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mercoledì 9 luglio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 9 luglio.

Il 9 luglio 2004 la Commissione Americana al Senato sui servizi di Intelligence assolve la Casa Bianca, poiché la decisione di attaccare l'Iraq sulla base delle (false) notizie sulla presenza nel Paese di armi di distruzione di massa era basata su rapporti falsati.

Dopo che Saddam Hussein era stato praticamente solleticato a prendersi il Kuwait, e dopo che l'Iraq si era svenato per dieci anni in una guerra contro l'Iran, la mossa gli scatenò contro la più grande coalizione militare della storia ai tempi di Bush senior nel 1991.

Poi, nel 2003, c'era da finire il lavoro e il segretario di stato Powell si presentò all'Onu con la storia delle armi di distruzione di massa. E il lavoro fu finito. Però, sul campo tali armi non vennero mai trovate e solo nel 2010 si insinuò che forse non c'erano mai state. Ma ormai le cose erano fatte. Peccato che non siano mai finite, da quelle parti. Senza la dittatura di Saddam l'Iraq è finito nel caos, così come la Libia senza la dittatura di Gheddafi. Stesso servizio doveva essere fatto con la Siria, ma qui le cose si sono rivelate più complicate.

Comunque, un fatto poco noto riguarda l'Inghilterra di Tony Blair, nel 2003 alleato di ferro degli Usa di Bush jr. In quell'anno una traduttrice inglese, Katharine Gun, lavorava all'ente governativo di comunicazioni per i servizi segreti GCHQ (Government Communications HeadQuarters, con sede a Cheltenham). La giovane donna intercettò un messaggio di tal Frank Koza, dell'NSA (National Security Agency) americano. In esso si raccomandava, ovviamente in via top secret, di far pressioni sui membri non permanenti del Consiglio di Sicurezza dell'Onu perché autorizzassero l'intervento anglo-americano in Iraq. Il fatto era che il governo inglese aveva qualche difficoltà a far digerire la guerra sia al popolo che allo stesso apparato.

Infatti, il procuratore generale, lord Goldsmith, aveva dato parere negativo: senza mandato Onu, la Gran Bretagna non aveva alcun diritto di attaccare l'Iraq. Goldsmith, però, viaggiò a Washington e al ritorno aveva cambiato misteriosamente idea. Ora, la traduttrice Katharine Gun era sposata con un curdo. Così, pensò bene di far pervenire quel che aveva scoperto alla redazione dell'Observer, quotidiano fin lì favorevole alla guerra. 

La Gun fu scoperta e processata per tradimento. Ma poi, a ridosso delle elezioni, le accuse a suo carico vennero ritirate per non dare ulteriore pubblicità alla faccenda. Sulla vicenda è stato scritto un libro, The Spy who tried to stop a War, di Marcia e Thomas Mitchell e infine tratto un film. 

Intervistata sul perché avesse deciso di tradire il suo Paese rivelando quel che sapeva alla stampa (e rischiando, oltre al carcere, l'espulsione del marito), disse che non aveva tradito il Paese, bensì i suoi governanti del momento che quella guerra non era solo a Saddam ma anche a 30 milioni di irakeni.

In effetti, di questi ne morirono circa un milione, pare. Più, 4600 inglesi e americani. Il film non risparmia nemmeno i particolari grotteschi che la vicenda a un certo punto assunse. Per esempio, la stampa filogovernativa, per sostenere che si trattava di un falso, puntò i riflettori su certe parole del messaggio trafugato, parole che gli americani scrivono in modo leggermente diverso dagli inglesi, come recognise anziché recognize. Ebbene, venne fuori che la redattrice dell'Observer, nel batterle al computer, aveva fatto ricorso, meccanicamente, al correttore automatico.

Furono l’intelligence americana e quella tedesca – che gestì le sue informazioni – a dare a Rafid Ahmed Alwan al-Janabi, l'ingegnere iracheno il cui racconto fu usato dagli USA,  il nome in codice di “Curveball” (palla a effetto). Janabi era stato un ingegnere chimico in Iraq, ma era scappato nel 1995 per poi ottenere asilo nel 2000 in Germania. Tre settimane dopo, a quanto ha raccontato Janabi in una confessione durata due giorni con i giornalisti del Guardian, un responsabile dei servizi segreti tedeschi lo andò a cercare dopo aver saputo della sua professione in Iraq. Janabi allora gli raccontò molte cose sulla produzione di armi chimiche in Iraq, e quelle cose furono così interessanti e articolate da diventare, nel giro di tre anni, la fonte principale del famoso discorso di Colin Powell all’ONU, quello con cui gli Stati Uniti accusarono l’Iraq di essere in possesso di armi di distruzione di massa e costruirono le ragioni della guerra contro Saddam Hussein.

Ma della fondatezza di quell’accusa è stata ormai  acclarata la falsità, e le nuove confessioni di Janabi al Guardian le danno un durissimo colpo: l’uomo ha ammesso di essersi inventato gran parte di ciò che raccontò allora, a quanto si legge negli articoli sul quotidiano inglese.

«Forse era vero, forse no. Mi dettero questa opportunità, di costruire qualcosa per abbattere il regime. Io e i miei figli siamo fieri di averlo fatto e di essere stati la ragione per dare all’Iraq la possibilità di una democrazia»

«Avevo un problema col regime di Saddam: volevo liberarmene e ne ebbi la chance»

Janabi – che vive ancora in Germania, a Karlsruhe – ha raccontato di avere dato all’agente tedesco informazioni inventate su camion di armi biologiche con cui aveva lavorato a Baghdad. Raccontò di ruoli e dettagli inventati, che vennero messi in dubbio da altre testimonianze, in particolare da quella del suo ex capo interpellato a Dubai. Quei racconti arrivarono all’intelligence americana, e nel 2003 Colin Powell parlò di “descrizioni di prima mano su fabbriche mobili di armi biologiche” e disse che “la fonte è un testimone diretto, un ingegnere chimico iracheno che ci ha lavorato. Era presente durante la produzione di agenti biologici e anche quando nel 1998 un incidente uccise dodici tecnici”. Janabi aveva avuto successivi incontri con l’intelligence tedesca che aveva girato le sue informazioni agli Stati Uniti.

Ma la storia delle armi di distruzione di massa è diventata via via più fragile negli anni successivi all’inizio della guerra, e il racconto di Jalabi era già stato molto contestato. Poi ha confessato.

“Quando penso che qualcuno viene ucciso – non solo in Iraq ma in qualunque guerra – sono molto triste. Ma ditemi un’altra soluzione. Sapete dirmela? Credetemi, non c’era altro modo di portare la libertà in Iraq. Non c’era nessuna altra possibilità»

martedì 8 luglio 2025

#AlmanaccoQUotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è l'8 luglio.

L'8 luglio 1497 Vasco da Gama salpa da Lisbona alla volta dell'India.

L'esploratore Vasco da Gama nacque a Sines, in Portogallo, intorno al 1460. Nel 1497, fu incaricato dal re portoghese di trovare una rotta marittima verso est. Il suo successo nel farlo si è rivelato uno dei momenti più importanti nella storia della navigazione. Successivamente fece altri due viaggi in India e fu nominato viceré portoghese in India nel 1524.

