Cerca nel web

venerdì 31 gennaio 2025

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 31 gennaio.

Il 31 gennaio 2020 il Regno Unito esce in via definitiva dall'Unione Europea.

Per capire come si è giunti all’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea è necessario indagare in profondità le peculiarità britanniche riguardo al concetto di Europa politica. La posizione di Londra nei confronti del processo di integrazione europea è sempre stata scettica e persino ostile nelle sue fasi iniziali, ed è stata poi ulteriormente rafforzata, anche nel sentimento popolare, dall’ondata di ciò che etichettiamo come populismo e/o sovranismo.

Tale indirizzo politico ha origine ancor prima che l’Europa si costituisse come entità sovranazionale. Lo stato britannico infatti, uscito vittorioso dalla seconda guerra mondiale nel 1945, aveva un bisogno urgente di una ricostruzione totale e il Primo Ministro e volto della vittoria sul nazismo Winston Churchill sembrava inizialmente predisposto all’idea di Europa che stava nascendo in linea ancora teorica nell’immediato secondo dopoguerra.

Le elezioni del luglio del 1945 portarono tuttavia alla sorprendente vittoria del laburisti, guidati da Clement Attle, che si imposero grazie ad una campagna elettorale incentrata su un importante programma economico interventista che avrebbe portato alla nascita dello stato sociale anche oltremanica.

Parallelamente, l’incipiente raffreddamento dei rapporti tra Stati Uniti e Unione Sovietica, condusse Londra a preferire la classica special relationship con Washington piuttosto che accodarsi agli altri paesi dell’Europa occidentale che di lì a poco avrebbero posto le prime basi del processo europeista.

Bisognerà attendere sino al 1973 per vedere Londra accedere a quello che allora era chiamata Comunità Economica Europea (CEE) e non dopo numerose schermaglie. La più importante fu senza dubbio la creazione nel 1960 di un’area di scambio alternativa a quella europea continentale.

Quando infine il veto francese del Presidente Charles De Gaulle cadde, il Regno Unito accedette alla CEE. Bisogna tuttavia notare che ciò dipese in gran parte dal fallimento economico dell’area di scambio atlantica creata da Londra e dal parallelo successo del mercato comune europeo. Non fu, in altre parole, dettato da un crescente sentimento europeistico dei britannici.

Successivamente Londra si schierò sempre in favore di una visione europeista moderata, avversando qualsiasi modifica in chiave sovranazionale delle sue istituzioni e dei suoi accordi (basti ricordare che il Regno Unito non ha mai fatto parte dell’area Schengen, né dell’unione monetaria, non avendo adottato l’euro).

Non appare così del tutto sorprendente il fatto che nel giugno del 2016 il 51,89 per cento dei britannici abbia optato per il leave, ovvero per abbandonare l’Unione Europea.

I motivi di questo risultato sono molteplici. Oltre allo storico scetticismo verso il concetto di Europa politica esistono ulteriori fattori altrettanto importanti. Innanzitutto la crisi economica scaturita nel 2008 ha lasciato ferite profonde che hanno portato, in linea generale, ad una maggior paura e chiusura nelle società occidentali. Non dimentichiamo infatti che buona parte della campagna elettorale pro Brexit è stata condotta tramite la propaganda avversa all’immigrazione europea in Gran Bretagna.

Altro fenomeno, collegato ai lasciti della grande crisi, è la sempre maggior diffusione delle idee portate avanti dai partiti cosiddetti populisti. Questo fenomeno in Gran Bretagna si è palesato principalmente attraverso il Partito per l’Indipendenza del Regno Unito (UKIP), guidato fino al 2016 da Nigel Farage. L’UKIP è nato nel 1993 da una costola del Partito Conservatore ed il suo obiettivo principale è da sempre stato il raggiungimento della Brexit. Non è infatti un caso che proprio in conseguenza della vittoria del leave Farage abbia deciso di dimettersi dopo dieci anni alla guida del partito.

Esistono tuttavia numerose differenze all’interno del Regno Unito. Le aree periferiche di Scozia, Irlanda del Nord e alcune province del Galles hanno infatti votato massicciamente per il remain. Edimburgo in particolare potrebbe riproporre il referendum per l’indipendenza già effettuato nel 2014 con un esito che questa volta potrebbe essere assai differente.

Altro elemento di grande interesse riguarda la città di Londra che, a differenza delle altre maggiori città inglesi, ha votato in maggioranza per rimanere in Europa. La city è il cuore economico e finanziario del Regno ed è anche il maggior esempio di metropoli multiculturale delle isole britanniche. Il peso dei suoi voti sulla bilancia è quindi molto elevato e un possibile accordo tra Bruxelles e il Governo di Johnson per l’uscita potrebbe avere inaspettate ripercussione sulla capitale.

In definitiva, nonostante Brexit si sia ormai verificata, le conseguenze all’interno del Regno Unito potrebbero essere imprevedibili.

Dal voto popolare all’attuazione della Brexit sono passati tre anni e mezzo. Tre anni e mezzo pieni di rinvii, colpi di scena, retromarce, situazioni anche piuttosto imbarazzanti. La difficoltà maggiore è stata trovare un accordo con l’Unione Europea sulle modalità di gestione di alcune questioni piuttosto delicate in seguito all’uscita del Regno Unito.

Dopo anni di lavori e negoziati un accordo era stato trovato ai tempi di Theresa May, ma il Parlamento britannico lo aveva più volte bocciato, rendendo inattuabile la Brexit. Secondo molti parlamentari della precedente legislatura, l’accordo avrebbe penalizzato eccessivamente Londra, soprattutto per quel che riguarda la libertà di manovra sul confine nordirlandese.

Dopo continui rinvii e il passaggio di testimone da May a Johnson, quest’ultimo aveva spergiurato che avrebbe portato a termine la missione entro il 31 ottobre 2019. Tuttavia, di nuovo, il Parlamento si è frapposto tra i desideri del primo ministro e la loro realizzazione.

Johnson non si è comunque scomposto, ha negoziato un rinvio al 31 gennaio 2020 e ha cominciato la sua battaglia per ottenere elezioni anticipate. E le ha ottenute.

Il 12 dicembre 2019 Boris Johnson ha ottenuto una larga vittoria alle elezioni parlamentari, battendo il candidato Laburista Jeremy Corbyn con ben il 43% dei voti. Johnson è quindi riuscito nel suo intento di disegnare un Parlamento fedele alla sua linea e pronto a dare il via libera all’accordo sulla Brexit, cosa che ha di fatto condotto alla realizzazione di Brexit il 31 gennaio.

I problemi cui deve far fronte Londra una volta ultimata l’uscita sono notevoli e sono suddivisibili in due categorie: problemi di natura interna e internazionale.

Le problematiche interne al Regno sono chiare già oggi e la più scottante è senza dubbio la questione del confine tra l’Irlanda del Nord e la Repubblica d’Irlanda, unica frontiera terrestre tra Regno Unito ed Unione Europea. L’imposizione di un nuovo confine fisico tra le due aree dell’Irlanda contribuirebbe notevolmente a riaccendere le ceneri mai del tutto spente dell’indipendentismo. Inoltre tale decisione avrebbe una ricaduta economica notevole per quel che riguarda i lavoratori frontalieri che quotidianamente varcano il confine e, in particolar modo, ne risulterebbe danneggiata Dublino, essendo un esportatore netto di merci verso la Gran Bretagna.

Rimane sul tavolo l’ipotesi dell’abbattimento delle dogane, decisione che renderebbe immediatamente Belfast un’area economicamente integrata nell’Unione Europea. Risulta tuttavia difficile da credere che questa opzione venga approvata dagli esponenti più intransigenti della Brexit dura.

A ciò va aggiunta la componente scozzese che, data la forte connotazione europeista degli scozzesi, rende per il Governo di Edimburgo assai difficoltosa un’uscita indolore dall’Europa. A questo punto è chiaro che molto dipenderà dalle modalità della separazione.

Per quel che riguarda la collocazione internazionale, il Regno Unito si trova a dover ricostruire dalle fondamenta i rapporti con tutti i paesi europei continentali. Si dovrebbe rafforzare invece l’ormai datata relazione speciale con gli Stati Uniti. È tutto da vedere se il rapporto con Washington possa essere sufficiente, giacché in un mondo ogni giorno più globalizzato le dinamiche storicamente consolidate sembrano non bastare più.

Di tutt’altra natura sono le questioni che deve affrontare l’Unione Europea. Il principale dilemma è il possibile effetto valanga su altri stati membri. Ad oggi appare improbabile che un altro paese dell’Unione possa richiedere di uscire in tempi brevi, tuttavia il crescente consenso dei partiti euroscettici potrebbe vedersi ulteriormente incrementato dall’effetto Brexit.

In secondo luogo, Bruxelles si priva di uno dei maggiori membri sia per importanza internazionale che economica. Evidentemente non un buon biglietto da visita per l’Unione Europea a livello di politica internazionale. Il nodo principale resta quello delle centinaia di migliaia di cittadini europei che lavorano e risiedono nel Regno Unito. Molti di loro stanno già cercando mete alternative, mentre sarà compito dei governi e delle diplomazie trovare gli accordi per facilitare il più possibile il rilascio di un permesso di soggiorno per coloro che risiedono già da diversi anni nelle isole britanniche.

giovedì 30 gennaio 2025

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 30 gennaio.

Il 30 gennaio 1847 la città californiana Yerba Buena cambia nome e diventa San Francisco.

La Baia di San Francisco fu abitata, per migliaia di anni, da tribù indiane. Quando gli spagnoli arrivarono in California, questa era già abitata dai Mojave e da altre tribù che parlavano la lingua yuma.

Il 28 settembre 1542, lo spagnolo Juan Rodríguez Cabrillo fu il primo europeo a mettere piede in California. Nel 1577 anche l’inglese Drake arrivò in questa terra, a cui diede il nome di “Nova Albio”, ma i primi ad istallarvisi furono i gesuiti spagnoli con le loro famose missioni.

Nel 1767, il re Carlo III di Spagna ordinò l’espulsione dei gesuiti dai suoi domini, visto che le missioni erano diventate già quattordici. Nel 1769, nella baia di San Francisco arrivò una spedizione diretta da Gaspar de Portolà e dal frate Junípero Serra, un francescano che si dedicò a percorrere la California con l’intenzione di espellere la Compagnia di Gesù e rimpiazzarla con l’ordine dei francescani.

Nel 1776, l’esploratore portoghese Juan Bautista de Anza costruì la prigione di San Francisco e fondò una missione in onore di San Francesco d’Assisi, attualmente conosciuta con il nome di Mission Dolores: nacque così la città di San Francisco de Asís.

Nel 1792, George Vancouver fondò la piccola base di Yerba Buena vicino alla missione spagnola. Qui si installarono inglesi, russi e altri coloni europei.

Tormentata da numerosi problemi, la Spagna lasciò un po’ in disparte la California, favorendo l’arrivo dei russi che, nel 1812, fondarono Fort Ross proprio accanto a San Francisco.

Nel 1822 il Messico dichiarò l’indipendenza dalla Spagna e ottenne questo territorio. Dopo l’annessione al Messico, la missione di San Francesco di Assisi fu abbandonata.

Il commodoro John Drake Sloat, nel 1846, proclamò l’indipendenza della California dal Messico e la dichiarò territorio statunitense. Un anno dopo, il 30 gennaio 1847, gli americani cambiarono il nome di Yerba Buena per quello di “San Francisco”.

Nel 1848 fu scoperto dell’oro tra le montagne di Coloma: fu così che ebbe inizio la “febbre dell’oro di California”. Per un periodo, la California fu chiamata “New Helvetia” a causa dell’avventuriero svizzero John Sutter che comprò delle colonie russe stabilitesi in California.

