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mercoledì 18 giugno 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 18 giugno.

Il 18 giugno 1812 gli Stati Uniti dichiarano guerra alla Gran Bretagna.

La guerra tra Stati Uniti e Gran Bretagna combattuta dal 18 giugno 1812 al 17 febbraio 1815 è particolare, con una gestione mal condotta, una durata di tre anni contro un solo anno di previsione, la battaglia più famosa viene combattuta dopo la firma del trattato di pace; eppure questo conflitto gioca un ruolo cruciale nello stabilire l’identità dell’America, ispira l’inno nazionale e stabilisce la prima zona smilitarizzata del mondo.


All’inizio del XIX secolo l’America è un’associazione libera di Stati sparpagliati, che confinano a Ovest con una vasta zona selvaggia e a Est con l’estensione dell’Oceano; queste comunità isolate di rudi pionieri che si spingono avanti combattendo la natura e gli indiani, sono circondate da un ampio territorio inesplorato e ostile, ma anche fertile e che si presta a essere densamente popolato. Nell’arco dei 35 anni che seguiranno il Conflitto Anglo-Statunitense, le regioni che si estendono per 3.000 miglia tra l’Oceano Atlantico e l’Oceano Pacifico e tra i Grandi Laghi del Nord fino al Golfo del Messico cadranno sotto il controllo di Washington.

La guerra scoppia per i conflitti che, al di là dell’Atlantico, insanguinano il continente europeo: per affamare gli Inglesi e toglier loro ogni rifornimento, Napoleone Bonaparte impone il famoso «blocco continentale». Questo produce in America lo scontro tra i federalisti, anglofili per interessi commerciali, e i repubblicani, simpatizzanti per la Francia rivoluzionaria e bonapartista. Gli Stati Uniti mantengono un atteggiamento pacifista e doppiogiochista, vendendo a entrambe le parti in lotta i propri prodotti; così, la Corona Inglese prende ad arrogarsi il diritto di perquisire le navi mercantili statunitensi quando attraversavano le rotte commerciali, impedendo di fatto agli Americani il libero commercio con i Francesi e, cosa ancor più grave, procede all’arruolamento forzato dei marinai per combattere la «sua» guerra. Oltretutto, gli Inglesi supportano le tribù indiane che resistono all’espansionismo americano, incitandole agli attacchi al confine.

Il 1° giugno del 1812, il Presidente Americano James Madison (un uomo esile, 163 centimetri per 50 chilogrammi di peso, un intelletto fine, che ha architettato la Costituzione, ma che al dominio della scienza politica non accoppia pari abilità pratica), capendo che il conflitto è inevitabile, chiede al Congresso di dichiarare guerra, per porre fine alla continua violazione dei diritti dell’America sulla navigazione. Spingono alla guerra i repubblicani che rappresentano i nuovi Stati dell’Ovest (nel 1796 e nel 1803 sono diventati Stati il Tennessee e l’Ohio; nel 1812 la Louisiana; negli anni successivi, sotto la spinta colonizzatrice e a danno degli Indiani, entreranno a far parte della Confederazione Americana l’Indiana, il Mississippi, l’Illinois, l’Alabama): sono desiderosi di metter le mani sull’Alto Canada, e magari sul Canada tutto intero. Il 18 giugno il Congresso risponde affermativamente alla richiesta del Presidente, sia pure con una maggioranza esigua, e comunque senza un’alleanza «ufficiale» con Napoleone.

Sulla carta, gli Stati Uniti hanno una superiorità schiacciante sugli avversari: possono contare, tra esercito regolare, ranger, milizia e nativi americani alleati, su quasi 600.000 uomini, contro gli Inglesi che, tra esercito regolare, milizia e tribù indiane alleate, non arrivano a 60.000 combattenti – un rapporto di circa 10 contro 1. Ma la stragrande maggioranza delle truppe americane è formata da uomini della milizia, ovvero civili del tutto impreparati per una guerra, male armati e peggio addestrati; in realtà gli Stati Uniti non hanno neppure un vero esercito (ne mettono in campo uno di soli 5.000 uomini: quello del ben più piccolo Regno di Sardegna è superiore sotto ogni punto di vista, contando 60 divisioni contro 15 americane, ed essendo ben addestrato); sulla scena internazionale, i combattenti americani sono considerati dei sempliciotti disorganizzati e poco realisti. Non hanno neppure una conoscenza adeguata di quelle lande canadesi che sono così ansiosi di conquistare. Al contrario, l’esercito britannico dispone di soldati professionisti ben addestrati, equipaggiati con armi all’avanguardia e comandati da ufficiali capaci e con molta esperienza, oltretutto la potenza della flotta britannica non teme rivali (11 vascelli, 34 fregate e 52 navi da guerra del Regno Unito contro 8 fregate e 14 navi da guerra degli Stati Uniti).

Il conflitto, l’ultimo combattuto sul suolo canadese, si articola su tre teatri distinti: sul mare, navi da guerra e corsari dei due schieramenti attaccano le unità mercantili dell’avversario, mentre gli Inglesi impongono un blocco navale e conducono ripetute incursioni anfibie lungo la costa orientale degli Stati Uniti; al confine con il Canada, entrambi gli schieramenti si impegnano in una serie di battaglie terrestri e navali; in terzo luogo, gli Inglesi conducono una campagna anfibia lungo la costa meridionale degli Stati Uniti. È una guerra «sporca», non priva di crudeltà, come quando nei pressi di Frenchtown (22 gennaio 1813) gli Inglesi, vittoriosi sul campo di battaglia, lasciano i prigionieri americani alla completa mercé delle milizie indiane, le quali danno sfogo ai loro istinti più violenti, torturando e uccidendo gli Statunitensi sopravvissuti.

Qualche settimana dopo la dichiarazione di guerra, i comandanti americani attaccano l’ultima roccaforte britannica nel Nord America, il Canada, ma quella che molti avevano preannunciato come una semplice marcia, si trasforma in una delle più grandi disfatte della storia militare americana.

Il Generale Statunitense Hull è ripetutamente respinto. Le forze britanniche dislocate in Canada marciano verso Sud occupando tutto ciò che incontrano sulla loro strada; a Detroit oltre 4.000 uomini si arrendono senza neanche combattere. Anche le truppe americane guidate dal Generale Van Rensealler si rifiutano di attraversare il Niagara e di combattere. Sono dei chiari campanelli d’allarme.

Dal 1812 la guerra si trascina nel 1813, la campagna per la conquista del Canada è un fiasco totale; gli Americani subiscono una sconfitta dopo l’altra. Il 27 aprile le truppe americane attaccano York (l’odierna Toronto), la capitale del Canada Settentrionale, e danno fuoco al Parlamento; gli Inglesi non perdonano questo atto e preparano la risposta decidendo l’invasione degli stessi Stati Uniti.

Dal suo esordio, la guerra del 1812 è di secondaria importanza per gli Inglesi, che ormai da nove anni sono impegnati nelle guerre bonapartiste, ma all’inizio del 1814 la sconfitta dei Francesi consente di spostare migliaia di soldati esperti sul fronte dell’Atlantico. Al comando di questa offensiva c’è un uomo per cui le distruzione dell’America è una vendetta personale: il Vice Ammiraglio Sir Alexander Cochrane; il suo risentimento nasce dalla morte di un parente, caduto durante la guerra per l’indipendenza americana. «Distruggere tutto ciò che porta colori americani! Voglio che il nemico subisca una sconfitta totale!» sono i suoi ordini.

Secondo il Segretario alla Guerra Americano, John Armstrong, gli Inglesi colpiranno Baltimora, grande centro commerciale, ma il Presidente Madison risponde al panico crescente nella capitale blindando Washington e creando il decimo distretto militare, una zona che circonda la città; comandante di questa cintura difensiva è William Winder, un uomo privo di esperienza nel campo militare e ostacolato da Armstrong che si rifiuta di trasferire a Washington la milizia dislocata sul confine canadese, a meno che non vi sia una vera emergenza; la città è presidiata solo da pochi e inesperti cittadini armati di moschetto.