L'esploratore Vasco da Gama nacque in una nobile famiglia intorno al 1460 a Sines, in Portogallo. Poco si sa della sua educazione, tranne che era il terzo figlio di Estêvão da Gama, che era comandante della fortezza di Sines nella parte sud-occidentale del Portogallo. Una volta adulto, il giovane Vasco da Gama si unì alla marina, dove gli fu insegnato come navigare.

Conosciuto come un navigatore duro e senza paura, da Gama consolidò la sua reputazione di rispettabile marinaio quando, nel 1492, il re Giovanni II di Portogallo lo spedì a sud di Lisbona e poi nella regione dell'Algarve, per impadronirsi delle navi francesi come atto di vendetta contro il governo francese per l'interruzione del trasporto marittimo portoghese.

Nel 1495 re Manuele prese il trono e riportò in auge l'intenzione di trovare una rotta commerciale diretta verso l'India. In quel tempo, il Portogallo si era affermato come uno dei più potenti paesi marittimi in Europa.

Gran parte di ciò era dovuto a Enrico il navigatore, che nella regione meridionale del paese aveva riunito una squadra di esperti mappatori, geografi e navigatori. Aveva inviato navi per esplorare la costa occidentale dell'Africa per espandere l'influenza commerciale del Portogallo. Credeva anche di poter formare un'alleanza con Prester John, che governava un impero cristiano da qualche parte in Africa. Enrico non trovò mai Prester John, ma il suo impatto sul commercio portoghese con la costa occidentale dell'Africa durante i suoi 40 anni di lavoro esplorativo fu comunque impareggiabile. Tuttavia, nonostante tutto il suo lavoro, la parte meridionale dell'Africa e ciò che si trovava ad est rimase avvolta nel mistero.

Nel 1487, una svolta importante fu fatta quando Bartolomeu Dias scoprì la punta meridionale dell'Africa e doppiò il Capo di Buona Speranza. Questo viaggio fu molto significativo: dimostrò, per la prima volta, che gli oceani Atlantico e Indiano erano collegati. Il viaggio, inoltre, rinverdì l'interesse nel cercare una rotta commerciale verso l'India.

Alla fine del 1490, tuttavia, re Manuele non stava solo pensando alle opportunità commerciali mentre puntava verso l'Oriente. In effetti, il suo slancio per trovare una rotta era guidato più che dal desiderio di ottenere basi commerciali più redditizie per il suo paese, dal desiderio di conquistare l'Islam e affermarsi come re di Gerusalemme.

Gli storici sanno poco sul perché esattamente Vasco da Gama, ancora un esploratore inesperto, fu scelto per condurre la spedizione in India nel 1497. L'8 luglio di quell'anno, salpò al comando di una squadra di quattro navi, tra cui la sua nave ammiraglia, la San Gabriele, per trovare una rotta per l'India e l'Oriente.

Per intraprendere il viaggio, da Gama puntò le sue navi verso sud, approfittando dei venti dominanti lungo la costa africana. La sua scelta di direzione fu anche un rimprovero per Cristoforo Colombo, che aveva creduto di trovare una rotta per l'India navigando verso ovest.

Dopo diversi mesi di navigazione, girò attorno al Capo di Buona Speranza e iniziò a risalire la costa orientale dell'Africa, verso le acque inesplorate dell'Oceano Indiano. A gennaio, mentre la flotta si avvicinava all'odierno Mozambico, molti membri dell'equipaggio si erano ammalati di scorbuto, costringendo la spedizione ad ancorare per riposare e rimettersi in forze per quasi un mese.

All'inizio di marzo del 1498, da Gama e il suo equipaggio calarono le loro ancore nel porto del Mozambico, una città-stato musulmana che si trovava nella periferia della costa orientale dell'Africa ed era governata da commercianti musulmani. Qui, da Gama fu respinto dal sultano dominante, che si sentì offeso dai regali modesti dell'esploratore.

All'inizio di aprile, la flotta raggiunse quella che oggi è il Kenya, prima di salpare per un viaggio di altri 23 giorni per attraversare l'Oceano Indiano. Raggiunsero Calcutta, in India, il 20 maggio. Ma la ignoranza dell'esploratore della regione, così come la sua presunzione che i residenti fossero cristiani, crearono confusione. I residenti di Calcutta erano in realtà indù, religione di cui i portoghesi non avevano mai sentito parlare.

Tuttavia, il sovrano indù locale accolse inizialmente da Gama e i suoi uomini e l'equipaggio finì per rimanere a Calcutta per tre mesi. Non tutti erano amichevoli con loro, in particolare i commercianti musulmani che chiaramente non avevano intenzione di rinunciare ai loro vantaggi commerciali in favore dei visitatori cristiani. Alla fine, da Gama e il suo equipaggio furono costretti al baratto per ottenere il lasciapassare per il ritorno a casa. Nell'agosto del 1498, da Gama e i suoi uomini tornarono in mare, iniziando il loro viaggio di ritorno in Portogallo.

Ma la tempistica del ritorno non avrebbe potuto essere peggiore: la sua partenza coincise con l'inizio di un monsone. All'inizio del 1499, diversi membri dell'equipaggio erano morti di scorbuto e, non avendo sufficienti marinai per governare la sua flotta, da Gama ordinò di bruciare una delle navi. Riuscirono a raggiungere il Portogallo solo il 10 luglio, quasi un anno intero dopo aver lasciato l'India.

In tutto, nel primo viaggio Vasco da gama percorse quasi 24.000 miglia in circa due anni e solo 54 membri dell'equipaggio sui 170 originali  sono sopravvissuti.

Quando da Gama tornò a Lisbona, fu accolto come un eroe. Nel tentativo di assicurare la rotta commerciale con l'India e usurpare i commercianti musulmani, il Portogallo inviò un'altra squadra di navi, guidata da Pedro Álvares Cabral. L'equipaggio raggiunse l'India in soli sei mesi e durante il viaggio si ebbe uno scontro a fuoco con mercanti musulmani, nel quale l'equipaggio uccise 600 uomini su navi mercantili musulmane. Cosa ancora più importante per il suo paese d'origine, Cabral istituì la prima sede commerciale portoghese in India.

Nel 1502, Vasco da Gama guidò un altro viaggio in India che includeva 20 navi. Dieci delle navi erano direttamente al suo comando, con suo zio e suo nipote a comandare le altre. Sulla scia del successo di Cabral, il re incaricò da Gama di proteggere ulteriormente il dominio portoghese nella regione.

Per fare ciò, da Gama compì uno dei massacri più raccapriccianti dell'era dell'esplorazione. Lui e il suo equipaggio terrorizzarono i porti musulmani su e giù per la costa orientale africana e, ad un certo punto, incendiarono una nave musulmana di ritorno dalla Mecca, uccidendo le diverse centinaia di persone (tra cui donne e bambini) che erano a bordo. Successivamente, l'equipaggio giunse a Calcutta, dove distrussero il porto commerciale e uccisero 38 ostaggi. Da lì, si trasferirono nella città di Cochin, una città a sud di Calcutta, dove da Gama formò un'alleanza con il sovrano locale.

