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domenica 10 agosto 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 10 agosto.

Il 10 agosto 1849 il garibaldino Ciceruacchio viene fucilato dagli austriaci.

Angelo Brunetti detto Ciceruacchio (Roma, settembre 1800 – Porto Tolle, 10 agosto 1849), figlio di un maniscalco di Campo Marzio, era di mestiere carrettiere del porto di Ripetta e trasportava vino dai Castelli romani e gestiva una taverna nei pressi di Porta del Popolo.

Il soprannome “ciceruacchio”, datogli dalla madre da bambino, è la corruzione dell’originale romanesco ciruacchiotto (grassottello). Popolano verace e dall’intelligenza assai vivida, dotato di straordinaria capacità dialettica che non poté mai coltivare con l’istruzione (parlava solo ed unicamente in romanesco), divenne presto un rappresentante informale dei sentimenti popolari.

Già beneamato dal popolo romano, per il suo comportamento durante l’epidemia di colera del 1837, con l’avvento al soglio pontificio di Papa Pio IX nel 1846, si fece portavoce dell’entusiasmo popolare per le riforme annunciate dal nuovo pontefice, tanto da divenire uno dei più strenui sostenitori, tanto che, nel luglio dello stesso anno, durante una manifestazione popolare, ringraziò il Papa per aver concesso la libertà ai detenuti politici e donò alla gente che si era ivi raccolta, alcune botti di vino, accendendo anche un grande fuoco presso Porta del Popolo.

Egli fu spesso organizzatore di queste adunate popolari, al fine di continuare ad esortare Pio IX nella prosecuzione del proficuo cammino di riforme politiche nello Stato Pontificio.

Quando alla fine del 1847 ed agli inizi del 1848, gli elementi più conservatori ebbero il sopravvento all’interno della Curia, divenendo ispiratori di provvedimenti impopolari, Angelo Brunetti assunse un atteggiamento di forte e manifesta opposizione nei confronti del Papa, divenendo uno dei più significativi esponenti dell’anticlericalismo.

Abbracciata la causa mazziniana dopo il voltafaccia del pontefice avvenuto con l’allocuzione del 29 aprile 1848, aderì alla Rivoluzione del 1849. Partecipò attivamente ai combattimenti contro l’assediante francese e si premurò di organizzare il trasporto delle armi e delle munizioni per la difesa della Repubblica, prodigandosi per riuscire a far passare attraverso l’assedio della città da parte dei francesi, bestiame e cibo per la popolazione.

Dopo la caduta della Repubblica Romana, nel luglio dello stesso anno, Ciceruacchio insieme ai due figli, il primogenito Luigi, e Lorenzo, appena tredicenne, decise di partire da Roma al seguito di Garibaldi con l’intento di raggiungere Venezia, che ancora resisteva agli Austriaci.

Con Garibaldi, Anita e Ugo Bassi ed altri fedelissimi del generale, fece tappa a San Marino e Cesenatico da dove si imbarcarono  per Venezia. In prossimità del delta del Po furono intercettati da una vedetta austriaca e costretti all’approdo. Ciceruacchio e i suoi compagni chiesero l’aiuto di alcuni abitanti del posto per raggiungere Venezia ma questi li denunciarono alle autorità.

Brunetti fu così arrestato dagli Austriaci e fucilato a mezzanotte del 10 agosto 1849, insieme al figlio Lorenzo di tredici anni, all’altro figlio Luigi ed altri patrioti e sepolti nella golena del Po. Solo nel 1879, su espressa volontà di Garibaldi, del Comune di Roma e della Società Veterani del 1848-49, i resti dei patrioti vennero uniti agli altri caduti del 1849, nell’ossario al Gianicolo a Roma.

Nel marzo 2011, in occasione del 150º anniversario dell’Unità d’Italia, il monumento a Ciceruacchio, già spostato nel 1960 in occasione della creazione del sottovia di Passeggiata di Ripetta, è stato trasferito al Gianicolo. La nuova collocazione, poco prima dell’uscita verso San Pancrazio, accanto al viale intitolato al figlio Lorenzo, ha restituito al monumento a Ciceruacchio, prima sistemato ai margini di un’arteria di rapido scorrimento, il giusto decoro, trasferendolo nel luogo simbolo del Risorgimento romano.


sabato 9 agosto 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 9 agosto.

Il 9 agosto del 48 a.C. si svolse la Battaglia di Farsalo tra l’esercito del console Gaio Giulio Cesare e quello di Gneo Pompeo Magno.

Gaio Giulio Cesare aveva completato con successo la sottomissione della Gallia. Il senato gli ordinò quindi di lasciare il comando delle legioni e tornare a Roma come privato cittadino. Cesare chiese invece il consolato, ma il senato filopompeiano respinse la richiesta. A questo punto Cesare decise di rientrare in Italia con le sue legioni: è il 10 gennaio del 49 a.C. Diede in tal modo inizio alla guerra civile.

Pompeo, con il senato, fuggì in Oriente cercando di organizzare l’esercito. Lo scontro decisivo si svolse a Farsalo (in Tessaglia, nel nord della Grecia) il 9 agosto del 48 a.C.

Nel De bello civili Cesare riferisce che i suoi uomini erano circa 22 000, mentre quelli di Pompeo erano circa 45 000. Il numero delle truppe cesariane è sostanzialmente esatto, mentre il numero dei pompeiani è quasi certamente esagerato, anche se è probabile che essi fossero più numerosi.

I pompeiani però erano privi della preparazione e “professionalità” dei cesariani che avevano combattuto per sette anni in Gallia.

Cesare affrontò lo scontro creando una quarta fila di soldati di riserva (oltre alle tre che erano schierate normalmente).

Quando i soldati di Pompeo sembravano ormai vicini alla vittoria, Cesare mandò all’attacco la quarta fila, sorprendendo i nemici, ormai affaticati, con uomini in piena forza. Le truppe di Cesare assalirono l’accampamento dei pompeiani e li costrinsero a fuggire verso nord. Di fronte alla clamorosa disfatta, Pompeo si staccò le insegne di generale e fuggì a cavallo.

Circa 20 000 pompeiani morirono in battaglia, oltre 24 000 si arresero. Cesare riconobbe il loro valore e li trattò con clemenza.

Pompeo fuggì in Egitto, dove contava sull’appoggio del giovane re Tolomeo XIII. Questi però per ingraziarsi Cesare, lo fece uccidere (29 settembre del 48 a.C.).

Cesare, giunto in Egitto, rimise invece sul trono la colta e affascinante Cleopatra, sorella di Tolomeo, che l’aveva detronizzata.

Dopo un’altra rapida e vittoriosa campagna in Oriente contro Farnace, figlio del re del Ponto Mitridate, Cesare sconfisse gli ultimi pompeiani a Tapso (46 a.C.), in Africa, e a Munda (45 a.C.), in Spagna.

Pochi eventi hanno segnato la storia romana come la battaglia di Farsalo, nella quale si decise il destino non solo dei due comandanti supremi, ma anche di due modi diversi di concepire e gestire il potere, ossia le tendenze dittatoriali da parte di Cesare e la difesa dell’oligarchia senatoria da parte di Pompeo.

Con la vittoria di Cesare, la repubblica romana entrò in una fase di turbolenze che l’avrebbero presto condotta al principato.

venerdì 8 agosto 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è l'8 agosto.

L'8 agosto 1889 muore Benedetto Cairoli.

BENEDETTO CAIROLI, nasce il 28 gennaio 1825 a Pavia, da Adelaide Bono e da Carlo Cairoli. Primo di quattro fratelli: Ernesto, Enrico, Luigi e Giovanni.

Studia alla Facoltà di Giurisprudenza all’Università di Pavia. Fu tra gli organizzatori delle manifestazioni antiaustriache che all’inizio del 1848 animarono le vie cittadine sull’esempio di quanto stava accadendo a Milano (le Cinque Giornate).

Nel 1850 aderisce al partito mazziniano ed entra a far parte del Comitato rivoluzionario di Enrico Tazzoli. Ricercato dalla polizia austriaca per la sua attività di cospiratore, nel 1852 si rifugia prima nella villa di famiglia a Gropello (non fatevi ingannare dalla vicinanza: all’epoca era nel territorio del Regno di Sardegna. Oggi la località si chiama Gropello Cairoli), poi in Svizzera, mentre l’Austria lo condanna per alto tradimento. In esilio, si convince dell’inutilità dei moti insurrezionali mazziniani e si accosta alla politica piemontese.

Tornato in Italia, si trasferisce prima a Genova (dove conosce Giuseppe Garibaldi), poi allo scoppio della II guerra d’indipendenza nel 1859, coi fratelli Enrico ed Ernesto, si arruola nel secondo Reggimento delle Alpi. Dopo il trattato di Villafranca, può tornare nella sua città, Pavia, libera dal dominio austriaco.

Cairoli partecipa anche all’organizzazione nel 1860 della spedizione dei Mille: con il grado di capitano della settima compagnia, parte per la Sicilia, combatte a Marsala e, durante l’occupazione di Palermo, rimane ferito a una gamba (e restò claudicante tutta la vita). Seguì Garibaldi anche nella campagna del Trentino nel 1866: fu l’ultima partecipazione alle spedizioni militari. Lui si dedicò all’attività politica, mentre i fratelli Enrico e Giovanni continuarono a combattere con l’Eroe dei due mondi (Luigi era morto di tifo durante la Spedizione dei Mille).

Nel 1861, con la proclamazione del Regno d’Italia, viene eletto deputato, schierandosi con gli esponenti della Sinistra storica. Quando nel 1867 Rattazzi risale al potere, spera in una politica favorevole alle sue aspirazioni, ma deve ben presto ricredersi: i fatti di Mentana gli dimostrano l’indecisione del governo. Negli anni successivi partecipa poco ai lavori parlamentari e si dedica più intensamente alle cure familiari: nel 1873 sposa la contessa Elena Sizzo.

Quando nel 1876 la Sinistra passa al potere con Depretis, all’inizio appoggia le posizioni del nuovo governo, poi passa all’opposizione e contribuisce alla sua caduta, e succede, proprio a Depretis, come Presidente del Consiglio.

Il 17 novembre 1878, viaggiando in carrozza con re Umberto I, gli salva la vita, impedendo a Giovanni Passanante di pugnalarlo. Viene ferito ad una coscia. Il gesto gli vale, oltre che la gratitudine personale di Umberto I, la medaglia d’oro al valor militare. L’episodio offre l’occasione all’opposizione di Destra di accusare il governo di eccessiva tolleranza nei confronti di organizzazioni sovversive. Nel dicembre del 1878 Cairoli è costretto a lasciare l’incarico di primo ministro. Torna in politica tra il 1879 e il 1881, ricoprendo anche la carica di ministro degli Esteri e dell’Agricoltura (oltre che quella di primo ministro): ritenuto responsabile della grave crisi causata dall’occupazione della Tunisia da parte della Francia, nel maggio del 1881 si dimette. Muore a 64 anni l’8 agosto 1889 a Napoli nella reggia di Capodimonte, ospite del re.

Viene sepolto nel sacrario della villa di Gropello insieme alla madre e ai fratelli.

giovedì 7 agosto 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 7 agosto.

Il 7 agosto 1947 Thor Heyerdhal conclude positivamente il suo viaggio sulla zattera Kon Tiki.

Di Thor Heyerdahl, celebre esploratore e antropologo norvegese, nato il 6 ottobre 1914, viene principalmente ricordato il motivo per cui ottenne fama mondiale: la traversata a bordo della zattera “Kon-Tiki” nel 1947. Fu un lungo viaggio su una grande zattera dal Perù alla Polinesia, durato 101 giorni, ideato da Heyerdahl nel tentativo di avvalorare una sua ipotesi contraria alle teorie scientifiche allora e tuttora dominanti. In pratica, Heyerdahl voleva dimostrare che in tempi antichi la Polinesia fosse stata abitata da popoli provenienti dal Perù e dalle terre degli Incas, piuttosto che da immigrazioni giunte dall’Asia, ipotesi prevalente ancora oggi. Quindi compì quel viaggio a bordo del “Kon-Tiki”, una zattera di circa 20 metri fatta con tronchi di balsa, costruita imitando le capacità e le disponibilità delle civiltà precolombiane presenti anche nei territori dell’odierno Perù. Thor Heyerdahl partì con altre cinque persone a bordo (quattro norvegesi e uno svedese) il 28 aprile 1947 da Callao, in Perù. Arrivarono nell’arcipelago di Tuamotu, nella Polinesia francese, dopo 101 giorni.

