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sabato 22 novembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 22 novembre.

Il 22 novembre 1968 per la prima volta va in onda in televisione un bacio interrazziale sulla TV americana, grazie a una puntata del telefilm Star Trek.

In un episodio della serie Star Trek il capitano James T Kirk e l’ufficiale capo dell’Enterprise, Nihota Uhura, si baciano non senza qualche pressione: il telefilm era alla sua terza stagione, gli ascolti stentavano a decollare e la troupe temeva la cancellazione imminente. I dirigenti della rete erano preoccupati che la scena del bacio potesse sconvolgere i telespettatori degli Stati del Sud. Nichelle Nichols – alias Nihota Uhura – racconterà che i produttori inizialmente volevano girare due diverse versioni del famigerato bacio tra lei e William Shatner – il capitano Kirk – di cui una con le labbra serrate per evitare ogni polemica.

Ma alla fine la decisione fu presa e la scena fu girata come previsto, e con un occhio verso gli Emmy la rete annunciò su Hollywood Reporter che il primo bacio interrazziale della TV americana stava per andare in onda.

Nel Vecchio Continente fu la britannica BBC a mandare in onda il primo bacio televisivo interrazziale della storia. A detenere il primato era Emergency Ward 10 che nel 1964 trasmetteva il bacio tra Joan Hooley e John White. Solo recentemente la medical soap è stata spodestata, nel 2015 il British Film Institute ha scoperto negli archivi il film tv You in Your Small Corner, in cui i due protagonisti Elizabeth MacLennan e Lloyd Reckord vivono un amore contrastato lottando contro le contraddizioni razziste della società dell’epoca, e precorrendo i tempi in una scena sfiorano le loro labbra.

Mandato in onda un’unica volta nel giugno del 1962, del film per la Tv se ne erano poi perse completamente le tracce.

Tra curiosità e indignazione sul grande schermo già nel 1896 andava in scena il primo bacio del cinema. Meno di diciotto secondi che avevano fatto gridare allo scandalo, all’epoca le effusioni in pubblico erano perseguibili, ma consegneranno alla storia i due interpreti John C. Rice e May Irwin. Saltando nel tempo a piè pari, nel 2014 i baci fanno ancora notizia, a calamitare l’attenzione del mondo del web è il cortometraggio sperimentale First Kiss, della film maker Tatia Pilieva; per chi non l’ha visto, riprendeva 10 coppie di sconosciuti che si baciavano sotto l’occhio della telecamera per la prima volta, che ha raggiunto in poche ore oltre un milione di visualizzazioni. Scopriamo con una carrellata alcuni tra i baci più famosi della storia.

Ingrid Bergman e Cary Grant nella pellicola Notorious, del 1946, scandalizzeranno Hollywood, complice il leggendario regista Alfred Hitchcock, con il bacio più lungo e intenso del cinema.

Greta Garbo e John Gilbert ne La carne e il diavolo del 1927 inauguravano il primo bacio a bocca aperta della storia del cinema e lo scandalo fu enorme.

Nel 1933, Greta Garbo - ancora lei - interpreta la sovrana di Svezia ne La regina Cristina di Rouben Mamoulian e in una scena schiocca uno dei primi baci lesbo del cinema all'attrice Elizabeth Young.

È entrato nella storia come il V-Day kiss, il bacio appassionato tra un marinaio e una crocerossina alla fine della seconda guerra mondiale a Times Square, a New York, il 4 agosto 1945.

Tra le immagini che hanno scritto la storia, quella del bacio che suggella l’intesa tra Leonid Breznev e Erich Honecker ha poche rivali.

Del 1968 è il primo bacio tra specie diverse. Charlton Heston bacia Kim Hunter ne Il pianeta delle scimmie.

Baci bollenti sul set del film Getaway tra Ali MacGraw e Steve McQueen, che in men che non si dica lasceranno i rispettivi coniugi per vivere uno degli amori più tormentati e turbolenti di Hollywood.

Nella vita reale Carlo e Diana rompono la tradizione in mondovisione scambiandosi, per primi nella storia della monarchia britannica, un bacio sul balcone di Buckingham Palace.

Nel 1996 Roberto Benigni stravolge tutti i presenti baciando sulla bocca Walter Veltroni alla festa dell'Ulivo.

Nell'estate del 1992 Sarah Ferguson viene colta in flagrante intimità con il miliardario texano John Bryan, che tra le molte effusioni la bacia con disinvoltura e a bordo piscina le succhia l’alluce sinistro.

Il bacio tra un prete e una suora è la campagna Benetton firmata da Oliviero Toscani nel 1991. Provocatoria e scandalosa viene subito censurata per le pressioni del Vaticano.

Fernando Aiuti, immunologo alla Sapienza di Roma, nel 1991 per dimostrare che il bacio non trasmette il virus dell'Aids, bacia la giovane donna sieropositiva Rosaria Iardino.

Vent'anni dopo, nel 2003, Maurizio Costanzo ripete il gesto in tv e bacia anche lui Rosaria Iardino.

Nel 2000 ai Golden Globe Awards, Angelina Jolie stampa un bacio sulle labbra al fratello James Haven.

Tre mesi dopo alla cerimonia degli Oscar, Angelina Jolie replica e bacia ancora una volta il fratello James Haven, tutti gridano allo scandalo.

Al festival di San Remo del 2003, suggellano con un appassionato bacio la 53a edizione, Pippo Baudo e Luciana Littizzetto.

Tra i baci indimenticabili un posto d'onore va a quello scoccato da Adrien Brody a Halle Berry dopo aver vinto l'Oscar come miglior attore per il film Il pianista.

Sempre nel 2003, Britney Spears e Madonna sorprendono la platea agli MTV Video Music Awards con un intenso e appassionato bacio.

Barak Obama è il primo presidente americano che non si trattiene dal baciare apertamente la first Lady, Michelle.

Nel 2011, per la prima volta nella storia l'onore del tradizionale bacio dopo una lunga missione di un’unità della marina Usa, va a una coppia omosessuale. E Marissa Gaeta, sottufficiale, sulla banchina bacia la compagna Citlalic Snell, anche lei sottufficiale di marina.

I thailandesi Ekkachai e Laksana con il loro bacio di 58 ore, 35 minuti e 58 secondi detengono il record del Guinness dei primati.

Nel 2002, per la prima volta il bacio tra due uomini, Jason Biggs e Seann William Scott, protagonisti di American Pie 2, è giudicato il migliore dell'anno agli MTV Movie Award.

Ne le Mine vaganti, Riccardo Scamarcio schiocca il suo primo bacio cinematografico a un uomo, Carmine Recano, e commenta: «Non è stato difficile, ho chiuso gli occhi e l'ho fatto: ma non so come la prenderanno i miei genitori pugliesi».

Il bacio tra Alex Thomas con il suo boyfriend Scott Jones nel pieno dei disordini di Vancuver nel 2011, è entrato nella storia.


venerdì 21 novembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 21 novembre.

Il 21 novembre 1902 termina la Guerra dei mille giorni in Colombia.

La guerra dei mille giorni fu una guerra civile combattuta in Colombia tra gli anni 1899 e 1902. Il motivo di base alle origini del conflitto è furono gli attriti tra liberali e conservatori, dunque fu una guerra ideologica piuttosto che regionale. Raggiunti circa 100.000 caduti, entrambe le fazioni in lotta hanno chiesto un cessate il fuoco.  

Nel 1899, la Colombia aveva già alle spalle una lunga tradizione di conflitto tra liberali e conservatori. Le questioni fondamentali riguardavano per i conservatori un forte governo centrale, il diritto di voto limitato e forti legami tra Stato e Chiesa. I liberali, d’altra parte, chiedevano governi regionali più forti, il diritto di voto universale  e una netta divisione tra Stato e Chiesa. Le due fazioni erano in contrasto dalla dissoluzione della Gran Colombia nel 1831.

Nel 1898, il conservatore Manuel Antonio Sanclemente venne eletto presidente della Colombia. I liberali si indignarono, convinti che alla base del risultato ci fossero stati brogli elettorali. Sanclemente aveva partecipato ad un rovesciamento conservatore del governo nel 1861 ed era estremamente impopolare tra i liberali. Tuttavia la salute del nuovo presidente era molto cagionevole, e ciò portò a una debole conduzione del Paese. I liberali ne approfittarono e nel 1899 scoppiò una ribellione. 

La rivolta liberale ebbe inizio nella provincia di Santander. Il primo scontro avvenne quando le forze liberali cercarono di prendere Bucaramanga nel novembre 1899, ma vennero respinti. Un mese dopo, i liberali misero a segno la loro più grande vittoria nella guerra, quando il Generale Rafael Uribe Uribe sconfisse una grande forza conservatrice nella battaglia di Peralonso. La vittoria di Peralonso diede ai liberali la speranza e la forza di proseguire il conflitto per altri due anni nonostante la inferiorità numerica.

Ma il generale liberale Vargas Santos evitò stupidamente di approfittare del vantaggio ottenuto a Peralonso, e rimase in attesa invece che proseguire la campagna. Ciò consentì alle forze conservatrici di recuperare le perdite ed inviare un nuovo esercito al contrattacco. Il nuovo scontro si ebbe nel maggio 1900 a Palonegro, sempre nel dipartimento di Santander. La battaglia fu brutale e si protrasse per due settimane. Verso la fine del combattimento il caldo opprimente e la mancanza di cure mediche resero il campo di battaglia un inferno, con i morti in decomposizione che nessuno rimuoveva. Alla fine della battaglia, con oltre 4000 morti da ambo i lati, l'esercito liberale si sfaldò. 

Fino a quel momento, il vicino Venezuela aveva sempre aiutato l'esercito liberale, con l'invio di uomini e armi. Ma la sconfitta di Palonegro convinse il presidente venezuelano Cipriano Castro a sospendere gli aiuti. Solo una visita personale del Generale Rafael Uribe Uribe lo convinse a riprendere l'invio di aiuti. 

Dopo la rotta di Palonegro, la sconfitta dei liberali era solo una questione di tempo. I loro eserciti erano a brandelli, e per il resto della guerra poterono operare solo con tattiche di guerriglia. Riuscirono ad ottenere solo alcune vittorie nella odierna Panama, tra cui una battaglia navale di piccole dimensioni che vide la cannoniera Padilla affondare la nave cilena ( “presa in prestito” dai conservatori) Lautaro nel porto di Panama City. Queste piccole vittorie tuttavia, nonostante i rinforzi provenienti dal Venezuela,  non poterono cambiare le sorti della guerra. Dopo le disastrose perdite umane a Peralonso e Palonegro, il popolo della Colombia aveva perso ogni desiderio di continuare il combattimento.

I liberali moderati cercarono a lungo di giungere ad una fine pacifica della guerra. Anche se la loro causa era persa, si rifiutarono di prendere in considerazione una resa incondizionata: volevano una rappresentanza liberale nel governo come un prezzo minimo per la fine delle ostilità. I conservatori sapevano quanto fosse debole la posizione liberale e rimasero fermi nelle loro richieste. Il trattato di Neerlandia, firmato il 24 ottobre 1902, era fondamentalmente un accordo di cessate il fuoco che includeva il disarmo di tutte le forze liberali. La guerra venne formalmente conclusa il 21 novembre 1902, quando un secondo trattato fu firmato sul ponte della nave da guerra degli Stati Uniti Wisconsin.

La guerra dei mille giorni non portò alcuna diminuzione degli attriti di lunga data tra i liberali e i conservatori, che sarebbero di nuovo andati in guerra nel 1940 nel conflitto noto come La Violencia. Anche se nominalmente fu una vittoria conservatrice, non ci furono veri vincitori, ma solo vinti. Gli sconfitti erano i cittadini colombiani: migliaia di vite andarono perdute  e il Paese venne devastato dalla guerra civile. In più, quasi una beffa, il caos provocato dalla guerra permise agli Stati Uniti di realizzare l’indipendenza di Panama, togliendo alla Colombia questo territorio prezioso per sempre.