Alla fine, il 20 febbraio 1503, da Gama e il suo equipaggio iniziarono a tornare a casa. Raggiunsero il Portogallo l'11 ottobre di quell'anno.

Da Gama si sposò ed ebbe sei figli, ritirandosi in pensione. Mantenne comunque un  contatto con re Manuele, al quale dava consigli su questioni indiane, e infine fu nominato conte di Vidigueira nel 1519. In età avanzata, dopo la morte del re, gli fu chiesto di tornare in India, nel tentativo di contrastare la crescente corruzione da parte di funzionari portoghesi nel paese. Nel 1524, re Giovanni III lo nominò viceré portoghese in India.

Nello stesso anno da Gama morì a Cochin di malaria; il suo corpo fu riportato in Portogallo e lì sepolto, nel 1538.

lunedì 7 luglio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 7 luglio.

Il 7 luglio 1974 a Monaco di Baviera la Germania Ovest vince il suo secondo mondiale di calcio.

Nel 1974 la Germania ospita la decima edizione dei mondiali: è una Germania ancora scossa dagli eventi terroristici avvenuti durante i giochi olimpici di Monaco del 1972 quando un commando palestinese irrompe nel villaggio Olimpico uccidendo due israeliani e prendendone altri in ostaggio.

Alla fine di quella drammatica giornata si contarono undici morti israeliani oltre al commando palestinese.

Sarà quindi il mondiale dei tanti controlli: la sicurezza dei tifosi e di tutti gli appassionati del mondo viene messa al primo posto. È un mondiale che profuma subito d’Italia: sarà infatti Silvio Cazzaniga a disegnare e a scolpire la nuova Coppa del Mondo con il volto della Vittoria e le mani levate al cielo a sostenere il globo, che sostituisce la Coppa Rimet rimasta appannaggio del Brasile per aver vinto 3 volte la competizione. Tra le partecipanti si segnalano tre esordi: Australia, Haiti e Zaire. Tornano dopo parecchie edizioni Olanda e Polonia ed entrambe lasceranno un segno forte. E l’Italia? Dopo il bel mondiale messicano e un’eliminazione ai quarti agli Europei 1972, le vittorie con Brasile ed Inghilterra in casa ma soprattutto la storica vittoria a Wembley portano gli azzurri a partecipare alla spedizione tedesca con un ruolo tra i favoriti: con loro il Brasile, orfano di Pelè che nel 1971 tra le lacrime ha salutato la nazionale e la Germania Ovest padrona di casa.

I gironi iniziali non portano grosse sorprese eccetto purtroppo l’eliminazione dell’Italia che dopo una vittoria abbastanza sofferta con Haiti per 3-1, pareggia con l’Argentina e viene sconfitta dalla bella e forte Polonia di Deyna e Lato.

Passano il turno senza particolari problemi Brasile, Jugoslavia, Svezia, Olanda e nel gruppo uno Germania Ovest e Germania Est. Il derby tra Germania Ovest e Germania Est è forse l’evento più atteso di questa prima fase per gli ovvi connotati storici e politici: ad Amburgo la Germania Est con Sparwasser sconfigge i cugini più quotati e forse apre la strada a un girone successivo più facile per la Germania Ovest. Il mondiale tedesco presenta una novità del regolamento che porta ad un aumento del numero di partite, voluto anche dagli Sponsor che per la prima volta campeggiano nelle magliette. La seconda fase è composta da due gironi e le due vincitrici si contenderanno il titolo nella finalissima. Le prime due giornate del primo raggruppamento vedono le vittorie di Germania e Polonia su Svezia e Jugoslavia. Sarà quindi l’ultima giornata a decretare la finalista. La Germania viene dall’oro europeo del 1972 e il blocco è quello nato durante i mondiali messicani con Sepp Maier in porta e tra gli altri Vogts, Beckenbauer, Breitner, Overath, Grabowski e Gerd Muller; la Polonia è invece campione olimpica in carica e nelle qualificazioni ha eliminato l’Inghilterra facendo piangere Wembley. È la Polonia più forte della sua storia quella che ha in mano Gorski: in porta Tomaszewski, al centro della difesa Zmuda e gli attaccanti Szarmach e Grzegorz Lato (che sarà capocannoniere del mondiale) sono i fiori all’occhiello di una squadra che fa sognare Varsavia. 

La partita con la Germania Ovest è bella e intensa: la Polonia deve vincere e attacca, ma alla fine vincono i tedeschi con gol di Gerd Muller. Nel secondo raggruppamento invece le due squadre dominanti sono Olanda e Brasile ed anche qui l’ultima giornata è decisiva. L’Olanda viene da un 4-0 con l’Argentina e un 2-0 con la Germania Est. Il calcio totale olandese sta conquistando il mondo ed anche il Brasile deve cedere: il 2-0 siglato Neeskens e Crujff regala all’Olanda la prima finale della sua storia. È un’Olanda meravigliosamente bella quella che sfida la Germania per la conquista dell’alloro mondiale.

È l’emblema di quel calcio totale in cui tutti attaccano e tutti difendono.

In Europa Feyenoord e Ajax stanno dominando la Coppa Campioni da 4 anni e la conquista del titolo mondiale sarebbe la degna conclusione di un quadriennio d’oro.

Ruud Krol, Johan Neeskeens, Johnny Rep, Rob Rensembrink e sua maestà Johan Crujff sono i nomi legati al mito di questa nazionale orange.

Ma torniamo a Monaco di Baviera a quel 07 luglio 1974. L’inizio è da fantascienza: i tedeschi non la toccano mai per quasi un minuto, Crujff entra in aerea, Hoeness lo abbatte. Rigore e 1-0. Quando i tedeschi toccano il primo pallone, sono già sotto. Un inizio che ricorda un’altra finale, quella di Berna, quella della grande Ungheria ed anche allora c’era la Germania. E i tedeschi non mollano: e mentre l’Olanda fa melina convinta della propria superiorità, al minuto 25 il rigore viene dato alla Germania e il maoista Breitner non sbaglia, 1-1. La partita cambia, la Germania ci crede e Gerd Muller fa 2-1. Nel secondo tempo l’Olanda le prova tutte, ma non trova il gol.

E come venti anni prima a Berna, la grande favorita ed una delle squadre più forti che la storia ricordi, perde e perde sempre con la Germania, quella squadra solida, tosta, mai doma che dal 1966 in poi ha deciso che sarà sempre una protagonista della rassegna iridata.

E per l’Olanda rimane l’idea della grande incompiuta: l’occasione si ripeterà 4 anni dopo, a Buenos Aires, sempre in finale, sempre con i padroni di casa. E anche lì saranno lacrime orange.


domenica 6 luglio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 6 luglio.

Il 6 luglio 1785 negli Stati Uniti viene scelto all'unanimità il Dollaro come valuta del Paese. Per la prima volta una nazione adotta un sistema decimale per la sua valuta.