Heyerdahl lavorò a sostenere la sua ipotesi per gran parte della vita, e il successo del viaggio del Kon-Tiki – che prendeva il nome dalla divinità che una leggenda ripresa da Heyerdahl voleva avere ispirato la migrazione sudamericana – fu fondamentale per darle attenzione presso la comunità scientifica, malgrado la convinzione degli studiosi resti quella della colonizzazione da Ovest, e malgrado in molti abbiano attaccato e deriso la ricostruzione di Heyerdahl. Ma il viaggio fu anche una storia di grande fama popolare – e questo, secondo lo stesso Heyerdahl, svilì parte della sua credibilità scientifica – e ne vennero un libro, un documentario e un film tutti di grande successo: oltre che la costruzione di un museo a Oslo che ospita la zattera originale.

La passione di Heyerdahl per la scienza e l’antropologia era cominciata molto presto, quando era ragazzo, e un’importante collezione di reperti polinesiani raccolta a Oslo lo indirizzò verso lo studio di quei luoghi. Partecipò a una prima spedizione in Polinesia già a ventidue anni, subito dopo il primo dei suoi tre matrimoni. Dopo il Kon-Tiki, invece, Heyerdahl studio e viaggiò ancora in Polinesia – con un intenso lavoro sull’Isola di Pasqua – ma anche in diversi altri luoghi del mondo. Morì per un tumore al cervello il 18 aprile 2002, a 87 anni, nel borgo ligure di Colla Micheri, in Italia: dove aveva preso una casa e dove fu sepolto, dopo i funerali di Stato a Oslo.

mercoledì 6 agosto 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 6 agosto.

Il 6 agosto 1991 Tim Berners-Lee annuncia e pubblica ufficialmente la prima pagina WWW della storia di Internet.

il sistema che permette di usufruire della gran parte dei contenuti disponibili su Internet – fu descritto ufficialmente per la prima volta il 12 marzo del 1989 dal suo inventore Tim Berners-Lee, in una sorta di memoria che presentò ai suoi capi al CERN di Ginevra. Il World Wide Web – o web – non è un sinonimo di internet (le app, per fare un esempio tra mille, non sono “web”) ma sarebbe poi diventato il principale servizio di internet, cambiando di fatto il mondo. In quel momento però era solo la descrizione di un sistema per gestire la grande mole di informazioni legata agli esperimenti scientifici al CERN tra i circa 17.000 scienziati che ci lavoravano. Il suo nome non era ancora World Wide Web – Berners-Lee ci arrivò successivamente – ma MESH.

Nel 1990, Time Berners-Lee e i suoi collaboratori pubblicarono la prima pagina web all’indirizzo http://info.cern.ch/hypertext/WWW/TheProject.html (è ancora lì, potete visitarla) e il primo server del web era ospitato sul computer di Berners-Lee, un NeXT (la società fondata da Steve Jobs dopo aver lasciato Apple) su cui fu appiccicata una grossa etichetta che diceva “non spegnete, è un server!”. La pagina era una descrizione del progetto che esemplificava e conteneva anche alcuni collegamenti ipertestuali per raggiungere altre pagine: i link, il sistema principale su cui ancora oggi si basa l’architettura delle pagine web.

Le cose continuarono a svilupparsi rapidamente. Nel marzo del 1991 i software necessari per usare il sistema del World Wide Web (il primo browser, di fatto) furono disponibili anche per altre persone al CERN e nell’agosto di quell’anno Berners-Lee annunciò pubblicamente la sua invenzione. Nel dicembre del 1991 fu attivato il primo server del web negli Stati Uniti, nel centro di ricerca SLAC dell’università di Stanford. A lavorare al progetto furono poi invitate anche altre persone che non facevano parte del CERN, quando diventò chiaro che sarebbero servite molte mani in più per scrivere i codici che avrebbero permesso a migliaia di persone di usare il nuovo sistema. Nell’aprile 1993 il CERN disse che “la tecnologia WWW sarebbe diventata utilizzabile liberamente da tutti, senza bisogno di dover pagare alcuna tassa” al CERN. Alla fine del 1993 c’erano già almeno 500 server per il web, che generavano circa l’1 per cento del traffico di internet.

Berners-Lee oggi si occupa del World Wide Web Consortium (W3C), l’organizzazione non governativa con il compito di promuovere internet (di cui è fondatore e presidente) e della World Wide Web Foundation, l’associazione fondata nel 2009 con lo scopo di rendere internet aperto e accessibile ovunque nel mondo.

martedì 5 agosto 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 5 agosto.

Il 5 agosto 1962 nel gran premio di Germania al Nurburgring, debutta la Brabham di Formula 1.

Trent'anni: tanto è durata la storia della Brabham, che fece il suo debutto nel '62 per volontà di «Black Jack», iridato nel '59 e nel '60 con la Cooper. La squadra del campione australiano si affermò già dalla metà degli anni Sessanta, per vivere una nuova stagione di successi nei primi anni Ottanta, quando era però passata sotto il controllo di Ecclestone. L'abbandono del team da parte di Piquet convinse Bernie a concentrarsi sulla FOCA: due elementi che decretarono la fine della squadra.

È il 1966 quando Jack Brabham, al volante di una monoposto che porta il suo nome, conquista il campionato del mondo: un fatto unico nella storia della F.1. Cioè che un pilota diventato costruttore abbia avuto la soddisfazione di svettare nel mondiale con una propria vettura. Dopo aver vinto due titoli di fila nel '59 e nel '60, infatti, Jack Brabham aveva iniziato a pensare a una propria scuderia, anche perché i suoi rapporti con la Cooper, scuderia che lo aveva lanciato, erano andati deteriorandosi progressivamente. Così, nel '62, ai nastri di partenza del campionato del mondo si presenta un nuovo team: quello della Brabham MRD (sigla che sta per Motor Racing Developments), che fino al '65 utilizzerà motorizzazioni Climax. Primo e storico progettista delle vetture, fino a quel '71 in cui la squadra fu ceduta a Bernie Ecclestone, fu Ron Tauranac, australiano come patron Brabham: ogni monoposto di questa prima era del team, portò appunto la sigla BT (Brabham Tauranac).

Alla prima stagione interlocutoria del '62 che vide come pilota solo lo stesso Jack Brabham, seguì un biennio di crescita anche con l'apporto di un altro pilota: Dan Gurney. E sarà proprio lo statunitense a regalare alla squadra la prima vittoria in campionato, nel Gran Premio di Francia del '64, ripetendosi in Messico. Nella stagione successiva, nel team arriva anche Denis Hulme, un neozelandese destinato a vincere il mondiale '67 proprio al volante di una Brabham. In questo 1965, oltre che in F.1, la Brabham si cimenta anche in F.2, raccogliendo con patron Jack e con Denis Hulme una serie di successi propiziati anche dalla motorizzazione Honda. L'era della formula 1.500 cc finisce: nel '66 si passa a quella di 3 litri, e sarà proprio la Brabham a interpretare al meglio i nuovi regolamenti, conquistando il titolo a fine stagione. Titolo bissato, l'anno successivo da Denis Hulme.

Nei quattro anni successivi, la Brabham vincerà però soltanto tre Gran Premi, acuendo una crisi finanziaria che la porterà a essere venduta a Bernie Ecclestone. A Ron Tauranac succedette come responsabile tecnico Ralph Bellamy, cui fece seguito un giovanissimo ingegnere sudafricano destinato a riportare il team al vertice della F.1: Gordon M. Sotto la sua guida, la squadra crescerà sempre di più fino a conquistare un 2° e due 3° posti nel mondiale costruttori nel '75, '78 e '80. La stagione successiva è quella del ritorno al successo pieno: Nelson Piquet si aggiudica infatti il titolo iridato battendo al termine di un estenuante duello la Williams di Carlos Reutemann. L'anno successivo, con la scelta tecnica di sposare la nuova motorizzazione turbo tramite un quattro cilindri realizzato dalla BMW, la squadra non può puntare in alto, vivendo la stagione come interlocutoria. Il riscatto non si fa però attendere molto, visto che nell'83 Nelson Piquet vince il campionato del mondo al volante della sua Brabham-BMW turbo: fra l'altro, il brasiliano e la sua squadra hanno la soddisfazione di svettare per primi nella nuova era della turbocompressione. La potenza sviluppata dal propulsore bavarese arrivò a superare i 1300 CV.

Due anni dopo, la Brabham vinceva, sempre con Nelson Piquet, la sua ultima gara iridata: curiosamente proprio in quel Gran Premio di Francia che l'aveva vista vincere per la prima volta nel '64. Al termine di questa stagione, infatti, l'asso brasiliano lasciava la scuderia per passare alla Williams, allettato soprattutto dalla motorizzazione Honda: una scelta che gli darà ragione, visto che l'anno successivo Piquet conquistò il titolo. Per contro, la Brabham vive nell'86 un anno terribile, non solo perché la nuova vettura messa in campo da Murray è subito tacciata di essere troppo avveniristica oltre che pericolosa dall'ambiente, ma perché sul circuito di Le Castellet, nel corso di alcuni test privati, Elio De Angelis, approdato nel team con Riccardo Patrese dopo il divorzio di Piquet, perde la vita in uno schianto terribile. Sotto accusa è messa proprio la Brabham, oltre all'inefficienza dei mezzi di soccorso. La stagione successiva è l'ultima di un team ormai allo sbando dopo che Bernie Ecclestone ha deciso di disfarsene. Ma dopo un 1988 che per la prima volta dopo decenni vede un campionato del mondo senza la presenza della Brabham, ecco che nella stagione successiva la squadra si ripresenta ai nastri di partenza grazie a una nuova società che ne ha rilevato la gestione da Ecclestone. Si intuisce però subito che la squadra ha il fiato corto: un fiato che terminerà del tutto nel '92, esattamente col Gran Premio di Ungheria, quando Damon Hill riuscì faticosamente a qualificare la sua Brabham da saldi di fine stagione. Anzi, da fallimento.

lunedì 4 agosto 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 4 agosto.

Il 4 agosto 1932 Adriano Olivetti trasforma la azienda del padre nella moderna Società Olivetti.

La storia della Olivetti inizia nel 1908, quando il suo fondatore, Camillo Olivetti, un ingegnere di Ivrea di origine ebraica, dopo essersi occupato per diversi anni della loro commercializzazione, progettò la sua prima macchina da scrivere, la Olivetti M1.

Fu durante gli anni della prima guerra mondiale che iniziò il successo della Olivetti, con la M20, macchina da scrivere con la quale l’azienda riuscì a battere la concorrenza più sulla qualità che sul prezzo. Grazie a questo successo, C. Olivetti creò un’ottima rete di commercializzazione, attraverso una buona rete di distribuzione dei suoi prodotti.

Nel 1932 si ebbe il passaggio di testimone dal padre Camillo al figlio Adriano. E’ sotto la guida di quest’ultimo che l’impresa di Ivrea comincia a caratterizzarsi  e acquista la fama per la quale ancora oggi il nome Olivetti è conosciuto, creando a partire dalla produzione di macchine da scrivere il proprio successo nel settore delle strumentazioni da ufficio (calcolatrici, fatturatrici) e dell’informatica (computer).   Nel 1940 compare la prima addizionatrice Olivetti. Nel 1959 si sviluppa l’Elea 9003 uno dei primi mainframe computer transistorizzati.

E’ a cavallo fra gli anni cinquanta e gli anni sessanta però che inizia la vera ascesa dell’azienda di Ivrea, grazie al successo nella produzione di computer (nel frattempo era passato al timone il figlio di Adriano, Roberto) . E’ di questo periodo la Programma 101, considerata il primo esempio di personal computer, utilizzata dalla NBC e persino dalla NASA per la missione spaziale dell’Apollo 11, e probabilmente uno dei suoi prodotti più celebri.