La corsa all’oro fu molto positiva per San Francisco, poiché le permise di entrare in un periodo di rapida evoluzione e diventare una delle città più grandi della costa occidentale.

Nel 1869, le ferrovie arrivarono in California insieme all’influenza inglese. I “nuovi americani” dettarono norme discriminatorie contro le grandi comunità giapponesi, cinesi e ispaniche.

Il 18 aprile 1906 ebbe luogo il famoso terremoto che rase al suolo quasi tutta la città, soprattutto il centro storico. La ricostruzione fu realizzata velocemente: dopo soli 9 anni, nel 1915, San Francisco fu scelta come sede della Esposizione Internazionale Panama-Pacifico.

Un anno prima, nel 1914, il Canale di Panama era stato aperto portando a San Francisco un grandissimo sviluppo economico.

I ponti più emblematici della città risalgono agli anni ’30: quello che unisce San Francisco e Oakland è del 1936, mentre il celeberrimo Golden Gate del 1937.

Durante la Seconda Guerra Mondiale, San Francisco accolse i cantieri navali necessari a coprire la richiesta di navi da battaglia e si trasformò nel principale porto d’imbarco per la guerra del Pacifico.

Alla fine della guerra, la città ospitò l’ultima delle conferenze che avrebbero dato luogo alla nascita all’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) e allo scioglimento della Società delle Nazioni.

Negli anni ’90, San Francisco divenne la sede di numerose aziende di nuove tecnologie che approfittarono della vicinanza di Silicon Valley.

Al giorno d’oggi, San Francisco è il centro tecnologico, economico e culturale della California, facendo testa a Los Angeles. È stata sempre associata a movimenti alternativi ed è considerata una delle città più aperte degli Stati Uniti.

mercoledì 29 gennaio 2025

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 29 gennaio.

Il 29 gennaio 1944 il Teatro Anatomico dell'Archiginnasio di Bologna viene quasi completamente distrutto durante un bombardamento della città.

La sala, chiamata Teatro per la caratteristica forma ad anfiteatro, fu progettata nel 1637 per le lezioni anatomiche dall'architetto bolognese Antonio Paolucci detto il Levanti, scolaro dei Carracci.

Venne costruita in legno d'abete e decorata con due ordini di statue raffiguranti in basso dodici celebri medici (Ippocrate, Galeno, Fabrizio Bartoletti, Girolamo Sbaraglia, Marcello Malpighi, Carlo Fracassati, Mondino de' Liuzzi, Bartolomeo da Varignana, Pietro d'Argelata, Costanzo Varolio, Giulio Cesare Aranzio, Gaspare Tagliacozzi) e in alto venti dei più famosi anatomisti dello Studio bolognese.

Il soffitto a cassettoni, realizzato nel 1645 da Antonio Levanti, è decorato con figure simboliche rappresentanti quattordici costellazioni e al centro Apollo, nume protettore della medicina.

La cattedra del lettore, che sovrasta quella del dimostratore, è fiancheggiata da due statue dette "Spellati", scolpite nel 1734 su disegno di Ercole Lelli, famoso ceroplasta dell'Istituto delle Scienze. Sopra al baldacchino una figura femminile seduta, allegoria dell'Anatomia, riceve come omaggio da un putto alato non un fiore, ma un femore.

La sala anatomica ha subito gravissimi danni nel bombardamento che il 29 gennaio 1944 distrusse quest'ala dell'edificio ed è stata ricostruita nell'immediato dopoguerra riutilizzando le sculture lignee originali, fortunatamente recuperate dalle rovine.

La scelta del tema astrologico per il soffitto a cassettoni risale alla tradizione di consultare gli astri prima di procedere alle operazioni o di somministrare farmaci, secondo una concezione della medicina che risente dell'influsso esercitato in tutt'Europa dalla scienza diffusa dagli Arabi fin dai tempi della conquista della Spagna. L'astrologia veniva associata alla medicina, ed ogni parte del corpo era posta sotto la tutela di un segno zodiacale, del resto l'Astrologia continuò ad essere materia di studio anche all'università bolognese fine a tutto il secolo XVII. La decorazione del soffitto riflette un certo modo di concepire l'uomo e la sua vita biologica in rapporto con la natura e il cosmo.

Recentemente i problemi conservativi del legno d'abete che riveste la sala hanno indotto l'Amministrazione Comunale di Bologna a programmare un intervento di restauro per la salvaguardia della struttura delle pareti e del soffitto, esteso a tutte le decorazioni e le statue, minacciate dallo scorrere inesorabile del tempo e dall'inquinamento ambientale. Alla pulitura dei legni è seguito un esame del loro stato di conservazione per procedere poi a trattamenti preventivi contro l'attacco di parassiti, disinfestazione e trattamento con sostanze antitarlo, idrorepellenti e ignifughe.

L'intervento, costato 68.000 euro, è stato finanziato in gran parte grazie ai proventi del Gioco del Lotto: il restauro del Teatro Anatomico è risultato vincitore nell'anno 2003 del concorso "Lotto per l'arte" indetto da Lottomatica, che aveva messo al primo posto questo monumento fra i tre indicati per le iniziative a favore dell'arte nella regione Emilia Romagna. Il Comune di Bologna ha potuto così ricevere un contributo di 50.000 euro.

I lavori hanno avuto una durata di sei mesi, rispettando i tempi programmati per restituire il più presto possibile alla città e ai suoi numerosissimi visitatori, dall'Italia e dall'estero, un gioiello storico ed artistico.

È ora in previsione il restauro delle gradinate, che sarà fatto dall'Associazione di volontariato "Laboratorio bolognese restauro legno".

martedì 28 gennaio 2025

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 28 gennaio.

Il 28 gennaio ricorre la Giornata Internazionale per la Protezione dei Dati Personali.

La Giornata internazionale della protezione dei dati, conosciuta come Data Privacy Day, è un’iniziativa promossa dal Consiglio d’Europa con il sostegno della Commissione Europea e di tutte le autorità europee per la protezione dei dati personali per offrire un ulteriore spunto di riflessione sul tema della sicurezza dei dati personali e sul Regolamento Europeo sulla privacy entrato in vigore il 25 maggio 2018.

Istituita nel 2006 con lo scopo di sensibilizzare e accrescere la consapevolezza dei diritti legati alla protezione dei dati giunge quest’anno alla 19.a edizione. A differenziare lo scenario odierno da quello di 19 anni fa ci sono però elementi come l’entrata in vigore di normative, in primis il GDPR, strutturate proprio in modo da far fronte alle criticità insite nelle nuove modalità di trattamento dei dati.

Perché il 28 gennaio?

La data del 28 gennaio per la “Giornata della protezione dei dati” non è stata scelta casualmente dal Consiglio d’Europa. Si tratta infatti del giorno in cui sono stati aperti i lavori che hanno poi portato alla firma della Convenzione 108 avvenuta nell’ormai lontano 1981 in cui si stabiliscono le modalità attraverso le quali garantire ad ogni persona fisica il “rispetto dei suoi diritti e delle sue libertà fondamentali, e in particolare del suo diritto alla vita privata, in relazione all’elaborazione automatica dei dati a carattere personale che riguardano la protezione dei dati”.

In occasione della giornata, si svolgono conferenze ed eventi dedicati alla divulgazione, sensibilizzazione e ricerca sul tema della privacy dei dati e loro processamento, indirizzati a istituzioni pubbliche, enti di ricerca, aziende e cittadini. Tra questi, uno degli eventi di maggiore rilevanza mondiale è il CPDP (Computers, Privacy and Data Protection) che si svolge annualmente in Bruxelles dal 2007.

lunedì 27 gennaio 2025

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 27 gennaio.

Il 27 gennaio 1901 muore Giuseppe Verdi.

Giuseppe Fortunino Francesco Verdi nasce il 10 ottobre 1813 a Roncole di Busseto, in provincia di Parma. Il padre, Carlo Verdi, è un oste, la madre invece svolge il lavoro della filatrice. Fin da bambino prende lezioni di musica dall'organista del paese, esercitandosi su una spinetta scordata regalatagli dal padre. Gli studi musicali proseguono in questo modo sconclusionato e poco ortodosso fino a quando Antonio Barezzi, commerciante e musicofilo di Busseto affezionato alla famiglia Verdi e al piccolo Giuseppe, lo accoglie in casa sua, pagandogli studi più regolari ed accademici.

Nel 1832 Verdi si trasferisce quindi a Milano e si presenta al Conservatorio, ma incredibilmente non viene ammesso per scorretta posizione della mano nel suonare e per raggiunti limiti di età. Poco dopo viene richiamato a Busseto a ricoprire l'incarico di maestro di musica del comune mentre, nel 1836, sposa la figlia di Barezzi, Margherita.

Nei due anni successivi nascono Virginia e Icilio. Intanto Verdi comincia a dare corpo alla sua vena compositiva, già decisamente orientata al teatro e all'Opera, anche se l'ambiente milanese, influenzato dalla dominazione austriaca, gli fa anche conoscere il repertorio dei classici viennesi, soprattutto quello del quartetto d'archi.

Nel 1839 esordisce alla Scala di Milano con "Oberto, conte di San Bonifacio" ottenendo un discreto successo, purtroppo offuscato dall'improvvisa morte, nel 1840, prima di Margherita, poi di Virginia e Icilio. Prostrato e affranto non si dà per vinto. Proprio in questo periodo scrive un'opera buffa "Un giorno di regno", che si rivela però un fiasco. Amareggiato, Verdi pensa di abbandonare per sempre la musica, ma solo due anni più tardi, nel 1942, il suo "Nabucco" ottiene alla Scala un incredibile successo, anche grazie all'interpretazione di una stella della lirica del tempo, il soprano Giuseppina Strepponi.

Iniziano quelli che Verdi chiamerà "gli anni di galera", ossia anni contrassegnati da un lavoro durissimo e indefesso a causa delle continue richieste e del sempre poco tempo a disposizione per soddisfarle. Dal 1842 al 1848 compone a ritmi serratissimi. I titoli che sforna vanno da "I Lombardi alla prima crociata" a "Ernani", da "I due foscari" a "Macbeth", passando per "I Masnadieri" e "Luisa Miller". Sempre in questo periodo, fra l'altro, prende corpo la sua relazione con Giuseppina Strepponi.

Nel 1848 si trasferisce a Parigi iniziando una convivenza alla luce del sole con la Strepponi. La vena creativa è sempre vigile e feconda, tanto che dal 1851 al 1853 compone la celeberrima "Trilogia popolare", notissima per i tre fondamentali titoli ivi contenuti, ossia "Rigoletto", "Trovatore" e "Traviata" (a cui si aggiungono spesso e volentieri anche "I vespri siciliani").

Il successo di queste opere è clamoroso.

Conquistata la giusta fama si trasferisce con la Strepponi nel podere di Sant'Agata, frazione di Villanova sull'Arda (in provincia di Piacenza), dove vivrà gran parte del tempo.

Nel 1857 va in scena "Simon Boccanegra" e nel 1859 viene rappresentato "Un ballo in maschera". Nello stesso anno sposa finalmente la sua compagna.

Alla sua vita artistica si aggiunge dal 1861 anche l'impegno politico. Viene eletto deputato del primo Parlamento italiano e nel 1874 è nominato senatore. In questi anni compone "La forza del destino", "Aida" e la "Messa da requiem", scritta e pensata come celebrazione per la morte di Alessandro Manzoni.

Nel 1887 dà vita all'"Otello", confrontandosi ancora una volta con Shakespeare. Nel 1893 - all'incredibile età di ottant'anni - con l'opera buffa "Falstaff", altro unico e assoluto capolavoro, dà addio al teatro e si ritira a Sant'Agata. Giuseppina muore nel 1897.