Il 19 agosto, 5.000 soldati britannici sbarcano a Benedict nel Maryland, a meno di 40 chilometri dalla capitale. Il Presidente Madison emana due ordini, concentrare le truppe il più rapidamente possibile e portare in salvo fuori dalla città tutti i documenti. Raggiunge la campagna per incitare le truppe, mentre Winder cerca di avvistare le schiere britanniche per poter stabilire dove concentrare le forze, a ogni nuova segnalazione sposta le truppe esauste con delle contro-marce.

Sulle sponde del fiume Potomac, a soli 10 chilometri da Washington, si decide il destino della capitale. Il 24 agosto, i soldati di Winder, inesperti e male equipaggiati, affrontano le veterane truppe del Generale Robert Ross, che le travolgono: in appena un’ora, tutta la resistenza americana viene cancellata, la strada per Washington è sgombra.

Madison capisce che la città è perduta e cerca un posto sicuro dove rifugiarsi, la fiorente capitale si trasforma in una città fantasma, i governanti lasciano la città, le truppe americane sconfitte che si riversano a Washington non hanno idea di dove sia il Presidente. Una donna, prima che le giubbe rosse riducano tutto in cenere, cerca di salvare quanto più possibile delle memorie della Nazione: è la First Lady, Dolly Madison, che raggiunge il tesoro nazionale e si assicura personalmente che i documenti più preziosi siano messi al sicuro, poco prima che gli Inglesi entrino a Washington.

In risposta alla distruzione della sede del Parlamento Canadese, i Britannici danno fuoco agli uffici governativi di Washington: alla residenza presidenziale, in sala da pranzo trovano apparecchiato, prendono del vino per fare un sarcastico brindisi al Presidente, saccheggiano le stanze e arraffano tutto ciò che c’è di valore, comprese le lettere d’amore del Presidente Madison alla moglie, poi lanciano torce dalle finestre e il palazzo viene inghiottito dalle fiamme. Il giorno successivo incendiano la Biblioteca del Congresso e i cantieri navali, nel pomeriggio si scatena sulla capitale uno degli uragani più potenti della storia, i lampi squarciano le nuvole e venti fortissimi spazzano la città. All’improvviso si forma una tromba d’aria che vortica nel centro della capitale, per due ore la tempesta sconvolge Washington e spegne le fiamme che l’avevano trasformata in un inferno. Poi gli Inglesi si ritirano: non hanno le forze per conquistare e presidiare gli Stati Uniti, né ne hanno la volontà o l’intenzione.

Il Presidente e la First Lady fanno rientro a Washington il 27 agosto, dopo che gli Inglesi se ne sono andati, e trovano la città ridotta a un deserto carbonizzato e fumante, il palazzo presidenziale è un guscio bruciato senza tetto: dopo la ritinteggiatura, prenderà il nome, attuale, di Casa Bianca.

Intanto, Baltimora si prepara alla difesa: vengono radunate quante più forze possibili ed è chiesto alla popolazione il sacrificio supremo, marinai e mercanti affondano le proprie navi nel tratto di mare tra Fort McHenry e la terraferma per formare una barriera artificiale che impedisca alle navi inglesi di penetrare nel canale che conduce alla città, sono costruite due gradinate per potervi posizionare 60 pezzi di artiglieria. Alle cucitrici di Baltimora è ordinato di fabbricare una grande bandiera per il presidio e una più piccola da usare come stendardo di battaglia: la più grande misura 9 metri per 12 e prende a sventolare su Fort McHenry.

L’11 settembre un colpo di avvertimento interrompe la quiete di una domenica pomeriggio, le vedette localizzano la flotta britannica. Il Generale Rober Ross, quando viene a sapere che gran parte delle truppe nemiche provengono dalla milizia, dichiara: «Non mi importa se pioverà milizia! Ma dovrà pentirsene presto!» Dinanzi a lui c’è il Generale Americano John Striker, un capo determinato, che dà subito l’ordine di attaccare il nemico. Ross accorre in prima linea al rumore dei primi spari e un anonimo cecchino americano lo colpisce al fianco; il comandante britannico cade da cavallo, ferito a morte, e prima di spirare passa il comando al Colonnello Arthur Brooke.

La notizia della morte di Ross si sparge rapidamente tra i ranghi: per i soldati britannici era più di leader, era un eroe cavalleresco, coraggioso, forte, astuto e carismatico. Invece Arthur Brooke è un leader capace ma cauto: pensa di scardinare le difese americane con un violento fuoco di artiglieria e all’alba del 13 settembre le navi da guerra britanniche sparano gigantesche palle di piombo da 90 chilogrammi contro Fort McHenry. Cala la notte e, nel cielo sopra il forte, i razzi producono una luce abbagliante, mentre i boati dei colpi assordanti dell’artiglieria scuotono tutta Baltimora; nel buio che precede l’alba del 14 settembre Brooke, compresa l’inutilità di continuare il combattimento, ordina la ritirata e leva l’assedio. Una dopo l’altra, le navi da guerra britanniche salpano l’ancora e spariscono nella calma foschia del mattino; dopo una tempesta di fuoco senza precedenti, il vessillo a stelle e strisce sventola ancora sul forte, Baltimora è salva. Durante questo assedio, viene composto l’inno nazionale statunitense.

Gli Indiani Creek sono sconfitti in Alabama e i loro alleati Cherokee nella battaglia di Horseshoe Bend dalle truppe statunitensi; la loro disfatta apre nuovi vasti territori agli insediamenti dei pionieri americani.

Nel frattempo, al di la dell’Oceano un altro avvenimento influisce sul corso della guerra: i rappresentanti americani e britannici si riuniscono in Belgio e iniziano gli accordi di pace. Il 24 dicembre 1814 viene firmato il Trattato di Gand, che sancisce un sostanziale ritorno allo «status quo ante bellum».

Ignaro della cosa, Sir Alexander Cochrane pianifica un assalto a New Orleans, porta d’ingresso al territorio nordamericano: una vittoria permetterebbe agli Inglesi di collegarsi al Canada e controllare gli Stati Uniti da Nord, Sud e Ovest. A ostacolarlo è Andrew Jackson, un quarantesettenne del Tennesse, la cui determinazione e il fiero e indomabile temperamento gli valgono il leggendario soprannome di «Vecchia Quercia».

Jackson arriva a New Orleans il 1° dicembre 1814, giura di rispedire i nemici in mare o di morire provandoci, e inizia immediatamente a organizzare le difese della città: sotto il suo comando si riunisce gente di ogni etnia e di ogni classe sociale, cosicché Jackson riesce a reclutare un esercito grazie solo al potere magnetico del suo carisma.

I suoi 4.000 uomini senza alcuna esperienza e senza addestramento hanno di fronte 10.000 soldati professionisti britannici, comandanti dal Generale Sir Edward Pakenham, un uomo che gode di grande fama grazie alle sue imprese.

I primi scontri sono favorevoli agli Inglesi, che avanzano faticosamente fra acque melmose e nebbie. Il 1° gennaio 1815 la nebbia si dirada e gli Inglesi aprono il fuoco, l’esplosione dei razzi e dei colpi di mortaio si sente fino a grande distanza; dopo alcune ore tutti i pezzi tacciono, hanno esaurito le munizioni o sono stati messi fuori uso dall’artiglieria americana. Il Generale Pekenham è convinto di poter sopraffare Jackson con un attacco diretto alla città, grazie alla propria superiorità numerica e alla debolezza di alcuni punti della difesa nemica: decide per un attacco ben coordinato, circa 1.000 uomini attraverseranno il fiume Mississippi dal lato orientale, attaccheranno le batterie americane e punteranno il fuoco sugli uomini di Jackson, un altro reggimento ha il compito di ingannare gli Americani attaccandoli sulla sinistra, mentre il grosso dell’esercito attaccherà frontalmente.