Nel periodo successivo al 1964, il ruolo della famiglia Olivetti diventò sempre più marginale, con il subentro a quest’ultima di nuovi azionisti. Il Cda della Olivetti ne decise la vendita della maggior parte delle quote all’americana General Electric. 

Il ruolo nel mercato delle strumentazioni da ufficio comincia a declinare a favore delle imprese americane. Il settore dell’informatica però resta forte e durante gli anni ottanta (nel 1978 assunse la guida dell’azienda Carlo De Benedetti) accelera lo sviluppo nell’informatica e nei sistemi, in seguito anche ad una serie di nuove alleanze ed accordi. Furono anni di successo tanto che l’azienda diventò  uno dei principali produttori di personal computer in Europa.

A inizio anni ’90 iniziò però la crisi dei margini di redditività e il progressivo declino nel business dell’informatica e delle tecnologie da ufficio e il conseguente avvicinamento verso il mondo delle telecomunicazioni, prima con la creazione di Omnitel e Infostrada, poi con il successivo assorbimento nel 2003 ad opera di Telecom Italia. 

Sebbene oggi la Olivetti (adesso parte di Telecom Italia) ricopra un ruolo decisamente minore nell’informatica e nelle strumentazioni elettriche rispetto al passato,  l’azienda resta uno degli esempi italiani più validi di innovazione tecnologica, essendosi caratterizzata per anni come leader  in settori ad alta tecnologia e distinguendosi,  fra le altre cose, nell’attenzione per il design industriale dei propri prodotti, in particolare delle macchine da scrivere, alcune delle quali sono diventate un cult per i collezionisti del settore.

domenica 3 agosto 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


Buongiorno, oggi è il 3 agosto.

Il 3 agosto 1829 va in scena a Parigi la prima del Guglielmo Tell di Rossini.

All’apice della fama che lo consacra il più grande operista vivente, dal 1824 Rossini si stabilisce a Parigi, assumendo la carica di ‘Directeur de la musique et de la scène du Théâtre Royal Italien’, con l’obbligo di comporre anche nuovi titoli per il Théâtre de l’Académie Royale de Musique (l’Opéra Français). Ma la tanto sospirata partitura da scriversi espressamente per le scene parigine viene di anno in anno abilmente procrastinata, quasi Rossini sentisse il bisogno d’impadronirsi appieno dell’aura musicale francese prima d’esporsi a un passo professionale così atteso: in una sorta di avvicinamento progressivo alla meta si susseguono pertanto una nuova opera italiana d’argomento francese ( Il viaggio a Reims ), un opéra-comique assemblato su musiche preesistenti ( Ivanhoé , Parigi, Théâtre Royal de l’Odéon, 15 settembre 1826), due adattamenti di opere italiane ( Le Siège de Corinthe e Moïse et Pharaon ), e un’opera comica ch’è originale solo in apparenza ( Le Comte Ory ), provenendo gran parte del materiale musicale dal precedente Viaggio a Reims . 

Di anno in anno cresce dunque l’aspettativa per quello che viene considerato già in anticipo un evento artistico «de la plus grande importance», e quando alfine nel 1828 s’annuncia l’imminente debutto del Guillaume Tell , l’attenzione dell’opinione pubblica parigina diviene esclusiva. Ma dell’opera nuova, all’epoca, non è ancora pronto nemmeno il libretto: scartati alcuni testi di Scribe (il librettista francese di maggior reputazione), quali il Gustave III , poi musicato da Auber (e che sarà alla base del Reggente di Mercadante e del Ballo in maschera verdiano), e La Juive (recuperato da Halévy), la scelta era ricaduta su un libretto del vecchio e onorato Étienne de Jouy, prolisso ma scenicamente efficace, composto da qualche tempo e rimasto inutilizzato. La malferma salute del suo autore costringe a commissionare ad altri le dovute modifiche: l’emergente Hippolyte Bis, chiamato all’incarico, dovrà destreggiarsi fra il timore di suscitare il risentimento dell’anziano collega e le richieste pressanti del musicista, consapevole di giocare con la nuova opera una carta decisiva. 

Quant’altri abbiano messo le mani su quei versi, non è dato sapere: lo stesso Rossini, rievocando come sempre a posteriori una verità di comodo, fece circolare anche i nomi di Armand Marrast e Isaac Adolphe Crèmieux, futuri cospiratori contro Luigi Filippo, guarda caso indicandoli quali responsabili della scena di congiura nel secondo atto. Lo stesso Adolphe Nourrit, il tenore che avrebbe per primo interpretato la parte di Arnold (accanto a Laura Cinti-Damoreau come Mathilde e Henri Bernard Dabadie come Guillaume), sembra abbia dato sfogo al suo estro poetico, come già per Le Comte Ory .

Ai progressivi aggiustamenti del libretto si aggiunsero poi quelli della partitura, soggetta a modifiche continue durante le prove e nel corso delle prime rappresentazioni, per tacere degli interventi subìti negli anni successivi, a opera o meno di Rossini: dalla reazionaria traduzione italiana di Calisto Bassi, quanto mai inopportuna per un soggetto patriottico, e che pur s’acclimatò sulle scene di tutto il mondo, fino alla codificazione di numerosi tagli che portarono la musica dalle quattro ore originali a dimensioni più prossime a quelle del melodramma ottocentesco; lo stesso Rossini approntò una versione dell’opera in soli tre atti, il cui finale recuperava populisticamente il noto tema eroico che conclude l’ouverture. È questa una delle pagine più possenti del catalogo rossiniano, che abbandona lo schema sonatistico delle sinfonie italiane per votarsi a un polittico sonoro nel quale vengono sublimati, in successione, i quattro affetti portanti dell’opera: il dolore, sia esso amoroso o patriottico; il potere consolatorio della natura; gli effetti dirompenti dei suoi elementi, che erompono rivelando una collera a lungo repressa nell’animo; infine, il senso di rivalsa e di finale vittoria cui l’atto eroico conduce. Date queste premesse, è impossibile parlare di una e una sola versione autentica dell’opera, bensì di una partitura aperta a numerose soluzioni esecutive, la cui traccia drammatico-musicale rimane comunque generalmente quella qui esposta.

Atto primo - In un villaggio svizzero è in corso una festa campestre per le nozze imminenti di tre coppie di pastori: fra canti e balli (quartetto, con barcarola del pescatore Roudi, "Accours dans ma nacelle" / "Il picciol legno ascendi"), Guillaume piange in disparte le sorti della patria oppressa dal dominio asburgico. L’anziano Melcthal benedice gli sposi ed esprime al figlio Arnold il desiderio di poter presto fare altrettanto con lui. Vana speranza: il giovane contadino arde segretamente per Mathilde, principessa d’Asburgo ospite nella corte del governatore austriaco Gesler; alle differenze di rango s’aggiungono, insormontabili, quelle politiche, rese ancor più vive dalle sollecitazioni di Guillaume, che ora invita Arnold a unirsi ai ribelli contro il nemico (duetto "Où vas-tu? quel transport t’agite?"/ "Arresta... Quali sguardi"). La festa continua fra danze (Pas de six) e giochi, che proclamano il piccolo Jemmy, figlio di Guillaume, vincitore del tiro con la balestra. L’esultanza generale viene interrotta dall’irruzione del pastore Leuthold: per salvare l’onore della figlia ha ucciso un soldato austriaco, e solo se qualcuno lo condurrà sull’altra sponda del torrente potrà sfuggire alla furia del comandante Rodolphe e dei suoi sgherri che lo inseguono. Guillaume si offre d’aiutarlo, mentre Rodolphe, dopo aver cercato inutilmente di conoscere dal popolo il nome del traghettatore, ordina ai suoi di distruggere il villaggio e si allontana prendendo in ostaggio il vecchio Melcthal.

Atto secondo - Durante una partita di caccia, Mathilde si apparta (romanza "Sombre forêt, désert triste et sauvage" / "Selva opaca, deserta brughiera") per poter incontrare nascostamente l’amato Arnold ("Oui, vous l’arrachez à mon âme" / "Tutto apprendi, o sventurato"). È notte ormai, e mentre la principessa si allontana promettendo un nuovo incontro per il giorno successivo, Arnold viene sorpreso da Guillaume e Walter, che intendono distoglierlo dalla passione amorosa e incitarlo all’amor di patria ("Quand d’Helvétie est un champ de supplices" / "Allor che scorre de’ forti il sangue"). Ma solo dopo aver appresa la notizia che Gesler ha fatto uccidere Melcthal, Arnold risolve di unirsi ai rappresentanti dei vari cantoni, convenuti fra le tenebre per il solenne giuramento contro l’oppressore (inno di congiura "Jurons, jurons par nos dangers" / "Giuriam, giuriamo pei nostri danni").

Atto terzo - Al nuovo incontro segreto, Arnold confida a Mathilde di voler vendicare il padre, cosa che non potrà che dividerli per sempre; vana la supplica della donna ("Pour notre amour plus d’espérance" / "Ah, se privo di speme è l’amore"): il giovane non è più disposto a fuggire per salvarsi la vita, ma rimarrà a difendere la patria. Frattanto giunge dalla pubblica piazza l’eco della festa che Gesler ha organizzato per celebrare il diritto di sovranità sulle terre elvetiche. In segno di sottomissione, tutti devono inchinarsi davanti a un trofeo d’armi, mentre canti e balli accompagnano la cerimonia (Pas de trois et Choeur tyrolien; Pas de soldats). Il rifiuto di Guillaume e Jemmy suscita l’ira di Rodolphe, che ravvisa nell’uomo colui che aveva tratto in salvo Leuthold: l’arresto è immediato. Tuttavia, conoscendone l’abilità d’arciere, Gesler lo sfida offrendogli vita e libertà se sarà in grado di colpire con una freccia una mela posta a distanza sulla testa del figlio. Fra la commozione generale, Guillaume raccomanda a Jemmy di pregare Iddio nella massima calma ("Sois immobile, et vers la terre" / "Resta immobile, e vêr la terra inchina"): il dardo scocca, l’impresa riesce. Sopraffatto dall’emozione, Guillaume s’accascia al suolo, lasciando così scorgere una seconda freccia che aveva tenuto in serbo per Gesler in caso di fallimento. La furia del governatore scoppia irrefrenabile; Mathilde, precipitosamente avvertita da un paggio, accorre sul luogo, ma ottiene soltanto di poter prendere Jemmy sotto la propria protezione, mentre Guillaume viene condotto a morte.

Atto quarto - Arnold s’aggira desolato nella casa paterna ("Asile héreditaire" / "O muto asil del pianto"), quando viene raggiunto dai ribelli in cerca delle armi nascoste da Melcthal per il giorno della rivolta: il giovane s’unisce a loro, consapevole che il momento è vicino. Frattanto Mathilde, ha ricondotto Jemmy da sua madre Hedwige (terzetto "Je rends à votre amour" / "Salvo da orribil nembo"). Mentre il ragazzo, precedentemente istruito dal padre, corre a incendiare la propria casa per dare il segnale della rivolta, sul Lago dei Quattro Cantoni si addensano nubi che preannunciano tempesta: tutti temono per la sorte di Guillaume, ora prigioniero sulla barca di Gesler, che lo conduce alla fortezza (preghiera "Toi, qui du faible es l’espérance" / "Tu che l’appoggio del debol sei"); ma Leuthold annuncia di aver osservato dalla riva che, per far fronte all’impeto delle onde, proprio Guillaume è stato messo alla guida dell’imbarcazione. Tutti accorrono sulla spiaggia, e mentre infuria la tempesta vedono Guillaume riportare faticosamente la barca verso riva; avvicinatosi però a uno scoglio, vi balza prontamente sopra, respingendo il battello in mezzo ai flutti. Gioia e abbracci coi familiari sono subito interrotti: anche Gesler è riuscito a guadagnare la riva; a Guillaume non rimane che imbracciare la balestra e trafiggerlo. Arnold giunge dalla città coi rivoltosi, annunciando che il nemico è stato definitivamente scacciato. La gioia per la libertà riconquistata viene coronata dal sole, che torna a risplendere sulle bellezze della natura ("Tout change et grandit en ces lieux" / "Tutto cangia, il ciel si abbella").


 

sabato 2 agosto 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 2 agosto.

Il 2 agosto 1955 viene brevettato il Velcro.