Giuseppe Verdi muore il 27 gennaio 1901 presso il Grand Hotel et De Milan, in un appartamento dove era solito alloggiare durante l'inverno. Colto da malore spira dopo sei giorni di agonia. I suoi funerali si svolgono come aveva chiesto, senza sfarzo né musica, semplici, come la sua vita era sempre stata.

Verdi fu inizialmente tumulato con una cerimonia privata nel Cimitero Monumentale di Milano, ma un mese dopo il suo corpo fu traslato nella cripta della Casa di Riposo per Musicisti di Milano, oggi conosciuta con il nome di Casa Verdi. In quella occasione fu cantato da 820 cantanti il coro Va, pensiero, dal Nabucco, diretto da Arturo Toscanini. Una grande folla presenziò, si stimano 300.000 persone.

domenica 26 gennaio 2025

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 26 gennaio.

Il 26 gennaio 1887 le truppe coloniali italiane ricevono una pesante sconfitta nella Battaglia di Dogali.

La nuova avventura coloniale voluta dal governo della Sinistra terminò rapidamente e in modo imprevisto, con una delle rare dure sconfitte subite dagli eserciti europei nel corso delle loro incursioni africane. Il massacro di Dogali, come è abitualmente ricordato, segnò anche la fine del governo Depretis, screditato dall’insuccesso militare.

Dopo l’acquisto da parte dello stato italiano della baia di Assab, sul mar Rosso, dalla società di navigazione Rubattino, che l’aveva a sua volta acquistata nel 1869-70, iniziava il nuovo capitolo della storia coloniale italiana. Nel febbraio 1885 un corpo di spedizione militare italiano occupò la fascia costiera fra Massaua e Assab (area appartenente all’attuale Eritrea), trasformando nel dicembre successivo questa occupazione in una presa definitiva di possesso. Né il governo Depretis, né i comandanti militari di Massaua avevano ben chiaro che tipo di rapporti instaurare con l’impero etiopico (allora denominato Abissinia) governato dal negus Giovanni, se cioè limitare l’iniziativa coloniale alla zona costiera oppure dare avvio a una lenta penetrazione nel territorio etiopico.

La prima strategia sembrò tuttavia avere la meglio per qualche tempo, tanto che il conte Pietro Antonelli, a capo di una spedizione scientifica italiana inviata presso il negus e presso il re della Scioa, Menelik, il suo principale vassallo e rivale aspirante alla successione, firmò con quest’ultimo un trattato commerciale e amichevole a nome del governo guidato da Depretis. L’occupazione italiana di Massaua, tuttavia, era stata accolta con forte irritazione dal negus, anche perché egli aveva concluso l’anno precedente un trattato con l’Inghilterra con il quale essa gli concedeva la libertà di condurre traffici commerciali attraverso il porto di Massaua. Nell’aprile 1885 una missione ufficiosa italiana prese contatti con il negus per cercare di fugare i suoi timori relativi a possibili e prossime iniziative italiane di conquista. La missione tentò di convincere il negus che l’occupazione di Massaua era finalizzata ad arginare i tentativi di espansione verso l’Abissinia dei gruppi islamici mahadisti, cioè dei seguaci di Mohammed Ahmed Mahdi, capo di quella grande rivolta anti-egiziana sudanese che si era conclusa nel 1885 con l’intera conquista del vicino Sudan. La missione rappresentava presumibilmente un tentativo italiano di prendere tempo, di superare le incertezze sul da farsi, e quindi di avviare una strategia di conquista a piccoli passi del territorio abissino.

In effetti, il 24 giugno 1885 un corpo di spedizione italiano si insediò a Saati, a circa 30 chilometri da Massaua, località di cui il negus rivendicava l’appartenenza all’impero etiopico. Il ras Alula, che governava la regione confinante con l’area occupata dalla forze militari italiane, intimò inutilmente agli italiani di ritirarsi. La situazione rimase stagnante per circa un anno. Nel gennaio del 1887 Alula procedette con 10 000 uomini verso Saati. Il presidio militare italiano, pur avendo respinto l’attacco, non poteva resistere ulteriormente a causa della carenza di viveri. Lo Stato maggiore italiano decise allora di inviare dei rinforzi. Una colonna di oltre 500 soldati, sotto il comando del tenente colonnello T. De Cristoforis si diresse verso Saati. Prevedendo la mossa, Alula si diresse verso Massaua nel tentativo di tagliare la strada al contingente italiano. L’esercito etiope poteva contare su una forte superiorità militare e su un’ottima conoscenza dei luoghi montagnosi dell’area, che si prestavano facilmente a imboscate. Il 26 gennaio la colonna italiana venne attaccata e accerchiata da 7000 uomini dell’esercito abissino nei pressi di Dogali. Rimasero sul campo 433 morti (tra cui il tenente colonnello De Cristofaris) e 82 feriti, mentre gli etiopi persero un migliaio di uomini. Alula, a causa delle perdite così elevate, decise di ripiegare sull’Asmara permettendo così al presidio italiano di ritirarsi da Saati.

Le conseguenze di quella sconfitta furono drastiche per l’allora governo italiano guidato da Depretis; il ministro degli Esteri Robilant si dimise, il governo cadde e la competenza sull’Eritrea passò dal ministero degli Esteri a quello della Guerra. Ciò, però, non arrestò i tentativi di espansione italiana. Solo nel 1896, con la sconfitta di Adua, l’imperialismo italiano in Etiopia subì una pesante battuta d’arresto.

sabato 25 gennaio 2025

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 25 gennaio.

Il 25 gennaio 2018 a Pioltello il convoglio di Trenord numero 10452 che collega Cremona a Milano Porta Garibaldi con 350 pendolari a bordo uscì dai binari a pochi km di distanza dalla stazione di Pioltello a causa della rottura di un giunto tra i binari. Il mezzo aveva sbattuto contro un palo della luce e poi era deragliato. Nell’incidente morirono tre passeggere mentre decine di persone rimasero ferite.

Il treno  "viaggiava ad una velocità di 130 chilometri all'ora nel punto di rottura del giunto: in quel tratto la velocità consentita era di 180 km/h, ma con quel tipo di ammaloramento avrebbe dovuto viaggiare a 50 km/h". Lo ha spiegato il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano in una conferenza stampa, assieme al collega Leonardo Lesti e a rappresentanti della Polizia e della Polfer che hanno condotto le indagini, chiuse a carico di 12 persone, tra cui la società Rfi, gestore dell'infrastruttura ferroviaria, l'ad Maurizio Gentile, altri dirigenti e due ex vertici dell'Agenzia nazionale per la sicurezza delle ferrovie.

I pm hanno ripercorso le omissioni contestate nell'atto di chiusura indagini, ribadendo come si legge anche negli atti, che Rfi ha tratto "un vantaggio patrimoniale" dalle omissioni dei dirigenti. La prima segnalazione sul giunto è dell'agosto 2017, ma l'intervento di sostituzione fu programmato per l'aprile 2018, a disastro avvenuto. "La sostituzione di un giunto richiede circa 2 o 3 ore ed è necessario sospendere la circolazione. Deve essere così e spesso si fa di notte, quando la circolazione dei treni è minore". Lo ha detto Marco Napoli, capo del nucleo investigativo della Polfer, che ha indagato sul treno deragliato. "Se ci sono delle criticità emergenti, si deve sempre sospendere la circolazione" anche in orario diurno, hanno spiegato gli agenti della Polfer. Nel corso della conferenza stampa è anche stato mostrato un calco 3 D del giunto che si è rotto in prossimità della stazione di Pioltello e che ha fatto sì che il treno uscisse dai binari, oltre a un video con la ricostruzione dell'accaduto.


venerdì 24 gennaio 2025

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 24 gennaio.

Il 24 gennaio 1943 Churchill e Roosevelt concludono la Conferenza di Casablanca.

Nella storiografia viene sovente indicata come la conferenza della “Resa incondizionata” (trattato secondo cui una parte accetta di arrendersi al nemico senza avanzare alcun tipo di pretesa: né territoriale, né politica, né economica o militare). Fu una tra le più lunghe riunioni militari di tutta la Seconda guerra mondiale. Parteciparono Franklin D. Roosevelt, Winston Churchill e i generali francesi Henri Giraud e Charles de Gaulle. Questi furono successivamente raggiunti dal generale inglese Harold Alexander e da quello statunitense Dwight Eisenhower. Anche il generale De Gaulle, inizialmente restio a partecipare a questo incontro, giunse infine a Casablanca, ma solo il 22 gennaio, quindi a lavori quasi conclusi.

Durante la conferenza, sorsero forti dissensi tra i generali statunitensi e britannici riguardo alle priorità strategiche della guerra contro l’Asse; furono tuttavia prese delle importanti decisioni operative, le quali influenzarono il prosieguo della guerra nel Mediterraneo, come anche il programma di Bombardamento Strategico da applicare.

Il principio della “resa incondizionata” rivoluzionò la politica nei confronti dell’Asse e dei suoi satelliti, e fu una sorpresa un po’ per tutti, quando Roosevelt lo annunciò a Casablanca. Sino a quel momento, il Dipartimento di Stato era stato ostile a tale modus operandi sia perché, irrigidendo nella resistenza le potenze dell’Asse, avrebbe prolungato la guerra, sia perché, una volta raggiunta la vittoria, esso avrebbe comportato l’assunzione di tutti i poteri e dei compiti governativi, cosa alla quale gli Alleati non erano preparati. Al convegno, di carattere strettamente militare, fu invitato anche Stalin che, non intervenuto, venne tenuto al corrente delle discussioni, e diede alla fine la sua adesione di principio.

Nei colloqui generali e particolari venne passata in rassegna tutta la situazione bellica, e alla fine si decise di alleggerire il peso sostenuto dalle armate russe, per tentare di sfiancare il nemico sul fronte più opportuno. A Casablanca si decise dunque di aprire un secondo fronte in Europa. Alcuni dei partecipanti insistettero affinché l’invasione avvenisse nel settore balcanico, in Iugoslavia, altri sulle spiagge olandesi, altri ancora alle bocche del Rodano, altri, infine, più “tradizionalisti”, pensavano alla parte più stretta della Manica. Alla fine prevalse l’opinione di aprire il secondo fronte con lo sbarco in Sicilia, per poi continuare l’invasione dell’Italia continentale. 

Qui la Dichiarazione Ufficiale Conclusiva:

“Prima della fine di quest’anno sarà reso noto al mondo, con i fatti piuttosto che con parole, che la Conferenza di Casablanca ha prodotto molte novità, le quali diverranno cattive notizie per Tedeschi, Italiani e Giapponesi.

Abbiamo recentemente concluso un lunga e difficile battaglia nel sud-ovest del Pacifico e abbiamo conseguito notevoli conquiste militari. Questa battaglia è iniziata nelle Salomone e nella Nuova Guinea l’estate scorsa. Essa ha dimostrato la superiorità dei nostri aerei e, soprattutto, nella maggior qualità dei nostri soldati e marinai.

Le forze armate americane nel sud-ovest del Pacifico stanno ricevendo un poderoso aiuto dall’Australia e dalla Nuova Zelanda e anche direttamente dagli Inglesi.

Non pensiamo di passare il tempo che ci vorrebbe per portare il Giappone alla sconfitta finale soltanto attaccando di isola in isola nell’immensità della distesa del Pacifico.

Grandi e decisive azioni contro i giapponesi saranno direttamente prese nel territorio cinese. Importanti azioni saranno intraprese nei cieli sopra la Cina e sul Giappone stesso.

Le discussioni a Casablanca, sono state proseguite nel Chungking con il Generalissimo Chang Kai Schek dal generale Arnold e hanno dato luogo a piani precisi per le operazioni offensive.

Ci sono molte strade che conducono a Tokyo. Non ne trascureremo nessuna.