La guerra dei mille giorni è un evento storico ben noto in Colombia, ma venne portato all’attenzione internazionale grazie ad un romanzo straordinario. Il Premio Nobel Gabriel García Márques nel suo capolavoro del 1967 "Cent’anni di solitudine" copre un secolo nella vita di una famiglia colombiana immaginaria. Uno dei più famosi personaggi di questo romanzo è il colonnello Aureliano Buendía, che lascia la piccola città di Macondo e va a combattere per anni nella guerra dei mille giorni (per la cronaca, ha combattuto per i liberali e si pensa che sia stato liberamente tratto dal personaggio di Rafael Uribe Uribe).

giovedì 20 novembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 20 novembre.

Il 20 novembre 1959 l'Assemblea generale delle Nazioni Unite approva la prima stesura della Dichiarazione dei Diritti del Fanciullo.

La dichiarazione dei diritti del fanciullo, conosciuta anche come dichiarazione Universale dei diritti del fanciullo è un documento ufficiale, la cui ultima revisione risale al 1989 e approvata dalle Nazioni Unite, nel quale si descrive quali sono i diritti che sempre devono essere riconosciuti ai bambini. Questo testo, non ha alcun valore legale per gli stati membri delle nazioni Unite, tuttavia è un impegno morale che ogni Stato ha assunto. La dichiarazione si articola in 10 principi, tanto attuali quanto ancora poco applicati. Purtroppo, nel mondo, ancora oggi a troppi bambini questi diritti sono negati. Il nostro auspicio è che con il tempo ogni Stato, governo e Nazione possa impegnare sempre più risorse affinché possa essere riconosciuto ogni diritto ad ogni singolo bambino.

La dichiarazione afferma quanto segue:

Principio primo: il fanciullo deve godere di tutti i diritti enunciati nella presente Dichiarazione. Questi diritti devono essere riconosciuti a tutti i fanciulli senza alcuna eccezione, senza distinzione e discriminazione fondata sulla razza, il colore, il sesso, la lingua la religione od opinioni politiche o di altro genere, l’origine nazionale o sociale, le condizioni economiche, la nascita, od ogni altra condizione sia che si riferisca al fanciullo stesso o alla sua famiglia.

Principio secondo: il fanciullo deve beneficiare di una speciale protezione e godere di possibilità e facilitazioni, in base alla legge e ad altri provvedimenti, in modo da essere in grado di crescere in modo sano e normale sul piano fisico intellettuale morale spirituale e sociale in condizioni di libertà e di dignità. Nell’adozione delle leggi rivolte a tal fine la considerazione determinante deve essere del fanciullo.

Principio terzo: il fanciullo ha diritto, sin dalla nascita, a un nome e una nazionalità.

Principio quarto: il fanciullo deve beneficiare della sicurezza sociale. Deve poter crescere e svilupparsi in modo sano. A tal fine devono essere assicurate, a lui e alla madre le cure mediche e le protezioni sociali adeguate, specialmente nel periodo precedente e seguente alla nascita. Il fanciullo ha diritto ad una alimentazione, ad un alloggio, a svaghi e a cure mediche adeguate.

Principio quinto: il fanciullo che si trova in una situazione di minoranza fisica, mentale o sociale ha diritto a ricevere il trattamento, l’educazione e le cure speciali di cui esso abbisogna per il suo stato o la sua condizione.

Principio sesto: il fanciullo, per lo sviluppo armonioso della sua personalità ha bisogno di amore e di comprensione. Egli deve, per quanto è possibile, crescere sotto le cure e la responsabilità dei genitori e, in ogni caso, in atmosfera d’affetto e di sicurezza materiale e morale. Salvo circostanze eccezionali, il bambino in tenera età non deve essere separato dalla madre. La società e i poteri pubblici hanno il dovere di aver cura particolare dei fanciulli senza famiglia o di quelli che non hanno sufficienti mezzi di sussistenza. È desiderabile che alle famiglie numerose siano concessi sussidi statali o altre provvidenze per il mantenimento dei figliuoli.

Principio settimo: il fanciullo ha diritto a una educazione, che, almeno a livello elementare deve essere gratuita e obbligatoria. Egli ha diritto a godere di un’educazione che contribuisca alla sua cultura generale e gli consenta, in una situazione di eguaglianza di possibilità, di sviluppare le sue facoltà, il suo giudizio personale e il suo senso di responsabilità morale e sociale, e di divenire un membro utile alla società. Il superiore interesse del fanciullo deve essere la guida di coloro che hanno la responsabilità della sua educazione e del suo orientamento; tale responsabilità incombe in primo luogo sui propri genitori. Ogni fanciullo deve avere tutte le possibilità di dedicarsi a giochi e attività ricreative che devono essere orientate a fini educativi; la società e i poteri pubblici devono fare ogni sforzo per favorire la realizzazione di tale diritto.

Principio ottavo: in tutte le circostanze, il fanciullo deve essere fra i primi a ricevere protezione e soccorso.

Principio nono: il fanciullo deve essere protetto contro ogni forma di negligenza, di crudeltà o di sfruttamento. Egli non deve essere sottoposto a nessuna forma di tratta. Il fanciullo non deve essere inserito nell’attività produttiva prima di aver raggiunto un’età minima adatta. In nessun caso deve essere costretto o autorizzato ad assumere un’occupazione o un impiego che nuocciano alla sua salute o che ostacolino il suo sviluppo fisico, mentale, o morale.

Principio decimo: il fanciullo deve essere protetto contro le pratiche che possono portare alla discriminazione razziale, alla discriminazione religiosa e ad ogni altra forma di discriminazione. Deve essere educato in uno spirito di comprensione, di tolleranza, di amicizia fra i popoli, di pace e di fratellanza universale, e nella consapevolezza che deve consacrare le sue energie e la sua intelligenza al servizio dei propri simili.

mercoledì 19 novembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 19 novembre.

Il 19 novembre 1493 Cristoforo Colombo sbarca per primo sull'isola che in seguito verrà battezzata Porto Rico.

Non si hanno informazioni certe relative alla storia dell’isola di Porto Rico prima dell’arrivo di Cristoforo Colombo. La ricostruzione delle origini è dovuta alle scoperte archeologiche e dalle trascrizioni dei racconti degli spagnoli.

Il primo libro sulla storia di Porto Rico fu scritto 283 anni dopo l’insediamento degli spagnoli sull’isola.

I primi abitanti dell’isola furono gli Ortoiroid che si sono insediati intorno al 2000 a.C.

Tra il VII e l’XI secolo la cultura dei Taino si sviluppò notevolmente e attorno all’anno 1000, divennero il popolo dominante di Porto Rico. Essi mantennero questo dominio fino all’arrivo degli spagnoli, nel 1493.

Le tribù indiane Arawak  e Taino chiamarono l’isola Borikén.

Cristoforo Colombo fu il primo europeo a raggiungere l’isola durante il suo secondo viaggio alle Antille, il 19 novembre del 1493. Tuttavia alcuni sostengono che non fu Colombo a scoprire Porto Rico, bensì Martín Alonso Pinzón, che nel 1492 si era separato da Colombo continuando da solo le sue esplorazioni. La Corte spagnola diede a Pinzón un anno di tempo per poter iniziare l’opera di insediamento e colonizzazione che avrebbe permesso loro la rivendicazione dell’isola, ma il progetto fallì.

Cristoforo Colombo dette il nome a quest’isola in onore di San Giovanni Battista, ma ben presto divenne Puerto Rico che letteralmente significa “porto ricco”. Il nome originale rimase a designare la città più grande, nonché capitale, San Juan. Il conquistador spagnolo Juan Ponce de León divenne l’effettivo governatore in carica di Porto Rico, poiché Vicente Yáñez Pinzón, eletto governatore prima di Juan Ponce, non raggiunse mai l’isola.

Porto Rico fu subito colonizzata dagli spagnoli, i quali vi portarono un gran numero di schiavi africani che furono obbligati a lavorare per la corona spagnola. L’isola divenne in breve tempo porto strategico dell’Impero spagnolo nei Caraibi. Per difendersi dai nemici europei che miravano alla conquista dell’isola, gli spagnoli costruirono numerosi forti e muraglioni per proteggere la capitale.

Nel 1809, venne riconosciuto Porto Rico come territorio spagnolo d’oltreoceano con il diritto di inviare deputati alla Corte spagnola. Il deputato Ramón Power y Giralt divenne vice presidente e le sue riforme costituzionali del XIX secolo favorirono l’incremento demografico e la crescita economica, e soprattutto conferirono una maggiore notorietà all’isola.

Successivamente, la povertà e l’allontanamento politico dalla Spagna portarono a una piccola ma significativa insurrezione, nel 1868, conosciuta come Grito de Lares (Pianto di Lares) che fu facilmente e immediatamente soppressa.

Pochi anni dopo sorse il movimento autonomo portoricano, iniziato da Román Baldorioty de Castro e portato avanti da Luis Muñoz Rivera verso la fine del secolo. Nel 1897, Muñoz Rivera e altri indipendentisti persuasero il governo liberale spagnolo a riconoscere e accettare lo Statuto per l’autonomia di Porto Rico. L’anno seguente venne organizzato il primo, anche se di breve durata, governo autonomo portoricano. Si raggiunse quindi il compromesso di mantenere un governatore nominato dalla Spagna, il quale aveva il potere di annullare qualsiasi decisione legislativa con cui non era d’accordo, e una struttura parlamentare parzialmente eletta.

Il 25 luglio 1898, con lo scoppio della guerra ispano-americana, Porto Rico fu invasa dagli Stati Uniti d’America. Con il trattato di Parigi del 1898 la Spagna fu obbligata a cedere Porto Rico, assieme a Guam e alle Filippine, agli USA.

Negli anni successivi alla grande depressione del 1929, Pedro Albizu Campos fondò un movimento nazionale a favore dell’indipendenza: il Partito Nazionalista Portoricano. Ma il vero cambiamento politico del paese avvenne negli ultimi anni delle amministrazioni Roosevelt e Truman. Nel 1946 con la nomina, da parte del presidente Truman, del primo governatore di origine portoricana, Jesus Piñero. Nel 1947 gli Stati Uniti concessero il diritto di eleggere democraticamente il governatore di Porto Rico ed il 2 gennaio 1949 Luis Muñoz Marín divenne il primo governatore di Porto Rico ad essere eletto dal popolo.

Il 1º novembre 1950 due nazionalisti portoricani tentarono di assassinare il presidente Truman, e come conseguenza immediata egli autorizzò il referendum democratico in Porto Rico. Ciò avvenne nel 1952, e tale costituzione assunse i connotati di un Commonwealth politico.  Finalmente durante gli anni cinquanta l’isola conobbe una rapida industrializzazione, grazie ad ambiziosi progetti quali l’operazione Bootstrap, che si proponeva di cambiare le basi dell’economia portoricana da agricole a manifatturiere.

Negli ultimi decenni ci sono stati diversi plebisciti per decidere se Porto Rico dovesse consolidare il Commonwealth oppure richiedere di diventare uno stato federato statunitense a tutti gli effetti. Ma gli Stati Uniti hanno avuto sempre la vittoria e di conseguenza nulla è mutato nel sistema politico di Porto Rico.

martedì 18 novembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 18 novembre.

Il 18 novembre 1481 cede la diga del Zuiderzee in Olanda, allagando 72 villaggi e uccidendo 100.000 persone.

“Dio ha creato tutto il mondo, tranne l’Olanda, che è stata creata dagli olandesi“. Così dice un antico proverbio, perchè buona parte del territorio olandese è stato strappato al mare dall’uomo. La lotta contro l’acqua ha radici nel passato. Nel 1287 una violenta tempesta permise al mare di inondare l’Olanda, formando il golfo dal nome “Zuiderzee“ e quando i primi olandesi misero piede in questi acquitrini, dovettero prosciugare, nel tempo, intere zone di terra e difendersi dalle continue inondazioni per riuscire a sopravvivere. 