Fino al 2 aprile 1978, se vi fosse mai capitato di parlare di velcro, non potevate sbagliare. Fino a quel giorno, infatti, il nome per indicare il sistema attacca e strappa (meglio: chiusura hook and loop) usato su giacche, scarpe, borse, giochi, era di proprietà dell’omonima azienda, la Velcro appunto. Quel giorno, però, il brevetto che ne rivendicava la paternità scadeva, e il sistema di chiusura inventato da George de Mestral diventava di dominio pubblico, vantando una serie di imitatori da cui, per rimanere in tema, sarebbe stato difficile staccare il nome di velcro.

Il materiale era nato nella testa del suo inventore, come spesso accade, osservando la natura. Si racconta che un giorno d’estate, negli anni Quaranta, George de Mestral, ingegnere svizzero appassionato di caccia e amante della montagna, se ne fosse uscito per una passeggiata portando con sé anche il suo cane. Di ritorno a casa, si era accorto che i suoi vestiti e il pelo dell’animale erano pieni degli appiccicosi fiori di cardo alpino, quelle palline che si attaccano ovunque. Più incuriosito che infastidito dal caso, de Mestral cercò di carpire i segreti di quei fiori. Fu così che si armò di un microscopio e cominciò a osservare il modo con cui si attaccavano alle superfici.

E quello che vide era un sistema tanto semplice quanto efficace sviluppato dal cardo per diffondere i propri semi (e far innervosire gli appassionati di montagna). La loro superficie infatti era ricoperta di una sorta di aghi le cui estremità terminavano con degli uncini, i quali a loro volta si arpionavano ai cappi naturali presenti sul pelo degli animali o sui tessuti. Così a de Mestral venne l’ idea. Avrebbe sfruttato lo stesso meccanismo per realizzare un sistema di chiusura analogo a quello delle zip, a incastro: uncini da un lato, cappi dall’altro.

Dopo essersi fatto aiutare da un tessitore, l’ingegnere nel 1955 brevettava il suo Velcro, ma non ancora con i connotati in cui sarebbe diventato famoso. Inizialmente era infatti costituito di due strisce di cotone, e solo successivamente sarebbe diventato di nylon, un materiale che meglio si prestava allo scopo, che poteva essere cucito ovunque. Per il nome, invece, la scelta fu facile: bastava pensare alle sue origini e alla sua funzione: ne venne fuori Velcro, l’insieme delle parole francesi velour (velluto) e crochet (gancio, uncino).

Fu un successo spaziale. I primi a beneficiarne furono infatti gli astronauti, dove l’attacca e strappa serviva loro a fissare gli oggetti che non dovevano mettersi a svolazzare nella cabina, e a staccarli all’occorrenza strappando le chiusure. Ma il resto della popolazione non riuscì a cogliere subito le potenzialità dell’invenzione.

Col passare del tempo il velcro si è diffuso a macchia d’olio nel mondo, a grandi linee, possiamo dire che il velcro oggi viene fabbricato tessendo il nylon in modo tale da produrre un tessuto ricco di piccoli anelli, si procede poi alla “rasatura” degli anelli di nylon fino a ottenere tanti minuscoli gancetti che vengono poi riscaldati e fissati affinché mantengano la loro forma.

Oltre a essere un materiale con un’altissima durata, il velcro grazie alla sua conformazione, può essere fissato e staccato a mano senza particolare fatica, mentre la sua resistenza si nota sulle sue parti laterali. Mediante una stima infatti sappiamo che un quadrato da 12 cm di lato può resistere a un peso di circa una tonnellata. Questa proprietà ha reso utilizzabile il velcro in diversi settori: non solo nel campo dell’abbigliamento, ma anche nell’industria spaziale, anche dall’azienda Argotec, e in campo medico.

Oggi l’azienda Velcro ha la sua sede nel Regno Unito e conta circa 2500 dipendenti, i principali prodotti commercializzati sono:

Sistemi generici di chiusura a strappo

Chiusure ultraresistenti

Nastri e chiusure per prodotti tessili

Chiusure a uncino tradizionali

Blocchi di costruzioni per bambini

Adesivi utili al giardinaggio

Piccola curiosità: nel 2016 la Lexus mette in atto un pasce d’aprile presentando i sedili “Variable Load Coupling Rear Orientation (V-LCRO)”, ovvero ricoperti di velcro per garantire aderenza al sedile durante la guida.

venerdì 1 agosto 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il primo agosto.

Il primo agosto 1291 nasce la Confederazione Svizzera.

C’è un giorno, in Svizzera che è festa civile in tutti i 26 cantoni: il 1° agosto. In quel giorno, nel 1291, nasceva il nucleo della Confederazione con il patto federale tra i Uri, Schwyz/Svitto e Unterwald che, per questo sono chiamati i «Cantoni primitivi». 

Quando i rappresentanti delle comunità si incontrarono in un piccolo spiazzo di circa cinque ettari, sul Vierwaldstättersee [Lago dei Quattro Cantoni] vicino a Seelisberg (UR), il prato del Rütli, come viene chiamato nei cantoni di lingua tedesca o Grütli, in quelli di lingua francese e in Ticino, la loro intenzione era quella di segnare un’alleanza difensiva contro la pressione degli Asburgo e dei loro balivi che volevano estendere la loro influenza dall’Austria fino al Gottardo. Probabilmente non immaginavano neppure le «conseguenze» del loro gesto. A questo primo nucleo e con gli stessi intenti, si sono via via aggiunti altri «Paesi» (il termine «Cantone» sarà utilizzato più tardi). 

Solo nel 1848 nasce la Confederazione Helvetica, la Svizzera come la conosciamo oggi. Fino ad allora era più che altro un agglomerato di territori, città e campagne diversi, cresciuti e sviluppatisi uno nell’altro anche con forti tensioni interne che hanno portato persino a rivolte e guerre civili. 

La cerimonia commemorativa del 1° agosto si svolge ogni anno sul prato del Rütli che è Monumento nazionale. Le autorità e i cittadini si recano sul luogo a piedi arrivando dal lago o per un sentiero che scende da Seelisberg e l’avvenimento è trasmesso da tutte le televisioni nazionali. La cerimonia ufficiale Federale è, tutto sommato, molto sobria, un discorso solenne, musica e l’inno nazionale cantato in coro. 

A proposito dell’inno. Solamente dal 1° aprile 1981 la Svizzera ha riconosciuto ufficialmente il «Salmo Svizzero» come inno nazionale. Il Salmo era stato composto da un monaco cistercense dell’abbazia di Wettingen (AG), Albert Swyssig nel 1841 e veniva spesso cantato in occasioni di eventi nazionali in sostituzione di quello precedente «Rufst Du mein Vaterland» la cui musica era quella di «God save the Queen», l’inno inglese. Nonostante l’ufficialità, il Salmo Svizzero non gode di grande popolarità e Il 1° agosto 2013 la Società Svizzera di Utilità Pubblica, che organizza eventi patriottici come la Festa Federale del 1° agosto sul Rütli, ha lanciato un grande concorso di idee per un nuovo inno nazionale che dovrà avere un’impostazione più moderna pur attenendosi a regole severe: «Il testo deve rispecchiare il significato e lo spirito del preambolo della Costituzione federale, i suoi valori. La giuria dovrà anche stabilire se la musica dell’inno nazionale può essere rivisitata restando comunque riconoscibile». Il 12 settembre 2015, in occasione della Festa federale della musica popolare di Aarau, venne selezionata la proposta del cittadino zurighese Werner Widmer, che venne sottoposta all'attenzione del Consiglio Federale, incaricato di valutarne o meno l'approvazione. Tuttavia, ad oggi l'inno è ancora il Salmo svizzero. 

La Festa nazionale, coerentemente con lo stato federale della Confederazione, è celebrata in maniera differente nei diversi cantoni. Dappertutto sventola la bandiera quadrata rossocrociata ma ogni comune festeggia come vuole.

Il momento più importante è alla sera della vigilia, il 31 luglio. Alle 8 tutte le campane della Confederazione suonano a festa, si accendono grandi falò e si sparano i fuochi d’artificio, come a Schaffhausen/Sciaffusa (SH), uno dei posti più suggestivi in cui vedere i festeggiamenti, dove per l’occasione le famosissime cascate del Reno, larghe 150 metri e alte 23, sono illuminate dai giochi pirotecnici.

giovedì 31 luglio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 31 luglio.

Il 31 luglio 1703 Daniel Defoe viene messo alla gogna per diffamazione nei confronti della Chiesa d'Inghilterra.

Figlio di James Foe, mercante di candele londinese whig, liberale, originario delle Fiandre, Daniel Defoe nasce a Londra il giorno 3 aprile 1660. Viene educato in un' "Accademia dei dissenzienti": una scuola politecnica fondata da quei protestanti "cromwelliani" e non anglicani che erano banditi dalle università tradizionali, e che sarebbero divenuti di li a poco gli artefici della Rivoluzione industriale.

Rinuncia a diventare pastore presbiteriano e ben presto si lancia nel commercio viaggiando sul continente. Di volta in volta fabbricante di mattoni, commerciante di prodotti di nuova invenzione, armatore, perde ripetutamente le considerevoli fortune che guadagna. All'apice del successo aggiunge al cognome originario Foe un "De" volto a identificarlo come un rifugiato fiammingo elisabettiano protestante.

Intorno all'anno 1683 Daniel Defoe apre un negozio di merci e sposa Mary Tuffley, figlia di un ricco mercante che vanta una dote di ben 3.700 sterline: da lei avrà sei figli. Nel 1692 arriva il tracollo: Defoe finisce in prigione per bancarotta con 17 mila sterline di debiti, dopo essersi distratto dagli affari per mettersi a scrivere di economia. In questi scritti peraltro Defoe raccomanda la creazione di una banca nazionale (poi nata nel 1694), di compagnie di assicurazioni (i Lloyds nasceranno poco tempo dopo), di casse di risparmio, pensioni, manicomi, auspicando - naturalmente - la riforma delle leggi sulla bancarotta.

La dura esperienza del carcere lo allontana dalle speculazioni avventate. Whig convinto, Daniel Defoe lotta nel 1685 a fianco del duca di Monmouth, figlio protestante e illegittimo di Carlo II, contro la salita al trono di Giacomo, il fratello apertamente cattolico di Carlo ed erede legittimo. Prende quindi parte alla rivoluzione (la cosiddetta "Glorious Revolution") del 1688 arruolandosi nell'esercito; partecipa alla spedizione d'Irlanda e mette il suo talento di libellista al servizio di Guglielmo III d'Orange, quando questi venne chiamato a rovesciare il suocero cattolico Giacomo il quale minacciava di introdurre in Inghilterra uno Stato assoluto, imitando il cugino Luigi XIV nella "pulizia" dei protestanti.

Con il suo scritto "L'Inglese di fiero lignaggio" (The True - Born - Englishman, 1701) difende il re e la sua politica. Si batte in favore della libertà di stampa e di coscienza, della proprietà letteraria e della libertà religiosa. Con la morte del suo protettore, il re Guglielmo d'Orange, Defoe viene arrestato per aver diffamato la Chiesa d'Inghilterra in "La via più breve per i dissenzienti" (The Shortest Way with the Dissenters, 1702). Queste pagine avrebbero successivamente ispirato la "Modesta proposta" (1729) di Jonathan Swift per una soluzione del problema irlandese: si tratta di un pamphlet di satira dal titolo "A Modest Proposal: For Preventing the Children of Poor People in Ireland from Being a Burden to Their Parents or Country, and for Making Them Beneficial to the Publick" (Una modesta proposta: per evitare che i figli degli Irlandesi poveri siano un peso per i loro genitori o per il Paese, e per renderli un beneficio per la comunità), in cui Swift suggerisce provocatoriamente di mangiare i bambini irlandesi.

Defoe suggerisce ironicamente agli anglicani di trattare i dissenzienti come Luigi XIV aveva trattato i suoi sudditi protestanti. La collera delle alte sfere della Chiesa anglicana è tale che la Camera dei comuni lo giudica all'Old Bailey, manda a rogo il libro - fatto, questo, eccezionale - e condanna Defoe a tre esposizioni alla gogna fra le grida di sostegno della folla che lo adorava, nonché all'imprigionamento a Newgate, che sarebbe poi diventato lo sfondo del suo grande romanzo "Moll Flanders".