Nel tentativo di scongiurare l’inevitabile catastrofe, la propaganda dei paesi dell’Asse sta tentando con i suoi vecchi trucchi, di dividere le Nazioni Unite. Essi cercano d’insinuare l’idea che, se si vince questa guerra, Russia, Inghilterra, Cina, e gli Stati Uniti lotteranno come un cane con un gatto.

Questo è il loro ultimo tentativo di mettere una nazione contro l’altra, nella vana speranza di poter far pace separata con una o due nazioni alla volta, ma nessuno di noi può essere così ingenuo e così dimentico da accettare offerte a scapito di altri alleati.

A questi tentativi, dettati dal panico, di sfuggire alle conseguenze dei loro crimini, noi, diciamo con tutte le Nazioni Unite, che l’unica premessa con la quale noi discuteremo con i governi dell’Asse o di qualsiasi loro fazione sono i termini proclamati a Casablanca: “Resa incondizionata”. La posizione intransigente che abbiamo assunto non riguarda i popoli delle nazioni dell’Asse a cui non faremo alcun male, ma soltanto i loro colpevoli e barbari capi.

Negli anni delle rivoluzioni Americana e Francese fu stabilito il principio guida fondamentale per le nostre democrazie. La pietra angolare di tutto il nostro edificio democratico è il principio che l’autorità di governo viene data dai cittadini e solo da essi.

Si tratta di uno dei nostri obiettivi di guerra, come espresso nella Carta atlantica, le popolazioni conquistate oggi saranno domani padrone del loro destino. Non vi deve essere alcun dubbio che lo scopo inalterabile delle Nazioni Unite è ridare ai popoli conquistati i loro sacri diritti”.

giovedì 23 gennaio 2025

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 23 gennaio.

Il 23 Gennaio 1556 avvenne il più disastroso terremoto che si ricordi a memoria d’uomo. Il potentissimo sisma di magnitudo 8 colpì la provincia cinese dello Shaanxi, devastando il territorio circostante per un raggio di circa 450 chilometri dal luogo dell’epicentro, individuato da ricerche scientifiche dettagliate nella contea di Hua, vicino al Monte Hua. In molte delle 97 contee colpite dall’evento appena il 40% della popolazione rimase miracolosamente in vita.

L’allora studioso Qin Keda sopravvisse al terremoto e riuscì a registrarne i dettagli. Secondo i dati da lui forniti furono veramente gravi i danni, sia alle costruzioni che alla popolazione. Nella Foresta di Stele 40 delle 114 stele furono spaccate dal sisma. I morti si contarono per mesi. E la stima finale fu di circa 830.000 vittime dirette causate dall’evento.

Il fattore che più di tutti riesce a spiegare il dato veramente impressionante è forse quello delle abitazioni in cui risiedeva gran parte della popolazione locale. Infatti le case erano costruite nelle caverne Loess, costituite di sedimenti d’argilla, formata in milioni di anni, grazie al vento che trasporta la sabbia del deserto del Gobi. Questo terreno friabile è spesso soggetto ad erosioni, suscettibile alle forze del vento e dell’acqua. Il terremoto causò delle frane che distrussero le grotte chiamate Yaodong, seppellendovi gran parte della popolazione locale.

Il disastro avvenne sotto il dominio dell’Imperatore Jiajing, durante la Dinastia Ming. Infatti l’evento è stato tramandato nei secoli come “Il terremoto di Jiajing“. In quel periodo la Cina era già colpita da una grave crisi economica, per via del mercato di argento in decrescita, poiché gli spagnoli divennero i primi fornitori del prezioso materiale di scambio. La crisi fu ulteriormente aggravata dalla Piccola Era Glaciale, che danneggiava le coltivazioni e causava più vittime fra i contadini durante gli inverni gelidi. Il governo centrale, scarso di risorse, poté fare ben poco per mitigare la crisi causata da questi eventi simultanei. A peggiorare le cose una grande epidemia colpì tutta la Cina uccidendo un numero molto elevato di persone.

La Cina è spesso messa alla prova da incredibili calamità naturali che, soprattutto per via della grande concentrazione di popolazione in alcune aree del territorio, assumono proporzioni disastrose.



mercoledì 22 gennaio 2025

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 22 gennaio.

Il 22 gennaio 1901 Edoardo VII sale al trono di Inghilterra dopo la morte della madre, la Regina Vittoria.

Figlio primogenito della regina Vittoria d'Inghilterra e di Alberto-Francesco-Augusto, principe di Sassonia-Coburgo e principe consorte d'Inghilterra, nacque a Londra il 9 novembre 1841. Frequentò successivamente le due grandi università d'Oxford e di Cambridge, ma il suo vero educatore fu il padre che, schietto temperamento di principe tedesco, uomo di rigida coscienza, diresse la formazione morale e intellettuale del figlio e ne vigilò in tutti i più minuti particolari gli studi teorici e pratici. Bertie però (così veniva designato nell'intimità il principe Edoardo) non fu allievo disciplinato né molto studioso: acquistò tuttavia abitudini di serietà e un concetto sano della missione d'un principe moderno, che si ritrovarono interi in lui quando a sessant'anni egli cinse la corona. Cosicché egli nel suo breve regno di nove anni poté segnare un'impronta personale che non era stata lasciata prima di lui da alcun sovrano inglese dopo Guglielmo III.

Alla morte del principe consorte, avvenuta quando Edward era appena ventenne, la regina Vittoria, pur riservandosi intero l'esercizio delle sue prerogative regali, trasferì al principe di Galles il compito di rappresentare la corona in quasi tutte le cerimonie pubbliche. Edoardo fu da giovane un instancabile viaggiatore e taluno dei suoi viaggi ebbe importanza politica non comune. Così a 19 anni visitò il Canada e in quell'occasione si recò a Washington, ospite del presidente Buchanan. Le colonie ribellatesi poco meno d'un secolo addietro all'Inghilterra e costituitesi in una grande nazione indipendente, ebbero così il miglior pegno di piena riconciliazione con l'antica metropoli. Dopo la morte del padre, il principe compì lunghe escursioni in Oriente, ma il più importante dei suoi viaggi fu la visita che egli fece nel 1875 ai possedimenti indiani, visita che fu preludio alla proclamazione della regina Vittoria a imperatrice delle Indie.

Nel 1863 sposò la principessa Alessandra di Danimarca, figlia di re Cristiano IX, matrimonio che doveva pochi anni dopo (1866) farlo cognato del granduca ereditario di Russia, che fu poi l'imperatore Alessandro III. Il matrimonio dell'erede del trono inglese, figlio d'un principe tedesco, con una principessa danese, mentre la questione dei ducati dell'Elba si trovava nello stadio più acuto riuscì mal gradito in Germania, e il principe Ernesto di Sassonia Coburgo, zio paterno di Edoardo, lo qualifica nelle sue memorie un colpo di fulmine. Timori infondati, perché la politica inglese, sempre informata sotto la regina Vittoria a simpatie germaniche, non si fece per quel matrimonio più favorevole alla Danimarca.

Nel dicembre del 1871 il principe fu colto da una grave malattia che mise la sua vita in pericolo. La sua guarigione diede luogo a grandi manifestazioni di giubilo, e la stessa rispondenza d'affetto trovò presso la nazione la sventura che lo colpì più tardi nella persona del suo primogenito, il duca di Clarence, morto nel 1891 dopo breve malattia. Nel 1899 Edoardo fu oggetto a Bruxelles da parte d'un anarchico, certo Sipido, d'un attentato andato a vuoto.

La regina Vittoria morì il 22 gennaio 1901. Non era facile per il nuovo sovrano sostituirla degnamente sul trono; tanto meno facile che quel glorioso regno si chiudeva fra gli ultimi lampi della lunga guerra boera. Fu ventura grande per il nuovo sovrano di poter prontamente concludere, grazie all'abilità di lord Kitchener, la pace di Pretoria (31 maggio 1902), che assicurò alla Gran Bretagna tutti gli utili d'una vittoria rimasta fino all'ultimo momento indecisa. Il regno di Edward s'iniziava in singolare contrasto con il regno precedente. A una sovrana più che ottuagenaria, chiusa nei concetti austeri della vecchia aristocrazia britannica, succedeva un principe che frequentava i campi di corse e altri sport, che manteneva amicizie personali e contatti assidui in circoli mondani inglesi ed esteri, che continuava a essere nel mondo cosmopolita l'arbiter elegantiarum, al quale si era perfino rimproverato di non essere abbastanza severo nella scelta delle persone che ammetteva nella sua società. Tutto ciò gli aveva creato una falsa riputazione di frivolezza che aveva fatto dubitare che egli potesse continuare sul trono le vecchie tradizioni vittoriane care al popolo inglese. Egli si rivelò invece fino dai primi mesi del suo regno all'altezza della sua missione, conquistandosi rapidamente l'animo della nazione.

Re Edoardo VII si rinchiuse per quanto riguardava la politica interna nella scrupolosa osservanza delle norme che presiedono ai regimi parlamentari, accettando, senza palesare preferenze o antipatie, l'avvicendarsi al governo dei due grandi partiti che si contendevano in quel tempo il potere. In ciò differì dalla madre, la quale manifestò in più occasioni le proprie simpatie ora all'uno ora all'altro dei due partiti in contesa. Ciò non gli impedì di prendere vivo interesse all'evoluzione economico-sociale che, da tempo iniziata, assunse sotto il suo regno un ritmo più accelerato. La maggior crisi di politica interna del suo regno si produsse poco prima della sua morte, nel 1909, quando i due rami del parlamento si trovarono in conflitto circa i progetti finanziari del governo liberale, e s'iniziò nella camera dei comuni e nel paese un'agitazione per la limitazione dei poteri della Camera dei lord. Questa campagna amareggiò gli ultimi mesi di vita di Edoardo, il quale non poté nascondere il suo rammarico nel vedere pericolanti le secolari prerogative della camera alta.

Ma il terreno sul quale diede tutta la misura del suo valore fu quello della politica estera. Egli fin dai primissimi anni di regno trasse profitto dalle relazioni di personale amicizia che esistevano tra lui e il re D. Carlos per rinsaldare la vacillante fedeltà portoghese, e lasciò, dopo la sua visita a Lisbona (1903), quel paese rassicurato sull'avvenire delle proprie colonie e più che mai stretto alla alleanza inglese. Nello stesso anno fece il viaggio a Roma, dove visitò il re d'Italia e il sommo pontefice, dando prova di molto tatto politico nella difficile situazione esistente allora nella capitale d'Italia a ragione del conflitto tuttora acuto tra la S. Sede e il governo nazionale. Compì il suo giro d'Europa con un breve soggiorno a Parigi, dove covavano ancora i risentimenti di Fashoda. Egli seppe attutirli ponendo le prime basi d'un ravvicinamento che doveva avere un giorno una capitale influenza sui destini d'Europa.

La nota principale del regno di Edoardo fu infatti l'inversione completa della politica estera inglese. Orientata tradizionalmente contro la Francia fino alla metà del sec. XIX, essa si era, dalla crisi di Crimea in poi, rivolta contro la Russia. Fu merito suo di vedere come il vero pericolo per la potenza britannica non venisse più da Parigi o da Pietroburgo, ma da Berlino, e dagli sforzi assidui e fortunati onde, dopo il ritiro del principe di Bismarck, l'imperatore Guglielmo II si adoperava a fare della Germania una grande potenza marittima e coloniale. L'Inghilterra aveva seguito per quasi due secoli una politica d'intima cordialità verso le potenze germaniche. Edward cambiò interamente di rotta e ricercò l'amicizia francese, avviamento a quella russa. Così s'iniziò a Londra quella politica di nuove intese, abilmente condotta da lord Lansdowne e da sir Edward Grey, che, qualificata a Berlino insidioso accerchiamento, parve a Londra legittima difesa. Se ne videro i primi effetti nell'accordo franco-britannico dell'8 aprile 1905, che regolò le antiche Competizioni africane delle due potenze, e nell'appoggio che la Gran Bretagna portò alla Francia nella conferenza di Algesiras (1906) per gli affari del Marocco. Attraverso la rinnovata amicizia francese la politica del Re mise le basi d'un riavvicinamento alla Russia. Dopo il viaggio a Reval (luglio 1908) era nata la Triplice Intesa per fare equilibrio al binomio degl'Imperi centrali.