Alle prime luci dell’alba dell’8 gennaio, gli Inglesi avanzano, ma il fango sulle rive del Mississippi rallenta la forza dell’attacco e alcune imbarcazioni a causa della corrente vengono spinte fuori rotta, quando raggiungono l’altra sponda ormai è troppo tardi, i razzi sparati nel cielo rendono visibile la loro avanzata, i battaglioni che hanno il compito di montare le scale per scavalcare le difese americane non ne hanno a sufficienza. Non appena la colonna britannica è a tiro, gli Americani le sparano contro tutto ciò che hanno e centinaia di Inglesi cadono in pochi minuti, il battaglione con in dotazione le scale si ferma per rispondere al fuoco, il resto dell’armata cerca di arrampicarsi sui pendii di fronte alle difese americane, ma senza le scale non riesce a superare i bastioni e diventa un facile bersaglio; gli ufficiali vanno in prima linea per dare coraggio agli uomini, ma vengono subito individuati e uccisi. Sulla destra le truppe britanniche riescono a conquistare i bastioni, il combattimento si trasforma in una lotta corpo a corpo, ma senza rinforzi gli Inglesi sono infine costretti a ripiegare. Il cencioso esercito di Jackson – divenuto eroe nazionale – in poche ore ha sbaragliato il miglior esercito del mondo: più di 2.000 sono le perdite britanniche, mentre gli Americani contano solo 13 caduti e alcune dozzine di feriti.

Intanto giunge la notizia che la guerra è finita: i termini del Trattato di Gand (ratificato dal Congresso Americano il 17 febbraio) ristabiliscono i confini territoriali e i diritti marittimi a come erano prima del conflitto, del resto la causa principale della guerra – l’arruolamento forzato – era già cessata con la fine delle guerre napoleoniche; le parti in causa sono obbligate a rilasciare i prigionieri (ma gli Inglesi non lo faranno, pagando agli Stati Uniti circa 250.000 sterline come risarcimento). Nel 1818 Gran Bretagna e Stati Uniti si accordano nel riconoscere il 49° parallelo quale linea di confine fra Stati Uniti e Canada e stabiliscono di occupare congiuntamente il territorio Nord-Occidentale dell’Oregon; la linea di confine fra Canada e Stati Uniti è del tutto smilitarizzata: è la prima linea di confine smilitarizzata al mondo e lo è ancora ai nostri giorni. Il conflitto non lascia strascichi di animosità tra i due Paesi anglosassoni.

Questa guerra, senza un chiaro vincitore, costa agli Stati Uniti circa 20.000 caduti (tra deceduti in battaglia e morti per malattia), 4.505 feriti, 278 prigionieri e 1.408 navi catturate o distrutte; la Gran Bretagna lamenta 4.481 caduti (anche qui si sommano le perdite in battaglia e i morti per malattia), 3.679 feriti, circa 1.150 navi catturate. Essa non è stata però del tutto inutile, perché ha stabilito la direzione e l’identità dell’America, rendendola del tutto indipendente dalla madrepatria britannica: si è consolidato il senso di unità nazionale e il patriottismo, e si è creato il «mito» di una giovane Nazione, forgiata dal fuoco, unita nella volontà, che annulla le disuguaglianze e vince; gli Stati Uniti restano, in questo primo scorcio del XIX secolo, l’unica Nazione Repubblicana nel mondo.

martedì 17 giugno 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 17 giugno.

Il 17 giugno 2007 muore lo stilista Gianfranco Ferrè.

Nato a Legnano il 15 agosto 1944, dopo aver conseguito la laurea in Architettura al Politecnico di Milano (1969), Gianfranco Ferrè fa il suo ingresso nella moda negli anni '70, ottenendo un primo successo - in modo quasi casuale - come creatore di bijoux e accessori, collaborando con nomi già affermati come Walter Albini e Christane Baily.

Una fondamentale esperienza viene dalla sua permanenza in India dove vive e lavora per diversi anni, per una società di abbigliamento genovese. Nel periodo successivo realizza la collezione "Ketch" e dà vita al suo pret à porter femminile. Nel 1978 fonda la sua maison, la "Gianfranco Ferré SpA". Nel 1984 crea il suo primo profumo femminile.

Alla fine degli anni '80 arriva l'inattesa e incredibile opportunità di assumere la direzione artistica della celebre maison francese Christian Dior.

Nel 1996 nasce la linea "Gianfranco Ferrè Jeans". Due anni più tardi inaugura una nuova sede nell'ex palazzo Gondrand di Via Pontaccio 21, a Milano.

Nel 2000 esce la linea per bambini alla quale segue un preliminare accordo tra Gianfranco Ferrè SpA con GTP (Gruppo Tonino Perna) per l'acquisizione del 90% della società milanese da parte del gruppo Perna.

Nel tempo il nome di Gianfranco Ferré diviene garanzia assoluta di qualità e di stile. Rappresenta e riassume una realtà in crescita costante: decine sono le collezioni presentate ogni anno, moltissime le licenze, oltre quattrocento sono i punti vendita nel mondo, con un export che sfiora il 75%.

La moda di Ferrè è una sintesi di suggestioni ed emozioni in un linguaggio di segni e forme, di colori e materiali. Costante è la ricerca di un equilibrio che trae dalla ricchezza della tradizione gli stimoli per inventare, innovare, sperimentare. Il suo stile è anche caratterizzato da un'identità forte e trasversale e da un intento di coinvolgimento globale. Tutto rimanda a culture ed esperienze differenti, che paiono ridurre le distanze ed annullare i confini.

L'equilibrio è sempre stato per Ferrè anche uno stile di vita: la nota mondanità che circonda il mondo della moda non è mai stata tra gli aspetti più amati e l'atteggiamento di personaggio pubblico è sempre apparso riservato.

Sempre legato al mondo dei giovani universitari, già avvezzo a tenere lezioni su moda e design nelle principali università del mondo (Tokyo e New York, solo per citarne alune), nel mese di marzo del 2007 viene nominato Presidente dell'Accademia di Belle Arti di Brera (Milano). Poco tempo dopo, il 17 giugno 2007, scompare a Milano a causa di un'improvvisa emorragia cerebrale. La salma venne tumulata nella tomba di famiglia nel cimitero monumentale di Legnano.

Era soprannominato l'Architetto, per via della sua laurea, ma soprattutto - e ci teneva ad essere così considerato - perché per lui ogni abito non era solamente una creazione artistica, ma un vero e proprio progetto.

lunedì 16 giugno 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 16 giugno.

Il 16 giugno si celebra in tutto il mondo il "Bloomsday".

Il Bloomsday è la commemorazione annuale che si tiene a Dublino – e non solo – per celebrare lo scrittore irlandese James Joyce. Si tiene annualmente ogni 16 giugno in onore del suo romanzo più celebre, Ulysses, che racconta le storie di vita di differenti protagonisti che prendono atto proprio il 16 giugno 1904, a Dublino. Il suo nome deriva ovviamente dal cognome del protagonista del romanzo, Leopold Bloom e la sua prima edizione si svolse nel 1950 in occasione del trentennale della pubblicazione del romanzo, ad opera di alcuni scrittori che decisero di celebrare l’autore ripercorrendo le peregrinazioni di Leopold nel sua città.

Senza alcun dubbio, il tratto della storia più interessante e celebre del romanzo  è quello raccontato in flusso di coscienza da Leopold Bloom. Leopold procaccia pubblicità per un giornale e vive con la moglie Molly. Questa è sicuramente una sorta di parodia della Penelope dell’Odissea, con l’unica differenza che, mentre la consorte di Ulisse lo attende per vent’anni restandogli fedele, Molly, invece, ha una relazione extraconiugale di cui Leopold, tra l’altro, è anche a conoscenza.

L’Ulisse racconta la storia di un giorno nella vita del venditore di pubblicità Leopold Bloom. E’ ambientato a Dublino.