Con una moglie e sei figli da mantenere, persa la fabbrica di mattoni, Daniel Defoe dà vita in prigione alla rivista "The Review" (1703 - 1713) che uscirà tre volte a settimana e che diventerà una pietra miliare del giornalismo inglese. Defoe scrive da solo, su qualsiasi argomento, tutti i numeri della rivista; mentre affettava un atteggiamento da commentatore politico indipendente si trovava in realtà - in cambio della promessa di rilascio - nel libro paga del primo ministro tory (conservatore) Robert Harley, suo supposto nemico e persecutore; resterà al suo servizio per circa undici anni.

Dopo il 1715 si allontana definitivamente dalla lotta politica. Con sessanta primavere sulle spalle si dedica alle opere romanzesche: pubblica "Robinson Crusoe" nel 1718, romanzo ispirato all'avventura del marinaio scozzese d'origine tedesca, Alexander Selkirk finito in un'isola deserta a seguito di un naufragio, e che, con mezzi di fortuna e con il sussidio del suo ingegno, riesce a costruire da zero il mondo inglese e borghese dal quale era fuggito per insofferenza della sua stessa condizione (borghese). Il successo è immediato, da subito appare immenso, tanto che durerà fino ai nostri giorni.

La seconda parte della storia appare l'anno successivo. Seguono quindi vari romanzi quali "La vita, le avventure e le piraterie del capitano Singleton" (The life, Adventures and Pyracies of the Famous Captain Singleton, 1720); "Fortune e disgrazie della famosa Moll Flanders" (The fortunes and Misfortunes of the Famous Moll Flanders, 1722); "Colonel Jack" (1722); "Giornale dell'anno della peste" (A journal of the Plague Year, 1722) e "Lady Roxana" (Lady Roxana or the Fortunate Mistress, 1724).

Precursore del realismo immaginario, Daniel Defoe è considerato a tutti gli effetti il primo moderno scrittore "seriale". Defoe non era in realtà interessato a creare o sviluppare il romanzo a fini letterari. Era prima di tutto un giornalista e un saggista, e allo stesso tempo anche un professionista della penna pronto a mettere il suo talento al servizio del miglior offerente. Defoe è stato visto più volte dalla critica letteraria come il padre del romanzo moderno, in particolare di quella forma in prosa in cui la figura di un singolo personaggio o di un gruppo di personaggi e del loro destino sia al centro della vicenda, in cui si cerca di rispettare determinati criteri di coerenza e verosimiglianza. Defoe non inventò un genere ma fu di fatto il primo a utilizzare questo tipo di forma letteraria per una produzione sistematica.

Dopo un'esistenza caratterizzata da numerose delusioni e disgrazie, Daniel Defoe muore a Moorfields, nei pressi di Londra, il 24 aprile 1731, abbandonato da un figlio che l'aveva depredato da ogni bene lasciandolo nella miseria più estrema. Oggi è nel cimitero di Bunhill Fields, a Londra.

mercoledì 30 luglio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 30 luglio.

Il 30 luglio 1672 viene alla luce in Francia il cosiddetto scandalo dell'"affare dei veleni".

L’affare dei veleni non viene trattato a scuola (non sia mai che venga raccontato qualcosa di interessante, si rischia poi che gli studenti si sveglino e facciano domande), ma si tratta nientemeno che del caso di cronaca nera più sconvolgente dell’epoca del Re Sole, un’indagine che insozzò indelebilmente l’immagine scintillante della corte di Francia agli occhi dell’Europa.

Tutto iniziò nel 1672 con l’arresto della marchesa di Brinvilliers, una fragile e garbatissima signora di 46 anni, a seguito del ritrovamento di alcune carte compromettenti.

Tempo prima, il padre e i due fratelli della marchesa erano deceduti in circostanze misteriose, nonché sospettosamente simili. Tutti e tre erano lentamente deperiti in una lunga agonia che non aveva lasciato scampo. Nessuno poteva sospettare dell’affranta marchesa, perseguitata da una sorte tanto crudele.

Nella realtà, Madame de Brinvilliers aveva avvelenato il padre e i fratelli con la complicità del suo amante, grande appassionato di alchimia.

Purtroppo, la dolce metà della marchesa era perita improvvisamente in un brutto incidente (forse un esperimento andato male). Durante una perquisizione dell’abitazione, la polizia era entrata in possesso di alcune carte firmate dalla marchesa in persona.

Tali carte dimostravano essenzialmente due cose: il primo era la colpevolezza di Madame de Brinvilliers, il secondo che la medesima non era decisamente un genio del crimine. Marchesa, marchesa… Non si può mettere su carta sempre tutto, specialmente quando si avvelenano familiari con una certa frequenza!

Questa leggerezza le costerà cara: il suo complice si era premurato di conservare ogni ricordo materiale dei traffici di madame de Brinvilliers (ricette, lettere, ricevute…) cosicché, se un domani avesse mai voluto ricattarla, tutto sarebbe stato bell’e pronto. Cosa non si fa per amore...

Come se non bastasse, nelle lettere che la marchesa aveva indirizzato al suo complice, ella pianificava anche l’avvelenamento della sorella e della cognata, così da diventare lei sola l’erede dei beni di famiglia (ah, la banalità del male!).

Consapevole di non avere scampo, la marchesa fuggì a gambe levate riuscendo a nascondersi in un convento, luogo inaccessibile agli agenti del re. Un brillante ufficiale di polizia si finse allora prete e, col tempo, riuscì a guadagnarsi la fiducia della latitante avvelenatrice, fino a prometterle la fuga e attirarla così all’esterno del convento…

Tortura, decapitazione e rogo segnarono la fine di questa dama-assassina, ma non quella delle indagini: il re pretendeva di arrestare il sordido commercio di veleni della capitale ed eliminarne i vertici.

Nicolas Gabriel de la Reynie, capo della polizia che ispirò il personaggio di Fabien Marchal nella serie televisiva Versailles, era venuto a conoscenza che traffici di sostanze illecite si concentravano nel quartiere poco raccomandabile di Saint-Denis (oggi corrisponde alla parte compresa tra il boulevard de la Bonne Nouvelle e la porta Saint-Denis) e lo aveva fatto battere al tappeto dai suoi agenti.

Venditori di veleni, streghe, indovini e altra marmaglia da messa nera venne rastrellata e ammassata nelle prigioni. L’ordine del re era chiaro: bisognava estirpare il problema alla radice!

Gli interrogatori e le indagini portarono alla luce nuovi crimini, commerci sordidi e diversi colpevoli, ma le rivelazioni che maggiormente attirarono l’attenzione di Reynie furono quelle della maga La Voisin, una fattucchiera molto nota del quartiere.

Preoccupato dai nomi illustri che ripetutamente saltavano fuori nel corso delle indagini, il capo della polizia ritenne opportuno avvertire persino il ministro della guerra, il celebre marchese de Louvois.

Uno scandalo ripugnante e senza precedenti stava prendendo forma. L’aspetto più preoccupante della vicenda, per Reynie, non era tanto il ricorso disinvolto al veleno, quanto piuttosto il livello sociale delle persone coinvolte, la crème de la crème della Francia!

Il re, informato dal fido ministro de Louvois, ordinò di arrivare in fondo alla faccenda e le indagini si fecero serrate, con ben 319 arresti e 35 condanne a morte.

La contessa Olimpia Mancini, amante “rottamata” del Re Sole, venne accusata d’aver tentato in passato di vendicarsi della rivale Louise de la Vallière tramite l’impiego del veleno. Se il piano della contessa era quello di riconquistare in questo modo il re, le andò male perché venne bandita dal regno.

Sua sorella Maria Anna Mancini, duchessa di Bouillon,  venne accusata di voler avvelenare il marito per poter sposare il proprio amante (che era suo nipote, ma tanto c’è un limite alla sensibilità allo scandalo, oltre il quale nessuno fa più caso a nulla).

Al processo la duchessa si fece una bella risata presentandosi al braccio del marito da un lato, dell’amante dall’altro. Venne totalmente assolta.

Nel frattempo, il marchese de Louvois e Reynie avevano fatto una malaugurata scoperta: durante gli interrogatori era venuto fuori troppo spesso il nome di Madame de Montespan, la potente favorita del re, nonché madre di sette dei suoi figli!

Secondo le testimonianze raccolte, per mantenere viva la passione del re la Montespan aveva fatto ricorso a messe nere, malocchio, filtri d’amore, veleno e altre “amenità”. Si accennò addirittura al sacrificio di neonati!

Difficile distinguere il crimine dalla calunnia in questo caso, in quanto alla Montespan certo non mancavano i nemici. Tuttavia, poiché il re fece improvvisamente chiudere il caso e poi sequestrare e bruciare le carte che la riguardavano, risulta difficile credere che fosse del tutto estranea alla faccenda. Quello fu l’inizio della di lei “rottamazione”, nonché di una profonda crisi morale del re.

Chi non si fece scappare questo prezioso spunto letterario? Alexandre Dumas che, con il successo de I tre Moschettieri, aveva dimostrato che per scrivere delle buone storie non occorre per forza inventarle da zero. Suo il libello "L'avvelenatrice", pubblicato nel 1840.

martedì 29 luglio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 29 luglio.

Il 29 luglio 1976 Tina Anselmi viene nominata Ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale. Per la prima volta una donna riceve un incarico di governo in Italia.

Tina Anselmi nasce il 25 marzo del 1927 a Castelfranco Veneto, in una famiglia cattolica: la madre, casalinga, si occupa della gestione di un'osteria insieme alla nonna di Tina, mentre il padre è un aiuto farmacista (che sarà perseguitato dai fascisti per le sue idee vicine al socialismo).

Dopo avere frequentato il ginnasio a Castelfranco Veneto, la giovane Tina Anselmi si iscrive all'istituto magistrale di Bassano del Grappa dove viene costretta, insieme con altri studenti, ad assistere - il 26 settembre del 1944 - all'impiccagione compiuta dai nazifascisti di più di trenta prigionieri per rappresaglia.

Da quel momento in poi Tina - che fino ad allora non si era mai interessata di politica - sceglie di contribuire attivamente alla Resistenza, e diventa staffetta - dopo avere adottato il nome di battaglia "Gabriella" - della brigata Cesare Battisti guidata da Gino Sartor, prima di passare al Comando regionale veneto del Corpo volontari della libertà.

Conclusa la Seconda guerra mondiale, Tina si iscrive all'Università Cattolica di Milano (nel frattempo era entrata a far parte della Democrazia Cristiana, prendendo parte attivamente alla vita di partito), dove si laurea in Lettere. Diventa, quindi, insegnante alle scuole elementari, e nel frattempo si dedica all'attività sindacale nella Cgil, prima di passare alla Cisl (fondata nel 1950): se tra il 1945 e il 1948 era stata dirigente del sindacato dei tessili, tra il 1948 e il 1955 fa parte del sindacato degli insegnanti elementari.

Sul finire degli anni Cinquanta, Tina Anselmi viene scelta come incaricata nazionale dei giovani della Democrazia Cristiana, mentre l'anno successivo entra a far parte del consiglio nazionale dello Scudo Crociato.

Nel 1963 viene eletta nel comitato direttivo dell'Unione europea femminile, organismo di cui - nello stesso anno - diventa vicepresidente. Abbandonato l'incarico di rappresentante dei giovani della DC, nel 1968 viene eletta deputata per il partito nella circoscrizione Venezia-Treviso.

Il 29 luglio del 1976 diventa la prima donna ministro in Italia, venendo scelta per il governo Andreotti III come ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale. In seguito, sempre con Giulio Andreotti presidente del Consiglio, è anche ministro della Sanità (negli esecutivi Andreotti IV e Andreotti V), contribuendo in maniera decisiva alla formulazione della riforma che porta alla nascita del Servizio Sanitario Nazionale.

Nel 1981, viene nominata - nel corso dell'VIII Legislatura - presidente della Commissione di inchiesta sulla loggia massonica P2 di Licio Gelli, i cui lavori si concluderanno quattro anni dopo.