Dal XV secolo il mare interno di Zuiderzee rimase più o meno invariato, grazie alle migliorie apportate alle dighe naturali; tuttavia con il tempo, diventava sempre più perentoria la possibilità di contrastare la volatilità della natura. Nel 1481 le inondazioni provocarono la scomparsa di 72 villaggi e la morte di oltre 100000 persone.

Ma nel 1916, quando i Paesi Bassi furono colpiti da un’ondata di marea molto grande, gli olandesi decisero di riprendere in mano il piano di una diga che era stata progettata nel 1891 dall’ingegnere Cornelis Lely. I lavori iniziarono nel 1919 e la diga fu inaugurata il 28 Maggio 1932 dalla regina Guglielmina.

La diga fu costruita fra la Frisia e l’ Olanda Settentrionale e così il golfo fu separato dal mare e trasformato nel lago “Ijsselmeer“. Quest’ultimo, in parte prosciugato, ha dato poi origine alla provincia dello “Flevoland“. Successivamente questo enorme lago artificiale venne diviso in due parti con la costruzione di una seconda diga, Markerwaarddijk, la parte più interna del lago venne chiamata Markermeer. Fino al 1932, lo Ijsselmeer si chiamava ancora Zuider Zee (Mare Meridionale). La diga è lunga 32 km, larga 90 m ed arriva ad un’altezza di 7,25 m sopra il livello del mare, è attraversata da un’autostrada (A7, due corsie per senso di marcia) che, intorno al sedicesimo chilometro (a metà della diga), ha un punto di ristoro con tanto di parcheggio, bar, torretta panoramica, un negozietto di souvenir, aree di sosta e una struttura dotata di una sopraelevata che permette ai pedoni di attraversare l’autostrada e ammirare il panorama.

La diga è dotata di chiuse poste su entrambi i lati est ed ovest, che permettono di mantenere costante il livello del mare interno, scaricando l’acqua in eccesso nel Waddenzee. Il Waddenzee è quel piccolo mare che diventa Mare del Nord oltre le cinque     Isole Frisone: Texel, Vlieland, Terschelling,  Ameland e Schiermonnikoog che si trovano all’estremo settentrione dei Paesi Bassi. L’operazione di scarico deve essere svolta continuamente, dal momento che nuova acqua si riversa nell’Ijsselmeer dal fiume Ijssel, emissario del Reno. Le chiuse permettono di svuotare oltre la diga 5000 metri cubi d’acqua, l’equivalente di due piscine olimpioniche, al secondo.

Essa collega la provincia dell’Olanda Settentrionale (villaggio di Den Oever nella municipalità di Wieringen), con la provincia della Frisia (villaggio di Zurich, municipalità di Wunseradiel). ( La Frisia è una provincia olandese verde e pianeggiante famosa per le celebri mucche frisone bianche e nere ). L’autostrada sopra la diga, è percorsa ogni giorno da migliaia di veicoli e neanche a dirlo, accanto alla strada ad alto scorrimento, trova posto una comodissima pista ciclabile a due corsie, con vista mare. L’Afsluitdijk risulta essere undicesima tra le dighe più grandi al mondo e notevole sforzo è stato compiuto nello sviluppo di modelli matematici per il calcolo delle correnti di marea, la selezione di adeguati materiali da costruzione e gli aspetti organizzativi. Con il passare degli anni, lo specchio d’acqua da salato (lago “Ijsselmeer“) è diventato dolce, permettendo a un milione di persone di berne l’acqua, dopo la depurazione e recuperando terreno per l’agricoltura e lo sviluppo urbano.

Questo cambiamento radicale ha avuto anche aspetti negativi, influendo pesantemente sulla vita di interi paesi che vivevano solo di pesca; infatti sono scomparse molte specie di pesci ed i pescatori si sono dovuti trovare altri lavori. La diga fu costruita allo scopo di proteggere le coste e impedire le inondazione delle provincie circostanti, ma riducendo così la lunghezza della costa olandese di quasi 300 chilometri. Per costruire la diga sono stati necessari circa 25 milioni di metri cubi di sabbia, 13 milioni di metri cubi di blocchi di argilla, 16 milioni di tipiche mattonelle olandesi e 6000 uomini.

Sulla punta ovest della diga si trova la statua che raffigura l’ingegnere e ministro dei lavori pubblici Cornelis Lely che progettò nel 1891 il piano della chiusura dello Zuiderzee. Essa è stata scolpita da Mari Andriessen e a lui dedicata in occasione del 100 ° anniversario della sua nascita, il 23 settembre 1954. Nelle vicinanze della torretta (dal 1982, in occasione del 50° anniversario della diga), si trova un monumento che ricorda i lavoratori che hanno contribuito alla creazione di questa grande opera lavorando in condizioni molto difficili. La diga fu infatti realizzata grazie all’enorme sforzo e il grande lavoro degli olandesi con i macchinari e le attrezzature di quel periodo storico in un’impresa in cui lo stesso uomo ha superato se stesso dimostrando di riuscire a sconfiggere le forze della natura che altrimenti l’avrebbero sopraffatto.

lunedì 17 novembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 17 novembre.

Il 17 novembre 1997, 36 turisti svizzeri morirono a Luxor, in Egitto, sotto i colpi di un gruppo di estremisti islamici. Si tratta dell’attentato terroristico più grave contro dei cittadini elvetici. Quasi trent’anni dopo, il terrorismo continua a far paura. Ma contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, gli attacchi e le vittime sono in diminuzione.

«Il massacro degli innocenti», «La morte sul Nilo», «Orrore nella Valle dei Re», «Svizzeri massacrati a Luxor»: era il 18 novembre e su tutte le prime pagine dei quotidiani elvetici c’era la notizia della strage del giorno prima.

Sul sito archeologico di Deir el-Bahari, nei pressi di Luxor, un gruppo di terroristi appartenenti all’organizzazione islamista al-Gama’at al-Islamiyya aveva aperto il fuoco contro una comitiva di turisti. Pesante il bilancio: 62 morti, di cui 36 svizzeri.

Dal 1970, le vittime svizzere di attentati terroristici sono state una sessantina. Quello di Luxor rimane ad oggi il peggior attacco contro dei cittadini elvetici.

Gli svizzeri non sono ovviamente le uniche vittime del terrorismo. E l’Egitto non è il solo paese confrontato col fenomeno. Tra il 2012 e il 2016, gli attacchi terroristici nel mondo sono stati oltre 33'000 e hanno causato più di 153'000 morti in decine di paesi, secondo il Global Terrorism Database (GTD) dell’Università del Maryland, la più ampia banca dati sul terrorismo. Con quasi 6'300 vittime, il giugno 2014 è stato il mese più nero.

In particolare dopo l’attentato del gennaio 2015 a Charlie Hebdo, a Parigi, la minaccia terroristica è ritornata in primo piano in Europa. Dalla capitale francese a Bruxelles, da Londra a Berlino, senza dimenticare l'attacco a Barcellona, il terrorismo ha colpito periodicamente le principali città del continente. 

Tuttavia, l’Europa non è il principale teatro di violenze. Dal 2012, i morti dovuti al terrorismo nell’Europa occidentale rappresentano meno dello 0,3% del numero totale di vittime. La stragrande maggioranza delle vittime degli attentati si concentra in cinque paesi dell’Asia e dell’Africa.

Nonostante il costante aumento degli attentati dall’inizio del Millennio, collegati in gran parte alle attività di Al Qaida, dei Talebani, di Boko Haram e del sedicente Stato islamico, gli atti terroristici nel mondo sono in calo, indica il GTD. Dopo il picco del 2014, sia il numero di attacchi sia quello delle vittime sono diminuiti negli anni successivi.

domenica 16 novembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 16 novembre.

Il 16 novembre 1960 scompare Clark Gable, un'icona del cinema.

William Clark Gable, soprannominato "re di Hollywood", nasce a Cadiz (Ohio) il giorno 1 febbraio 1901. Prima di diventare uno degli attori più contesi dai produttori di Hollywood a suon di dollari, ha dovuto affrontare una dura gavetta nel mondo dello spettacolo, spinto dagli incoraggiamenti dalle donne che lo amavano.

La prima è l'attrice e regista teatrale Josephine Dillon (14 anni di lui più anziana), che convinta che Clark Gable abbia un autentico talento lo scrittura e lo aiuta ad affinarlo. Insieme vanno ad Hollywood dove, il 13 dicembre 1924, si sposano. La regista ha il merito di avergli insegnato l'arte della recitazione, a muoversi con disinvoltura ed eleganza, e a tenere sul palcoscenico e nella vita privata un contegno ineccepibile. E' lei infine a persuaderlo a tralasciare il nome William e a farsi chiamare semplicemente Clark Gable.

Grazie a lei Gable ottiene le prime parti, per lo più in ruoli marginali in film come "White Man" (1924), "Plastic Age" (1925). Tornò in teatro, e dopo parti di minore importanza, debuttò sul palcoscenico di Broadway nel 1928 in Machinal, interpretando la parte dell'amante della protagonista, e raccolse lusinghieri consensi dalla critica.

E' in tournée nel Texas con un'altra compagnia quando incontra Ria Langham (17 anni più anziana), ricca e pluridivorziata, inserita in un giro di alte relazioni sociali. Ria Langham farà dell'attore un raffinato uomo di mondo. Dopo il divorzio da Josephine Dillon, Clark Gable sposa Ria Langham il 30 marzo 1930.

Intanto ottiene un contratto di due anni con la MGM: gira film come "The Secret Six" (1931), "Accadde una notte" (1934), "Gli ammutinati del Bounty" (1935) e "San Francisco" (1936). Spinto e pagato dalla produzione, Gable utilizza una protesi dentaria per render perfetto il suo sorriso e si sottopone ad un intervento di chirurgia plastica per correggere la forma delle orecchie.

Nel 1939 arriva il grande successo con l'interpretazione per cui ancora oggi è identificato come simbolo: l'affascinante e rude avventuriero Rhett Butler in "Via col vento" (Gone with the wind), di Victor Fleming. Il film, tratto dal romanzo di Margaret Mitchell, lo consacra definitivamente come divo internazionale, insieme all'altra protagonista, Vivien Leigh.

Durante la lavorazione del film "Via col vento", Clark Gable ottiene il divorzio da Ria Langham. Ancor prima di finir le riprese, se ne va in Arizona, dove sposa in forma privata l'attrice Carole Lombard, conosciuta tre anni prima.

Dopo gli avvenimenti di Pearl Harbor, nel 1942 Carole Lombard partecipa attivamente alla campagna di raccolta dei fondi di finanziamento dell'esercito americano. Durante il ritorno da un viaggio di propaganda a Fort Wayne, l'aereo con a bordo Carole Lombard si schianta contro una montagna. In un telegramma inviato poco prima di partire, Carole Lombard suggeriva al marito di arruolarsi: distrutto dal dolore, Clark Gable troverà nel consiglio della moglie nuove motivazioni.

Dopo le riprese di "Incontro a Bataan" (1942), Gable si arruola nell'aviazione.

Torna poi alla MGM, ma cominciano i problemi: Gable è cambiato e anche la sua immagine pubblica ha perso il suo smalto originale. Interpreta una serie di film che riscuotono buoni successi commerciali, ma che tuttavia risultano oggettivamente mediocri: "Avventura" (1945), "I trafficanti"(1947), "Mogambo" (1953).

Nel 1949 sposa Lady Sylvia Ashley: il matrimonio durerà poco, fino al 1951.

Successivamente conosce e sposa la bella Kay Spreckels, le cui fattezze ricordavano molto quelle della scomparsa Carole Lombard. Con lei Gable sembrava avere ritrovato la felicità perduta.

Il suo ultimo film "Gli spostati" (1961), scritto da Arthur Miller e diretto da John Huston, segna una piena rivalutazione in campo professionale. Nel film Clark Gable interpreta la parte di un attempato cowboy che si guadagna da vivere catturando cavalli selvaggi. L'attore si appassiona moltissimo al soggetto, impegnandosi con grande scrupolo nello studio della parte.