Questa geniale politica estera fu seguita da Edoardo con metodi di rigida correttezza costituzionale, benché egli ne fosse a un tempo il primo ispiratore e un prezioso strumento nei contatti che, durante i suoi viaggi all'estero, egli prendeva con sovrani e uomini di stato. Questa politica non assunse mai carattere aggressivo, anzi uno degli ultimi atti del suo regno fu una visita ufficiale a Berlino (febbraio 1909), intonata a piena cordialità con il nipote rivale. Onde egli apparve ai contemporanei uno strenuo difensore della pace e i suoi Sudditi lo chiamarono a titolo d'onore Edward the peacemaker.

Edoardo morì a Buckingham Palace il 6 maggio 1910, lasciando quattro figli; il principe di Galles, ora re Giorgio V, le principesse Luisa duchessa di Fife, Vittoria, e Maud, regina di Norvegia. Riposa nella Cappella di San Giorgio, presso il Castello di Windsor.

martedì 21 gennaio 2025

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 21 gennaio.

Il 21 gennaio 1998 Papa Giovanni Paolo II restituisce la visita di due anni prima al Vaticano e incontra Fidel Castro nel suo viaggio apostolico a Cuba.

Egli, alla cerimonia di benvenuto all’aeroporto di La Havana, pronuncia una frase che fa il giro del mondo: «Possa Cuba aprirsi con tutte le sue magnifiche possibilità al mondo e possa il mondo aprirsi a Cuba».

Nel discorso del Pontefice, la condanna ufficiale all’embargo statunitense giunge forte e chiara: «Il popolo cubano non può vedersi privato dei vincoli con gli altri popoli, che sono necessari per lo sviluppo economico, sociale e culturale, soprattutto quando l’isolamento forzato si ripercuote in modo indiscriminato sulla popolazione, accrescendo le difficoltà dei più deboli, in aspetti fondamentali come l’alimentazione, la sanità e l’educazione [...]». In definitiva, l’embargo è per Giovanni Paolo «eticamente inaccettabile».

Anche Castro, accogliendo il Papa all’aeroporto, calca la mano sull’embargo. Nel suo discorso di benvenuto, ha voluto evidenziare la crudeltà dei conquistatori contro «gli abitanti naturali» che popolavano l’isola; ha ricordato anche il dramma degli africani «crudelmente strappati dalle loro lontane terre», soprattutto grida al mondo la situazione in cui Cuba si trova a vivere: «Oggi, Santità, si cerca nuovamente il genocidio, pretendendo di arrendere per fame, malattia e asfissia economica, politica e militare» Cuba. Il passaggio del discorso più emozionante è, forse, quando Castro dice: «Santità, pensiamo come lei su molte importanti questioni del mondo di oggi e questo ci dà grande soddisfazione; su altre, le nostre opinioni differiscono, ma rendiamo rispettoso omaggio alla convinzione profonda con cui lei difende le sue idee».

Nel viaggio forti sono state le parole contro il regime oppressivo di Castro, ma non sono state risparmiate anche critiche verso il liberalismo. Nell’omelia della celebrazione eucaristica, tenuta in piazza José Martí il 25 gennaio, Giovanni Paolo usa toni severi: «[...] è bene ricordare che uno Stato moderno non può fare dell’ateismo o secolarismo estremo, deve promuovere un clima sociale sereno e una legislazione adeguata» per consentire a tutti di poter usufruire delle ricchezze spirituali, morali e civili della propria nazione. «D’altro canto, in vari luoghi si sviluppa una forma di neoliberalismo capitalista che subordina la persona» condizionando lo sviluppo di quel popolo «alle forze cieche del mercato». Per papa Wojtyla i programmi economici insostenibili, imposti alle Nazioni come condizione per ricevere aiuti, portano «all’arricchimento esagerato di pochi al prezzo dell’impoverimento crescente di molti».

Alla partenza di papa Wojtyla Fidel Castro lo ringrazia pubblicamente “per tutte le parole pronunciate”: «Santità, La ringrazio sommamente per tutto ciò che Lei ha detto, anche per ciò che mi trova in disaccordo». La disponibilità di Castro è stata quasi totale, tant’è vero che la visita a Cuba ha dato occasione al Pontefice di elevare il vescovo Ortega a cardinale, sono stati fondati il movimento degli universitari cattolici, una sezione della commissione Justitia et Pax, l’Unione della stampa cattolica.

Con la partenza da Cuba di Giovanni Paolo II moltissime restrizioni anticattoliche sono soppresse, anche il Natale è ripristinato come festa nazionale.

La visita rimane così impressa nella memoria di tutto il gruppo dirigente cubano che, alla morte di Giovanni Paolo II, sono state stabilite decisioni impensabili. Castro decreta addirittura tre giorni di lutto nazionale per la morte del Papa. Si legge nel comunicato ufficiale: «Con motivo della morte di Sua Santità Giovanni Paolo II, è stato deciso di sospendere nel periodo di lutto ufficiale decretato dal Consiglio di Stato lo svolgimento delle attività festive. Questo include la posposizione, tra l’altro, dei festeggiamenti per l’anniversario dell’Organizzazione dei Pionieri José Martí e dell’Unione dei Giovani Comunisti, oltre alla partita finale della XLIV Serie Nazionale di Baseball». In questa occasione, Giovanni Paolo II è definito dal governo “un amico” di Cuba e Castro partecipa finanche alla messa in suffragio nella cattedrale dell’Avana. Per l’occasione Castro mette da parte la divisa militare, indossando un completo scuro (il “Leader maximo” non prendeva parte a una cerimonia religiosa dal 1959, anno in cui si sposò la sorella). Nel libro delle presenze della nunziatura lascia anche il suo ultimo saluto personale a papa Wojtyla, presentando gli omaggi «all’infaticabile combattente impegnato per l’amicizia tra i popoli, nemico della guerra e amico dei poveri». Un gesto di deferenza e rispetto da parte di Castro al capo della Chiesa di Roma che, dal gennaio del 1998 sino ad appena tre mesi prima della sua morte, ha ripetuto il suo dissenso contro l’embargo economico imposto all’isola dagli Stati Uniti, sostenendo che esso impedisce le condizioni per un reale sviluppo a Cuba. In occasione della morte di papa Wojtyla, il presidente cubano permette, per la seconda volta in due giorni, al cardinale Jaime Ortega, arcivescovo dell’Avana e primate della Chiesa cattolica cubana, di inviare un messaggio ai cattolici nell’isola attraverso la televisione di Stato. Mai in precedenza il cardinale Ortega era apparso alla tv pubblica cubana, rigidamente controllata dal regime.

Il ministro degli Esteri Felipe Perez Roque ha poi letto alla televisione un messaggio governativo di “condoglianze, rispetto e solidarietà alla comunità cattolica a Cuba e nel resto del mondo”: «Abbiamo sempre considerato e continuiamo a considerare Giovanni Paolo II come un amico che si preoccupava dei poveri, che ha combattuto il neoliberismo e che ha lottato per la pace […] lo ricorderemo sempre anche per le sue dichiarazioni contro il blocco che soffre il nostro popolo, definito “una misura economica restrittiva imposta dall’estero, ingiusta ed eticamente inaccettabile».

Nel messaggio personale di condoglianze inviato al segretario di Stato Vaticano Angelo Sodano, così si è espresso il presidente Castro: «Desidero esprimere le più sentite condoglianze del popolo e del governo di Cuba. L’umanità terrà sempre con sé un ricordo commosso dell’instancabile lavoro che Sua Santità Giovanni Paolo II ha sempre compiuto in favore della pace, della giustizia e della solidarietà tra i popoli».

lunedì 20 gennaio 2025

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 20 gennaio.

Il 20 gennaio 1942 alla Conferenza di Wannsee, i nazisti decidono di risolvere la questione ebraica mediante la cosiddetta "soluzione finale".

La “soluzione finale” fu una formula linguistica terribile, inventata dai nazisti per elaborare un piano che prevedesse l’emigrazione, la resa in schiavitù e lo sterminio di una parte del popolo ebraico che viveva nei territori conquistati dall’esercito tedesco durante la Seconda Guerra Mondiale.

Al fine di realizzare questo piano Adolf Hitler chiese al Maresciallo Hermann Göring di dare avvio all’organizzazione logistica e militare per deportare tutte le persone di origine ebraica in un luogo preposto.

Goring ordinò a Reinhard Heydrich, alto ufficiale delle SS, capo del Reichssicherheitshauptamt  (nome per esteso della “RSHA” l’ufficio centrale per la sicurezza del Reich che svolgeva funzioni di spionaggio, di controspionaggio e di polizia nei territori del Reich) e governatore del protettorato di Boemia e Moravia di organizzare una conferenza nella quale si discutesse come avviare la soluzione finale e a questo proposito di convocare le personalità che avrebbero dovuto coinvolgere ministeri e istituzioni del Reich per realizzare il più grande esodo e genocidio della storia.

La conferenza si tenne il 20 gennaio 1942 in una villa nei pressi del lago Wannsee non molto lontano da Berlino. Vi parteciparono 15 gerarchi del governo nazista:

Reinhard Heydrich, Capo della Polizia del Reich, Capo dei servizi di Sicurezza e dei Servizi Segreti e Governatore del Protettorato di Boemia e Moravia.

Alfred Meyer, Segretario di Stato del Ministero dei Territori orientali sotto dominio del governo tedesco.

George Leibbrandt, Capo del dipartimento politico del Ministero dei Territori orientali sotto dominio del governo tedesco.

Wilhelm Stuckart, Segretario di Stato del Ministero degli Interni.

Erich Neumann, Direttore del dipartimento per il piano quadriennale.

Roland Freisler, Segretario di Stato del Ministero della Giustizia.

Josef Bülher, Segretario di Stato del governatorato generale.

Martin Luther, Sottosegretario Ministero degli Esteri.

Gerhard Klopfer, Segretario della Cancelleria del Reich.

Friedrich Wilhelm Kritzinger, Direttore generale della Cancelleria del Reich.

Otto Hofmann, Capo dell’ufficio centrale per la razza e la colonizzazione.

Heinrich Müller, Capo della Gestapo.

Adolf Eichmann, segretario della conferenza e capo del Dipartimento B4 della Gestapo.

Karl Eberhard, Comandante della Polizia e Capo dei Servizi di Sicurezza del Governatorato generale.

Rudolf Lange, Comandante della Polizia e Capo dei Servizi di Sicurezza in Lettonia.

Heydrich  aprì la riunione facendo un’ampia premessa sulle politiche e strategie organizzative adottate, fino a quel momento, dal governo tedesco per trasferire gli ebrei residenti nel continente europeo in una zona specifica. Inizialmente era stato previsto il Madagascar come luogo di confino ma in seguito, soprattutto a causa degli sviluppi che stava prendendo la guerra, era stato deciso di spostare gli ebrei nei campi di concentramento e nei paesi dell’Est Europa al fine di utilizzarli come manodopera in tutte le strutture operative e industriali che servivano al mantenimento della macchina bellica, nell’impiego per la costruzione di strade soprattutto in quei paesi nell’Est Europeo dove  mancavano e come manodopera specializzata e non specializzata nelle fabbriche e industrie dei territori occupati e del Reich.