Nel 1992 viene proposta dal settimanale satirico "Cuore" come candidata per la presidenza della Repubblica, ricevendo anche il sostegno del gruppo parlamentare La Rete; nello stesso anno, però, per la prima volta dal 1968 è costretta a lasciare il Parlamento, dopo essere stata inserita (di proposito) da Arnaldo Forlani in un seggio perdente.

Il 18 giugno del 1998 Tina Anselmi riceve l'onorificenza di Dama di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica Italiana.

Nel 2004 si spende per pubblicizzare il libro "Tra città di Dio e città dell'uomo. Donne cattoliche nella Resistenza veneta", che contiene un suo saggio, mentre due anni più tardi il blog intitolato "Tina Anselmi al Quirinale" ripropone il tam tam mediatico che la vorrebbe presidente della Repubblica; nel 2007, invece, Tina è la madrina del sito web "Le democratiche", concepito per fare sì che anche le donne possano contare su una presenza significativa in occasione delle primarie del Partito Democratico.

Nel 2009 l'ex ministro si vede assegnare il "Premio Articolo 3" a riconoscimento dell'attività svolta nel corso della sua vita, da giovanissima staffetta partigiana a "guida esemplare della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla Loggia P2", oltre che come "madre della legge sulle pari opportunità".

Nel 2016 viene celebrata la sua figura con l'emissione di un francobollo (emesso il 2 giugno, in occasione della festa della repubblica): è la prima volta che viene dedicato un francobollo a una singola persona ancora in vita.

Tina Anselmi si spegne all'età di 89 anni nella sua città natale, Castelfranco Veneto, il 1° novembre 2016.

Le esequie si tennero il 4 novembre nel duomo di Castelfranco Veneto e furono presiedute dal vescovo di Treviso Gianfranco Agostino Gardin alla presenza dei presidenti delle due Camere. Al termine del rito la salma fu sepolta nella tomba di famiglia nel cimitero cittadino.

lunedì 28 luglio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 28 luglio.

Il 28 luglio 1904 viene inaugurata la Sinagoga a Roma.

Da più di un secolo la sagoma della Grande Sinagoga delinea lo skyline del centro di Roma nel tratto di Lungotevere tra l’antico Ghetto e l’isola Tiberina. Per la costruzione dell’edificio di culto in stile eclettico, fu bandito nel 1889 un concorso cui parteciparono 26 gruppi di architetti, i cui progetti sono tutti conservati nel Museo ebraico che si trova al di sotto della sinagoga. “Una partecipazione così larga – spiega l’architetto Gianni Ascarelli, assessore alla cultura della Comunità ebraica di Roma – dà evidenza del grande significato simbolico che assunse la costruzione del Tempio maggiore”. Abbattuti i confini del ghetto, gli ebrei si affacciavano alla piena partecipazione alla vita sociale, economica e politica della capitale del nuovo Regno d’Italia.

Alla fine della selezione fu scelto il progetto degli architetti Armanni e Costa, ispirato a motivi dell’architettura greca e assira e dell’Art Nouveau, con una pianta a croce greca e sormontata da una grande cupola di alluminio traslucido. All’interno le decorazioni geometriche e floreali degli affreschi di Annibale Brugnoli e Domenico Bruschi e delle vetrate di Cesare Picchiarini creano giochi di luce che: “Soprattutto alla sera – afferma Ascarelli – quando c’è l’illuminazione artificiale la rendono una scatola preziosa“.

Elementi fondamentali dell’edificio di culto ebraico sono l’Aron Ha-Kodesh, l’Arca Santa, l’armadio riccamente decorato che contiene i rotoli della Torah (i primi 5 libri della Bibbia) e la Tevà o Bimà, il podio da cui si legge la Torah o si recitano le preghiere. Le sinagoghe si collocano al centro della vita delle comunità ebraica. A Roma esiste la comunità ebraica più antica del mondo occidentale ed è un particolare legato alla sinagoga di Ostia Antica a darne la prova.

Come tutte le sinagoghe del mondo, anche il Tempio Maggiore di Roma oltre che luogo di culto è un luogo di incontro culturale e di confronto, come in occasione della visita di papa Francesco e, prima di lui, di Benedetto XVI nel 2010 e di Giovanni Paolo II nel 1986. Alla sinagoga fanno capo tutti gli organismi religiosi e amministrativi che regolano la vita della comunità, come l’Ufficio rabbinico, il bagno rituale, l’Archivio storico e il Museo ebraico di Roma. Rimane tuttavia principalmente il luogo dove la comunità si raccoglie per pregare e celebrare la festa, a cominciare da quella fondamentale: lo Shabbat, il Sabato. E’ il giorno di riposo in memoria del settimo giorno della creazione, in cui Dio stesso si riposò. Inizia il venerdì sera appena prima del tramonto del sole e termina il sabato sera, con l’apparizione della prima stella nel cielo. Durante questo intervallo di tempo l’ebreo praticante deve abbandonare tutte le sue occupazioni abituali per non pensare che a Dio.

 

domenica 27 luglio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 27 luglio.

Il 27 luglio 2014 Vincenzo Nibali vince il Tour de France.

 Il romantico tramonto parigino accoglie un eroe sportivo. Mancano tre km alla fine del Tour de France, in attesa dello sprint finale, poi vinto del tedesco Marcel Kittel, il tempo viene neutralizzato. Significa che per Vincenzo Nibali suona il gong nella storia: è il settimo italiano a vincere il Tour de France dopo Bottecchia, Bartali, Coppi, Nencini, Gimondi e Pantani. Una vittoria perentoria, una missione meditata da un paio d'anni, forse da una vita, di una portata enorme per il ciclismo e per tutto lo sport italiano. La maglia gialla nella marcia di avvicinamento a Parigi, ma anche negli ultimi metri della passerella finale, viene scortata da tutti i compagni dell'Astana. E stavolta è una scorta dolce, priva dell'agonismo della gara, a volte talmente feroce da appiattire l'umanità. Scarponi e compagni hanno faticato tutti i giorni per tenere il capitano in rampa di lancio, ma quando non ci sono riusciti lui ha fatto da solo, applicando una ricetta straordinariamente difficile nella sua semplicità: ha fatto valere la legge del più forte. 

Ore 19,10 del 27 luglio 2014, inizia una festa senza fine: l'Arco di Trionfo, le note dell'inno di Mameli che inebriano gli Champs Elysées. Vincenzo le vive intimamente, è preda di una commozione genuina, le lacrime ne segnano il volto. Ci sono i genitori, la moglie Rachele, l'ultima arrivata Emma, tenerissima, che sembra quasi capire con fierezza il capolavoro del papà. Non è neanche semplice aggiungere altro ai fiumi di inchiostro versati nel mondo per la maglia gialla. I termini più usati in queste tre settimane sono stati 'normale', ' comune' ecc. Vero, viene da associarsi. Vincenzo Nibali è il ragazzo della porta accanto che va fortissimo in bicicletta. Ma non cambia mai atteggiamento verso il prossimo. Forse è per questo che in fase di avvicinamento al Tour ci siamo preoccupati che non ce la potesse fare. C'era il timore che quella serenità potesse soccombere di fronte alla brutale voglia di riscatto di Contador o alle scariche adrenaliniche dell'allampanato Froome. Nibali con le sue imprese ha ribaltato tutto, e anche senza controprova è lecito affermare che lo Squalo questo Tour lo avrebbe vinto lo stesso anche se il pistolero e il britannico non si fossero massacrate le ossa sull'asfalto. Magari con distacchi più contenuti, ma avrebbe vinto lo stesso. Nibali lo ha fatto capire a Sheffield nel secondo giorno, quando l'Inghilterra sembrava la Vallonia e lui ha piazzato una rasoiata da classica fulminando i suoi rivali.

A pensarci bene però, anche quel 'comune' va riveduto e corretto. Basta analizzare i distacchi inflitti. Peraud e Pinot, giusto orgoglio di una Francia che torna a respirare il podio con due atleti dopo 30 anni, sono dietro di otto minuti. Il decimo, Bauke Mollema, addirittura a ventuno minuti e mezzo. Il tutto tenendo presente che, a parte la cavalcata selvaggia scatenata nell'ultima tappa pirenaica verso Hautacam, Nibali ha sempre tenuto benzina nel serbatoio, dando la sensazione di spingere meno rispetto alle potenzialità. Avrà pure la faccia del ragazzo della porta accanto, ma comune... Proprio no. Entra in un club che più esclusivo non si può: ci sono Jacques Anquetil, Eddy Merckx, Felice Gimondi, Bernard Hinault e Alberto Contador. Sono gli unici nella storia del ciclismo che hanno vinto almeno una edizione delle maggiori corse a tappe, Tour, Giro, Vuelta.

Nel Tour ha dimostrato una completezza impressionante. Di Sheffield abbiamo detto, ma è stato solo l'inizio. Il capolavoro Nibali lo compie sul pavè della Roubaix, più odiato che amato dai big: Froome sulle pietre della leggenda neanche ci arriva, Contador naufraga nel fango, Vincenzo si prende la prima pagina de L'Equipe che sembra un tuono: 'Dantesque". E poi i Vosgi, la Plance des Belles filles, e le Alpi nel giorno dei 100 anni del mito Bartali, ed ancora sui Pirenei, quando chiude il poker perfetto. Ottavio Bottecchia, Gino Bartali, Fausto Coppi, Gastone Nencini, Felice Gimondi, Marco Pantani, i nostri eroi in giallo. Ora lo Squalo, di gran lunga il più meridionale di tutti, segnale di un ciclismo che cambia geografia non solo nel mondo, ma anche in Italia. Merci, Monsieur Nibalì.

sabato 26 luglio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 26 luglio.

Il 26 luglio 1878, in California, il poeta e fuorilegge che si faceva chiamare Black Bart compie la sua ultima fuga riuscita, quando ruba una cassetta di sicurezza da una diligenza della Wells Fargo. La cassetta vuota verrà trovata in seguito con all’interno un poema beffardo.

Charles Earl Bowles, detto anche Black Bart (Norfolk, 1829 – 28 febbraio 1888), fu un rapinatore statunitense, specializzato in assalti a diligenze e divenuto famoso nel Far West americano anche per la sua usanza di lasciare messaggi poetici dopo due dei suoi più epici colpi. Conosciuto anche con i nomi di Charles E. Boles, Charles Bolton, CE Bolton, Charles E. Bowles e Black Bart the Po8, è da sempre stato considerato come un bandito gentiluomo e uno dei più famigerati assalitori di diligenze operanti nella California del Nord e nell’Oregon del Sud, fra il 1870 ed il 1880. La fama che ha avuto per i suoi numerosi colpi fu dovuta soprattutto alla sua audacia, al suo stile ed alla sua raffinatezza.

Nacque a Norfolk, in Inghilterra, da John e Maria Bowles. Era uno dei 10 fratelli, sette maschi e tre femmine. All’età di due anni, i suoi genitori emigrarono nella Contea di Jefferson, New York, dove il padre acquistò una fattoria a quattro miglia a nord di Plessis Village, verso Alexandria Bay.

Alla fine del 1849 Bowles, chiamato dagli amici Charley, e due dei suoi fratelli, David e James, parteciparono al California Gold Rush. Iniziarono a lavorare presso una miniera del North Fork, in California.

Bowles lavorò solo un anno prima di tornare a casa nel 1852. Ben presto fece un nuovo viaggio presso i campi per l’estrazione dell’oro della California, con il fratello David e con un altro fratello, Robert; sia David che Robert morirono per malattia, poco dopo il loro arrivo. Bowles continuò a lavorare nella miniera per altri due anni prima di partire.

Nel 1854, in Illinois, Bowles (che per qualche motivo cambiò l’ortografia del suo cognome in “Boles”) sposò Mary Elizabeth Johnson. Ebbero quattro figli. Nel 1860 la coppia andò a vivere a Decatur, Illinois.

Il 13 agosto 1862 Boles venne arruolato nell’esercito nella società B di Decatur, nel 116º Reggimento. Dimostrò di essere un buon soldato, raggiungendo il grado di sergente prima di fare un anno nell’esercito. Prese parte a numerose battaglie e campagne, tra cui Vicksburg, (dove fu gravemente ferito) e Sherman. Il 7 giugno 1865, venne dimesso a Washington, District of Columbia e tornò a casa in Illinois. Aveva ricevuto un temporaneo brevetto sia come sottotenente che tenente.

