the Days of Our Lives

Queen e George Michael – Somebody to Love

Queen e Elton John/Axl Rose – Bohemian Rhapsody

Queen e Elton John (con Tony Iommi) – The Show Must Go On

Queen e Axl Rose – We Will Rock You

Queen e Liza Minnelli/Cast – We Are the Champions

sabato 19 aprile 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 19 aprile.

Il 19 aprile 1937, in Italia e nelle colonie diventava legge il Regio Decreto Legislativo numero 880, la prima legge “di tutela della razza” promulgata dal regime fascista, riferito in particolar modo a tutti gli italiani che vivevano nelle allora colonie italiane in Africa, Somalia, Eritrea, Etiopia e Libia. Le leggi razziali erano diventate realtà.

Cosa si intende per “leggi razziali”? Sono tutte quelle leggi basate sul principio di discriminazione razziale: discriminare degli esseri umani solo perché di etnie diverse dalla nostra, fondamentalmente, e farlo anche a livello legale e istituzionale. Per chi non è di corta memoria storica, sicuramente questa definizione fa venire in mente le leggi razziali fasciste, promulgate dal regime di Benito Mussolini in Italia dal 1938, e da molti storici considerati il vero e proprio prologo della Seconda Guerra Mondiale.

Quello che molti ignorano, però, è che le leggi razziali contro gli ebrei non furono le prime promulgate nel nostro paese: no, il triste primato di prima legge razziale lo detiene proprio il Regio Decreto Legislativo del 19 aprile 1937, denominato Sanzioni per i rapporti d’indole coniugale tra cittadini e sudditi. Con questo decreto lo stato italiano vietava definitivamente il matrimonio misto e la pratica del madamismo, cioè il concubinaggio con donne africane. Il decreto 880 non rappresentò nient’altro che l’apice della campagna razzista del regime nei confronti degli abitanti delle colonie.

Fu un apice tanto orrendo quanto predetto, perché la retorica del regime da anni aveva speso fiumi di parole nell’esaltare la “superiore purezza delle razza italiana”, esasperatamente messa a confronto con tutte le altre razze ritenute inferiori. L’atteggiamento del regime fascista nei confronti dei matrimoni misti – e soprattutto dei figli nati da questi matrimoni – si basava fondamentalmente su due elementi: l’assoluta necessità di una «politica demografica» che salvaguardasse la razza bianca da una parte, e il problema della denatalità dall’altra, secondo Mussolini una delle piaghe principali del paese. In un’escalation di misure sempre più restrittive e razziste nei confronti non solo dei figli di matrimoni misti, ma anche contro le popolazioni locali, si arrivò al decreto 880: gli italiani che si “macchiavano” della colpa di concubinaggio con una donna africana o, peggio ancora, di matrimonio rischiavano da 1 a 5 anni di reclusione, in quanto commettevano due delitti, uno biologico e uno morale. Il primo consisteva nell’accusa di «inquinare la razza», mentre per quello morale la colpa era di «elevare» l’indigena al proprio livello, perdendo così il prestigio che derivava dall’appartenenza alla «razza superiore».

Fu questo il decreto che aprì le porte alle leggi razziali prevalentemente contro gli ebrei, promulgate per la prima volta nel 1938: le stesse motivazioni pseudo scientifiche che vennero date per il decreto 880/37 vennero riutilizzate per motivare le leggi razziali emanate dal regime negli anni successivi.

Quella delle leggi razziali, e della segregazione che ne consegue, diretta conseguenza,  è una storia nota e tristemente diffusa in tutto il mondo e nella storia: da quella, secolare, nei confronti degli Ebrei, costretti a riunirsi nei ghetti, a quella dei neri; dall‘apartheid in Sudafrica (durato formalmente fino al 1994) a quello negli Stati Uniti, abolito con le grandi rivolte per i diritti civili di fine anni Sessanta a forza di I have a dream e a ritmo di We shall overcome.

Eppure sarebbe un errore considerare queste leggi come un qualcosa del passato, perché queste in alcuni paesi sono ancora una realtà contemporanea e viva: basta guardare a paesi come Malesia, India, Mauritania o Yemen.