Nonostante le riprese avvenissero in luoghi molti caldi e le scene d'azione fossero al di sopra delle forze di un uomo dell'età di Gable, rifiutò la controfigura, sottoponendosi a un duro sforzo, soprattutto nelle scene della cattura dei cavalli. Intanto la moglie aspettava un bambino, che chiamerà John Clark Gable. Il padre non visse abbastanza per vederlo: il 16 novembre 1960, due giorni dopo aver terminato le riprese dell'ultimo film, a Los Angeles, Clark Gable veniva colpito da infarto.

La scomparsa di quello che sarebbe stato definito "re di Hollywood", segnò per molti la fine di una generazione di attori che incarnava il personaggio ideale di uomo, tutto d'un pezzo, temerario e virile.

Venne sepolto nel Forest Lawn Memorial Park a Los Angeles, California, accanto alla terza moglie ed amore della sua vita, Carole Lombard.

sabato 15 novembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 15 novembre.

Il 15 novembre 1859 viene promulgata la Legge Casati sull'ordinamento scolastico, approvata due giorni prima con Regio Decreto del Regno di Sardegna.

L’inizio della storia della Scuola Elementare Italiana si può far risalire al 1859, anno in cui  il ministro della Pubblica Istruzione del Regno di Sardegna, Gabrio Casati, presentò e fece approvare una legge: il regio decreto legislativo 13 novembre 1859, n. 3725 del Regno di Sardegna, noto come “legge Casati”. Lo scopo principale della legge Casati era che i bambini dovevano saper “…leggere, scrivere e far di conto…” e la stessa legge sanciva l’obbligatorietà e la gratuità dell’istruzione elementare per il corso inferiore, impartita dallo stato per mezzo dei comuni, ai quali spettava anche il compito di assumere i maestri.

Egli progettò una scuola elementare divisa in due bienni  e un successivo percorso formativo che si divaricava in formazione tecnica e formazione ginnasiale, quest’ultima solo a pagamento. I due bienni (inferiore e superiore) furono fatti per rispondere alle esigenze di uno stato laico moderno, quale voleva essere il Piemonte, che ambiva a togliere alla Chiesa il suo secolare predominio nel campo dell’educazione.

Non bisogna dimenticare infatti che tradizionalmente in tutta Italia l’istruzione era impartita, sia al livello elementare sia a quello superiore, da istituti ecclesiastici, spesso controllati dai Gesuiti, e che i preti esercitavano un controllo e potere tale che addirittura alcuni erano nominati anche Ispettori Scolastici.

L’istruzione elementare era a carico dei comuni, ma il secondo biennio era istituito solo nei comuni con più di quattromila abitanti o che avessero nel loro territorio un istituto secondario. I comuni dovevano quindi finanziare le proprie scuole e questo costituì un punto debole della “legge Casati”, perché i comuni con minori risorse o quelli delle aree più disagiate (caratteristiche spesso coincidenti) avevano difficoltà ad assumere per la scuola elementare maestri sufficientemente qualificati.

Ciò incentivò così l’istruzione privata da parte delle famiglie più ricche  che si affidarono spesso ad un precettore domestico, o a istituti privati. Lontana dal divenire veramente “pubblica” la scuola italiana non riusciva quindi neanche a divenire “d’obbligo” (la stessa legge Casati non prevedeva sanzioni per i genitori che non mandavano i figli a scuola) e quindi molte famiglie preferivano tenere i bambini a casa per i lavori dei campi, fenomeno questo che riscontriamo, anche se in misura minore negli anni 50/60 del secondo dopoguerra.

L’analfabetismo alla fine dell’800 riguardava il 74% degli uomini e l’84% delle donne.

Sulla scuola elementare si concentrò però, con speranze eccessive, una grande aspettativa sociale e politica: si voleva plasmare in senso unitario e nazionale la coscienza del popolo allo scopo di unificare una nazione nata dalla somma di stati che per secoli avevano vissuto separati. Se la politica aveva creato lo stato italiano, la scuola doveva crearne lo spirito, quasi rispondendo al celebre aforisma attribuito a Massimo D’Azeglio: “L’Italia è fatta, ora bisogna fare gli italiani!”.

Nel 1877 fu ministro della Pubblica Istruzione del Governo Depretis l’ex rettore dell’Università di Torino, Michele Coppino.  Durante il suo mandato egli portò a tre gli anni di obbligatorietà per quanto riguarda la scuola elementare inferiore, introducendo anche norme sanzionatorie per i genitori che non rispettassero questa riforma. Tale obbligatorietà salì poi fino al dodicesimo anno d’età dell’allievo con la legge Orlando del 1904. Siamo a inizio secolo e la discussione sul tema della scuola è molto accesa. Infatti appena sette anni dopo la legge Orlando (1911) viene promulgata la legge Daneo-Credaro che definì la scuola elementare come una scuola di tipo statale e i maestri diventarono quindi impiegati dello Stato. Tale trasformazione mirava ad un maggior controllo sulla frequenza degli scolari, e ad una più efficace lotta all’analfabetismo , puntando anche all’unificazione del sistema scolastico nazionale, disattesa quest’ultima a causa dell’arretratezza sociale ed economica di molte zone del sud che mettevano ancora più in evidenza il forte divario esistente con il nord.

Una delle svolte decisive nella storia della scuola italiana però si verificò nel 1923 con la riforma Gentile,  definita da Mussolini “la più fascista delle riforme”:  essa fu un insieme di decreti emanati senza discussione parlamentare che rimase sostanzialmente in vigore inalterata anche dopo l’avvento della Repubblica fino a quando il Parlamento italiano nel 1962 diede vita alla scuola media unificata. La scuola elementare con la riforma Gentile assunse una struttura più autoritaria e gerarchizzata. I programmi di studio per le scuole elementari, di chiara ispirazione idealista, sono redatti dal pedagogista catanese Giuseppe Lombardo Radice, Direttore Generale dell’istruzione elementare. La religione cattolica venne posta come base dell’educazione e moralità del fanciullo che attraverso essa doveva saper essere da esempio alle generazioni future.

Al maestro venne concesso di usare tutti i mezzi che riteneva più opportuni per l’insegnamento in relazione alla cultura e alla  tradizione popolare del luogo in cui si trovava ad insegnare. Egli doveva sapere accostare “il sapere del libro al sapere del popolo” anche attraverso l’uso del dialetto. Il maestro doveva essere non solo il punto di riferimento per i suoi allievi e modello a cui essi dovevano ispirarsi ma doveva anche rappresentare il centro di tutta la cultura del paese, ragion per cui viene stabilito con la circolare n°49 del 19 Aprile 1923 l”Obbligo di residenza” per i maestri nel comune della loro scuola.

Altro punto saliente della riforma fu l’innalzamento dell’obbligo scolastico sino al quattordicesimo anno di età. Dopo i primi cinque anni di scuola elementare uguali per tutti, l’alunno doveva scegliere tra liceo scientifico, ginnasio e scuola complementare per l’avviamento al lavoro. Solo la scuola media consente l’accesso ai licei e a sua volta solo il liceo classico permette l’iscrizione a tutte le facoltà universitarie. Inoltre furono disciplinati i vari tipi di istituzioni scolastiche, statali, private e parificate e fu creato l’istituto magistrale per la formazione dei futuri insegnanti elementari. Una grande innovazione si ebbe con l’istituzione di scuole speciali per gli alunni portatori di handicap, anche se già nell’800 si era fatto qualcosa di simile e l’apprendimento da parte degli alunni del senso civico e della correttezza nei confronti del prossimo. Era compito dei maestri far comprendere agli alunni il rispetto e la tutela della natura e verso gli animali, nei confronti dei quali spesso veniva usata violenza da parte dei piccoli.

Le conseguenze che le vicende della guerra 1940-45 portarono nel campo scolastico sono facilmente intuibili: fabbricati distrutti, occupati da sfollati, ridotti a dormitori o a cucine popolari, insegnanti dispersi, disorganizzati, studenti disorientati. Su tutto questo gravava inoltre un governo inefficiente e per un certo periodo messo in sottordine dall’esercito di liberazione

Torna la libertà per il docente per la scelta dei libri di testo e nel 1947 sono ricostituiti i Patronati scolastici che saranno attivi fino al 1977. Sul momento tuttavia si dovettero concentrare gli sforzi soprattutto nella ricostruzione, che si presentava più difficile per la presenza di un organismo straniero incapace di valutare in senso realistico la situazione italiana.

venerdì 14 novembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 14 novembre.

Il 14 novembre 1951 il Po rompe gli argini e il Polesine viene travolto dall'alluvione.

Il 1951 fu un anno particolare. Da gennaio a ottobre su tutto il territorio nazionale si susseguirono piogge, inondazioni e frane che complessivamente causarono oltre 150 morti, 90 dei quali nel solo mese di ottobre in Calabria (72), Sicilia (12) e Sardegna (6). Nei primi giorni di novembre il nord Italia venne colpito da piogge intense e persistenti che in val Padana raggiunsero l’apice tra il 6 e il 12. In questi sei giorni sul bacino del Po vennero misurati mediamente circa 30 millimetri di pioggia al giorno, con picchi che superarono anche di quattordici volte la media mensile dei cinque anni precedenti. Una tale quantità di acqua, caduta su terreni già saturati dalle piogge del mese di ottobre, determinò la piena di tutti i corsi d’acqua del bacino. I primi fenomeni di dissesto geo-idrogeologico si verificarono in Piemonte e in Lombardia, dove si registrarono anche alcune vittime. Il Po crebbe velocemente, ingrossato dalle acque di tutti i suoi affluenti di destra e sinistra e col deflusso verso il mare ostacolato da venti di Scirocco. Tra l’11 e il 12 novembre il fiume ruppe nella zona del parmense, sommergendo migliaia di ettari di terreno. Due giorni dopo la piena raggiunse il Polesine. Con questo nome si identifica l’area del Veneto compresa tra i corsi inferiori dell’Adige e del Po, e comprende l’intera provincia di Rovigo e la zona del cavarzerano in provincia di Venezia. Questo territorio pianeggiante è caratterizzato da ampie depressioni, con molti ettari a quote inferiori al livello del mare. Per fronteggiare i ripetuti allagamenti nel tempo erano stati costruiti canali e argini che, danneggiati durante il periodo bellico e malridotti per la scarsa manutenzione, si trovavano in precarie condizioni. Particolarmente critica era la situazione nel tratto fra Santa Maria Maddalena e Occhiobello, e fu proprio in questa zona che il giorno 14 novembre l’argine cedette, dando inizio alla più estesa alluvione del XX secolo in Italia. Le rotte furono tre, in rapida successione: la prima, che raggiunse i 220 metri di lunghezza, si verificò nel tardo pomeriggio nel territorio di Canaro, a Paviole; le altre due, lunghe rispettivamente 312 e 204 metri, si aprirono nel comune di Occhiobello, a Bosco e a Malcantone. In poche ore le acque dilagarono e raggiunsero, rimanendovi bloccate, l’argine della Fossa Polesella, un canale navigabile di comunicazione tra il fiume Po e il Canalbianco che produsse una sorta di effetto diga. Per favorire il deflusso verso il mare, sarebbe stato opportuno aprire dei varchi nell’argine, ma le autorità tergiversarono e così le acque iniziarono a risalire anche verso monte. L’enorme quantità di acqua proveniente dalle rotte ben presto superò la quota dell’argine della Fossa e si riversò anche nel Canalbianco, dove si aprirono alcune rotte in sinistra mettendo a rischio i due maggiori centri del Polesine, Adria e il capoluogo Rovigo. Adria venne completamente inondata. Oltre 20 mila persone rimasero bloccate in città e isolate per diverse ore, prima di essere tutte evacuate. A Rovigo, dove era stato organizzato il quartier generale dei soccorsi ed erano stati ospitati molti sfollati, le acque furono in parte trattenute dall’argine del canale Adigetto che, fungendo da diga, salvò il centro storico.