Quest’ultimi non sarebbero stati evacuati fino a quando non fossero stati sostituiti da altra manodopera dello stesso livello. Non si parla, infatti, nel verbale della conferenza (l’unico esemplare pervenutoci apparteneva a Martin Luther, Sottosegretario al Ministero degli Esteri, ma ne furono redatte 30 copie) di sterminio né si citano armi o metodi di soppressione delle persone ma si identifica nella deportazione e nel lavoro forzato il metodo più efficace per operare una selezione naturale dei prigionieri. Gli ebrei residenti in Europa erano circa 11 milioni, questa quindi sarebbe stata la cifra della deportazione.

Durante i lavori della conferenza di Wannsee si discusse in quale modo, nei vari territori europei alleati e occupati dall’esercito tedesco, sarebbe stato necessario intervenire per operare nel modo più veloce l’emigrazione forzata di persone di origine ebraica: fu ripartita la presenza degli ebrei in tutti i paesi europei e fu rilevata la maggiore difficoltà nell’organizzare efficacemente l’emigrazione forzata in Romania, dove era più facile procurarsi illegalmente documenti falsi e in Ungheria, dove non era ancora stato nominato un responsabile della questione ebraica. In Francia fu sottolineato che non c’erano grossi problemi grazie anche al collaborazionismo del governo di Vichy mentre la Boemia e la Moravia, governate da Heydrich, avrebbero dovuto essere i primi territori in cui applicare la soluzione finale. Anche l’Italia e la Spagna avrebbero collaborato senza difficoltà grazie al forte legame con i nazisti.

La conferenza si concluse con la richiesta, da parte di Heyndrich a tutti i partecipanti, di aiutarlo fin da subito con il loro zelo e le loro conoscenze a realizzare tale progetto nel modo più rapido ed efficace. E’ interessare notare che il lavoro forzato di persone di origine ebraica fu utilizzato anche da industrie tedesche che dopo la guerra raggiunsero uno sviluppo notevole e che cercarono di nascondere il fatto di aver utilizzato schiavi per la realizzazione dei loro prodotti. Ci sono molti libri che raccontano quali aziende furono coinvolte e che varrebbe la pena leggere per comprendere il grado di compromissione che il popolo tedesco ebbe con il trattamento riservato dai nazisti al popolo ebraico.

domenica 19 gennaio 2025

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 19 gennaio.

Il 19 gennaio 1939 viene abolito il Parlamento Italiano, sostituito con la Camera dei Fasci e delle Corporazioni.

Con la legge del 19 gennaio 1939, che istituiva la Camera dei fasci e delle corporazioni il regime totalitario proseguiva la costruzione dello Stato fascista, dopo aver soppresso la Camera dei deputati, per cancellare quel che ancora sopravviveva della rappresentanza parlamentare eletta dai cittadini. 

La Camera dei deputati fu abolita per volontà del duce, al culmine di un processo di revisione costituzionale, iniziato fin dal 1925, che nei successivi quattordici anni aveva attuato, gradualmente ma costantemente, una radicale trasformazione dell'ordinamento dello Stato monarchico, abolendo il regime parlamentare, che aveva governato il regno d'Italia fin dalla sua costituzione il 17 marzo 1861, sulla base dello Statuto del regno di Sardegna concesso da Carlo Alberto nel 1848.

Secondo lo Statuto, il potere legislativo era « collettivamente esercitato dal Re e da due Camere»: il Senato, «composto da membri nominati a vita dal Re, in numero non limitato, aventi l'età di quarant'anni compiuti», scelti fra diverse categorie definite dallo Statuto, e la Camera elettiva, «composta di Deputati scelti dai Collegi Elettorali conformemente alla Legge» fra i sudditi del re che avevano compiuto i trent'anni, godevano dei diritti civili e politici, e degli altri requisiti previsti dalla legge. I deputati, eletti per cinque anni, rappresentavano «la Nazione in generale, e non le sole provincie in cui furono eletti» e non erano soggetti a «nessun mandato imperativo» da parte degli elettori. Lo Statuto stabiliva inoltre, che nessun deputato poteva essere arrestato durante l'esercizio del suo mandato, «fuori del caso di flagrante delitto», né poteva essere «tradotto in giudizio in materia criminale, senza il previo consenso della Camera».

Con l’abolizione della Camera dei deputati il regime fascista annientò definitivamente dallo Stato italiano il principio della sovranità popolare, così come aveva proclamato fin dal suo avvento al potere. Infatti, pur lasciando nominalmente esistere la Camera dei deputati, il fascismo aveva iniziato a demolire la rappresentanza eletta col voto popolare fin dal novembre 1926, quando su iniziativa del segretario del partito fascista, diventato ormai partito unico, furono dichiarati decaduti tutti i deputati dei partiti antifascisti. Due anni dopo, alla vigilia della elezione della nuova Camera, il 17 maggio 1928, una riforma della rappresentanza politica aveva istituito il collegio unico nominale, assegnando al Gran Consiglio, l'organo supremo del partito fascista, la prerogativa di scegliere i candidati alla Camera, proponendo agli elettori una lista che essi potevano soltanto approvare o respingere in blocco.

La votazione del 1929 produsse una Camera esclusivamente fascista. Fu in seguito alla riforma della rappresentanza politica, che il Gran Consiglio divenne supremo organo costituzionale dello Stato monarchico, con competenze costituzionali decisive, come la facoltà di tenere aggiornata la lista di eventuali successori alla carica di capo del governo, cioè di eventuali successori di Mussolini in tale carica, e che in realtà non fu mai approntata, e soprattutto la prerogativa di intervenire nella successione al trono, che menomava gravemente il potere del re.

La sopravvivenza della formula plebiscitaria, adottata anche per l'elezione dei deputati nel 1934, non era affatto una residua parvenza di riconoscimento della sovranità popolare, che il fascismo al potere aveva sempre brutalmente e pubblicamente negato. Una maggioranza di voti contrari nelle elezioni plebiscitarie, non avrebbe comportato alcuna crisi per il regime totalitario, che si compiaceva di ostentare il consenso popolare, ma fondava esclusivamente sulla forza la sua esistenza. Mussolini lo aveva detto chiaro e netto alla vigilia del plebiscito del 1929: «Ho appena bisogno di ricordare tuttavia, che una rivoluzione può farsi consacrare da un plebiscito, giammai rovesciare».

L'istituzione della Camera dei fasci e delle corporazioni risolveva definitivamente il problema della rappresentanza popolare, abolendola. La nuova Camera infatti non era elettiva né prevedeva alcuna approvazione plebiscitaria popolare. I suoi membri, denominati consiglieri nazionali, erano i componenti del Consiglio nazionale del partito fascista e i componenti del Consiglio nazionale delle corporazioni, e assumevano la qualità di consiglieri nazionali «con decreto del DUCE del Fascismo, Capo del Governo».

I consiglieri nazionali godevano delle prerogative precedentemente riconosciute ai deputati dallo Statuto, ma il limite minimo di età era stabilito a venticinque anni. I consiglieri nazionali decadevano dalla carica nel momento stesso in cui decadevano dalla funzione esercitata nel Consiglio nazionale del partito fascista e in quello delle corporazioni. Della nuova Camera erano componenti di diritto il duce e i membri del Gran Consiglio del fascismo, creato da Mussolini alla fine del 1922 come organo supremo del partito fascista, e diventato dal 1928 organo costituzionale supremo del regime fascista. Unico compito della Camera dei fasci e delle corporazioni era collaborare con il governo per la formazione delle leggi, Lo stesso compito era assegnato al Senato, divenuto ormai un'assemblea dominata da senatori fascisti, mentre la esigua minoranza di senatori rimasti antifascisti o era ridotta al silenzio o disertava le sedute.

Nel presentare al duce la relazione sull'attività svolta alla Camera dei fasci e delle corpo dal 23 marzo 1939 al 23 marzo 1941, il presidente della medesima, Dino Grandi affermava: «Lo Stato totalitario non è più un semplice postulato teorico, per superare le contraddizioni della democrazia parlamentare. Una coerenza intrinseca, quasi elementare, ne è caratteristica fondamentale. Esso pone il Governo al centro del sistema e rende attuabili forme di operosa e armonica collaborazione, particolarmente apprezzabili e innovative nei riguardi delle Assemblee politiche. E appunto la felice e costruttiva esperienza della nostra Assemblea porta nuova luce sull'istituto legislativo, mediante il quale non solo si esplica una sostanziale attività pubblica, ma la profonda trasformazione operata dal Fascismo nella struttura sociale del Paese viene a mano a mano acquisita allo ordinamento giuridico».

La Camera dei fasci e della corporazioni fu abolita il 2 agosto 1943 dopo il crollo del regime fascista travolto dalla catastrofe militare. Il ripristino della sovranità popolare attraverso la Camera dei deputati e l'istituzione di un Senato elettivo nell'Italia repubblicana, fu la definitiva vittoria della democrazia sul fascismo.

sabato 18 gennaio 2025

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 18 gennaio.

Il 18 gennaio 1967 Albert De Salvo, il presunto strangolatore di Boston, viene condannato all'ergastolo.

Confessò spontaneamente di essere «Lo strangolatore di Boston» responsabile di aver ucciso 13 donne in due anni, ma non fu creduto e quindi assolto. Anche se la giuria comunque non mandò libero Albert De Salvo: lo ritenne infatti comunque colpevole, di un numero imprecisato di stupri, forse 300, forse addirittura 2mila. 

E il 18 gennaio del 1967, battendo il martelletto, celebrato da centinaia di film, il giudice lo spedì all'ergastolo. Il resto lo fece la «giustizia interna» al carcere: fu trovato il 26 novembre del 1973 pugnalato nell'infermeria da una mano rimasta ignota. Portando con se il suo segreto: era davvero lui il maniaco omicida che aveva terrorizzato la capitale del Massachusetts oppure di trattava di un mitomane? Anche se la palma di più famoso serial killer della storia rimane a «Jack lo Squartatore» salito agli onori della cronaca e della leggenda con «appena» cinque vittime accertate, anche lo «strangolatore» ebbe il suo momento di notorietà e la sua vicenda venne persino romanzata in un film. De Salvo ebbe il volto di Tony Curtis, gli investigatori che lo arrestarono quello di Henry Fonda e George Kennedy. Ma fu veramente De Salvo l'assassino? L'opinione pubblica in proposito si divise, come in tutti i gialli che si rispettino.

Albert Henry De Salvo, di chiare origini italiane, era nato a Chelsea in Massachusetts il 3 settembre 1931. Il padre Frank era un uomo di rara violenza e dissolutezza: picchiava a sangue la madre e si fa faceva guardare dal figlio mentre faceva l'amore con delle prostitute portate a casa. Un'adolescenza che non poteva non aver riflessi sulla sua vita futura. Da piccolo infatti si divertiva a torturare gli animali mentre da adolescente iniziò a commettere piccoli furti e già a 13 anni finì in riformatorio. Chiamato alle armi qualche anno dopo, fu spedito in Germania dove conobbe e sposò una donna tedesca che gli diede una figlia. Successivamente si congedò, tornò in America, per arruolarsi nuovamente dopo pochi mesi. Venne però denunciato per aver molestato una bambina di 9 anni: evitò il processo ma nel 1958 dovette lasciare l'uniforme. Nel 1960 venne nuovamente arrestato per furto, condannato a due anni, di cui solo uno scontato.