Prima dell'indipendenza delle 13 colonie del Nord America, benché la valuta legale restasse la sterlina inglese, divisa in 20 scellini, a sua volta divisi in 12 pence, il suo valore in America era diverso da Stato a Stato: la moneta più diffusa, il dollaro spagnolo (o pezzo da 8) valeva 5 scellini in Georgia, ma molti di più passato il confine con la South Carolina, e 6 scellini nel New Hampshire, mentre il cambio ufficiale a Londra era di 4 scellini e mezzo. A rendere le cose ancora più complesse c'era il fatto che era diviso in 8 sotto unità in Pennsylvania (gli 8 reales) e in dieci in Virginia. Oltre al dollaro e ai dobloni spagnoli erano in circolazione anche i Luigi d'oro e gli scudi francesi, i moidore, le pistole e gli half-Joe portoghesi (così chiamati perché portavano una immagine di Giovanni V), i fiorini olandesi, i riksdaler svedesi nonché ovviamente le monete britanniche tipo ghinee, scellini e penny.

L'uso quotidiano aveva insegnato alla maggior parte della gente a passare indifferentemente da una valuta all'altra e lo stesso George Washington, da adolescente, riceveva la propria paga in pistole e dobloni. Thomas Jefferson annotava una vendita di terreni registrando il prezzo con la frase "200 sterline di cui 20 half-Joe sono stati pagati" ovvero rispettivamente 950 e 160 dollari.

Quando George Washington rispose al generale Rufus Putnam nell'aprile 1784, la sua lettera illustrava il grande problema valutario che la nuova repubblica si trovava ad affrontare. Sottolineando come il Congresso fosse ancora in situazione di stallo sulla questione fondiaria: proponeva di concedere in affitto i suoi 30mila acri nella valle dell'Ohio agli impazienti veterani del Massachusetts e spiegando che l'affitto sarebbe stato di circa 36 dollari per 100 acri e il costo delle migliorie da lui realizzata ammontava a £ 1568 della Virginia pari a £ 1961/3/3 del Maryland, della Pennsylvania o del Jersey. Se Rufus avesse avuto dubbi su cosa ciò significava nel Massachusetts, Washington aggiunse che "un dollaro spagnolo sarà scambiato con sei scellini". Questo problema era lo stesso che, in quel periodo, assillava ogni transazione commerciale negli Stati Uniti.

Il Congresso riteneva però che fosse necessaria un'unica divisa per contribuire alla coesione della nuova nazione. La prima proposta giunse dal sovraintendente alle Finanze del Congresso, Robert Morris: era basata su una unità tanto piccola da non essere realistica, una frazione di penny e Jefferson rispose in un documento di inizio 1784 in cui consigliava invece l'adozione del dollaro spagnolo come base più comoda per la nuova valuta. Nell'interesse della semplicità suggeriva, anziché dividerlo in 8 sotto unità che fosse frazionato in base al sistema decimale. "Tutti ricordano che quando si studiava l'aritmetica delle valute si trovava scomodo sommare un penny, togliere le dozzine e riportarle e poi sommare gli scellini, togliere le ventine e riportarle. Quando invece si giungeva alle sterline dove c'erano solo decine da riportare il calcolo era veloce ed esente da errori". Il dollaro avrebbe quindi dovuto essere diviso in decimi (disme), centesimi (cent) e millesimi (mill).

Era un'argomentazione che tutti potevano comprendere e meno di diciotto mesi dopo, il 6 luglio 1785, il Congresso decise che "l'unità monetaria degli Stati Uniti d'America è il dollaro e le sotto unità saranno calcolate su base decimale." Per Jefferson non fu solo una vittoria intellettuale ma impedì di fatto a Morris di raggiungere il proprio obiettivo ovvero dirigere la Zecca degli Stati Uniti, una fonte di profitti potenzialmente enormi.

Quale moneta era quel "dollaro" ? Le colonie inglesi del Nord America commerciavano molto col Messico e ricevevano in cambio delle loro merci, molte monete spagnole: esse circolavano più delle monete inglesi e la maggior parte era rappresentata dai pezzi da 8 reales, chiamati anche "dollaro". La parola "daaler" era la deformazione olandese di tallero e fu loro attribuita dagli anglosassoni proprio perché assomigliavano ai talleri per grandezza e peso. Furono ribattezzati dai locali "pillar dollar" (talleri delle colonne). Non è quindi per nulla strano che quando i neonati Stati Uniti dovettero scegliere il nome della loro nuova moneta e non volendo nulla che ricordasse l'Inghilterra, scelsero come nome proprio "dollaro". Era il 1792.

Il simbolo del pezzo da otto nei libri contabili inglesi dell'epoca era la S di Spagna barrata da due righe verticali (due colonne )… ricorda nulla ?

Anche il Tallero di Maria Teresa, una delle prime monete usate negli Stati Uniti ha probabilmente contribuito (accanto all'8 Reales spagnolo) alla scelta degli Stati Uniti di usare il dollaro come unità monetaria. Adeguatamente contromarcata, ha continuato a circolare anche nel secolo successivo.

Il dollaro nacque con una parità metallica fissata in grammi 1,5 d'oro oppure grammi 22,6 d'argento, parità mantenuta praticamente sino alla svalutazione di Roosvelt del 1933/34 e fu coniato praticamente sempre in metallo argenteo.

sabato 5 luglio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 5 luglio.

Il 5 luglio 1947 Ennio Flaiano vince il premio Strega con il romanzo "Tempo di uccidere".

Scrittore, sceneggiatore e giornalista, Ennio Flaiano nasce a Pescara il 5 marzo 1910.

Giornalista specializzato in apprezzati elzeviri (articoli di approfondimento solitamente non legati alla cronaca), Flaiano è ricordato anche come brillante umorista, critico teatrale e cinematografico.

La sua infanzia è caratterizzata da continui spostamenti che lo vedono trasferirsi tra scuole e collegi di Pescara, Camerino, Senigallia, Fermo e Chieti. Giunge a Roma a cavallo tra il 1921 e il 1922: nella capitale termina gli studi e si iscrive alla facoltà di architettura. Non porterà a termine tuttavia il corso universitario.

All'inizio degli anni '30 Flaiano conosce Mario Pannunzio, così come altre grandi firme del giornalismo italiano: inizia così a collaborare per le riviste "Oggi", "Il Mondo" e "Quadrivio".

Si unisce in matrimonio nel 1940 con Rosetta Rota, sorella del musicista Nino Rota. Due anni più tardi nasce la figlia Lelè, che dopo solo pochi mesi inizia a manifestare i primi segni di una gravissima forma di encefalopatia. La malattia comprometterà tragicamente la vita della figlia, la quale morirà nel 1992, a 40 anni: splendide pagine di Flaiano che raccontano di questa drammatica vicenda, si possono trovare nel suo lavoro "La Valigia delle Indie".