La vicenda del romanzo si svolge in un giorno solo, il 16 giugno 1904 (data del primo appuntamento di James Joyce con Nora, la donna che diventerà sua moglie). Durante questa giornata tre personaggi principali: Leopold Bloom, sua moglie Molly ed il giovane Stephen Dedalus,  vivono una sorta di Odissea personale, si svegliano, hanno vari incontri, e vanno a dormire diciotto ore più tardi.

Il personaggio centrale dell’Ulisse è Leopold Bloom e rappresenta l'uomo comune. E’ un agente pubblicitario che girovaga per Dublino e durante le sue peregrinazioni, che ricordano il vagare del protagonista dell’Odissea, Ulisse, lungo le rotte del Mediterraneo, incontra il giovane scrittore indigente Stephen Dedalus (considerato l’alter ego di Joyce).

I due si incontrano (molto avanti nel romanzo, verso la fine della parte centrale) per caso, dopo essersi sfiorati in varie occasioni, senza conoscersi in un bordello dove arrivano ubriachi e angosciati dalle proprie esperienze personali: Bloom assillato dai tradimenti della moglie, frustrato dal lavoro e oppresso dal ricordo del figlioletto morto, su cui aveva riposto grandi speranze di riscatto; Stephen perseguitato dal senso di colpa per non aver compiuto gli atti di devozione cattolica sul letto di morte della madre e tormentato dall’inadeguatezza della figura paterna.

Stephen coinvolto in una zuffa viene soccorso da Bloom che lo porta a casa propria offrendogli ospitalità anche per il futuro. Stephen diventa momentaneamente il figlio adottivo di Bloom: l’alienato uomo comune salva l'artista alienato e lo porta a casa.

A casa c'è Molly, la moglie di Bloom, una cantante voluttuosa. L’ultimo episodio è incentrato sulla figura di Molly, dopo che Stephen se ne va e Bloom si addormenta, la donna fa un monologo interiore in cui rievoca il rapporto con il marito e insegue le sue fantasticherie progettando un pomeriggio di adulterio con il suo direttore musicale.

Il finale del romanzo rimane aperto.

Vi è un legame tra l’Ulisse e la grande epopea di Omero. Joyce utilizza l'Odissea come un quadro di riferimento per il suo libro, organizzando i suoi personaggi e gli eventi in riferimento al modello eroico di Omero:

- Bloom rappresenta Ulisse;

- Stephen il figlio Telemaco;

- Molly la fedele Penelope.

Anche l’Ulisse di Joyce, come l’Odissea è diviso in tre parti. I primi tre episodi rappresentano la Telemachia, il blocco centrale la vera e propria Odissea e i capitoli finali il Nostos, ritorno in greco, cioè il rientro di Bloom a casa, dalla moglie.

Joyce stesso definisce la sua opera “un’Odissea moderna” e “l’epica del corpo umano”. Per comprendere l’Ulisse è fondamentale non solo il rinvio all’opera omerica ma è necessario riferirsi anche al mito antico.

L’Ulisse è una nuova forma di prosa, basata sul "metodo mitico" che permette all'autore di fare un parallelo continuo con l'Odissea.

Joyce scrive una "prosa epica moderna", un’epica attualizzata in cui il mito viene rovesciato e ironizzato secondo i tempi moderni e affermato in chiave anti-eroica e anti-sublime. Come Ulisse rappresenta l’eroe greco antico ed i valori dell’umanità antica, così Leopold rappresenta l’uomo moderno, l’uomo comune è l’eroe moderno, la cui mediocrità ne fa un anti-eroe di cui vengono mostrate le inquietudini, le debolezze e le irrisolte contraddizioni.

Le scene si svolgono nella Dublino natia, nella via che Joyce conosce bene, nella casa dove abita e nel pub frequentato solitamente; in ambienti circoscritti e noti, ritratti con realismo. E’ immersa nel quotidiano e ricostruisce fedelmente l’aria di Dublino, l'atmosfera, il posto. Di conseguenza, Dublino entra a far parte del racconto e diventa un personaggio del romanzo.

Il romanzo è diviso in 3 parti senza titoli interni, con dimensioni irregolari, infatti la parte centrale è molto più estesa rispetto alle altre due. Le parti sono ripartite in episodi non numerati: 3 nella prima e nella terza parte, 12 nella parte centrale.

Stephen Dedalus, il signor Bloom e la signora Bloom rappresentano diversi aspetti della natura umana:

- Stephen è pura intelligenza;

- La signora Bloom rappresenta la natura sensuale e la fecondità;

- Mr. Bloom rappresenta tutta l'umanità.

Il testo è gremito di temi, sottotemi e motivi perché vuole tendere alla rappresentazione unitaria e simultanea di tutto il materiale umano. Il tema principale è la simmetrica ricerca affettiva del padre verso il figlio e del figlio verso il padre. Ma c’è anche il tema del viaggio che metaforicamente rappresenta il viaggio interiore dei protagonisti. L’autore vuole inoltre mettere in rilievo l’oppressione dell’educazione cattolica e la difficoltà a superare il senso di colpa (attraverso il rimorso di Stephen nei confronti della madre morta). E poi ancora: l’eros, il cibo, la gelosia, la morte, il mutare delle cose, Dublino.

Joyce rompe la tradizione del racconto lineare basato sulla successione logica e cronologica dei fatti e su nessi causali e temporali abituali, aderendo alla forma del romanzo del “flusso di coscienza”, in inglese stream of consciousness novel, basato sulla immediata trasmissione delle sensazioni più profonde dell’io attraverso procedimenti illogici propri dell’inconscio.

Joyce insieme alla tecnica del flusso di coscienza combina diversi metodi per presentare una gran varietà di situazioni: la tecnica cinematografica, flashback, sospensione del discorso, ecc., creando la cosiddetta "tecnica del collage", molto simile alle tecniche utilizzate dall'artista cubista che raffigura una scena da tutti i punti di vista e tutte le prospettive.

Joyce utilizza il monologo interiore e ci sono due livelli di narrazione:

Uno esterno alla mente del personaggio;

L'altro interno con i pensieri del personaggio che scorrono liberamente senza alcuna interruzione provenienti dal mondo esterno.

Il linguaggio è ricco di immagini, contrasti, paradossi, simboli ecc Si utilizzano anche lo slang, soprannomi, parole straniere, neologismi, citazioni letterarie e allusioni ad altri testi.

Il contenuto scandaloso dell’opera ne rende la pubblicazione difficoltosa ed anche gli anticipi parziali su riviste incontrano i veti delle censure inglesi e americane. La situazione si sblocca grazie a Silvia Beach, editrice e libraia che in collaborazione con un’altra libraia, Adrienne Monnier, sua compagna nella vita, decide di stampare “Ulisse” per la propria libreria parigina “Shakespeare and Company”. Silvia Beach incontra numerose difficoltà, sia economiche che pratiche, ma infine il giorno del quarantesimo compleanno di James Joyce, il 2 febbraio 1922,  a Parigi l’opera appare per la prima volta nella vetrina della libreria “Shakespeare and Company”. Nel 1929, Adrienne Monnier pubblicò la prima traduzione in francese del romanzo.

domenica 15 giugno 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 15 giugno.

Il 15 giugno 1918 venne combattuta la seconda battaglia del Piave, nota anche come Battaglia del Solstizio.

Fu l'ultima grande offensiva sferrata dagli austriaci nel corso della prima guerra mondiale e si spense davanti alla valorosa resistenza dei soldati italiani. Il nome "battaglia del solstizio" fu ideato dal poeta Gabriele D'Annunzio, lo stesso che poco dopo, il 9 agosto 1918, con 11 aeroplani Ansaldo sorvolerà Vienna gettando dal cielo migliaia di manifestini, inneggianti alla vittoria italiana.