Nella primavera del 1961 De Salvo si trasferì a Boston dove il 14 giugno 1962 iniziò la scia di sangue. In un anno e mezzo, ultimo delitto gennaio 1964, 13 donne tra i 19 e gli 85 anni furono assassinate tra città e dintorni. Quasi tutte violentate e poi strangolate con calze, sciarpe o sottovesti. Solo la vittima più anziana morì per infarto. Altre due furono accoltellate a morte, una dopo essere stata selvaggiamente picchiata. Dalle indagini emerse poi che nessuna abitazione aveva porte o finestre forzate, come se le vittime conoscessero l'assassino e l'avessero fatto entrare volontariamente. La città cadde in preda al panico, si parlò di un serial killer subito ribattezzato lo «Strangolatore di Boston». Ipotesi che non convinceva però la polizia poiché non trovava nei diversi delitti lo stesso «rituale», caratteristica dell'omicida seriale. Il 3 novembre del 1964 De Salvo venne arrestato per una violenza sessuale ai danni di una giovane donna che però, dopo l'aggressione, venne stranamente risparmiata. Non solo, lo stupratore non le fece del male e prima di andarsene chiese anche scusa. Comportamento non certo compatibile con quello dello «strangolatore». Appena la sua foto venne pubblica sui giornali fu tutto un accorrere di donne che lo riconobbero come il loro aggressore. Alla fine furono circa 300 anche se gli investigatori arrivarono a ipotizzare che il numero reale potesse arrivare a 2mila.

Durante l'istruttoria improvvisamente De Salvo confessò. «Sono io lo strangolatore» e fornì, pur se con qualche imprecisione, particolari che la polizia non aveva mai divulgato. Versione che venne ripetuta e confermata anche sotto ipnosi, senza però convincere gli investigatori. Venne ipotizzato che, avendo ormai capito di non potere sfuggire all'ergastolo, avrebbe potuto trovare una certa celebrità, e quindi racimolare denaro con interviste e memorie per aiutare economicamente moglie e figlia. Non fu quindi creduto e il 18 gennaio del 1987 venne condannato all'ergastolo, ma solo per le violenze carnali. Assolto invece per gli omicidi. Finì al manicomio criminale dove però riuscì a fuggire a febbraio con altri due detenuti, proprio mentre a Hollywood si stava girando il film sulla sua vita. Si scatenò una clamorosa caccia all'uomo, vista la sua estrema pericolosità, e qualche giorno dopo De Salvo venne riacciuffato e spedito al carcere di massima sicurezza di Walpole. Qui rimase fino al 26 novembre del 1973 quando venne trovato pugnalato all'interno dell'infermeria della prigione. Lasciando aperto l'inquietante interrogativo: era veramente lui il feroce serial killer che per un paio d'anni aveva terrorizzato le donne di Boston?

venerdì 17 gennaio 2025

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 17 gennaio.

Alle 2 di notte del 17 gennaio 1985, a causa della forte nevicata del giorno prima, crolla il tetto del Palasport di Milano.

Il teatro dello sport milanese sorgeva nei pressi dello stadio Giuseppe Meazza ed era stato inaugurato nel 1976. Era diventato la casa dell’attuale Olimpia Milano allora chiamata Simac.  Anche l’atletica ed alcuni concerti bagnarono la versatilità di questa immensa struttura. Il "Palasport di San Siro" poteva ospitare ben 18000 persone, si trattava di una delle strutture sportive più grandi al mondo. 

Purtroppo la pesante nevicata del 1985 fece cedere il tetto del tempio milanese dello sport. Dan Peterson, storico condottiero sulla panchina dell’Olimpia Milano, ribattezzò il giorno del crollo come “Black Thursday”. "Il Palazzone" è stato in seguito demolito e, nonostante le tante promesse, Milano rimane ancora oggi priva di una maxi struttura di quella portata. Le conseguenze principali sono state pagate dalla squadra milanese di pallacanestro che ha dovuto emigrare al Forum di Assago per avere un impianto da almeno diecimila posti.

Il Palazzone era però tutta un' altra cosa. La sua posizione strategica consentiva di raccogliere sempre quattro/cinquemila tifosi da San Siro creando una cornice di pubblico incredibile: quando giocavi contro Milano dovevi combattere anche contro questa imponente bolgia umana. L' entusiasmo ed il calore generati da questa immenso stadio sono ormai soltanto un vecchio ricordo archiviato da tempo.  

giovedì 16 gennaio 2025

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 16 gennaio.

Il 16 gennaio 1994 il Presidente Oscar Luigi Scalfaro scioglie le Camere, ponendo fine così alla cosiddetta Prima Repubblica.

La penosa agonia vissuta dal complesso partitico italiano a cavallo fra gli anni ‘80 e ‘90 sembrò consumarsi all'insaputa dei suoi stessi protagonisti, incapaci di cogliere nell'indebolimento della coalizione governativa e nel vistoso calo fatto registrare dal PCI qualcosa di diverso da una semplice replica degli accadimenti verificatisi un ventennio prima. Eppure un inquietante campanello di allarme era arrivato già al termine di quello che era stato ribattezzato con prematura baldanza “il secondo miracolo economico, quando gli effetti destabilizzanti della crisi del debito pubblico uniti agli oneri assunti con la CEE per il passaggio alla moneta unica agitarono tra i cittadini l’antico spettro della recessione. Non è certo un caso che l'ipotesi di istituire un apposito governo tecnico, destinato nelle intenzioni dei suoi propugnatori a risolvere quei problemi accumulatisi nel corso delle decadi, abbia assunto a partire da questa delicatissima fase storica una crescente appetibilità. Altrettanto rilevante nel decidere le sorti della cosiddetta Prima Repubblica fu il repentino mutamento dello scenario internazionale in seguito al collasso dell'Unione Sovietica e all'esaurimento del confronto ideologico tra le due superpotenze, determinante nel rendere inattuali la conventio ad excludendum e il ruolo della D.C. come bastione inespugnabile dell’anticomunismo. Il declino di quest'ultima nelle vesti di garante del sistema politico fu per di più accelerato dalla progressiva perdita del sostegno della Santa Sede, imputabile all'ormai cronica emorragia degli iscritti dalle sue liste e ai frequenti episodi di collusione mafiosa che in quel periodo stavano giungendo all'attenzione del grande pubblico.

Il primo aspetto degno di menzione quando si parla della X legislatura fu il ritorno dei democristiani al timone dell'esecutivo, prospettiva obbligata a fronte di un PSI risalito ai livelli del 1958, ma impossibilitato nel compiere quel salto di qualità necessario a trasformarlo in una forza partitica di grandi dimensioni. Fra le conseguenze più immediate connesse all’approdo di De Mita a Palazzo Chigi occorre ricordare l’accantonamento di tutti i progetti di riforma istituzionale discussi nel lustro precedente, risultato di un'intesa più equilibrata con i socialisti in materia di lottizzazione delle cariche conosciuta, dalle iniziali dei suoi promotori (Craxi, Andreotti e Forlani), con l'acronimo di CAF. Nondimeno le logiche interne al partito, da sempre ostile alla concentrazione di ampi poteri nelle mani di un solo uomo, avrebbero giocato un ruolo chiave nel costringere il neo-Premier ad abbandonare la direzione del Paese e della stessa D.C. a vantaggio, rispettivamente, di Andreotti e Forlani.

Ancora più precarie apparivano le condizioni del PCI, vittima di uno stato di profondo smarrimento dopo la conclusione della parentesi della solidarietà nazionale e il processo di revisione dell’ortodossia sovietica inaugurato con l'ascesa di Michail Gorbačëv. A scuoterlo da questo insostenibile torpore contribuirono gli eventi che, a partire dall’estate del 1989, incrinarono irrimediabilmente la tenuta del blocco comunista rendendo di fatto obsoleto l'intero apparato dottrinario sul quale aveva costruito la propria identità. Di questo fu consapevole il giovane segretario Achille Occhetto, succeduto l’anno prima ad Alessandro Natta e persuaso della necessità di rifondare l’associazione alla luce del nuovo assetto internazionale che si stava profilando all'orizzonte: nella giornata del 12 Novembre 1989 si era infatti proceduto all’ufficializzazione di un nuovo corso politico, la cosiddetta Svolta della Bolognina, indirizzato al superamento del PCI e alla nascita di un nuovo partito della sinistra italiana che potesse competere per il controllo dell’esecutivo. La vera sfida fu tuttavia quella costituita dal raggiungimento di un’intesa fra le diverse fazioni interne, risvegliatesi dopo decenni di rigido centralismo democratico e divise su innumerevoli questioni quali il nome da attribuire all’organizzazione (ribattezzata in modo non troppo scherzoso La cosa). Piuttosto lunga sarebbe stata la querelle tra gli esponenti dell'ex ala destra, i miglioristi, favorevoli ad una conversione alla socialdemocrazia senza per questo recidere ogni legame con le altre forze dell'Internazionale, e quegli intransigenti di sinistra che auspicavano un rilancio ideologico per raccogliere la pesante eredità accumulata sin dal 1921. L'impossibilità nell’armonizzare queste anime tra loro così diverse avrebbe avuto delle ricadute disastrose sul neonato Partito Democratico della Sinistra (PDS), la cui parabola politica fu quasi immediatamente segnata dalla scissione del gruppo egemonizzato da Sergio Garavini conosciuto come Partito della Rifondazione Comunista (12 Dicembre 1991).

Conscia dell’impossibilità di sbloccare dall’interno il cronico stallo istituzionale, una nutrita cerchia di uomini di cultura coagulatasi attorno alla figura del democristiano Mariotto Segni (figlio dell’ex Presidente della Repubblica Antonio Segni, in carica fra il 1962 e il 1964) individuò nello strumento referendario l'arma vincente per aggirare i veti imposti dalle varie forze politiche. Il successo del suo Manifesto dei 31 e delle proposte da esso avanzate fra il 1991 e il 1993 quali la riduzione del numero di preferenze esprimibili alla Camera e l’abrogazione di alcune parti della legge in vigore al Senato, rappresentarono l’inequivocabile spia dello scollamento in atto tra la società civile e quei vecchi partiti incapaci di dare soddisfazione alle reiterate istanze riformiste. I primi anni ‘90 si sarebbero inoltre caratterizzati per lo scontro frontale tra la magistratura e l'establishment sul tema della corruzione, dove le indagini condotte nel corso del decennio precedente avevano svelato una fitta trama di relazioni tra il mondo dell'imprenditoria, della politica e della malavita. Tale confronto si sarebbe colorato di tinte ancora più fosche in seguito all'intervento del Capo di Stato Francesco Cossiga, investitosi del compito di guidare la transizione del Paese verso nuovi assetti sistemici senza curarsi delle recriminazioni provenienti da Destra e da Sinistra.

La prova tangibile del declino vissuto dalla Democrazia Cristiana arrivò dai frequenti episodi di defezione ad opera di personalità di primo piano quali Leoluca Orlando, il popolare sindaco di Palermo ostracizzato per via delle denunce sulle infiltrazioni mafiose e sulla corruzione dilaganti in Sicilia, nonché il già citato Segni, il cui Movimento per la Riforma Elettorale aveva riscosso le simpatie di importanti associazioni laicali come l'Azione Cattolica. Non meno precaria risultava essere la posizione del Partito Socialista che, nonostante la lenta progressione fatta registrare nelle elezioni europee del 1989 e nelle amministrative dell'anno successivo, scontava il danno d'immagine derivante dalle accuse di appropriazione indebita di risorse finanziarie. È alla luce degli eventi poc’anzi descritti che bisogna interpretare la decisione di chiudere anticipatamente la legislatura, invero goffo escamotage per sottrarsi ad una tempesta oramai inevitabile di fronte all’uscita dei Repubblicani dalla maggioranza pentapartitica, all’approssimarsi della tornata elettorale del 1992 e, soprattutto, alla conflagrazione del caso Tangentopoli.