Difficile quantificare il volume delle acque che per undici giorni sommersero almeno 1.170 chilometri quadrati di terreno, raggiungendo in alcuni punti la profondità di sei metri; le stime oscillano fra i tre e gli otto miliardi di metri cubi. Dopo circa una settimana dalle rotte del Po le acque raggiunsero finalmente l’Adriatico e il livello dell’esondazione iniziò a scendere. Tuttavia gli argini della Fossa Polesella costituivano ancora un ostacolo al deflusso e si decise di farli saltare. L’operazione venne portata a termine tra il 24 e il 26 novembre, dopo alcuni tentativi e con oltre 70 quintali di tritolo. I tre varchi di Canaro e Occhiobello furono chiusi poco più di un mese dopo le rotte, mentre le strutture arginali vennero ricostruite nel corso del 1952. Il numero totale delle persone coinvolte fu molto alto: 101 morti, sette dispersi e circa 180.000 tra sfollati e senzatetto. La maggior parte delle vittime si registrò a Frassinelle, nella notte fra il 14 e il 15 novembre. La dinamica dell’accaduto è ancora oggi non del tutto chiara. Di sicuro si sa che un camion adibito al trasporto degli sfollati, inadeguato ad accogliere il gran numero di persone che vi erano salite, finì per impantanarsi e venne completamente sommerso dalle acque. Alla fine persero la vita 84 persone, molti annegati, altri per sfinimento e per il freddo. Dei 180.000 che dovettero lasciare la propria casa, 80.000 non vi fecero più ritorno, con un conseguente impatto sociale ed economico negativo di lungo periodo in un’area geografica già prima dell’alluvione economicamente depressa. I danni materiali furono ingentissimi: 60 km di argini e oltre 950 km di strade distrutti o danneggiati, 52 ponti crollati o danneggiati; 4100 abitazioni, 13.800 aziende agricole, 5.000 fabbricati e 2.500 macchinari agricoli distrutti o danneggiati. Furono allagati 1.130 chilometri quadrati di terreno agricolo, che sebbene prosciugati nel tempo relativamente breve di sei mesi, rimasero sterili per molto più tempo a causa dei consistenti depositi sabbiosi. Andarono persi oltre 16.000 capi di bestiame e due milioni di quintali di derrate. Secondo quanto riportato da Botta, i danni causati dell’alluvione del Polesine del 1951 furono stimati (ex-post) in 400 miliardi di Lire, corrispondenti a più di 6,5 miliardi di Euro di oggi. Immediatamente dopo l’evento, lo Stato stanziò 35 miliardi di Lire (quasi 600 milioni di Euro) per gli interventi urgenti. A meno di un anno dall’accaduto, l’ingegner Tortarolo, presidente del Magistrato delle Acque, dichiarò che “il problema di fondo poteva dirsi ormai risolto” e che “alla completa ricostruzione del Polesine” mancava “la soluzione di pochi marginali problemi”. Una dichiarazione a dir poco ottimistica in quanto fra il 1952 e il 1981 (30 anni) lo Stato ha complessivamente erogato 1.868 miliardi di Lire (più di 30,5 miliardi di Euro) attraverso undici diverse Leggi nazionali.

giovedì 13 novembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 13 novembre.

Il 13 novembre 1960 desta grandissimo scalpore in USA il matrimonio interrazziale tra Sammy Davis Jr e May Britt.

May Britt Wilken ha 25 anni, è svedese di Stoccolma e ha iniziato la carriera in Italia, grazie a Carlo Ponti. Ha recitato anche a Hollywood, pure con due grandissimi: Marlon Brando e Montgomery Clift (l'anti James Dean) in "I giovani leoni". Si ritirerà dalla carriera proprio per il matrimonio.

Sammy Davis Jr ha 33 anni ed è nato ad Harlem, ma è di origini portoricane: cantante, ballerino, batterista e soprattutto membro del clan artistico forse più famoso della storia, i Rat Pack composto da Frank Sinatra, Dean Martin, Peter Lawford, Joey Bishop.

Non risultano fino a ora matrimoni interrazziali, almeno da prima pagina, anche perché negli USA sono vietati in 31 dei loro 50 stati: ci saranno quindi conseguenze, ma credo che loro lo sappiano bene. Sono forse le star ad aprire la strada al cambiamento, più di altri riescono nella rottura degli schemi, un po' perché si finisce per perdonare loro tutto o quasi o, almeno, è più difficile combatterli. I due non eviteranno minacce e si dice pure che Frank Sinatra, seppur amico e testimone, non sarà troppo entusiasta della cosa. Sinatra è il "capo" dei Rat Pack ed è amico dei Kennedy e in particolare di John Fitzgerald, che è in corsa per la Casa Bianca. JKF, l'anno prossimo sarà, seppur brevemente e con un'interruzione traumatica, il primo Presidente cattolico della storia statunitense e artefice di un rilevante appoggio ai diritti degli afroamericani.

Sammy Davis Jr deve avere un debole per le bionde: ma se questa volta la conclusione è felice, la relazione con Kim Novak, una delle attrici in ascesa e destinata a diventare un mito del cinema, si era interrotta bruscamente. In proposito attorno a Sammy Davis Jr vi sono due storie interessanti e che finiscono con il legarsi: la conversione all'ebraismo e il motivo per il quale ha un occhio di vetro. L'approdo alla religione ebraica sarebbe a seguito di un incidente stradale nel quale sarebbe uscito miracolato, seppur con la perdita dell'occhio sinistro. A salvarlo, dice Sammy, un portafortuna dimenticato al collo e regalatogli da un amico ebreo. Fin qui la versione ufficiale.

I maligni, invece, dicono che quell'occhio di vetro, con l'incidente tra Los Angeles e Las Vegas non c'entri nulla. Sarebbe invece dovuto a un intervento tutt'altro che gentile da parte di due scagnozzi ingaggiati dalla casa cinematografica di Kim Novak e che non gradiva la relazione. Questa è la versione che qui definirebbero dei rumors. 

Un altro pettegolezzo, che uscirà molti anni dopo sarà quello che Sammy Davis Jr, oltre ad essere un conquistatore di belle donne, sarebbe stato bisessuale.

Tornando al 13 novembre, entrambi sono al secondo matrimonio. Non sanno ancora che l'anno prossimo nascerà Tracey Hillivi, mentre nel 1962 adotteranno Mark e, infine, Jeff nel 1965. Il loro matrimonio non facile si concluderà nel 1968 e a May Britt verranno affidati i tre figli.

Storicamente in questo decennio anche cinema e Tv romperanno con il tabù delle coppie miste: quanto sarà storico nel 1967 "Indovina chi viene a cena" con Katharine Hepburn, Spencer Tracy, Sidney Poitier e Katharine Houghton, quando una figlia bianca presenta un fidanzato nero a un padre apparentemente di idee liberal. E il 22 novembre dell'anno dopo sarà il capitano Kirk di Star Trek nell'episodio "Umiliati per forza maggiore" a baciare il Tenente Uhura, l'addetto alle comunicazioni che arriva dall'Africa.

E mentre si sta rompendo il bicchiere, come prevede il rito ebraico, si sta compiendo un altro passo verso i diritti civili.

Sammy Davis Jr morirà nel 1990 per un tumore alla gola, a dimostrazione di quanto il destino sia beffardo nel colpire proprio nell'arte chi ha saputo regalare emozioni al mondo dello spettacolo.

May Britt dopo il divorzio si è dedicata principalmente alla pittura.

mercoledì 12 novembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 12 novembre.

Il 12 novembre 1918 l'Austria diventa una Repubblica.

A.E.I.O.U.: le 5 vocali sono le iniziali delle parole latine che formano un famoso motto austriaco: “Austriae Est Imperare Orbi Universo”, cioè “è destino dell’Austria comandare al mondo intero”.

Alcune tracce di capanne costruite su  palafitte, scoperte nei laghi alpini, dimostrano che la regione austriaca era abitata fin dall’età della pietra. I villaggi sorgevano soprattutto vicino ai laghi ed alle miniere di sale, fonti di ricchezza e di commerci.

Attratti da quelle risorse naturali, molti popoli invasero la regione austriaca: dapprima i Celti, nel IV secolo avanti Cristo, poi i Romani, nel 113 avanti Cristo, che vi crearono fiorenti colonie, quali Vindobona (oggi  Vienna) e Juvavum (oggi Salisburgo). Nell’anno 15 dopo Cristo il territorio fu annesso a Roma.

Nel IV secolo dopo Cristo i territori del bacino danubiano subirono l’invasione di popolazioni tedesche, provenienti da est e da nord: Unni, Vandali, Goti e Slavi. Essi annientarono la civiltà latina ed imposero la loro dominazione barbarica.

Successivamente, all’arrivo di Carlo Magno, il territorio entrò a far parte del Regno Franco.  Fu chiamato “Ostmark”, cioè “marca”, (regione di confine) orientale dell’impero, da cui derivò la parola “Osterreich”, nome germanico dell’Austria (in tedesco: Regno di Oriente).

Altre lotte per il predominio portarono nel paese gli Ungheresi, sconfitti a loro volta dall’imperatore Ottone I il Grande, re di Germania. Infine, quest’ultimo donò la “marca” al conte Leopoldo di Badenberg, nel 976, la cui famiglia governò il paese per circa tre secoli, creando uno stato indipendente. Il dominio, poi, si allargò ad est, fino al Danubio ed all’Ungheria: dopo poco più di un secolo l’estensione del territorio era raddoppiata.

Nel 1246, con la morte di Federico il Battagliero, si estinse la dinastìa dei Badenberg. Ottocaro II, re di Boemia, ne approfittò per impadronirsi dell’Austria, della Stiria e della Carinzia. Ma il suo dominio durò poco:  nel 1273 venne eletto imperatore di Germania Rodolfo d’Asburgo, che sconfisse Ottocaro II e si impossessò del territorio e si stabilì a Vienna. Da quel momento e fino al 1918 la Casa di Asburgo fu a capo dell’Austria, con i due rami di Asburgo e Asburgo-Lorena.

Nel 1382, prendendo Trieste sotto la sua protezione, l’Austria si assicurò uno sbocco al mare, indispensabile per i suoi commerci.

Con Massimiliano I, che regnò dal 1493 al 1519, l’Austria entrò in possesso della Borgogna e dei Paesi Bassi portati in dote dalla moglie Maria di Borgogna, figlia di Carlo il Temerario.

Per assicurare altri domini alla casa d’Austria, Massimiliano I combinò i matrimoni dei suoi discendenti: il figlio Filippo il Bello sposò Giovanna la Pazza, figlia del re di Spagna, che ereditò nel 1500 i troni di Castiglia e di Aragona. Due nipoti, inoltre, sposarono i figli dei re di Boemia e di  Ungheria.

Alla sua morte, nel  1519, fu eletto imperatore Carlo V, figlio di Filippo il Bello e di Giovanna la Pazza, che era già re di Spagna. Egli divise l’impero ed affidò il governo dell’Austria al fratello Ferdinando I, che nel 1526 ereditò anche i regni di Boemia e di Ungheria. Tutta la regione carpato-danubiana era così riunita sotto un solo governo, che comprendeva popolazioni diverse fra loro; austriaci, boemi, ungheresi, slavi. Una fede comune li riuniva: la religione cattolica, particolarmente minacciata in quel periodo dai musulmani e dalla Riforma.

La necessità di difenderla avvicinò tutti questi popoli e contribuì a legarli alla casa d’Austria, che divenne così il baluardo del Cattolicesimo. Fu in Austria che si  sviluppò la Controriforma; a Trento, allora città austriaca, si tenne il famoso Concilio e si diffuse la predicazione dei Gesuiti.