Nel 1943 inizia a lavorare per il cinema assieme a registi del calibro di Federico Fellini, Alessandro Blasetti, Mario Monicelli, Michelangelo Antonioni e altri. Il rapporto di Flaiano con il mondo del cinema sarà sempre un rapporto di amore-odio. Tra i numerosi film cui partecipa sono da ricordare "Roma città libera" (1948), "Guardie e ladri" (1951), "La romana" (1954), "Peccato che sia una canaglia" (1955), "La notte" (1961), "Fantasmi a Roma" (1961), "La decima vittima" (1965), "La cagna" (1972). Con Federico Fellini collabora alla sceneggiatura dei film "I vitelloni" (1953), "La strada" (1954), "Le notti di Cabiria" (1957), "La dolce vita" (1960) e "8 e mezzo" (1963).

Scrive e pubblica "Tempo di uccidere" nel 1947; questo suo appassionato romanzo sulla sua esperienza in Etiopia gli fa ottenere il primo Premio Strega. Da qui e per i successivi 25 anni Ennio Flaiano scriverà alcune tra le più belle sceneggiature del cinema del dopoguerra.

Il nome di Flaiano si lega a doppio filo alla città di Roma, amata ma anche odiata. Lo scrittore è di fatto un testimone delle evoluzioni e degli stravolgimenti urbanistici, dei vizi e delle virtù dei cittadini romani; Flaiano saprà vivere la Capitale in tutti i suoi aspetti, tra i suoi cantieri, i locali della "Dolce Vita" e le trafficate strade.

La sua produzione narrativa è percorsa da un'originale vena satirica ed un vivo senso del grottesco, elementi attraverso cui stigmatizza gli aspetti paradossali della realtà contemporanea. Acre, diretto e tragico, il suo stile è soprattutto quello di un ironico moralista. A lui si deve l'introduzione nella lingua italiana del detto "saltare sul carro del vincitore".

Dopo essere stato colpito nel 1971 da un primo infarto, Ennio Flaiano inizia a rimettere ordine tra le sue carte: il suo intento è quello di pubblicare una raccolta organica di tutti quegli appunti sparsi che rappresentano la sua instancabile vena creativa. Gran parte di questa catalogazione sarà pubblicata postuma.

Dal 1972 pubblica sul Corriere della Sera alcuni brani autobiografici. Il 20 novembre dello stesso anno si trova in clinica per alcuni semplici accertamenti, quando viene colpito da un secondo infarto che stronca la sua vita.

Dopo la morte della moglie Rosetta, spentasi alla fine del 2003, le salme della famiglia vengono riunite nel cimitero di Maccarese, vicino Roma.

Ad Ennio Flaiano sono stati dedicati un monumento all'ingresso del centro storico di Pescara, e un premio alla sua memoria: il più importante concorso (che dal 1974 si svolge a Pescara) per soggettisti e sceneggiatori del cinema.

venerdì 4 luglio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 4 luglio

Il 4 luglio 1910 si incontrano a Reno, in Nevada, il pugile afroamericano Jack Johnson, detentore del titolo dei pesi massimi, e il bianco Jim Jeffries.

Jim non era un razzista, ma dovette recitare la parte della Grande Speranza Bianca per far ritornare il massimo titolo della boxe alla “razza superiore”. L’incontro del secolo fu chiamato, vi era anche quale corrispondente il giovane Jack London a bordo ring quando la speranza bianca Jim Jeffries salì sul ring a Reno nel Nevada il 4 luglio 1910 per tentare di strappare il titolo dei Massimi al “negro” Jack Johnson. Troppo Forte, Troppo Irrispettoso, Troppo Ciarliero e soprattutto troppo nero per tenere la corona dei Massimi che fu di Sullivan, Corbett e di Jeffries. Il californiano ritornò controvoglia e costretto sulle 4 corde dopo sei anni di assenza, imbattuto e ritenuto imbattibile. Fu il primo match del secolo, si organizzarono treni speciali e vi fu tanto tanto pubblico pagante. Era dato per favorito il bianco invitto campione e prima che il gong suonasse Jeffries dichiarò: "Sto affrontando questo incontro con il solo proposito di provare che un uomo bianco è meglio di un Negro." Prima dell’incontro ci fu un’esplosione di entusiasmo, quando una banda a bordo ring suonò un pezzo che si intitolava: "All coons look alike to me" (che tradotto significa: "tutti i procioni per me sono uguali", dove per procioni si alludeva chiaramente al nomignolo spregiativo con cui venivano indicati i neri). Johnson vinse, anzi stravinse; il vecchio campione era troppo ingrassato e troppo lento per controbattere l’atletico nero, dalla grande velocità e tecnica sopraffina. Il massacro di Reno terminò al 15° round, quando dall’angolo di Jeffries fu gettata la spugna. Jeffries finita la parte del vendicatore della razza bianca non accampò scuse, riconoscendo che non sarebbe riuscito a sconfiggere Johnson nemmeno nei suoi momenti migliori. Questo non potremmo mai saperlo, di certo James Jeffries arrivò per caso alla boxe e anche in ritardo spinto dalla madre e dal padre; di certo amava di più la caccia, ma poi diventò uno dei migliori massimi di tutti i tempi. Forte, erculeo ed atleta completo: alto 183 cm, pesava 101 kg e, a dispetto della propria mole, era uno sprinter che poteva correre i 100 m in poco più di 10 secondi e saltare in alto oltre alla propria altezza.

Ed era un tecnico, fu tra gli innovatori della boxe: usava una tecnica insegnatagli dal suo allenatore ed ex straordinario campione dei pesi welter e medi Tommy Ryan; Jeffries combatteva con il braccio sinistro disteso in avanti. Mancino naturale, aveva una potenza da KO con un solo pugno nel proprio gancio sinistro. Jeffries ruppe le costole di tre avversari in incontri validi per il titolo: Jim Corbett, Gus Ruhlin e Tom Sharkey. L’allenamento quotidiano di Jeffries comprendeva 8 km di corsa, 2 ore di salto alla fune, allenamenti con la palla della salute, 20 minuti di allenamento con il sacco pesante, e come minimo 12 round di allenamento sul ring. L’allenamento comprendeva anche la lotta. Eccezionale colpitore ma anche grande incassatore: una vera roccia umana quando incontrò nella rivincita mondiale a San Francisco, il 25 luglio 1902, l’inglese di Australia Bob Fitzsimmons; per quasi otto round subì le mazzate di Fitz, un pestaggio violentissimo. Jeffries subì una frattura al naso, su tutti e due gli zigomi la pelle era aperta fino all’osso, e le sopracciglia di entrambi gli occhi erano tagliate profondamente. Sembrava che l’incontro dovesse essere arrestato, perché il sangue scorreva negli occhi di Jeffries. Poi, nell’8° round, Jeffries fece partire un terrificante destro allo stomaco, seguito da un gancio sinistro alla mandibola, che lasciarono a terra Fitzsimmons privo di sensi. Il grande mediomassimo e massimo Sam Langford, uno dei maggiori di tutti i tempi e che non aveva paura nemmeno di Belfagor pubblicizzò sui quotidiani il proprio desiderio di sfidare chiunque al mondo, eccetto Jim Jeffries. Il suo record fu di 18 vittore (15 ko) due pari e una sola sconfitta contro l’immenso Jack Johnson. Jeffries è osannato dagli uomini della boxe e fu un vero idolo delle folle, anche dopo tanti anni dal suo ritiro. Jeffries si dedicò all’agricoltura e all’allevamento, inoltre dedicava molto tempo alla propria comunità specie per i giovani.