Nel 1918 gli austriaci pianificarono una massiccia offensiva sul fronte italiano, da sferrare all'inizio dell'estate, in giugno. A causa delle loro gravi difficoltà di approvvigionamento, volevano infatti raggiungere la fertile pianura padana, sino al Po, e soprattutto, in un momento di grave difficoltà interna dell'Impero per il protrarsi della guerra, gli Austro-ungarici intendevano dare al conflitto una svolta decisiva, che permettesse un completo sfondamento d​el fronte italiano, come era già avvenuto con l'offensiva di Caporetto, e consentisse quindi di liberare forze da concent​rare in un secondo momento sul fronte franco-tedesco.

L'offensiva fu preparata quindi con grande cura e larghezza di mezzi dagli austriaci che vi impegnarono ben 66 divisioni.

Gli italiani avevano intuito i piani del nemico, tanto che nella zona del Monte Grappa e dell'Altopiano dei Sette Comuni i colpi di cannone delle artiglierie italiane anticiparono l'attacco degli austriaci, lasciandoli disorientati.

Le artiglierie del Regio Esercito, appena dopo la mezzanotte, per quasi cinque ore spararono decine di migliaia di proiettili di grosso calibro, tanto che gli alpini che salivano a piedi sul Monte Grappa videro l'intero fronte illuminato a giorno sino al mare Adriatico.

Ai primi contrattacchi italiani sul Monte Grappa, molti soldati austriaci abbandonarono i fucili e scapparono.

La mattina del 15 giugno 1918, gli austriaci arrivando da Pieve di Soligo-Falzè di Piave, riuscirono a conquistare il Montello e il paese di Nervesa. La loro avanzata continuò successivamente sino a Bavaria (sulla direttiva per Arcade), ma furono fermati dalla possente controffensiva italiana, supportata dall'artiglieria francese, mentre le truppe francesi erano stazionate ad Arcade, pronte ad intervenire, in caso di bisogno.

La Regia Aeronautica italiana mitragliava il nemico volando a bassa quota per rallentare l'avanzata.

Abbattuto con il suo aereo moriva il maggiore Francesco Baracca, asso dell'aviazione italiana.

Le passerelle gettate sul Piave dagli austriaci il 15 giugno 1918 vennero bombardate incessantemente dall'alto e ciò comportò un rallentamento nelle forniture di armi e viveri. Ciò costrinse gli austriaci sulla difensiva e dopo una settimana di combattimenti, in cui gli italiani cominciavano ad avere il sopravvento, i nemici decisero di ritirarsi oltre il Piave, da dove erano inizialmente partiti.

Centinaia di soldati morirono affogati di notte, nel tentativo di riattraversare il fiume in piena.

Nelle ore successive alla ritirata austriaca, il re Vittorio Emanuele III visitava Nervesa liberata e completamente distrutta dai colpi di artiglieria. Ingenti i danni alle antiche ville sul Montello e al patrimonio artistico della zona.

Stessa cosa per Spresiano: completamente distrutta. Gli austro-ungarici nella loro avanzata arrivarono sino al cimitero di Spresiano, ma l'artiglieria italiana che sparava da Visnadello e i contrattacchi della fanteria italiana riuscirono a bloccarli.

La mattina dell'attacco, sin dalle ore 4.00, dal suo posto di osservazione posto in cima ad un campanile di Oderzo, il comandante delle truppe austriache, il feldmaresciallo Boroevic, osservava l'effetto dei proiettili oltre Piave.

Le prime granate lacrimogene ed asfissianti ottenevano pochi risultati, grazie alle maschere a gas "inglesi" usate dagli italiani.

Durante la Battaglia del Solstizio gli Austriaci spararono 200mila granate lacrimogene ed asfissianti. Sul fronte del Piave, quasi 6.000 cannoni austriaci sparavano sino a S.Biagio di Callalta e Lancenigo. Diversi proiettili da 750 kg di peso, sparati da un cannone su rotaia, nascosto a Gorgo al Monticano, arrivarono fino a 30 km di distanza, colpendo Treviso.

Dall'altra parte del fronte, i contadini portavano secchi d'acqua agli artiglieri italiani per raffreddare le bocche da fuoco dei cannoni, che martellavano incessantemente le avanguardie del nemico e le passerelle poste sul fiume, per traghettare materiali e truppe. Il bombardamento delle passerelle fu determinante, in quanto agli austriaci vennero a mancare i rifornimenti, tanto da rendere difficile la loro permanenza oltre Piave.

Nel frattempo gli italiani, alla foce del fiume, avevano allagato il territorio di Caposile, per impedire agli austriaci ogni tentativo di avanzata. Dal fiume Sile i cannoni di grosso calibro della Marina Italiana, caricati su chiatte, che si spostavano in continuazione per non essere individuati, tenevano occupato il nemico da San Donà di Piave a Cavazuccherina. Il punto di massima avanzata degli austriaci, convinti di arrivare presto a Treviso, fu a Fagarè, sulla provinciale Oderzo-Treviso.

Gli Arditi, forti della fama che li accompagnava, ricacciarono gli austriaci sulla riva del Piave da cui erano venuti. Non facevano prigionieri e andavano all'attacco con il pugnale tra i denti, al punto che la loro presenza terrorizzava il nemico.

La testa di ponte di Fagarè sulla direttiva Ponte di Piave-Treviso fu l'ultimo lembo sulla destra del Piave a cadere in mano italiana. La tentata offensiva austriaca si tramutò quindi in una pesantissima disfatta: tra morti, feriti e prigionieri gli austro-ungarici persero quasi 150.000 uomini.

La battaglia fu tuttavia violentissima e anche le perdite italiane ammontarono a circa 90.000 uomini.

In tale situazione la battaglia del Solstizio era l'ultima possibilità per gli austriaci di volgere a proprio favore le sorti della guerra, ma il suo fallimento, con un bilancio così pesante e nelle disastrose condizioni socio-economiche in cui versava l'Impero, significò in pratica l'inizio della fine.

Dalla battaglia del Solstizio, infatti, trascorsero solo quattro mesi prima della vittoria finale dell'Italia a Vittorio Veneto.

sabato 14 giugno 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 14 giugno.

Il 14 giugno 1942 la marina statunitense inizia la costruzione del Nautilus, il primo sommergibile a propulsione nucleare della storia.

Venne deciso di dargli il nome del sottomarino del Capitano Nemo, protagonista del celebre romanzo di Jules Verne “Ventimila leghe sotto i mari” del 1870. Lo USS Nautilus SSN-571 divenne nel 1954, ben 84 anni dopo l’uscita del libro, il primo sottomarino a propulsione nucleare al mondo. Impostato dalla United States Navy nel giugno 1952, al momento del varo rappresentò un enorme vantaggio per gli Stati Uniti nei confronti dell’Unione Sovietica, che ancora disponeva di battelli convenzionali diesel ed elettrici: solo nel 1957, Mosca fu in grado di mettere in mare il K-3 Leninskij Komsomol, dotato di propulsione nucleare.

Il  fiore all’occhiello della flotta subacquea americana passò alla storia per l’impresa portata a termine il 3 agosto 1958.  Dopo un viaggio in immersione cominciato il 22 luglio 1958, salpando dalla base navale di Pearl Harbor, lo USS Nautilus raggiunse, primo nella storia il Polo Nord, navigando sotto la calotta polare. Agli ordini del Comandante William Anderson, pluridecorato della Seconda Guerra mondiale per aver partecipato a numerose azioni di guerra contro sommergibili e navi nemiche, a compimento dell’impresa polare venne insignito dal Presidente Dwight Eisenhower della Legion of Merit.