Dopo lunghi anni di guerra, passò ad una vita tranquilla di agricoltura. Nel 1867 fu di nuovo ingaggiato in prospezioni nell’Idaho e nel Montana. Poco si sa di lui in questo periodo, ma in una lettera di agosto del 1871, indirizzata alla moglie, citò un episodio spiacevole con alcuni dipendenti della Wells Fargo & Company. Per un certo periodo non scrisse più alla moglie e lei ritenne che fosse morto.

Acquisito il soprannome di Black Bart, commise 28 rapine alle diligenze della Wells Fargo, nel nord della California, tra il 1875 ed il 1883 e lungo la storica Siskiyou Trail, tra la California e l’Oregon. Anche se ha lasciato solo due poesie, nei siti di alcune delle sue rapine, la sua firma divenne di grande fama. Black Bart ebbe molto successo e si allontanò con migliaia di dollari ogni anno.

Boles aveva paura dei cavalli e compì tutte le sue rapine a piedi. Con questo, insieme alle sue poesie, si guadagnò molta notorietà. Nei suoi anni da bandito di strada, non sparò mai un colpo di pistola.

Boles fu sempre cortese e non pronunciò mai alcuna parolaccia. Indossava un lungo cappotto spolverino di lino ed una bombetta. Aveva la testa coperta da un sacco di farina, con buchi per gli occhi, e brandiva un fucile da caccia. Queste furono le sue caratteristiche distintive che divennero il suo marchio.

Il 26 luglio 1875 Boles derubò la prima diligenza a Calaveras County, sulla strada tra Copperopolis e Milton. Ciò che rese il suo crimine insolito furono la cortesia e le buone maniere del fuorilegge. Parlava con tono profondo e risonante e disse a Shine John, il postiglione: «Per favore, butti giù la cassaforte!» Non appena Shine aveva porto la cassaforte, Black Bart gridò: «Se lui avesse il coraggio di sparare, dategli una dura scarica, ragazzi!»

Questa prima rapina fruttò a Boles solo $ 160.

L’ultima rapina ad una diligenza ebbe luogo presso Funk Hill, a sud-est di Copperopolis. Il postiglione era Reason McConnell, che stava attraversando un fiume col traghetto Reynolds. Alla traversata, McConnell raccolse Jimmy Rolleri, di 19 anni, figlio del proprietario del traghetto. Jimmy Rolleri aveva con sé un fucile e scese in fondo alla collina, su una strada ripida, per sincerarsi che la diligenza fosse stata in grado di scendere. Ritornato sulla sommità, si accorse che la diligenza non c’era più e cominciò a cercarla a piedi, trovandola poco distante da lui.

Capì così che la diligenza era stata avvicinata da qualcuno; Black Bart uscì da dietro una roccia con il suo fucile da caccia; egli aveva fatto scendere McConnell per impossessarsi della cassaforte, nonostante la Wells Fargo l’avesse ben sigillata. McConnell informò Rolleri che vi era una rapina in corso e Rolleri tentò di ferire Bart con due colpi del suo fucile, mentre questi stava già scappando. Jimmy però lo rincorse e tentò ancora di sparargli, mentre Bart entrò in un boschetto; Bart venne ferito alla mano e continuò la sua fuga per ancora un quarto di miglio, prima di fermarsi esausto e di fermare l’emorragia con un tronchetto marcio. Nonostante tutto, Bart riuscì fuggire in definitiva con $ 500 in monete d’oro, lasciando il fucile in un albero cavo.

Durante la sua ultima rapina del 1883, quando Boles venne ferito e fu costretto a fuggire, lasciò diversi oggetti personali, tra cui un paio di occhiali, prodotti alimentari ed un fazzoletto con un segno di lavanderia FXO7. I detective della Wells Fargo, James B. Hume (fisionomicamente quasi identico a Boles, soprattutto per via dei baffi) ed Henry Nicholson Morse contattarono tutte le lavanderie di San Francisco, per avere informazioni su possibili contatti con Boles. Dopo aver interrogato quasi 90 operatori delle lavanderie, la lavanderia usata da Boles fu individuata nella Ferguson & Bigg’s, in Bush Street, California; gli addetti di quella lavanderia furono in grado di identificare il fazzoletto come appartenente a Boles, che viveva in una modesta pensione.

Boles si descriveva come un “ingegnere minerario” e fece frequenti “viaggi d’affari”, coincidenti con le rapine della Wells Fargo. Dopo aver inizialmente negato di essere Black Bart, Boles alla fine ammise di aver rapinato diverse diligenze della Wells Fargo ed anche alcuni crimini commessi prima del 1879. Quando la polizia esaminò i suoi beni, fu trovata anche una Bibbia, un regalo della moglie, con inciso il suo vero nome. La polizia, dopo il suo arresto, dichiarò che Boles era “una persona di grande resistenza”.

La Wells Fargo sporse denuncia solo sulla rapina finale. Boles venne giudicato colpevole e condannato a sei anni di carcere a San Quintino, ma la sua permanenza venne ridotta a quattro anni per buona condotta. Quando venne rilasciato, nel gennaio 1888, la sua salute era decisamente peggiorata a causa delle condizioni della prigione. Era visibilmente invecchiato, la sua vista stava calando e divenne sordo ad un orecchio. Alcuni reporter chiesero a Boles, dopo la scarcerazione, se era intenzionato a rapinare altre diligenze. “No, signori”, rispose sorridendo: “Io ho finito con la criminalità”. Un altro giornalista gli chiese se poteva scrivere ancora delle poesie. Boles rise e disse: “Allora non mi hai sentito dire che ho finito con la criminalità?”

Boles non tornò più dalla moglie Maria, trasferitasi ad Hannibal, Missouri. Tuttavia le scrisse dopo la scarcerazione dicendo che era stanco di essere pedinato dalla Wells Fargo, si sentiva demoralizzato e voleva fuggire da tutti. Nel febbraio 1888, Boles lasciò la sua casa in Nevada e scomparve. Hume riferì alla Wells Fargo che Boles venne rintracciato al Palace Hotel, a Visalia; l’albergatore disse che un cliente rispondeva alla descrizione di Black Bart, dopodiché Boles riscomparse. L’ultima volta che Boles venne avvistato fu il 28 febbraio 1888.

Il 14 novembre 1888 un’altra diligenza della Wells Fargo venne derubata da un bandito mascherato, che lasciò un versetto. Il detective Hume venne chiamato ad esaminare la nota. Dopo il confronto con la scrittura di una vera e precedente poesia di Black Bart, dichiarò che la rapina fu opera di un altro criminale.

Vi furono alcune voci che sostenevano che la Wells Fargo avesse pagato e mandato via il bandito per impedirgli di compiere altre rapine. Tuttavia la Wells Fargo negò tutto.

Secondo quanto riferito, durante l’estate del 1888, un rapinatore di diligenze non identificato venne ucciso vicino a Virginia City, Nevada; se si fosse trattato di Black Bart, probabilmente il suo corpo sarebbe stato riconosciuto. Alcuni credono che Boles si fosse trasferito a New York City e qui fosse vissuto tranquillamente per il resto della sua vita, morendo nel 1917, anche se questo non è mai stato confermato. Altri credono al racconto improbabile secondo il quale l’ex bandito poeta, non avendo problemi di vista, si fosse recato nel Montana, o forse in Nevada, per fare fortuna.

venerdì 25 luglio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 25 luglio.

Il 25 luglio 1943 Mussolini si dimette e viene arrestato. E' la caduta del fascismo.

«La guerra continua. L’Italia, duramente colpita nelle sue province invase, nelle sue città distrutte, mantiene fede alla parola data, gelosa custode delle sue millenarie tradizioni»… così l’annunciatore Arista del Giornale Radio, alle 22,45 del 25 luglio 1943 annunciava alla nazione che Sua Maestà il Re Imperatore aveva accettato le dimissioni del Cavaliere Benito Mussolini dalla carica di Capo del Governo, Primo Ministro Segretario di Stato, e di aver nominato in sua vece il Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio.

Sulla scorta della memorialistica e della diaristica sull’argomento abbiamo ricostruito quanto avvenne in quel 25 luglio in un’afosa giornata della sciroccosa estate romana, particolarmente «calda» perché il giorno precedente, dopo quattro anni, si era riunito il Gran Consiglio del Fascismo alle ore 17,00 nella sala del Mappamondo di Palazzo Venezia; Gran Consiglio che si era concluso con l’approvazione, dopo dieci ore di discussione, dell’ordine del giorno di Dino Grandi con cui era stato chiesto che il Capo del Governo (Mussolini) restituisse al Re «… l’effettivo comando delle Forze Armate e quella suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a lui attribuiscono …». In chiare lettere le dimissioni di Mussolini.

Pur non esistendo un verbale della storica seduta, attraverso le versioni date successivamente dai presenti e dallo stesso Mussolini nel suo volume “Storia di un anno -II tempo del bastone e della carota”, risulta che votarono «Sì» i seguenti 19 alti gerarchi: Acerbo, Albini, Alfieri, Balella, Bastianini, Bignardi, Bottai, Cianetti, Ciano, De Bono, De Marsico, De Stefani, De Vecchi, Federzoni, Gottardi, Grandi, Marinelli, Pareschi, Rossoni; mentre Biggini, Buffarini Guidi, Frattari, Galbiati, Polverelli, Scorza e Tringali votarono contro. Si astenne il solo Suardo; Farinacci invece, l’uomo dei tedeschi, presentò e votò un suo personale ordine del giorno.

Paolo Monelli, il primo a dedicare un libro, “Roma 1943”, sull’argomento scrisse: «… a votazione conclusa Mussolini chiede: “Chi porterà questo ordine del giorno al Re?…”. “…Tu lo porterai…” risponde Grandi. “…Mi pare che basti…” dice Mussolini e prosegue: “…Voi avete provocato la crisi del regime. La seduta è tolta…”.

All’invito di Sforza di chiudere la seduta con il rituale «Saluto al Duce!» il protocollare «A noi!» di risposta risuona molto fiacco e distratto, alcuni gerarchi erano già usciti dalla sala.

Parallelamente all’azione promossa da Dino Grandi (avvocato bolognese, all’epoca Ministro Guardasigilli), nel corso di quel fatidico 1943 si era mosso nella stessa direzione anche il Re; infatti in una sua lettera al duca Acquarone, Ministro della Real Casa, si legge: «…Fin dal gennaio 1943 io concretai definitivamente la decisione di porre fine al regime fascista e di revocare il Capo del Governo Mussolini. L’attuazione di questo provvedimento, resa più difficile dallo stato di guerra, doveva essere minuziosamente preparata e condotta nel più assoluto segreto, mantenuto anche con le persone che vennero a parlarmi del malcontento del Paese. Lei è stato al corrente delle mie decisioni e delle mie personali direttive, e Lei sa che soltanto queste dal gennaio del 1943 portarono al 25 luglio successivo».

Ma torniamo a quelle prime fatidiche ore del 25 luglio che videro rientrare Mussolini a Villa Torlonia, atteso dalla moglie Rachele che così ricorda: «…L’aspettavo in piedi e gli sono corsa incontro in giardino. Era con Scorza. Non so come mi sia uscita di bocca la frase “…Li hai fatti almeno arrestare tutti?”. Benito ha risposto a voce bassa: “Lo farò”. Erano le cinque quando ci siamo salutati e ci siamo augurati un buon riposo».

Giova a questo punto rammentare che Dino Grandi, immediatamente uscito da Palazzo Venezia, si era incontrato con il duca di Acquarone e messolo al corrente del voto del Gran Consiglio, lo aveva invitato a rendere partecipe il Re delle notizie e di aver deciso di anticipare di 24 ore l’arresto di Mussolini, già stabilito per il giorno 26.