Alla sua morte, avvenuta nel 1953, James Jackson Jeffries fu sepolto nell’Inglewood Park Cemetery di Inglewood, in California.

giovedì 3 luglio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 3 luglio.

Il 3 luglio 1985 esce nelle sale Ritorno al Futuro, di Robert Zemeckis.

Il capolavoro per eccellenza di Robert Zemeckis, uno dei film più iconici e rappresentativi della Hollywood degli anni Ottanta, con il mito di Michael J. Fox destinato a imprimersi con forza nella memoria collettiva. 

C’è nessuno in casa?

Hill Valley, California, 25 ottobre 1985. Marty McFly è un diciassettenne studente di liceo, poco disciplinato e spesso ritardatario ma coraggioso, gentile e di buon cuore, fidanzato con Jennifer Parker, sua coetanea e compagna di scuola. Il suo unico amico è il pazzoide inventore Emmett “Doc” Brown. Una notte quest’ultimo mostra al ragazzo la sua ultima invenzione, una macchina per viaggiare nel tempo creata modificando una DeLorean. Per permettere il viaggio è necessaria una gigantesca dose di plutonio, che l’inventore ha rubato a un gruppo di terroristi libici. I libici irrompono in scena, uccidono Doc e si mettono alle calcagna di Marty, che si ritrova a viaggiare indietro nel tempo per trent’anni, fino al 5 novembre del 1955… 

C’è un taglio di montaggio, in Ritorno al futuro (sulla genialità insita nel titolo ci sarà modo di tornare più tardi), che è tra i più brutali, poetici e a suo modo strazianti dell’industria statunitense degli anni Ottanta – e forse non solo, ma una riflessione sul decennio sarà a sua volta opportuna. Si tratta del momento in cui Marty McFly arriva nella piazza principale di Hill Valley e capisce finalmente di essere nella sua città natale, ma allo stesso tempo di non esserci. Lo spazio è rimasto immutato, ma è cambiato il tempo. Robert Zemeckis costruisce un passaggio semplicissimo, quasi naturale, ma al suo interno vi inserisce la più grande aberrazione pensabile per l’umano, trovarsi là dove la natura non ha in nessun modo previsto che potesse esserci. Per farlo, per rendere dolcissimo e terrificante questo balzo indietro nel tempo, Zemeckis punta tutto sull’immaginario. La piazza di Hill Valley è gremita di persone e sul panorama irrompono le note di Mr. Sandman, classico del doo-wop portato al successo commerciale dalle Chordettes (trio canoro che raggiunse i vertici della classifica anche con Lollipop, forse non a caso protagonista di uno dei passaggi più iconici di Stand by me – Ricordo di un’estate di Rob Reiner, altro successo del periodo per il cinema a stelle e strisce ambientato negli anni Cinquanta). Mr. Sandman, bring me a dream, cantano le Chordettes. E l’approdo di Marty alla città in cui è cresciuto, ma in un tempo nel quale la sua nascita non era neanche presa in considerazione – di lì a poco il padre goffo e privo del benché minimo appeal diverrà suo amico, mentre la madre si innamorerà follemente di lui –, è sfumato nell’onirismo. C’è un’inquadratura in totale, che vede il ragazzo incamminarsi nel nulla, tra campagne a perdita d’occhio: un cartello però avverte che di lì a due miglia si troverà Hill Valley. In un piano ravvicinato Marty sbuca quindi da dietro l’angolo di un muro, sospettoso e incuriosito a sua volta. Qui partono le note, qui la realtà/sogno si concretizza. Al cinema, dove i posti costano 50 centesimi di dollaro e si fa sfoggio di uno striscione che annuncia che l’aria è condizionata, proiettano Cattle Queen of Montana di Allan Dwan, vale a dire La regina del Far West, con protagonisti Barbara Stanwyck e Ronald Reagan. I successi musicali sono The Ballad of Davy Crockett di Bill Hayes e le canzoni di Patti Page. L’aria sognata sfuma, sostituita dalle note vagamente più ansiogene di Alan Silvestri, e il rintocco dell’orologio marca non solo il tempo di quella giornata, ma il tempo stesso della storia: Marty è retrocesso indietro nel tempo. La “sua” Hill Valley non esiste più, non lì. Ora c’è un’altra città, uguale e diversa, trent’anni prima.

Si potrebbero scrivere saggi solo analizzando il senso, il ritmo, la messa in scena – prima del rintocco dell’orologio l’inquadratura si fa di nuovo totale, ma ora Marty non è più solo, ma cammina spaesato nel cuore della piazza, mentre intorno a sé si muovono i suoi concittadini che concittadini non sono – di questa breve sequenza. Zemeckis tornerà a mettere in scena orologi dai rintocchi sempre più spaventosi nel suo adattamento in performance capture di A Christmas Carol, altro racconto in cui il tempo viene violato. Se però Dickens vede nell’opportunità di riscoprire il proprio passato il modo per correggere la morale, e ritrovare il senso dell’etica e del viver comune, questo aspetto è inevitabilmente assente nel personaggio dell’adolescente McFly. Non potrebbe essere altrimenti: Marty non va a incontrare il proprio passato – sarà nei capitoli successivi della saga che avrà modo di incrociare se stesso, per quei ghiribizzi spazio-temporali che renderanno sempre più difficile muoversi tra i diversi livelli – e il suo viaggio a ritroso non parte da necessità etiche, ma puramente legate all’istinto di sopravvivenza. Se non fuggisse raggiungendo le novantotto miglia orarie a bordo della DeLorean trasformata da Doc Brown in una macchina del tempo i terroristi libici che hanno già mitragliato il petto del pazzoide ma geniale inventore farebbero fare la stessa fine anche a lui.

Se c’è una morale da poter imparare, nel film di Zemeckis, occorre impararla in corso d’opera, non ha alla base una strategia o un’ideologia di riferimento. Marty è perfettamente intessuto nel proprio tempo, è un adolescente come tutti gli altri, che si lamenta di una famiglia che trova smorta, viene ripreso dal preside della scuola – l’immarcescibile Strickland, perennemente calvo: “Ma non ce li ha mai avuti i capelli?” si domanda fuor di retorica Marty quando lo rincontra nel 1955 –, scorrazza in lungo e in largo con lo skateboard ed è innamorato della sua fidanzata, Jennifer Parker (nel primo capitolo la interpreta Claudia Wells, nei successivi costretta a lasciare per gravi problemi familiari il posto a Elisabeth Shue). È semmai il suo viaggio nel tempo a metterlo di fronte a una serie di problematiche che non aveva neanche preso in considerazione: da dove nasce il rapporto così poco attrattivo tra i suoi genitori? Perché l’arcibullo Biff Tannen fa il bello e il cattivo tempo da sempre? E perché, più di ogni altra cosa, non si può evitare che Doc venga falcidiato dai proiettili libici? Un vero e proprio percorso di formazione a ritroso per ritrovarsi, e qui si torna al titolo, nel futuro.