E anche adesso,  nella democratica e moderna Europa si stanno affermando in diversi paesi partiti xenofobi che in maniera più o meno manifesta propugnano la non contaminazione con gli immigrati, i profughi, i disperati. In Ungheria, oltre al muro di filo spinato lungo il confine con la Serbia, si applica la detenzione sistematica di tutti i profughi che arrivano nel Paese, collocandoli in container lungo la frontiera con Croazia e Serbia. Al coro si uniscono anche Polonia, Slovacchia e Repubblica Ceca, in nome della difesa dell’omogeneità culturale e religiosa della regione, riconquistata solo dopo il crollo dell’Unione Sovietica. A questo si sommano anche vari tentativi di revisionismo storico e rilettura di fatti conclamati, con Marine Le Pen che nega la collaborazione del Regime di Vichy nello sterminio degli Ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale e l’affermarsi in diversi paesi del nord Europa di partiti che fanno dell’omogeneità culturale e etnica il loro grido di battaglia.

Ecco, è questo il monito e l’attenzione che dobbiamo porre verso fatti che ci appaiono lontani: lo scoprire che il demone dell’intolleranza e dell’odio e i germi del suprematismo razziale sono ancora vivi e vegeti: il nostro impegno deve essere quello di prosciugare l’acqua di coltura nella quale questi germi di intolleranza rischiano di moltiplicarsi, e crescere.

venerdì 18 aprile 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 18 aprile.

Il 18 aprile del 1948 gli italiani furono chiamati a votare per la prima volta dopo l'entrata in vigore della Costituzione della neonata Repubblica Italiana. E tutti, uomini e donne, poterono esprimere il loro voto politico: per le donne era la prima volta dopo il Referendum del 2 giugno. Ai seggi si recarono il 92% degli italiani aventi diritto, quasi 27 milioni di persone, e il responso delle urne parlò chiaro: il 48,5% degli Italiani votò per la Democrazia Cristiana. Ma quali erano le forze in campo e quali i protagonisti?

I tempi dell'alleanza antifascista erano ormai lontani. In mezzo c'era stata la nascita di quella che Churchill già nel 1946 definì "cortina di ferro", la linea di confine che divideva due zone di influenza politica. |

Le aree politiche erano due. Ed erano quelle che qualche anno prima avevano combattuto fianco a fianco la Resistenza contro il nazifascismo: da un lato c'era la Democrazia Cristiana, dall'altra il Fronte democratico popolare, una federazione di partiti di sinistra rappresentata dal Partito comunista e da quello socialista (che alle elezioni raccolse il 31% dei voti).

I volti erano quelli di Alcide De Gasperi (Dc), Palmiro Togliatti (Pci) e Pietro Nenni (Psi). La posta in gioco per il Paese era molto alta. In ballo non c'era infatti solo il governo del Paese, ma anche la sua appartenenza a uno dei due schieramenti politici internazionali, l'Unione Sovietica o l'America.

E le pressioni erano altissime: il 3 aprile dello stesso anno, 15 giorni prima del voto, il Presidente americano Harry Truman aveva lanciato il cosiddetto Piano Marshall, un piano di aiuti di 14 miliardi di dollari per la ricostruzione economica dell'Europa Occidentale. Piano contestato da Palmiro Togliatti che lo liquidò come un ricatto politico.

Gli italiani si recarono così al voto tra slogan urlati, appelli alla democrazia, manifesti elettorali caricaturali e intimidazioni bizzarre come quella ben sintetizzata dallo scrittore Guareschi, autore di Don Camillo che arrivò a dire “Nel segreto dell’urna Dio ti vede, Stalin no”.

Anche l'attore Eduardo de Filippo venne coinvolto come testimonial in un cinegiornale per esortare al voto agli italiani. "Votare per chi si vuole ma votate" diceva.

 Il timore del prevalere del fronte comunista spinse inoltre la Chiesa a mobilitarsi in prima persona creando comitati civici per il voto alla Democrazia Cristiana. Alle urne si recò così, come in un pellegrinaggio, chiunque era in buone condizioni, ma, come racconta un video dell'Archivio Luce, anche chi in buone condizioni non lo era affatto: portato a braccio, in barella o in carrozzella.

Il risultato fu clamoroso: la Democrazia Cristiana si aggiudicò la maggioranza relativa dei voti e quella assoluta dei seggi. Il che significava che l'Italia rinunciava ufficialmente a entrare nell'orbita dell'Unione Sovietica comunista.

Alcide De Gasperi dal 1948 in poi divenne così un punto di riferimento imprescindibile per l'elettorato anticomunista che fu così destinato a rimanere all'opposizione. La Democrazia cristiana finì quindi per essere il principale partito italiano per quasi 50 anni, fino al suo scioglimento nel 1994.

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