Seguiamo pertanto il duca Acquarone che, dopo aver riferito al sovrano sulle decisioni adottate di comune accordo con il generale Ambrosio, Capo di S.M. Generale e il suo ufficiale Addetto, il generale Giuseppe Castellano, aveva dato il via alle complesse operazioni relative all’arresto di Mussolini. D’intesa pertanto con il generale Angelo Cerica, Comandante generale dell’Arma dei Carabinieri, da poco succeduto al generale Hazon, perito nel corso del bombardamento del 19 luglio su Roma, aveva convocato il Comandante del gruppo interno dei Carabinieri e ordinato al Ten. Col. Giovanni Frignani che venisse sospesa la libera uscita ai componenti le tre Legioni di stanza nella città e che la truppa, schierata in armi nei cortili delle rispettive caserme, attendesse di venire passata in rassegna.

II generale Cerica quindi ordinò ai capitani Paolo Vigneri e Raffaele Aversa, alla presenza dello stesso Frignani e del Commissario di P.S. Marzano: «Vi affido un compito per cui faccio appello al giuramento di fedeltà al Re, da voi prestato nel giorno della vostra nomina ad ufficiale. Fra qualche ora, d’ordine di Sua Maestà il Re, voi dovete arrestare Mussolini che, messo in minoranza nella seduta di questa notte del Gran Consiglio, sarà sostituito nelle funzioni di Capo del Governo dal Maresciallo Badoglio».

«Va bene» risposero i due capitani e rimasero in attesa di ulteriori disposizioni. Le modalità di esecuzione prevedevano per il trasporto del Duce l’uso di un’ambulanza con i vetri smerigliati (messa a disposizione dall’autoparco del Ministero degli Interni) e la scorta di cinquanta carabinieri a bordo di un autocarro con i teloni abbassati; fu convocato anche il Questore Giuseppe Morazzini, incaricato della sicurezza della residenza reale, con il preciso compito di agevolare l’ingresso degli automezzi all’interno di Villa Ada.

Nel rapporto si legge che sull’ambulanza, oltre al conducente, un agente di P.S., si trovavano altri tre agenti in abito civile armati di mitra, tutte persone di fiducia del Commissario Marzano e, in previsione di una colluttazione, vi avevano preso posto anche tre sottufficiali dei carabinieri particolarmente prestanti (i vicebrigadieri Domenico Bertuzzi, Romeo Cianfriglia e Sante Zanon). Non dimentichiamo che l’arresto avrebbe dovuto eseguirsi a qualunque costo (catturarlo vivo o morto, era stato l’ordine tassativo del Ten. Col. Frignani).

I due automezzi quindi procedettero alla volta di Villa Ada e, preceduti dalla macchina del questore Morazzini, entrarono nel grande parco e si fermarono sul lato orientale della Villa Savoia ove si fermò l’ambulanza mentre l’autocarro proseguì fino al lato settentrionale della villa, sul retro.

Ma torniamo ora a Mussolini che nel pomeriggio riceve a Villa Torlonia, la sua residenza, ben tre telefonate che con diversi pretesti gli ricordano l’appuntamento con il Re a Villa Savoia per le 17,00. Alle 16,50 infatti l’auto del Duce, guidata da Ercole Boratto, il suo autista personale, e con a bordo il segretario particolare, il prefetto Nicola De Cesare, oltrepassa il cancello di Villa Ada, lasciando le tre vetture del seguito e la guardia presidenziale su Via Salaria; si addentra nel viale alberato che conduce a Villa Savoia ove lo attende il Re che ha appena avuto un’animata discussione con Acquarone e con la Regina, fermamente indignata perché l’arresto di Mussolini è stato predisposto avvenga in casa sua, contravvenendo alle regole dell’ospitalità.

Ma cosa si sono detti il sovrano e Mussolini all’interno della Villa? Sulla scorta del diario del solo testimone auricolare, il generale Paolo Puntoni, primo aiutante di campo di Vittorio Emanuele III (soltanto il 5 luglio era stato messo al corrente dell’azione per deporre il Duce) e ai ricordi dello stesso Mussolini, pubblicati sul Corriere della Sera del 1944 e poi raccolti nel volume “Storia di un anno”, abbiamo ricostruito parte di quel colloquio e le vicende relative al suo arresto.

«Appena raggiunto Sua Maestà all’interno della Villa – è Puntoni che scrive – il Re mi dice che ha deciso di invitare categoricamente il Duce ad andarsene e che lo sostituirà con Badoglio: “Farò un Ministero di militari e di funzionari”, soggiunge Vittorio Emanuele III, e continua: “Io riprenderò il comando delle Forze Armate e Ambrosio resterà al suo posto di Capo di Stato Maggiore Generale. Per quanto riguarda Mussolini ho autorizzato che alla fine dell’udienza, fuori di Villa Savoia, sia fermato e portato in una caserma per evitare da un lato che possa mettersi in contatto con elementi estremisti del partito e provocare disordini e, dall’altro, che antifascisti scalmanati attentino alla sua persona…”. Fatti altri passi aggiunge: “Siccome non so come il Duce potrà reagire, la prego di rimanere accanto alla porta del salotto dove noi ci ritireremo a discutere. In caso di necessità intervenga…”».

Dopo una pausa il Re riprende: «Aspettavo da giorni l’occasione buona, ormai non avevo più dubbi sull’avversione della massa per il Duce e per il fascismo; per di più ho buoni motivi per ritenere la guerra irrimediabilmente perduta. Fino all’ultimo, data la sua qualità di generale in servizio attivo – rivolgendosi direttamente a Puntoni – ho voluto che lei rimanesse fuori di tutto. Mussolini è Ministro della guerra e lei dipende dal Ministro. Ogni sua partecipazione diretta o indiretta a quest’affare poteva considerarsi un vero e proprio complotto. Questo non lo avrei mai permesso».

Ma ormai Mussolini, accompagnato dal segretario, che è stato fatto accomodare in un altro salottino privato, è sopraggiunto e Puntoni prende posto secondo i desideri del sovrano. Il Re entra nel salotto, seguito dal Duce, che ricorda di averlo notato «in uno stato di anormale agitazione e con i tratti del volto sconvolti» dice: «…Caro Duce, le cose non vanno più. L’Italia è in tocchi. L’Esercito è moralmente a terra. I soldati non vogliono più battersi. Gli alpini cantano una canzone nella quale dicono che non vogliono più fare la guerra per conto di Mussolini. II voto del Gran Consiglio è tremendo. Diciannove voti per l’ordine del giorno Grandi: fra essi quattro Collari dell’Annunziata. Voi non vi illudete certamente sullo stato d’animo degli italiani nei vostri riguardi. In questo momento voi siete l’uomo più odiato d’Italia. Voi non potete contare più su di un solo amico. Uno solo vi è rimasto, io. Per questo vi dico che non dovete avere preoccupazioni per la vostra incolumità personale, che farò proteggere. Ho pensato che l’uomo della situazione è, in questo momento, il Maresciallo Badoglio. Egli comincerà col formare un ministero di funzionari, per l’amministrazione e per continuare la guerra. Fra sei mesi vedremo. Tutta Roma è già a conoscenza dell’ordine del giorno del Gran Consiglio e tutti attendono un cambiamento…».

«Io vi voglio bene – prosegue il Re al Duce – …e ve l’ho dimostrato più volte difendendovi contro ogni attacco, ma questa volta devo pregarvi di lasciare il vostro posto e di lasciarmi libero di affidare ad altri il governo…».

Prosegue Puntoni nel suo diario: «…Passano alcuni attimi di silenzio poi si sente come un bisbiglio… la sua voce interrotta di tanto in tanto da brevi repliche del sovrano che insiste sulla sua decisione e sul suo rincrescimento. Mussolini interviene a scatti, poi le sue parole sono sopraffatte da quelle del Re che accenna al torto fattogli quando, senza neppure salvare la forma, Mussolini aveva voluto assumere il comando delle Forze Armate. Mi arriva netta questa frase: “E mi hanno assicurato che quei due straccioni di Farinacci e Buffarini, che avevate vicini quando non si sapeva se avrei firmato o no il decreto dissero: lo firmerà, altrimenti lo prenderemo a calci nel sedere!”. Mussolini ascolta senza fiatare, ma il sovrano ormai non gli dà tregua. Sembra che tutti e due parlino come se temessero di essere ascoltati, perché del loro colloquio mi giunge poco o nulla».

A questo punto il Re prosegue: «le condizioni interne della Germania sono gravissime. Io devo intervenire per salvare il Paese da inutili stragi e per cercare di ottenere dal nemico un trattamento meno disumano». Il Duce sussurra in maniera stanca qualche parola e domanda: «Ed io, ora, cosa debbo fare?». Replica il Re ad alta voce: «…Rispondo io con la mia testa, della vostra sicurezza personale, statene certo…» e prosegue accompagnandolo alla porta «…mi dispiace, mi dispiace, ma la soluzione non poteva essere diversa…». Mussolini racconterà poi: «…Nel salutarlo mi parve ancora più piccolo, quasi un nano, ma mi strinse la mano con grande calore…».

AI rumore delle sedie Puntoni si allontana dall’uscio e Mussolini, accompagnato dal segretario, si avvia verso l’uscita e, sceso dalle scale, viene affrontato dal capitano Vigneri mentre l’altro capitano, Aversa, si porta alle sue spalle.

Vigneri saluta militarmente e sull’attenti esclama: «Duce, in nome di Sua Maestà il Re, vi preghiamo di seguirci per sottrarvi ad eventuali violenze della folla».

«Non ce n’è bisogno» replica con tono stanco e implorante.

«Duce, io ho un ordine da eseguire», è la ferma risposta dell’ufficiale. «Allora seguitemi» dice Mussolini, e si avvicina alla sua macchina ferma, senza autista, a ridosso di una siepe. Ma il capitano Vigneri, spostandosi a sua volta, gli si para innanzi: «No, Duce, deve venire con la mia macchina!». Mussolini, ammutolito e rassegnato, si avvia quindi verso l’ambulanza ed ha un attimo di esitazione prima di salire a bordo, ma viene sollecitato da Vigneri che, presolo per il gomito, lo aiuta a salire, seguito da De Cesare.

Quando Mussolini protesta perché a bordo dell’ambulanza vengono fatti entrare oltre ai tre agenti di PS anche i tre sottufficiali dell’Arma, Vigneri allarga le braccia per fargli capire che non c’è niente da fare e sollecita gli uomini ordinando «Su, ragazzi, fate presto».

Con un caldo soffocante l’ambulanza con dieci persone a bordo si avvia lungo i viali inghiaiati del parco ed esce da un cancello secondario. Mussolini, pallidissimo, non dice una parola; ogni tanto si porta l’indice alla radice del naso, ma tiene gli occhi bassi.

L’autoambulanza giunge così nel cortile della caserma Podgora. Gli uomini scendono, per ultimo Mussolini, con al suo fianco Vigneri che alla sua richiesta «È una caserma dei carabinieri questa?…» risponde «Sì, Duce» e lo accompagna al Circolo Ufficiali.

Dopo una breve sosta, scortato dagli stessi uomini, a bordo della medesima ambulanza verrà poi condotto nella caserma della Legione Allievi Carabinieri di Via Legnano e lungo il tragitto avrà occasione di lamentarsi per l’eccessiva velocità commentando: «Se portate così i feriti non so come giungeranno vivi!».

La lunga giornata calda andò quindi incontro alla sera e mentre molti italiani già dormivano altri ebbero occasione di udire il giornale-radio delle 22,45 che annunciava: «Sua Maestà il Re Imperatore ha accettato le dimissioni del Cavaliere Benito Mussolini…».

Le strade e le piazze furono immediatamente invase dalla folla esultante. Per tutta una notte, come scrisse Monelli, i canti, le grida, i clamori sembrarono «il grido di un muto che riprende la parola dopo vent’anni».

II colonnello Tabellini che ebbe ospite il Duce nella sua abitazione all’interno della caserma di Via Legnano riferì: «Tenne un contegno che francamente mi meravigliò fino a sconcertarmi… In sostanza ebbi l’impressione che il nuovo stato di cose lo avesse liberato da una situazione insostenibile. Più che rassegnato mi sembrò sollevato».

Rimase nella caserma di Via Legnano ben poco perché quello «scomodo» prigioniero venne inviato, verso le 22 del 27 luglio, a Gaeta, ove venne imbarcato sulla torpediniera Persefone alla volta di Ventotene e delle altre isole del Tirreno.

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