Il “ritorno al futuro” infatti non è solo quello di Marty, che spera di riuscire a sfruttare la potenza del fulmine che mandò in riparazione a data da destinarsi l’orologio del comune per ritornare nel 1985. È il ritorno al futuro di un’intera nazione. Con sublime e sardonica intelligenza Zemeckis e il sodale in fase di sceneggiatura Bob Gale (i due avevano già lavorato insieme su alcuni dei precedenti film di Zemeckis, 1964: allarme a New York, arrivano i Beatles e La fantastica sfida, e avevano scritto per Steven Spielberg l’incompreso e sottostimato gioiello comico 1941: Allarme a Hollywood) teorizzano con solide basi gli anni Ottanta come la replica in versione plastificata degli anni Cinquanta. La paura dei rossi, l’incubo atomico, la passione per le storie spaziali – Marty per spaventare e convincere il padre a chiedere alla madre di uscire si presenta da lui vestito come un alieno, alla moda dei fumetti che il genitore legge avidamente, ma per rendere credibile la propria interpretazione fa il saluto vulcaniano desunto da Star Trek e si presenta come Darth Vader, il jedi passato al lato oscuro della Forza nella prima trilogia di Star Wars –, tutto fa coincidere le due epoche storiche, la prima sopravvissuta a una guerra mondiale, la seconda alle giungle vietnamite. Una nazione in (finta) pace, e tesa dunque all’opulenza totale.

In questo gioco di sovrapposizione – che non è certo unico nella storia del cinema, come in quegli anni evidenziano tra gli altri il David Lynch di Velluto blu e la resurrezione/invenzione del teen-movie operata da John Hughes prima in un Compleanno da ricordare e quindi in Bella in rosa, quest’ultimo per la regia di Howard Deutch – Zemeckis si muove sul crinale della commedia a pochi passi dallo slapstick, sia nell’impaccio di Doc, che sembra un incrocio tutto disneyano tra Archimede Pitagorico e Pippo, sia nelle situazioni più rocambolesche, dalla provocazione con fuga dalle grinfie di Biff che terminerà con quest’ultimo sovrastato dal letame fino alla lunga e articolata sequenza durante la festa danzante “Incanto sotto il mare”.

Cinematograficamente colto, ricco di invenzioni visive e soprattutto narrative, Ritorno al futuro è una vera e propria bomba a orologeria, un congegno perfetto, forse l’apice della commedia popolare statunitense degli ultimi quarant’anni. Ma è anche un perfetto compendio della nuova rivoluzione hollywoodiana, la presa definitiva del potere degli studios da parte di Spielberg e Lucas (il cui racconto in forma ovviamente metaforica è rintracciabile nelle pieghe di Ready Player One, uscito qualche anno fa nelle sale), il punto di non ritorno di un immaginario fervido, e di una sorprendente capacità di intercettare voglie e necessità del pubblico americano. “Penso che ancora non siate pronti per questa musica… Ma ai vostri figli piacerà” si giustifica Marty con gli sbalorditi coetanei di trent’anni più vecchi che hanno appena ascoltato una versione devastata di Johnny B. Goode, che Chuck Berry porterà al successo “solo” nel 1958. Forse il senso di Ritorno al futuro, e della Hollywood degli anni Ottanta è tutto in questa frase…

mercoledì 2 luglio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 2 luglio.

Il 2 luglio 1871 il re Vittorio Emanuele II di Savoia entrava a Roma, accolto festosamente dalla popolazione, capitale del Regno d'Italia.

La Breccia di Porta Pia, del 20 settembre 1870,  sanciva la presa di Roma, sottratta al potere temporale del Papa, e si poteva considerare chiusa il processo del Risorgimento, anche se ancora mancavano a completamento dell'unità nazionale le cosiddette "terre irredente". 

Qualche mese più tardi, nel febbraio 1871, il Parlamento italiano proclamò Roma nuova Capitale del Regno d’Italia.

 Vittorio Emanuele II si era presentato a Roma il 31 dicembre 1870, quando la città era allagata a causa dello straripamento del Tevere, ma si fermò solo dodici ore. 

L’insediamento ufficiale di Vittorio Emanuele II a Roma avviene il 2 luglio del 1871, lo stesso giorno in cui il ministro degli esteri Visconti-Venosta annuncia a tutto il mondo che Roma è la nuova capitale del Regno d’Italia. 

 Il Re Vittorio Emanuele II arriva a Roma alle ore 12,30  e lungo il tragitto che lo porta al Quirinale il Sovrano di Casa Savoia è accolto da un festoso lancio di fiori da parte dei romani accorsi per l’occasione. Entrato nel palazzo del Quirinale il re si affaccia più volte dal balcone per ricevere il saluto dei suoi sudditi e il giorno seguente una grande festa viene organizzata in Campidoglio in suo onore. 

 La sera stessa però Vittorio Emanuele II riparte per Firenze e rientra nella capitale alla fine di novembre per l’inaugurazione del Parlamento.

 Per aver guidato con straordinarie doti di politico e di statista il processo risorgimentale re Vittorio Emanuele II di Savoia è stata proclamato "Padre della Patria" , ed a lui è dedicato il monumento nazionale del Vittoriano che si trova a Roma in piazza Venezia.

Re Vittorio Emanuele II di Savoia è sepolto al Pantheon che da allora è il sepolcreto dei Re e delle Regine d'Italia.

martedì 1 luglio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il primo luglio.

Il primo luglio 1931 viene ufficialmente inaugurata la Stazione Centrale di Milano.

Le vicende che portarono al progetto ed alla realizzazione della Stazione Centrale di Milano furono piuttosto lunghe e complesse, quanto questo edificio imponente e variegato, nel quale la monumentalità si doveva e si deve tutt’oggi coniugare con la funzione a cui esso è destinato. 

La decisione di costruire la stazione scaturì dalla necessità tecnica di un complesso riordino delle ferrovie milanesi, ma l’importanza simbolica dell’opera non sfuggì a chi ne aveva progettato la funzione, così che fin dagli inizi fu chiaro lo sforzo di trovare, tramite un concorso pubblico, una soluzione anche esteticamente degna dell’opera stessa.

Nel dicembre del 1906 fu pertanto lanciato il primo “Concorso per la facciata della nuova stazione viaggiatori”. Al programma del concorso erano allegati dei dettagliati progetti dimensionali e funzionali della nuova stazione, predisposti dai tecnici delle FF.SS., che già definivano gli spazi per gli arrivi e le partenze, l’atrio centrale della biglietteria, ecc., ed anche la presenza di un grande albergo: questi piani non lasciavano quindi ai concorrenti molti spazi, salvo per la parte architettonica/decorativa.

Dopo sette mesi si riunì la commissione designata a giudicare i progetti, presieduta dall’architetto milanese Camillo Boito, preside della locale Accademia di Belle Arti; la commissione scartò ben dieci dei diciassette progetti presentati perché “non soddisfano alle condizioni del programma… o non rispondono nel loro insieme alle esigenze dell’arte applicata allo speciale soggetto”, e non aggiudicò né il primo né il secondo premio, pur segnalandone due progetti come i più meritevoli.