Sotto la sua intrepida guida, il Nautilus ha aperto per primo una via sottomarina tra l’emisfero orientale e quello occidentale. Questa impresa segna una tappa importante per ulteriori esplorazioni e per il possibile uso di questa via, da parte di sommergibili da carico azionati da energia nucleare, intesa come una rotta marittima commerciale tra i principali oceani del mondo

A ben vedere, però, la crociera del sottomarino americano volle essere la risposta al lancio dello Sputnik, primo satellite sovietico in orbita: in piena Guerra Fredda, tutti temevano che l’Unione Sovietica fosse in grado di lanciare sul suolo statunitense, così come sui suoi alleati, testate nucleari dallo spazio. Serviva pertanto un deterrente per riequilibrare le forze a favore degli Stati Uniti, sebbene la Nasa avesse testato un proprio satellite, l’Explorer.

"Per gli Stati Uniti e la Marina degli Stati Uniti…Il Polo Nord."

Con queste parole il comandante Anderson salutava il 5 agosto 1958, alle 23.15, il passaggio del Nautilus (SSN- 571), partito con 116 uomini a bordo. Sei navi della United States Navy sono state chiamate USS Nautilus: il primo venne usato nella Guerra del 1812, il secondo del 1847 servì nella Guerra Messicano-Americano. C’erano due Nautilus nella prima Grande Guerra e uno nel secondo conflitto mondiale. Il sesto Nautilus, dopo l’eroica missione al Polo Nord, concluse la sua carriera nella primavera del 1979 quando venne ritirato dal servizio. Nel 1982 venne deciso il recupero dell’unità come ‘pietra miliare’ di interesse storico e l’11 aprile 1986 il sottomarino entrò a far parte dello U.S Navy Submarine Force Museum sul fiume Thames a Groton, in Connecticut.

venerdì 13 giugno 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 13 giugno.

Il 13 giugno 1878 ebbe inizio il Congresso di Berlino.

Il Congresso di Berlino ebbe luogo nella capitale tedesca nei giorni che andarono dal 13 giugno al 13 luglio dell’anno 1878, presso il Palazzo della Cancelleria nella Wilhelmstraße, una delle vie dello shopping più famose della Germania. Durò un intero mese, tra numerose riunioni di commissioni, feste e banchetti e dopo venti sessioni plenarie.

Il primo giorno il Cancelliere tedesco Otto von Bismarck venne eletto Presidente del Congresso su proposta del delegato austriaco Gyula Andrà¡ssy. A promuoverlo fu l’Austria, che lo propose alle altre potenze europee con lo scopo di rettificare il Trattato di Pace di Santo Stefano con cui la Russia, dopo aver sconfitto la Turchia nella Guerra russo-turca del 1877-1978, aveva accresciuto il proprio potere nei Balcani.

La destinazione dei territori turchi alle nazioni europee stabilita in precedenza con il Trattato di Pace di Santo Stefano fu dunque rettificata con il Congresso di Berlino e i successi russi vennero ridimensionati: Romania, Serbia, Montenegro e Bulgaria restarono indipendenti, la Bosnia-Erzegovina venne affidata all’Austria, Cipro passò nelle mani della Gran Bretagna e la Russia dovette accontentarsi della Bessarabia.

Questi nuovi negoziati furono poco graditi ai russi e incrinarono le relazioni tra i membri della Lega dei tre imperatori, l’accordo politico siglato nel 1873 tra Germania, Austria-Ungheria e Russia. Altro episodio spartiacque fu la Conferenza di Berlino del 1884-1885, anche detta Conferenza dell’Africa Occidentale o Conferenza sul Congo.

La Conferenza di Berlino fu voluta dalla Germania per organizzare in modo regolamentato le numerose iniziative europee nella zona.

Bismark invitò Francia, Gran Bretagna, Portogallo, Paesi Bassi, Belgio, Spagna e Stati Uniti con l’ipotetico scopo di tracciare le linee per regolare il commercio europeo nel centro-ovest africano, nell’area dei fiumi Congo e Niger.

L’intenzione iniziale, però, sfociò presto in un bisogno di consolidamento delle sfere di influenza che portò le potenze europee a proclamare propri possedimenti all’interno del territorio occupato. Negli atti ufficiali, infatti, Bismark si limitò a sancire un insieme di regole commerciali e umanitarie, alludendo alla colonizzazione solo in relazione alla zona costiera.

Nei fatti, invece, dominò la regola per cui una potenza con possedimenti sulla costa aveva il diritto all’entroterra limitrofo. La Germania ottenne così il Camerun e un protettorato su quella che poi divenne l’Africa Orientale Tedesca.

Le altre nazioni, specialmente Francia e Gran Bretagna, lottarono per la conquista di nuovi spazi del continente africano. Ciò portò alla cosiddetta “corsa all’Africa", nota in inglese con il termine scramble for Africa, un proliferare di rivendicazioni degli stati europei sulla terra africana, una vera e propria spartizione dell’Africa durata dal 1880 alla Prima Guerra Mondiale.

All’interno di questo quadro storico l’Italia non giocò un ruolo importante. Già  prima del Congresso di Berlino la nostra nazione aveva sperato di ottenere l’annessione del Trentino con l’occupazione austriaca della Bosnia. Ciò però non avvenne e lo stato italiano tornò a casa senza risultati, finché nel 1882 si legò a Bismark con la Triplice Alleanza, il patto militare stipulato a Vienna tra Regno d’Italia, Germania e Austria per contrastare soprattutto l’avanzata francese.

L’Europa dopo il Congresso di Berlino cambiò e portò a quella corsa all’Africa e quell’inasprirsi dei rapporti tra le grandi potenze che furono tra le cause dello scoppio del Primo Conflitto Mondiale.

giovedì 12 giugno 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 12 giugno.

Il 12 giugno è la Giornata Internazionale Contro il Lavoro Minorile.

Se vivessero tutti in unico Paese, costituirebbero il nono Stato più popoloso al mondo, più del doppio dell’Italia, più grande anche della Russia: sono i 152 milioni di minori tra i 5 e i 17 anni, 1 su 10 al mondo, vittime di sfruttamento lavorativo, di cui quasi la metà – 73 milioni – costretti a svolgere lavori duri e pericolosi, che ne mettono a grave rischio la salute e la sicurezza, con gravi ripercussioni anche dal punto di vista psicologico.

Sessantaquattro milioni di bambine e 88 milioni di bambini, che si vedono sottrarre l’infanzia alla quale hanno diritto, allontanati dalla scuola e dallo studio, privati della protezione di cui hanno bisogno e dell’opportunità di costruirsi il futuro che sognano. In più di 7 su 10 vengono impiegati in agricoltura, mentre il restante 29% lavora nel settore dei servizi (17%) o nell’industria, miniere comprese (12%).

Una piaga che non risparmia neppure il nostro Paese dove, solo negli ultimi due anni, sono stati accertati più di 480 casi di illeciti riguardanti l’occupazione irregolare di bambini e adolescenti, sia italiani che stranieri, di cui più di 210 nei servizi di alloggio e ristorazione, 70 nel commercio all’ingrosso o al dettaglio, più di 60 in attività manifatturiere e oltre 40 in agricoltura. Un numero, tuttavia, senza dubbio sottostimato a causa della mancanza, nel nostro Paese, di una rilevazione sistematica in grado di definire i contorni del fenomeno. Basti pensare che secondo l’ultima indagine sul lavoro minorile in Italia, diffusa da Save the Children e Associazione Bruno Trentin nel 2013, i minori tra i 7 e i 15 anni coinvolti nel fenomeno erano stimati in 260.000, più di 1 su 20 tra i bambini e gli adolescenti della loro età.

“Ancora troppi bambini, nel mondo, anziché andare a scuola e vivere a pieno la loro infanzia, oggi sono costretti a lavorare in condizioni difficilissime, sottoposti a sforzi fisici inappropriati per la loro età, a orari massacranti anche di 12-14 ore al giorno e a gravissimi rischi per la loro salute, sia fisica che mentale. 

Nonostante i progressi significativi compiuti negli ultimi 20 anni, il mondo è ancora lontano dal raggiungere l’obiettivo di sradicare ogni forma di lavoro minorile entro il 2025, come previsto negli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite, e in base al trend attuale, in quella data, vi saranno ancora 121 milioni di minori vittime di sfruttamento lavorativo.