Altre vicende minacciarono l’Austria: nel 1683 fu attaccata dai Turchi, ma poté respingerli con l’aiuto del re di Polonia.  La morte del re Carlo II di Spagna, ultimo Asburgo del ramo spagnolo, portò ad una lunga guerra di successione con la Francia. L’Austria perse la Spagna, ricevendo in cambio Napoli, Milano, la Sardegna, che scambiò poi con la Sicilia. Più tardi, con la guerra di successione polacca, perse anche Napoli e la Sicilia, ottenendo però il Ducato di Parma e Piacenza ed il Granducato di Toscana.

Nel 1740 salì al trono Maria Teresa, del ramo Asburgo-Lorena. Ella fu una grande imperatrice; cercò, fra l’altro, di migliorare i rapporti con la Francia, dando in sposa la figlia Maria Antonietta al Delfino di Francia. Sotto il suo governo lo Stato assunse un nuovo sviluppo. Attraverso i porti di Fiume e di Trieste aumentarono gli scambi commerciali; fece modificare le leggi in favore dei più poveri e promosse l’istruzione fra il popolo.

Verso la fine del XVIII secolo molti popoli soggetti all’Austria cominciarono a rivendicare le loro libertà: il primo di questi popoli ad ottenere l’indipendenza fu il popolo belga.

Dopo la caduta di Napoleone fu indetto il Congresso di Vienna nel 1815. Il Congresso ebbe il compito di ristabilire l’equilibrio rivoluzionato dalle guerre napoleoniche: all’Austria fu affidato il compito di guidare l’Europa verso la restaurazione.

Ma ormai tutti i popoli aspiravano all’indipendenza; a Vienna, a Praga, a Venezia, a Milano, a Budapest si ebbero moti rivoluzionari. L’Austria si avviava a restringere i suoi confini. Con le guerre di indipendenza italiane perse la Lombardia ed il Veneto; nel 1867 fu costretta a riconoscere l’indipendenza dell’Ungheria.

Gravi disgrazie familiari indebolirono il regno di Francesco Giuseppe: il suicidio del figlio Rodolfo, la fucilazione in Messico del fratello Massimiliano, l’uccisione della moglie Elisabetta ed infine l’assassinio del nipote, erede al trono, Francesco Ferdinando, avvenuto a Sarajevo (Bosnia) nel 1914, ad opera di due studenti serbi. Per vendicarlo Francesco Giuseppe attaccò la Serbia: altre nazioni europee intervennero e quello fu l’inizio della prima guerra mondiale.

Nel 1916 Francesco Giuseppe morì. Il suo successore Carlo I tentò invano di promettere l’autonomia ai popoli dell’impero: l’Austria fu sconfitta ed il suo impero fu distrutto.

Il 12 novembre 1918 fu proclamata la Repubblica Austriaca. L’impero che nel 1914 si estendeva per 670.000 Kmq. e contava 51 milioni di  abitanti, era ridotto a 84.000 Kmq. e 6 milioni e mezzo di abitanti. La fame, la miseria, lasciate dalla guerra, opprimevano il paese che faticosamente iniziò la sua ricostruzione, aiutato anche da un prestito concesso dalle altre nazioni europee.

Ma l’Austria dovette subire una nuova catastrofe: nel 1938 i nazisti la invasero e la ridussero a semplice provincia del Reich, trascinandola nella nuova gravissima sconfitta della seconda guerra mondiale.

Il 15 maggio 1945 venne firmata la pace fra l’Austria e le 4 grandi potenze, Inghilterra, Francia, Stati Uniti ed Unione Sovietica. Dopo un periodo di occupazione alleata, la repubblica austriaca poté ritornare indipendente.

Il 25 novembre 1945 ci furono le elezioni per il Parlamento. Le vinse il Partito Popolare col 51% dei voti ma si formò un governo di coalizione  presieduto dal cancelliere popolare Leopoldo Figl, mentre Presidente della Repubblica era il socialista Karl Renner. Sebbene governo indipendente, quello austriaco non poté per circa un anno deliberare senza il placet del Consiglio Alleato. Questo, nel giugno 1946, dietro proposta degli Stati Uniti, autolimitò le sue prerogative cosicché il governo poté decidere per proprio conto la linea di condotta da tenere e siccome nel frattempo anche alcune frontiere con gli altri paesi erano state abbattute, l’Austria poté ripristinare il libero commercio ed il movimento dei viaggiatori. Rimasero in piedi solo le frontiere fra la zona russa e quella degli altri alleati.

I sempre crescenti contrasti fra Unione Sovietica ed Occidente impedirono di ratificare una volta per tutte il trattato di pace. Solo un punto trovò la definitiva soluzione: quello con l’Italia a proposito dell’Alto Adige, che si costituì Regione Autonoma e con tutte le libertà linguistiche, culturali, religiose e commerciali.

Rimasero invece insolute le questioni relative alle rivendicazioni della Jugoslavia sulla Carinzia e la Stiria Meridionale, nonché quelle russe sulla zona comprendente i pozzi di petrolio di Zisterdorf, che tuttora fanno dell’Austria il terzo produttore europeo, dopo Polonia e Romania.

Il 31 dicembre 1950 Renner morì e furono necessarie nuove elezioni il 27 maggio 1951 per nominare il nuovo presidente, che fu il socialista Theodor Korner. Intanto, però, fra i due principali partiti che formavano il governo di coalizione, e cioè quello cattolico della Volkspartei e quello socialista, erano sorti forti contrasti sul modo di condurre la politica, specialmente quella economica, così fu necessario anticipare le elezioni generali, previste per il novembre 1953, a febbraio.

Ma i due partiti ottennero lo stesso numero di seggi, con la differenza di uno fra loro, e quindi si dovette formare un governo uguale a quello precedente presieduto dal cattolico Julius Raab. Ed intanto, perdurando gli attriti fra i due blocchi, quello occidentale e quello sovietico, il trattato di pace per la restituzione della totale sovranità dell’Austria non ebbe mai conclusione. Cosicchè sul territorio austriaco rimanevano ancora le truppe d’occupazione. Anzi, con la Conferenza dei Ministri degli Esteri, tenuta a Berlino nel gennaio-febbraio 1954, il ministro sovietico Molotov propose di rinviare ancora il ritiro delle stesse. Si giunse, quindi, all’8 febbraio 1955 allorchè Molotov, recedendo dalle sue rigide precedenti posizioni, dichiarò che per la firma del trattato sarebbe bastata una firma con l’impegno solenne che l’Austria non avrebbe mai più operato ricongiungimenti con la Germania e non avrebbe mai concesso la formazione di basi militari sul suo territorio, a favore di qualsiasi altra nazione che glielo avesse chiesto.

Raab fornì ampie assicurazioni; fece persino un viaggio a Mosca per ribadire la ferma intenzione dell’Austria di mantenere tutti gli accordi e nell’ottobre dello stesso anno si completò lo sgombero delle forze d’occupazione. Subito si riunì una Assemblea Nazionale e la prima deliberazione fu quella di dichiarare per il paese la neutralità permanente.

Poi si cercò di risolvere tutti i problemi aperti con i  paesi vicini, pur mantenendo buone relazioni con ambedue i blocchi.

Le divergenze fra i due partiti di governo rimasero sempre forti per cui si dovette ricorrere ad elezioni anticipate per altre due volte. La prima nel maggio 1956 e la seconda nel maggio del 1959. Nessuno dei due partiti ebbe la maggioranza assoluta e Raab dovette sempre presiedere governi di coalizione mentre alla Presidenza della Repubblica, alla morte di Korner, avvenuta nel gennaio 1957, salì un altro socialista: A. Sharf.

Per le elezioni del 1962 si verificò la stessa cosa tanto che il governo si chiamò di “coalizione permanente”. Questa non dette alcun incentivo allo sviluppo ed al progresso del paese che anzi soffrì di un prolungato immobilismo finchè nelle elezioni del 1966 trovò la maggioranza la Volkspartei.

La possibilità di leadership di un partito, o di un altro, aprì finalmente la via alla prospettiva di alternanza di potere. E questo si verificò fino al 4 ottobre del 1975 quando le elezioni tenutesi in quel giorno diedero la maggioranza assoluta ai socialisti, governati da Kreisky.

In politica estera l’Austria tornò a discutere con l’Italia per l’Alto Adige fino alla firma di un trattato ad opera dei due ministri Moro-Waldheim. E con la Jugoslavia per la minoranza slovena in Carinzia.

Nonostante i  limiti imposti dal lento processo di integrazione europea, anche a causa della propria neutralità, l’Austria chiese la piena adesione alla Comunità Europea, voluta fortemente dagli imprenditori, ma altrettanto fortemente avversata sia dai socialisti che dall’Unione Sovietica.

Ma finalmente nel 1972 si arrivò ad un accordo di libero scambio. Nel maggio 1979 si ebbero nuove elezioni  ma la maggioranza del governo socialista fu riaffermata. Quelle del 1983 registrarono, però, una variazione di  tendenza. I socialisti persero la maggioranza assoluta, pur rimanendo il partito principale. Avevano incrementato i loro voti altre formazioni politiche.

In questo periodo si registrò una congiuntura internazionale ed anche l’Austria naturalmente ne sentì le conseguenze. La crescita del paese si fermò e la disoccupazione aumentò, anche rimanendo a bassi livelli. Kreisky rassegnò le dimissioni ed il paese conobbe un periodo di instabilità.

Poi sull’Austria si appuntò l’attenzione di tutto il  mondo quando nel giugno del 1986 fu eletto presidente K. Waldheim. Egli fu accusato di essere stato coinvolto, come ufficiale dell’esercito tedesco, in crimini contro l’umanità, perpetrati in combutta con i nazisti. I rapporti con gli Stati Uniti e con Israele conobbero una grande tensione e l’immagine dell’Austria,  di tutta la nazione, subì danni gravissimi. Sinowatz, il capo del governo, si dimise. Al suo posto fu eletto il socialista F. Vranitzky. Sopraggiunse in pochi mesi una crisi; si effettuò in settembre un “Congresso straordinario” in cui prevalse la destra nazionalista,  alla cui guida pervenne J. Haider.

Le nuove elezioni anticipate del novembre 1986 diminuirono i voti ai socialisti ed ai popolari ed incrementarono quelli nazionalisti e quelli dei verdi. E nel gennaio del 1987 si tornò ad un governo di coalizione. Vranitzky basò la sua politica sul raggiungimento della diminuzione del debito pubblico, privatizzando parzialmente le aziende, e sulla situazione ambientale e sociale.

Nel 1989 l’Austria inoltrò alla Comunità Europea una richiesta di ammissione, pronta a ridefinire i limiti della sua neutralità in politica estera.

Nell’ottobre del 1990 le elezioni riportarono al governo di coalizione. Per l’ingresso del paese nella Comunità Europea fu istituito nel 1994 un referendum, vinto dal partito del “si”. Ma le conseguenze che derivarono da questa entrata nella Comunità Europea non furono motivo di soddisfazione per gli austriaci che si videro costretti ai livelli degli altri paesi europei, alla privatizzazione in tutti i settori e, comunque, ad una politica di sacrifici e di austerità.

Haider invece perseguì il suo programma annunciato nella campagna elettorale: ovverosia principalmente lotta alla corruzione e restrizioni all’immigrazione.

Le elezioni dell’ottobre 1996  assegnarono ad Haider il miglior risultato mai conseguito fino ad allora. Nel gennaio 1997 Vranitzky si dimise e la carica di cancelliere-presidente fu assunta dall’ex Ministro delle Finanze V. Klima, fino alle nuove elezioni dell’aprile 1998 che, invece, la assegnarono a Klestil.

Nel corso degli anni 90, comunque, sotto la direzione di Haider in Austria c’era stata una ampia recrudescenza della xenofobia a sfondo nazista. Molti furono gli episodi terroristici compiuti specialmente verso gli immigrati e gli zingari. Le elezioni dell’ottobre del 1999 confermarono la stragrande maggioranza al partito di Haider.

E sempre per ciò che concerneva la questione con l’Italia per l’Alto Adige, nel 1992 si era definitivamente stabilita la piena autonomia della minoranza di lingua tedesca all’interno, però, del sovrano Stato Italiano.