Passarono più di quattro anni prima che fosse bandito, nel settembre del 1911, un nuovo concorso, e nel frattempo il progetto di base delle FF.SS. fu rivisto in diverse parti (fu per esempio eliminato l’albergo incluso nella stazione), anche se rimase una forte definizione degli spazi e delle dimensioni. Questa volta al bando partecipò anche il Comune di Milano, che col suo contributo elevò notevolmente il livello dei premi destinati ai vincitori.

I progetti presentati al secondo concorso furono ben quarantatré, ed a giudicarli fu una commissione ancora presieduta da Boito; anche questa volta ne furono selezionati sette, dai quali estrarre i quattro da premiare. Alla fine degli esami la commissione fu unanime nell’assegnare il primo premio al progetto intitolato “In motu vita” di Ulisse Stacchini, ed il secondo al progetto “Per non dormire” di Boni e Redaelli. L’anno dopo (agosto 1912) il consiglio di amministrazione delle FF.SS. fece suo definitivamente il progetto di Stacchini, ma già da subito i timori che il tumultuoso sviluppo in atto per il traffico ferroviario portasse alla costruzione di un manufatto insufficiente fecero scattare una serie di richieste di varianti ed adeguamenti. Stacchini presentò una prima variante ai vertici delle ferrovie nel marzo del 1913; in essa era degno di particolare nota il fatto che veniva eliminata la galleria anteriore per i tram, inizialmente prevista, e che la facciata, nel primo progetto essenzialmente a sviluppo orizzontale, acquistava ora anche degli elementi verticali. La variante ottenne, come previsto, anche l’approvazione del Consiglio Comunale di Milano, ma nel passaggio alla successiva fase di valutazione dei costi di costruzione e dei compensi per il progettista, cominciarono a manifestarsi pesanti divergenze di opinione fra Stacchini e la direzione delle FF.SS, tanto che nel febbraio del 1914 essa deliberò di abbandonare il progetto di variante, e di troncare ogni rapporto con il progettista, dando però nel contempo il via all’esecuzione del fabbricato interno dei servizi tecnici della stazione, con l’intenzione che essa potesse così entrare in funzione nel 1917. Per quanto riguardava la parte architettonica, le FF.SS. sostenevano che: “si potrà provvedere studiando con maggior agio e d’accordo col Comune la forma e la decorazione del fabbricato esterno… occorrendo mediante un nuovo concorso”. Ma il Comune non era propenso a questa soluzione riduttiva; dopo una serie di batti e ribatti e nuove trattative, svolte sia a Milano che a Roma, si arrivò ad una convenzione definitiva con l’architetto, ed alla redazione di un terzo progetto (inizi del 1915).

Pochi mesi dopo, l’entrata in guerra dell’Italia provvide a bloccare l’inizio di concreti lavori di costruzione, dando per altro tempo a Stacchini di perfezionare il progetto ed i disegni, e di presentare nell’agosto del 1917 un grande modello in gesso (scala 1:50) dell’intera facciata.

Finita la guerra, superato un lungo periodo di crisi del paese e delle Ferrovie dello Stato, si arrivò nell'agosto del 1924 all’approvazione del progetto definitivo, non prima di aver tardivamente inserito una ulteriore, importante variante, cioè la realizzazione delle grandi coperture a tettoia che oggi caratterizzano la stazione, al posto delle pensiline che fino a quel momento erano state previste.

I lavori poterono finalmente riprendere nel dicembre del 1924, con la perentoria volontà di concluderli nel giro di cinque anni, per dimostrare, dopo tanto tempo perduto, “…ciò che possono le virtù del nostro popolo e dei nostri governanti… uniti in uno sforzo tecnico-finanziario senza precedenti, degno della tradizione di Roma”.

La costruzione della Stazione Centrale iniziò dagli edifici laterali, prima l’ala ovest e poco dopo l’ala est. Nel 1926, quando partirono gli scavi delle fondamenta dell’edificio centrale, le ali erano a buon punto e ben percepibili nella loro struttura.

I materiali di scavo delle fondamenta servirono in parte a formare il rilevato su cui sarebbero stati posati i binari, contenuto da due grandi muraglioni che erano già stati costruiti da diversi anni. La struttura portante dell’edificio, che sarà poi ricoperta da un imponente apparato decorativo, era tutta in cemento armato, come si percepisce nelle fotografie del cantiere, ma anche l’acciaio fu abbondantemente utilizzato, per le coperture delle gallerie e fu l’elemento dominante, assieme al vetro, nella costruzione delle tettoie di protezione dei binari.

La prima centina reticolare di questa enorme struttura, la più grande d’Italia, progettata dall’ingegnere delle ferrovie Alberto Fava, fu montata nel febbraio del 1929. Le pesanti strutture in acciaio, realizzate tutte per chiodatura a caldo, furono costruite dalle Officine di Savigliano, vennero messe abbastanza facilmente in opera con gru e paranchi, anche grazie alle cerniere di cui erano dotate, al culmine ed alla base.

Oltre al più appariscente complesso degli edifici furono ovviamente costruiti tutti gli impianti primari (binari, scambi, cabine di controllo, ecc) e secondari (ascensori, montacarichi, impianti termici, ecc.) che costituivano il cuore tecnologico della stazione. A metà maggio del 1931 iniziò il trasferimento dei servizi dalla vecchia alla nuova centrale, e l’imponente edificio fu inaugurato ufficialmente il 1° luglio del 1931.

L’opera “di una vita” di Ulisse Stacchini era finalmente terminata.

All’esterno è ricca di statue, ognuna delle quali nasconde una propria simbologia: dalle aquile che rappresentano la conquista di Trento e Trieste, ai cavalli alati dei bassorilievi raffiguranti lavoro, agricoltura, scienza e commercio fino ai quattro mascheroni di Mercurio, simboli del progresso delle ferrovie.

I diversi restauri avvenuti negli anni hanno portato alla luce luoghi come il Padiglione Reale, formato dalla Sala Reale e la Sala delle Armi, concepito in origine per accogliere i Savoia, e che oggi è visitabile e affittabile per eventi, e il Binario 21, tristemente noto per essere il luogo di partenza di centinaia di deportati durante la Seconda Guerra Mondiale.

Il cuore pulsante delle stazioni sono i numeri: delle partenze dei treni, degli arrivi, dei binari. Questi ultimi nella stazione Centrale di Milano sono 24 e, in totale l’area dei binari occupa circa 66mila metri quadrati. Sormontata da arcate di vetro e ferro, la struttura raggiunge i 72 metri di altezza, mentre il Salone della Biglietteria arriva a 42 metri. Per i materiali interni invece, pochi sanno che i marmi di cui pare rivestita altro non sono se non un’illusione ottica data da altri materiali come la scagliola, gesso, selenite, acqua e colore.

La Cattedrale del Movimento, come venne definita dallo stesso architetto, prende ispirazione della Union Station di Washington ed è forse il più importante e conosciuto esempio italiano di architettura che unisce eclettismo, liberty e razionalismo fascista.

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