Anche in Italia c’è ancora molto da fare per mettere fine allo sfruttamento lavorativo di cui sono vittime bambini e adolescenti, a partire dalla necessità di istituire una raccolta dati, sistematica e puntuale, che permetta di avere un quadro preciso del fenomeno. È inoltre fondamentale e urgente che le istituzioni rafforzino l’impegno per contrastare la povertà minorile e la dispersione scolastica, fenomeni entrambi strettamente collegati al lavoro minorile, e da questo punto di vista il livello di dispersione scolastica che dopo molti anni è ritornato a crescere non può che rappresentare un preoccupante campanello d’allarme.

Del totale dei minori vittime di sfruttamento lavorativo oggi presenti al mondo - sottolinea Save the Children - 79 milioni hanno tra i 12 e i 17 anni di età, mentre 73 milioni sono molto piccoli, tra i 5 e gli 11 anni, e quindi ancor più vulnerabili ed esposti al rischio di conseguenze sul loro sviluppo psico-fisico. Quasi la metà del totale (72 milioni) si trova in Africa, con Mali, Nigeria, Guinea Bissau e Ciad che fanno registrare le percentuali più alte di bambini tra i 5 e i 17 anni coinvolti nel lavoro minorile. In questi Paesi, infatti, lavora più di 1 bambino su 2; quasi 1 su 3 (29%) se si considera l’area dell’Africa subsahariana dove, rispetto al passato, la lotta al lavoro minorile non soltanto non ha fatto registrare alcun miglioramento ma, al contrario, ha visto un incremento del fenomeno.

Complessivamente negli ultimi vent’anni sono stati tuttavia compiuti significativi passi avanti per contrastare il fenomeno, come evidenziato sul recente “Rapporto sulla condizione dei bambini nel mondo”. Nel 2000, infatti, il lavoro minorile coinvolgeva 246 milioni di bambine e bambini, 94 milioni in più rispetto alla situazione attuale. Progressi che hanno riguardato in particolar modo i minori tra i 12 e i 17 anni, con un tasso calato del 42% rispetto al 2000, mentre si è ridotto in misura minore il numero di minori tra i 5 e gli 11 anni (passati da 110 milioni nel 2000 ai 73 milioni di oggi).

In Asia centrale ed Europa orientale i progressi maggiori, con l’Uzbekistan che ha tagliato il tasso di lavoro minorile del 92% e l’Albania (dove oggi è vittima di lavoro minorile il 5% dei minori) del 79%. Restando in Asia, anche Cambogia e Vietnam si segnalano per aver ridotto nettamente, rispetto a 20 anni fa, il numero di minori coinvolti nel fenomeno, rispettivamente con una riduzione del 78 e del 67 percento. Volgendo infine lo sguardo all’area del Sud America e dei Caraibi, dove attualmente oggi più di 1 bambino su 10 è coinvolto nel lavoro minorile, notevoli progressi sono stati compiuti in particolare dal Brasile che ha ridotto dell’80% rispetto al 2000 il tasso di lavoro minorile relativo alla fascia di età 5-14 anni, sebbene nel Paese oggi vi siano ancora 1 milione di minori costretti a lavorare. Decisi passi in avanti compiuti anche in Messico, dove il tasso (per la fascia di età 5-14 anni) si è ridotto dell’80% rispetto a vent’anni fa, passando dal 24% al 5%, con oltre 3 milioni di bambini tuttavia ancora intrappolati nella piaga del lavoro minorile.

mercoledì 11 giugno 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è l'11 giugno.

L'11 giugno 1993 esce nelle sale americane Jurassic Park.

Maestoso; questo è l’aggettivo che viene in mente pensando a Jurassic Park del 1993 di Steven Spielberg, un film che ha saputo incredibilmente interpretare il ruolo di gigante degli anni ’90 basandosi su fondamenta solide e letterarie. Tratto da un romanzo di Michael Crichton, Jurassic Park è il punto di arrivo di tutto un filone classico di film sui giganti del passato, basti pensare agli anni ’30 e ’40 quando il cinema pullulava di film sui dinosauri con goffi e simpatici effetti speciali. Il parco dei “divertimenti” allestito dal genio di Spielberg invece non manca di spettacolarità e clamore scenico, spazzando via la concorrenza con una grandissima interpretazione degli effetti speciali. Nela scena dove il Brachiosaurus irrompe con il suo verso notiamo l’espressione attonita e meravigliata dei protagonisti della pellicola quasi a voler sottolineare il radicale cambiamento di intendere il cinema, l’estasi quasi mistica dello spettatore. Il catastrofismo di Crichton viene perfettamente trasposto da Spielberg che riesce ad amalgamare bene l’intenzione e il messaggio finale dello scrittore; la macchina non è uno strumento affidabile e prima o poi si ribella al volere del suo creatore. La felicità, nel giro di poco tempo, si trasforma in una disperata corsa alla sopravvivenza dove l’uomo, in poche ore, si ritrova ad occupare la parte più bassa della catena alimentare.

La storia narra del miliardario sognatore americano John Hammond (il compianto Richard Attemborough) e della sua “creatura”, il Jurassic Park, un parco a tema dove le creature che popolavano la terra milioni di anni fa si trovavano rinchiuse come all’interno di un grande zoo. La macchina ideata da John sembra funzionare perfettamente e anche il Prof. Grant (Sam Neill) assieme alle Prof.ssa Sattler (Laura Dern) e all’istrionico Prof. Malcolm (Jeff Goldblum) assistono estasiati al funzionamento di questo parco, seppur mostrando qualche riserva. Di questi Grant pone l’interrogativo più interessante:

Il mondo ha subito cambiamenti così radicali che corriamo per tenerci al passo. Non voglio affrettare conclusioni ma dico… i dinosauri e l’uomo… due specie separate da 65 milioni di anni di evoluzione, vengono a trovarsi gettati nella mischia insieme. Come potremo mai avere la ben che minima idea di che cosa possiamo aspettarci?

Il quesito darà presto una terribile risposta; per via di un sabotaggio ad opera del malefico Nedry (Wayne Knight) il parco vedrà tutti questi incredibili animali liberi e ben presto la situazione precipiterà in un’autentica lotta. Starà all’istinto di sopravvivenza dei protagonisti prevalere su quello di caccia dei dinosauri, in particolare dei temibili T-Rex e Velociraptor.

Jurassic Park è un’avventura senza tempo, un film che non può mancare nello scaffale di un vero appassionato, una meravigliosa dimostrazione di come storia ed effetti possano convivere generando un meraviglioso mix finale. Da brividi il primo piano su Attemborough, mentre la musica sale di tono, egli esclama Benvenuti al Jurassic Park. Noi rimaniamo lì, seduti ed estasiati ancora una volta, quasi come il tempo non fosse mai passato, forse il punto più alto della carriera di Spielberg.

martedì 10 giugno 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 10 giugno.

Il 10 giugno 1922 nasce Frances Ethel Gumm, meglio nota come Judy Garland. 

Celebre diva del cinema, Judy Garland è divenuta celebre per il grande pubblico per aver interpretato il ruolo di Dorothy, la bambina del "Mago di Oz". L'attrice, protagonista di tante commedie e musical, è nota anche per la sua vita privata molto travagliata. Ha avuto cinque mariti e tre figli, una è Liza Minnelli. Sull'ultima parte della sua vita nel 2019 è stato girato un film biografico dal titolo "Judy" (interpretato da Renèe Zellweger).

Chi è davvero Judy Garland? Ecco, qui di seguito, la sua biografia, la vita privata, quella sentimentale, le difficoltà e tutte le altre curiosità su questa donna dal viso angelico e con uno spiccato talento per il ballo e per il canto.