 

martedì 11 novembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è l'11 novembre.

L'11 novembre 1887 vengono impiccati quelli che in seguito verranno chiamati I martiri di Chicago.

Si chiamavano August Spies, Albert Parsons, Adolph Fischer, George Engel, Louis Lingg, Michael Schwab, Samuel Fielden e Oscar Neebe. Furono tedeschi e americani, socialisti e anarchici. Ma più di tutto lavoratori e uomini liberi, e la storia li ricorda come "martiri di Chicago". Era a Haymarket Square, il 4 maggio 1886. Lì, in pieno centro di Chicago, si stava svolgendo un presidio di lavoratori in segno di protesta contro le violenze della polizia, che erano seguite agli scioperi dei giorni precedenti. Quel 4 maggio era sabato; e cadeva nel tempo in cui il sabato era ancora un giorno lavorativo come un altro, in fabbrica si restava anche quattordici ore e il diritto sindacale era parola di rivoluzionari.

Il raduno aveva avuto inizio nel pomeriggio ed era filato tutto liscio quando, finito il discorso di S.Fielden, una delegazione della polizia si avvicinò al palco e decise di disperdere la folla. A quel punto il finimondo: un ordigno esplose a pochi passi dalla prima fila e immediatamente la polizia iniziò a sparare. Sul terreno rimasero decine di morti e di feriti. Tempi duri erano quelli per i lavoratori statunitensi. Erano gli anni del cosiddetto "crony capitalism", dello sfruttamento monopolistico e delle connivenze imprenditoriali col sistema giuridico. Ma ancor più duri erano i tempi per i socialisti e gli anarchici: colpevoli di denunciare i soprusi, rei di rivendicare un'esistenza migliore e responsabili di scioperare.

Meschina la penna di quei giornali che li dipingevano come sovversivi, vile la mano di quella giustizia che li perseguitava come criminali. Subito dopo i fatti di Haymarket Square, le autorità locali arrestarono August Spies, Albert Parsons, Adolph Fischer, George Engel, Louis Lingg, Michael Schwab, Samuel Fielden e Oscar Neebe, accusati di aver organizzato l'attentato. Nonostante l'assenza di prove, vennero condannati e il governatore dell'Illinois Richard James Oglesby aprì loro le porte del patibolo. Solo uno di loro, Oscar Neebe, venne condannato a 15 anni di carcere, mentre la pena di Michael Schwab e Samuel Fielden fu tramutata in ergastolo. Agli altri spettava l'impiccagione. Fischiavano le corde della forca e si scaldavano le mani del boia il 10 novembre 1887, la notte prima dell'esecuzione. Di quella notte e di quelle ore di pena e di dignità incalza ancora la cronaca redatta da José Martì, nei suoi anni nordamericani. Si sa che Louis Lingg, il giovane falegname, si uccise nella sua cella con una capsula di dinamite nascosta in un sigaro. Si sa che Albert Parsons, l'invincibile oratore, imprecò contro l'ingiusto mondo che stava per condannarlo a morte e bevve, alla salute della loro lotta, tre bicchieri di vino di Porto.

Si sa che August Spies, come ai tempi in cui era direttore dell' "Arbeiter-Zeitung", scrisse lunghe lettere di denuncia e riempì l'aria con dense boccate di fumo. Si sa infine che Albert Fischer ruppe l'angoscioso silenzio della cella, intonando col volto verso il cielo i versi de "la Marsigliese". Furono tedeschi e americani, socialisti e anarchici, lavoratori e uomini liberi. Divennero i "martiri di Chicago". Pochi anni dopo, nell'estate del 1889, durante il congresso della Seconda Internazionale, in memoria degli scioperi per il raggiungimento delle otto ore che anticiparono i fatti di Haymarket Square, si decise di proclamare il 1° maggio giornata internazionale dei lavoratori. Poco prima di morire, l'11 novembre 1887, sulla forca August Spies gridò: "Verrà il giorno in cui il nostro silenzio sarà più potente delle voci che strangolate oggi".

Da allora, ogni primo maggio, quando le macchine delle fabbriche si fermano, le ciminiere smettono di fumare e le braccia riposano, la voce di Spies pare riecheggiare le medesime parole. Sussurrando nelle orecchie dei profittatori di ogni tempo e augurando buon primo maggio a quelli di ieri, a quelli di adesso e a quelli che scriveranno altre storie di libertà.

lunedì 10 novembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 10 novembre.

Il 10 novembre 1775 viene creato negli Stati Uniti un corpo militare che divenne successivamente il Corpo dei Marines.

Il Corpo dei Marines degli Stati Uniti  – Usmc – è una delle più famose forze armate del mondo. La sua fondazione risale al periodo nella guerra d’Indipendenza americana quando, nel 1775, il Congresso decise di formare un corpo di fanti di Marina (sul modello dei Royal Marines britannici) con il compito esclusivo di difendere le navi americane dagli attacchi di altre imbarcazioni da guerra – soprattutto inglesi e corsare -, sparando con moschetti e cannoncini sull’equipaggio nemico durante l’abbordaggio, e quello di compiere le prime operazioni “anfibie” della storia: come il celebre raid di Fort Nassau del 1776.

Nato come corpo autonomo, anche se strettamente dipendente all’Us Navy, nella sua evoluzione è divenuto uno dei punti di forza dell’apparato militare americano, specializzato nel compiere operazioni anfibie, quali sbarchi e incursioni rapide, e nel prendere parte ad ogni tipo di missione all’estero in veste di “expeditionary force”. Per le sue peculiarità e il suo speciale addestramento che ne garantisce l’efficienza, spesso è tra le prime unità ad essere mobilitate nei conflitti “convenzionali”: mettendo gli “scarponi a terra” a Grenada, in Iraq e Afghanistan.

Nel motto “Semper fidelis“, i marines si sono distinti in particolare durante la Seconda guerra mondiale per il loro impiego sul fronte del Pacifico (impegno che ne ha consacrato il successo), ma condussero le prime operazioni nell’America continentale, sbarcando alle Bahamas, e compiendo importanti incursioni che permisero l’annessione dello stato del Texas e della California. Il loro impiego successivo fu quello di combattere la pirateria, e proteggere le imbarcazione che battevano bandiera americana nell’Atlantico e nel Mediterraneo, come già avvenne nelle Guerre Barbaresche del XVI secolo. Allora venivano soprannominati dai marinai “Leathernecks”, per via di un particolare colletto di cuoio che faceva parte della loro divisa.

Oggi i marines, che hanno dovuto difendere più volte il loro status di corpo autonomo con la sua storia secolare, possono contare su oltre 200mila uomini (compresi 30mila riservisti). Le dotazioni di armi e mezzi dei marines sono le stesse dell’esercito americano; con armamenti leggeri e pesanti, mezzi corazzati/utility di varie tipologie; e su un proprio corpo aereo, imbarcato sulle Lhd o operante dalle basi di terra – lo United States Marine Corps Aviation  – che comprende squadroni di elicotteri da combattimento AH-1 Super Cobra, convertiplani per il trasporto truppe Mv-22 Osprey, ma anche cacciabombardieri F/A 18 Hornet, AV-8 Harrier e una flotta di caccia di ultima generazione F-35: primi ad aver ricevuto il battesimo del fuoco in Afghanistan.

Durante il primo conflitto mondiale, i marines divennero noti tra gli avversari tedeschi come “Devil Dogs”, per la loro tenacia nel combattimento all’arma bianca che si consumò nel bosco di Balleau; ma forse la vittoria più emblematica del corpo rimane quella ottenuta sulla piccola isola vulcanica di Iwo Jima, nella Seconda guerra mondiale, dove i cosiddetti “jarhed” stanarono i giapponesi sapientemente trincerati sul monte Suribachi, in una battaglia sanguinosa che permise di installare le decisive basi che lanciarono i bombardieri B-29 sul Giappone.

Successivamente, il corpo dei marines prese parte alla guerra di Corea, e quella del Vietnam, confermando il proprio status di forza terrestre altamente efficace e addestrata: la prima ed essere inviata in battaglia dopo le unità dell’élite della marina e dell’esercito – Navy Seal, Berretti verdi e Rangers. Recentemente l’Usmc ha preso parte alle operazioni Desert Storm (Iraq 1991), Enduring Freedom (Afghanistan 2001), e al conflitto dell’Iraq iniziato nel 2003, con un particolare coinvolgimento nelle battaglie per la liberazione di Fallujah.

L’Usmc,  nato durante il primo conflitto mondiale con il “First Marine Air Squadron”, venne sensibilmente ampliato durante il Secondo conflitto (145 squadriglie), per “fornire un supporto aereo diretto” adeguato alle truppe impegnate negli sbarchi nel teatro del Pacifico. I piloti dei marines venivano addestrati appositamente per fornire il supporto aereo ravvicinato e offrire una difesa dalla caccia nemica. Spesso a bordo di cacciabombardieri F4U Corsair, decollavano dalla basi strategiche avanzate per fornire supporto tattico nelle decisive battaglie di Guadalcanal, Bougainville e Okinawa. Tra questi va annoverato uno dei più famosi assi da caccia americani di tutti i tempi: Pappy Boyington. Tuttora gli elicotteri d’attacco e i cacciabombardieri imbarcati dell’Usmc intervengono direttamente nel supporto aereo delle operazioni condotte a terra dal corpo. Alla componente aerea dei marine è affidato la sicurezza del presidente degli Stati Uniti durante gli spostamenti aerei di corto e medio raggio a bordo del “Marine one“.

Lʼaddestramento dei marines ha una durata di tre mesi circa e si svolge in gran parte presso il Marine Corps Recruit Depot di Parris Island. Successivamente le reclute vengono inquadrate dai celebri “Drill instructor” (sergenti istruttori, ndr). Diviso in tre fasi, durante le quali la recluta affronta prove fisiche, percorsi e simulazione di guerra, corsi teorici sulla strategia militare, l’aspirante marine impara ad usare il celebre il fucile M14 e l’M16, a sbarcare su una spiaggia e stabilire una testa di ponte, a compiere missioni tattiche e di sopravvivenza. Obiettivo focale nell’addestramento del marine, è quello di renderlo un buon tiratore da grandi distanze. Al termine del corso, se concluso con successo, i candidati vengo insigniti del distintivo del corpo dei marines degli Stati Uniti: l’aquila che sormonta il globo e l’àncora. Il resto del loro addestramento, e l’avvicinamento alle diverse specialità, viene effettuato presso Camp Lejenue. Lì si deciderà se un marine entrerà a far dell’equipaggio di un tank M1, diverrà un sabotatore o un geniere o un tiratore scelto. Al corpo di sicurezza dei marines è affidata la sicurezza di tutte le ambasciate americane all’estero, dove potrete facilmente riconoscere la celebre divisa formale del corpo: la “blue dress”.

La statua che troneggia sul cimitero di Arlington – rappresentante un drappello di marine dalle divise tropicali logore, intenti a issare la “Stars and stripes” sulla cima di quel monte Suribachi, crivellato dall’artiglieria e ancora pieno di combattenti devoti al Sol Levante, come lo scenografico plotone “silent drill”, che si esibisce nella perfetta esecuzione di marcia e figure – sono divenuti simboli indelebili dello spirito di corpo dell’Usmc,  destinato a rimanere per sempre nell’immaginario del mondo intero.

domenica 9 novembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


Buongiorno, oggi è il 9 novembre.

Il 9 novembre 1989 viene abbattuto il Muro di Berlino.

«Nessuno ha intenzione di costruire un muro». Queste le proverbiali "ultime parole famose" pronunciate da Walter Ulbricht, Presidente del consiglio di Stato della Repubblica Democratica Tedesca (DDR), durante una conferenza stampa del 15 giugno 1961. Eppure, appena due mesi dopo, nella notte tra il 12 e il 13 agosto, il regime comunista iniziò la costruzione di una barriera che per i successivi 28 anni avrebbe separato fisicamente e ideologicamente la città di Berlino. Così come già da tempo la lunga linea di confine nota come "cortina di ferro" separava i paesi sotto influenza sovietica da quelli dell'orbita occidentale.