Termine coniato negli ambienti del giornalismo italiano per descrivere un sistema di corruzione politica così diffuso da rappresentare, nella memoria collettiva di coloro che vi assistettero, l’essenza più intima della Prima Repubblica, l’affare Tangentopoli esplose nella giornata del 17 Febbraio 1992 quando il Pubblico Ministero Antonio Di Pietro chiese ed ottenne un ordine di cattura per Mario Chiesa, presidente della casa di riposo Pio Albergo Trivulzio ed esponente di primo piano del PSI milanese. Grazie alle rivelazioni di Luca Magni, imprenditore la cui azienda aveva “vinto” una gara di appalto per un ammontare complessivo di centoquaranta milioni, Chiesa era stato infatti sorpreso nel momento di ricevere una tangente dell’ordine di sette milioni di Lire. Nonostante i tentativi di Craxi di minimizzare l’accaduto definendo il collega “un mariuolo isolato”, le indagini condotte nell’ambito di Mani pulite provarono l’esistenza di un vero e proprio circuito delinquenziale dove il versamento delle famigerate bustarelle era divenuto la conditio sine qua non per influenzare le delibere della pubblica amministrazione. Ormai stanchi dei continui scandali e delle promesse non mantenute per decenni, i cittadini trovarono nel voto di protesta l’espediente ideale per esprimere la loro frustrazione: ciò sarebbe risultato evidente durante le elezioni del 5-6 Aprile, segnate dal trionfo indiscusso dei movimenti più giovani come i Verdi e la Lega Nord. Quest’ultima in particolare, nata nel 1989 dalla fusione della Liga Veneta con la Lega Lombarda, aveva saputo sfruttare a proprio vantaggio le grane giudiziarie della D.C. grazie alla conduzione carismatica del suo leader Umberto Bossi (è di questo periodo l’iconico slogan Roma ladrona!). Fra le altre vittime illustri finite sotto la lente d’ingrandimento dei PM occorre menzionare non soltanto il PSI e il suo onnipotente segretario, il quale si era visto sfumare davanti agli occhi una probabile riconferma a Palazzo Chigi, ma anche quel Partito Socialdemocratico squassato dagli scandali finanziari e indebolito dalla copiosa emorragia verso l'area socialista. La frenetica evoluzione dello scenario politico nazionale e internazionale non avrebbe risparmiato nemmeno il MSI, impegnato in un'opera di estesa ristrutturazione ideologica sotto la vigile sorveglianza del nuovo segretario Giancarlo Fini.

Il tracollo dell’ormai decrepito edificio partitico fu sicuramente accelerato dall'offensiva scatenata dalla mafia contro diverse personalità appartenenti al mondo della politica e della giustizia. Le radici del sodalizio con la Repubblica italiana si perdono in quel fenomeno di speculazione edilizia cominciato a Palermo nei tardi anni’50 quando Salvo Lima e Vito Ciancimino, assessori ai lavori pubblici e membri della D.C., concessero migliaia di licenze ad esponenti legati al mondo della malavita organizzata. Nel ventennio successivo invece le attività criminose di Cosa Nostra si sarebbero orientate in direzione del traffico di stupefacenti e del riciclaggio di denaro grazie al sostegno di istituti di credito come lo IOR e il Banco Ambrosiano, attività che a cavallo del 1981 e del 1983 avrebbero permesso al clan dei Corleonesi di assumere una posizione di egemonia rispetto alle altre cosche rivali. Cruciale nel consentire l’attuazione di una simile strategia fu l’assassinio, grazie alla sostanziale impunità garantita dai propri referenti, di quelle figure passibili di interferire con gli interessi delle Famiglie (il pensiero non può che andare ai vari Peppino Impastato, Carlo Alberto dalla Chiesa, Carmine Pecorelli, Giorgio Ambrosoli, Pio la Torre e molti altri ancora).

Nondimeno sul finire degli anni ’80 l’accordo in vigore fra le parti sembrò essere entrato in una spirale negativa: la condanna di numerosi delinquenti al termine di quello che venne definito Maxiprocesso (1986-1992), l’esplosione del fenomeno del pentitismo e la maggior consapevolezza dimostrata dall’opinione pubblica nazionale avevano inferto un colpo durissimo alla Cupola guidata da Salvatore Riina, la quale nei mesi conclusivi del 1991 maturò la decisione di consegnare al Governo e alla società civile un messaggio inequivocabile. Il 12 Marzo 1992 il luogotenente di Andreotti sull’isola, Salvo Lima, venne ucciso a colpi d’arma da fuoco, mentre il 23 Maggio seguente le auto su cui viaggiavano il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e i tre uomini della scorta saltarono in aria assieme ad un tratto della A29. Ad essi avrebbero fatto seguito, il 19 Luglio di quello stesso anno nei pressi di Via d’Amelio, il magistrato Paolo Borsellino e i cinque agenti di polizia incaricati di proteggerlo. La parabola dello stragismo mafioso proseguì con rinnovata intensità l’anno successivo quando un’autobomba avente per obiettivo il popolare conduttore televisivo Maurizio Costanzo deflagrò in Via Fauro senza uccidere nessuno, mentre nelle stragi di Via dei Georgofili e di Via Palestro fu il patrimonio culturale italiano a finire nel mirino degli attentatori. Il 27 Luglio due Fiat Uno imbottite di tritolo vennero fatte esplodere davanti alle chiese di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro, trascinando nell’equazione anche la Santa Sede. L’atto finale di questa stagione luttuosa si consumò nella giornata del 31 Ottobre con la scoperta, nei pressi dello Stadio Olimpico di Roma, di un ordigno esplosivo il cui malfunzionamento scongiurò il ripetersi dell’ennesimo bagno di sangue. Poi, dopo un biennio costellato di decine di morti, rappresaglie contro bersagli strategici e liquidazioni di civili inermi, la quiete.

Come si spiega una simile inversione di rotta? Cosa può aver spinto la mafia ad arrestare di punto in bianco la propria offensiva ai danni dell’ordine costituito, ad abbandonare la linea dello scontro frontale per ritirarsi dietro una familiare cortina di silenzi assordanti? La risposta, per quanto incredibile possa sembrare, risiederebbe nel raggiungimento dei target prefissati alla vigilia dell’attacco. Stando infatti alle dichiarazioni rilasciate nel 2009 da Massimo Ciancimino, figlio del sopracitato Vito e testimone chiave nell’ambito della trattiva Stato-mafia, esponenti del mondo delle istituzioni e della malavita avrebbero aperto già nel corso dall’estate del 1992 dei canali di comunicazione informali per il raggiungimento di un'intesa duratura, un accordo (papello) di coesistenza più o meno pacifica basato su reciproche concessioni. Ed ecco che dai meandri della storia repubblicana emergerebbe, ancora una volta, un quadro a dir poco inquietante dove una potente organizzazione criminale sarebbe riuscita ad imporre le proprie condizioni innalzandosi ai livelli di un’entità politica sovrana: un obiettivo nel quale avevano fallito persino le Brigate Rosse ai tempi del caso Moro.

L'eco della strage di Capaci fu così vasto da spingere le diverse forze politiche ad avallare la nomina di Oscar Luigi Scalfaro alla Presidenza della Repubblica, investendolo del gravoso compito di selezionare il nuovo Presidente del Consiglio tra i papabili indicati da Craxi. La scelta sarebbe ricaduta su Giuliano Amato, leader di un esecutivo indebolito da faide interne e pesantemente criticato per il varo di misure impopolari come il prelievo forzoso del sei per mille dai conti correnti delle banche italiane e la manovra finanziaria da 100.000 miliardi di lire. L'abrogazione del meccanismo delle preferenze multiple alla Camera e di alcune parti della legge per il Senato aveva nel frattempo spianato la strada ad una riforma elettorale in senso maggioritario, propedeutica all'attivazione di quel circuito virtuoso per l’alternanza inutilmente perseguito nel decennio precedente: conosciuta con l’appellativo di Mattarellum dal nome del suo relatore Sergio Mattarella, le disposizioni n. 276 e 277 promulgate il 4 Agosto 1993 introdussero un modello misto per cui i 2/3 dei seggi sarebbero stati assegnati in base ad un sistema uninominale secco, i rimanenti tramite un proporzionale a liste bloccate.

Con le dimissioni di Amato nel mese di Aprile le redini del Paese passarono invece nelle mani dell’ex governatore della Banca d'Italia Carlo Azeglio Ciampi, la cui investitura rappresentò una svolta epocale nella storia repubblicana in quanto aliena a tutti i principi che avevano regolato sino ad allora la formazione dei ministeri. La decisione di istituire un apposito governo tecnico può essere compresa solo tenendo conto della delegittimazione morale gravante sul cosiddetto Parlamento degli inquisiti, decimato dalle inchieste condotte dai pubblici ministeri nell'ambito di Mani Pulite, nonché del maggior coinvolgimento del Capo di Stato nella definizione delle intese. Fu in questo breve lasso di tempo che si consumò in via definitiva la parabola discendente delle Democrazia Cristiana, affossata dagli avvisi di garanzia diretti contro i suoi maggiori esponenti come Antonio Gava, Cirino Pomicino e Giulio Andreotti (processato fra il 1993 e il 2004 per collusione mafiosa ma prosciolto dalle accuse per decorrenza dei termini) oltre che dalla sonora sconfitta patita nelle elezioni amministrative di Giugno. La sommatoria di tali elementi aveva infatti palesato la necessità di rifondare il partito il quale, seppur ridimensionato dalla scissione di quel Centro Cristiano Democratico guidato da Pier Ferdinando Casini e da Clemente Mastella, sarebbe sopravvissuto al naufragio della Prima Repubblica riassumendo l’antica denominazione di Partito Popolare Italiano (PPI). Destino non condiviso dal vecchio PSI, condannato dalla strategia miope adottata dall’ex-segretario e dal clamore delle indagini aperte dalla magistratura ad una morte lenta e ingloriosa. Il colpo di grazia per qualunque velleità di rilancio sarebbe arrivato nel Maggio del ’94 quando Craxi, di fronte all’emergere di prove schiaccianti nei procedimenti istruiti a suo carico e all’ineluttabile perdita dell’immunità parlamentare, fuggì precipitosamente nella città tunisina di Hammamet per sottrarsi alla cattura. Un segnale inequivocabile circa l'esaurimento dell'esperienza partitocratica sarebbe infine arrivato dal Movimento Sociale Italiano, concorde durante il Congresso di Fiuggi del Gennaio di quello stesso anno nell’abbandonare gran parte dei propri riferimenti ideologici al fascismo trasformandosi in Alleanza Nazionale.

Il vuoto lasciato dalla conclusione anticipata dell'XI legislatura e dalla scomparsa di quegli attori che avevano animato il primo cinquantennio della storia repubblicana alimentò l'illusione di una drastica rottura con il recente passato, invero confutata dalla mancata alterazione degli assetti istituzionali nonostante l'incognita della nuova legge elettorale. Con grande sorpresa la tornata del Marzo del 1994 si concluse con la netta vittoria del partito Forza Italia e del suo leader, l'imprenditore milanese Silvio Berlusconi, il cui primo coinvolgimento nell'agone politico risaliva alle elezioni amministrative del 1993 con l'appoggio offerto al candidato missino Gianfranco Fini: determinante per il loro successo fu un insieme di fattori costituito dalla scelta di presentare due coalizioni fra loro collegate (il Polo delle Libertà e quello del Buon Governo), dalla sottovalutazione dell'avversario ad opera del PDS e, soprattutto, dall'impiego spregiudicato dei mass media come le emittenti televisive private. 

Quello della Prima Repubblica è stato il classico esempio di un edificio costruito su fondamenta troppo fragili per reggere il peso degli anni e degli agenti esterni, una costruzione instabile attraversata da crepe così profonde da richiedere una ristrutturazione estensiva e non una semplice passata di stucco in attesa dell’inevitabile crollo. È in queste anomalie croniche, nelle incoerenze riscontrabili tra la base e il vertice, tra le parole e le azioni, nell’eterna dicotomia fra ragion di Stato e moralità, che possiamo scorgere un interminabile filo conduttore a collegamento delle due Repubbliche. Sempre ammesso che, dopo il 1994, l’arena di gioco sia effettivamente cambiata.

Cerca nel blog

Archivio blog