Nonostante la divisione del territorio tedesco in due Stati (Germania Est e Germania Ovest, con capitali Berlino e Bonn) risalisse al 1949, il Muro fu costruito solo 12 anni dopo. La ragione principale fu quella di bloccare l'esodo di cittadini da Berlino verso i territori occidentali (la città, divisa in quattro settori di occupazione, ricadeva nella Germania Est). Tale fenomeno aveva già visto coinvolti oltre due milioni e mezzo di individui, soprattutto giovani con livello di istruzione medio-alto, intellettuali e lavoratori specializzati, tutti in cerca di condizioni di vita più favorevoli. Una vera fuga di cervelli e di manodopera oltremodo deleteria per la parte orientale, privata gradualmente della sua futura classe dirigente, formata oltretutto a proprie spese. È dunque per tamponare tale emorragia che si decise di "bloccare" i cittadini della zona Est.

Fu sufficiente una sola notte per dividere la città, e così, la mattina del 13 agosto 1961 i berlinesi si svegliarono con centinaia di strade sbarrate e molte linee del trasporto pubblico interrotte. All'inizio fu solo una recinzione di filo spinato, ma nell'arco di pochi mesi il progetto si concretizzò in una vera cortina di cemento lunga 155 chilometri e alta in media oltre tre metri. Non si trattava peraltro di un muro che tagliava la città in due, ma di un sistema divisorio che accerchiava solo Berlino Ovest, facendone di fatto un'enclave della Germania Est.

Oltre al Muro propriamente detto, erano presenti altri recinti fortificati, tratti di filo spinato, fossati, campi minati, bunker e centinaia di torri di guardia. Il tutto, intervallato da posti di blocco come il famigerato "Checkpoint Charlie" (che rimarrà formalmente in esercizio fino al 30 giugno 1990). La Germania Est legittimò la neonata barriera definendola un "muro di protezione antifascista" (Antifaschistischer Schutzwall), ma dall'altra parte della barricata passò alla storia come "muro della vergogna", termine coniato dall'allora sindaco di Berlino Ovest, Willy Brandt.

Nel 1962, nel territorio della Germania orientale, fu eretto un secondo muro parallelo al primo, creando in tal modo un'area denominata "striscia della morte": i vopos, ossia le guardie di frontiera, avevano infatti il permesso di sparare a vista a chiunque tentasse di oltrepassare il confine. Si stima che furono circa 100.000 coloro che tentarono nell'impresa (spesso con metodi rocamboleschi e assai ingegnosi), e almeno 138 di loro vennero uccisi.

Ma le "vittime del muro di Berlino" furono in realtà molte di più: tra il 1961 e il 1988 morirono complessivamente più di 600 persone, perché oltre ai caduti per mano dei soldati di frontiera si verificarono diversi casi di suicidio e innumerevoli incidenti mortali. Molti, per esempio, morirono annegati nel tentativo di oltrepassare i fiumi Spree e Havel, entrambi a cavallo del confine tra Est e Ovest.

La prima tappa della riunificazione andò in scena nell'agosto 1989, quando l'Ungheria eliminò le restrizioni alla frontiera con l'Austria, creando così la prima "breccia" nella cortina di ferro. Dalla metà di settembre dello stesso anno, migliaia di tedeschi orientali tentarono quindi di raggiungere l'Ovest attraverso l'Ungheria, ma vennero respinti. Di lì in poi fu un crescendo di dimostrazioni e proteste che costrinse il governo della Germania Est, nella persona di Egon Krenz, ad allentare i controlli di frontiera.

Tali disposizioni sarebbero dovute entrare in vigore a partire dal 10 novembre 1989, ma ci fu un clamoroso malinteso: alla conferenza stampa internazionale del 9 novembre 1989, il portavoce del governo di Berlino Est, Gunter Schabowski, evidentemente malinformato, annunciò in diretta che a tutti i berlinesi sarebbe stato permesso di attraversare il confine "immediatamente".

Fu allora che la popolazione si riversò contro il muro. Fu una massa impossibile da arginare. Le frontiere furono così aperte e la città si ritrovò finalmente unita. Nell'arco delle settimane successive, migliaia di berlinesi demolirono quel muro che li aveva tenuti in ostaggio per quasi trent'anni, abbattendo di fatto l'ultimo simbolo della Guerra Fredda e anticipando di un anno la riunificazione della Germania (suggellata il 3 ottobre 1990). 

sabato 8 novembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è l'8 novembre.

L'8 novembre 1939 a Monaco di Baviera, Adolf Hitler sfugge per un soffio ad un tentativo di omicidio.

Gli attentati contro Hitler furono molto più numerosi di quelli organizzati contro Benito Mussolini. Malgrado la tendenza a sminuire la resistenza tedesca, si ricordano oltre 40 eventi diretti ad interrompere la vita di Hitler. 

Tra tutti gli attentati quello maggiormente coinvolgente riguarda Johann Georg Elser, di professione falegname. Georg nacque nel Wurttemberg agli inizi del 1903. Frequentando la scuola elementare, gli insegnanti si accorsero che il bimbo era dotato nel disegno e nei lavori manuali. Il padre, commerciante di legname, si aspettava che il figlio gli succedesse nell'attività ma il ragazzo decise di perseguire autonomi interessi. Iniziò un apprendistato come operatore di tornio in una fonderia ma, dopo due anni, dovette desistere per motivi di salute. Decise di apprendere il mestiere del carpentiere, lavorando per diverso tempo come falegname d'interni. 

Dopo un breve periodo si occupò in una fabbrica di orologi a Costanza. Agli inizi degli anni trenta fece ritorno al paese d'origine per lavorare nell'impresa di famiglia. Dal 1936 lavorò in una fabbrica di montaggio, prendendo consapevolezza del programma di riarmo nazista. Elser iniziò a frequentare circoli socio-culturali. Nel tempo libero suonava la cetra ed il contrabbasso per il coro locale. Le varie esperienze lavorative lo convinsero che si dovesse aderire ad un sindacato. Nel 1926 entrò in un'organizzazione paramilitare del Partito Comunista Tedesco. Georg era un fiero oppositore del nazismo sin dai suoi esordi. Dopo il 1933 rifiutò di compiere il saluto nazista e di riunirsi ad altri per ascoltare i proclami radiofonici di Hitler. La sua iniziale opposizione era motivata dalla sensibilità verso la condizione operaia e la compressione dei salari dei lavoratori. Elser era disgustato dalla propaganda nazista e dal controllo che il regime imponeva sul sistema educativo e lavorativo. Non sopportava le limitazioni che i nazisti imponevano agli operai, soprattutto quella relativa al diritto di associarsi. Nell'autunno del 1938 l'Europa si trovò sull'orlo della guerra a causa della Crisi dei Sudeti. A placare, momentaneamente, le armi fu la Conferenza di Monaco, dove i capi di governo di Regno Unito, Francia, Germania ed Italia conclusero un accordo che portò all'annessione di vasti territori della Cecoslovacchia, la zona dei Sudeti, da parte dello stato tedesco. Occorre ricordare che nessun rappresentante della Cecoslovacchia fu invitato alle trattative. Dopo i patimenti della Grande Guerra, i tedeschi, ed Elser per primo, erano fortemente preoccupati per l'eventualità di un altro conflitto. 

L'artigiano non credeva alle parole di Hitler, soprattutto in relazione alle affermazioni di voler mantenere la pace. Nella sua mente si delineò il proposito di decapitare il nazionalsocialismo uccidendo il leader. Johann Georg Elser si recò a Monaco il giorno 8 di novembre del 1938. Il motivo del viaggio? Assistere al discorso che il regimo proponeva annualmente nell'anniversario del fallito Putsch di Monaco, ovvero il tentativo, fallito, di colpo di stato – Putsch in tedesco è l'equivalente di questo termine – organizzato ed attuato da Hitler tra il giorno 8 ed il 9 di novembre del 1923 in una birreria di Monaco di Baviera. Quel giorno Elser si convinse circa il luogo e la data del suo futuro attentato. Il luogo fu scelto poiché la rievocazione appariva accompagnata da misure di sicurezza piuttosto blande. Sul piano emotivo la concomitanza, 9 e 10 novembre, della Notte dei Cristalli con le atrocità perpetrate su inermi ebrei convinse Elser che Hitler avrebbe precipitato la Germania in una nuova disastrosa guerra. Il 1 settembre del 1939 scoppiò la Seconda guerra mondiale, evento che forniva una conferma alle previsioni dell'umile falegname. Tra il novembre del 1938 ed il settembre del 1939, Elser decise d'interrompere ogni relazione con amici e parenti ad eccezione di Johann Lumen, conosciuto nel 1938 all'interno della birreria di Monaco. 

Per riuscire nel suo intento, si fece assumere in una cava dove, poco alla volta per non destare sospetti, asportò la quantità di esplosivo necessaria a confezionare la bomba. In seguito inscenò un incidente per poter lasciare il lavoro e trasferirsi a Monaco, dove aveva ipotizzato di compiere l'attentato ad Hitler. Il luogo scelto dal falegname era la birreria dove ogni anno Hitler si ritrovava con i fedelissimi. Per molte sere, 35 notti tra ottobre e novembre del 1939, Elser si nascose nel locale prima della chiusura: quando la birreria chiudeva iniziava a lavorare; ricavò una nicchia nella colonna dove sarebbe stato allestito il palco di Adolf Hitler. Il giorno fatidico, Elser collocò nello spazio ricavato 50 kg di esplosivo con un meccanismo a tempo da lui costruito e sperimentato; calcolò che gli necessitavano 144 ore per attraversare il lago di Costanza e riparare in Svizzera, per cui il meccanismo a tempo avrebbe ruotato per quel numero di ore. All'ora esatta, le 21 e 20, la bomba esplose, facendo cadere il tetto sul palco. I morti furono 8 ed i feriti 62. Ma Hitler, ansioso di rientrare a Berlino per seguire le operazioni belliche in Francia o – secondo altre fonti – a causa del maltempo che gli impediva di tornare in aereo nella capitale tedesca, aveva anticipato il discorso ed era uscito dalla birreria 13 minuti prima dell'esplosione – secondo altre fonti i minuti furono 20. A causa delle coincidenze il tentativo di mutare il corso della storia fallì. Alle otto vittime dell'attentato furono concessi i funerali di stato. Elser fu arrestato da due doganieri mentre cercava di oltrepassare il confine con la Svizzera. Dopo una veloce perquisizione, i militari trovarono una cartolina della birreria di Monaco. Elser fu immediatamente trasferito a Monaco di Baviera dove fu interrogato dalla Gestapo. 

Vi erano diversi elementi, oltre la cartolina, che lo incastravano: le escoriazioni sulle ginocchia ed il fatto che alcune cameriere lo riconobbero come cliente abituale della birreria. Dopo un brutale pestaggio, Elser confessò di essere l'autore dell'attentato. Fu tradotto al quartier generale della Gestapo, dove il falegname fu torturato senza pietà. Himmler, capo delle SS, non si capacitava che un artigiano con la licenza elementare avesse agito da solo. Elser fu imprigionato nel campo di concentramento di Sachsenhausen e, successivamente, in quello di Dachau. L'artigiano fu sottoposto ad un regime di detenzione speciale, fatto che creò maldicenze tra i compagni di sventura, tanto che dopo la guerra uno degli internati, Martin Niemoller, sostenne che Elser facesse parte delle SS e che tutta la questione relativa all'attentato fosse una messinscena dei nazisti per propagandare la leggenda della Provvidenza che vegliava su Hitler. Nell'aprile del 1945, quando le truppe alleate si aggiravano in prossimità di Dachau, Hitler decise di sbarazzarsi del prigioniero speciale e diede l'ordine al capo della Gestapo di uccidere Elser. Georg venne fucilato il 9 aprile del 1945 a Dachau, poche settimane prima della fine della guerra.