Nata il 10 giugno del 1922 a Grand Rapids, una città del Minnesota, Judy Garland è figlia di due attori che le trasmettano la passione per la recitazione. Sin da bambina, Frances Ethel Gumm - questo è il suo vero nome - dimostra le sue doti interpretative. Non solo. La sua voce soave le permette di sfondare anche nel canto; mentre il corpo longilineo ed esile la rende una straordinaria ballerina.

Judy Garland inizia la sua carriera nel mondo del teatro accanto alle sorelle maggiori sulle note di "Jingle Bells". Le "Gumm Sisters" si esibiscono a Vaudeville fino a quando, nel 1934, l'agente Al Rosen, che lavora per la società Metro-Goldwyn-Mayer, si accorge di Judy e le procura un importante contratto.

A partire da questo momento Judy Garland inizia la scalata verso il successo. Pur mantenendo la passione per il teatro interpreta circa dodici film con La MGM, ricevendo consensi per differenti ruoli.

La sua interpretazione più celebre è quella di Dorothy, ragazzina protagonista del "Mago di Oz" (The Wizard of Oz) del 1939, film nel quale canta e lancia la celeberrima canzone "Over the Rainbow"; qui Judy ha solo 17 anni, ma ha alle spalle già una dozzina di film.

E' inoltre ricordata per le sue interpretazioni accanto a Mickey Rooney e Gene Kelly. In questa fase della carriera Judy viene scelta nei cast di "Meet Me in St. Louis" del 1944, "The Harvey Girls" del 1946, "Easter Parade" del 1948 e "Summer Stock" del 1950.

Smette di lavorare per conto della Metro-Goldwyn-Mayer dopo quindici anni a causa di problemi personali che le impediscono di portare a termine gli impegni contrattuali. Conclusa l'esperienza con la Metro-Goldwyn-Mayer la carriera di Judy sembra essere finita.

Nonostante ciò l'attrice viene premiata con l'Oscar come migliore attrice protagonista nella pellicola "E' nata una stella" (A Star is Born, di George Cukor) del 1954. Inoltre riceve una nomination come attrice non protagonista nel film "Vincitori e vinti" (Judgment at Nuremberg) del 1961.

Judy si è distinta nel panorama cinematografico anche per ulteriori riconoscimenti. Dopo la pubblicazione di ben otto album in studio ha ricevuto la nomination agli Emmy per la serie televisiva "The Judy Garland Show" trasmessa fra il 1963 e 1964.

All'età di 39 anni, Judy Garland viene riconosciuta come l'attrice più giovane di tutti i tempi ad aver ricevuto l'ambito premio Cecil B. DeMille, grazie ai significativi contributi che ha apportato al mondo dello spettacolo. Garland ha ricevuto anche il Grammy Lifetime Achievement Award. L'American Film Institute l'ha inclusa fra le dieci più grandi stelle femminili del cinema classico americano.

Nonostante i numerosi successi Judy Garland è costretta a vivere una vita personale ricca di difficoltà. A causa delle pressioni per la celebrità raggiunta Judy, sin da bambina, si ritrova a combattere diversi disagi che le procurano sofferenze emotive e fisiche.

Molti registi e agenti cinematografici giudicano l'aspetto di Judy Garland poco attraente e questo turba profondamente l'attrice che si ritrova costantemente inadeguata, oltre che influenzata negativamente da questi giudizi. Gli stessi agenti sono quelli che successivamente manipolano l'estetica dell'attrice in diversi film.

Judy inizia anche ad assumere farmaci per aumentare il suo peso; ne giustifica il consumo spiegando che questi le servono solo per far fronte ai numerosi impegni lavorativi. Tutto ciò la porta ad avere forti crisi depressive.

Anche la vita sentimentale dell'attrice è molto travagliata ed instabile. Judy si sposa ben cinque volte e fra i suoi mariti figura anche il regista Vincente Minnelli. Dalla storia d'amore nasce Liza Minnelli, che seguendo le orme dei genitori diventerà una celebre star di fama mondiale. Dal burrascoso matrimonio con Sidney Luft nascono poi altri due figli, Joseph - detto Joey - e Lorna.

Anche in età adulta Judy Garland continua ad assumere alcolici e sostanze stupefacenti, fino a diventarne completamente dipendente. Si ritrova anche in forte difficoltà finanziaria; deve affrontare tanti debiti soprattutto a causa di tasse rimaste arretrate. L'abuso di alcool e di droghe è proprio la causa che porta Judy Garland a una prematura scomparsa: muore di overdose a Londra, a soli 47 anni, il 22 giugno del 1969. I medici dissero che le sarebbe comunque rimasto poco da vivere a causa della grave forma di cirrosi epatica da cui era affetta. Il corpo dell'artista venne tumulato in un colombario del Ferncliff Cemetery di Hartsdale, nello stato di New York. Dopo oltre quarantasette anni, nel gennaio 2017, i tre figli fecero traslare il corpo nel Judy Garland Pavilion, un nuovo ed enorme padiglione costruito all'interno dell'Hollywood Forever Cemetery per ospitare le spoglie della Garland e dei membri della sua famiglia.

Di lei Oriana Fallaci scrisse:

Le vedevo le rughe precoci, e ormai benissimo anche la cicatrice sotto la gola ed ero affascinata da quegli occhi neri, e disperati, in fondo ai quali tremava una disperazione ostinata.

lunedì 9 giugno 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 9 giugno.

Il 9 giugno 1311 la "Maestà" di Duccio di Boninsegna viene installata sull'altare del Duomo di Siena.

Duccio di Buoninsegna (1255 ca.- 1318 ca.) fu non solo l’incontrastato caposcuola della pittura senese del Trecento ma senza dubbio uno dei più raffinati, ammirati e celebrati artisti dell’intera età gotica. Fu proprio grazie a questa conquistata posizione di assoluto predominio culturale e artistico che ricevette, nel 1308, come testimoniano alcuni documenti, la commissione di realizzare un grande polittico, con la Maestà, ossia la Vergine in trono, circondata da angeli e santi, destinato all’altare maggiore del Duomo di Siena.

L’opera, oggi nota come Maestà del Duomo, continuava quel programma di celebrazione della Madonna avviato, pochi anni prima, con la vetrata duccesca dell’abside e che si sarebbe concluso in seguito con l’esecuzione di altre quattro pale, sempre a tema mariano, commissionate a Simone Martini, ai due fratelli Lorenzetti e a Bartolomeo Bulgarini. In tre anni di intenso lavoro, praticamente senza aiuti di bottega, Duccio realizzò 32 grandi figure, 10 mezze figure e quasi 80 figurazioni, organizzando una complessa iconografia alla cui definizione potrebbe aver collaborato il domenicano Ruggero da Casole, vescovo di Siena.

Nel 1311, la pala fu collocata nella cattedrale dopo una solenne processione che partì dallo studio del pittore e alla quale parteciparono le massime autorità religiose e civili della città, assieme all’intera cittadinanza. Racconta un testimone che quel giorno tutte le botteghe di Siena rimasero chiuse in onore dell’evento. Tale testimonianza certifica il carattere di grande valore civile, oltre che religioso, che a questo capolavoro i senesi riconobbero in quegli anni: attraverso l’opera di Duccio, Siena volle affermare la propria grandezza.

La pala è oggi divisa in singoli pannelli, giacché nel 1711 si decise, sciaguratamente, di smontarla per ricavarne altre due pale da collocare sopra due altari minori del Duomo. Nel 1878 il polittico fu parzialmente ricostruito nel Museo dell’Opera del Duomo di Siena; alcune tavole, però, sono conservate in altri musei, in particolare al British Museum di Londra. Un tempo, invece, la Maestà del Duomo si presentava come una complessa struttura dipinta da entrambi i lati.

Il prospetto frontale accoglieva una monumentale Madonna con Bambino, seduta in un trono di marmo intarsiato e circondata da 20 angeli, 2 apostoli, 6 santi tra i più venerati della tradizione e 2 sante. Questi personaggi celesti sono distribuiti su tre file parallele e si dispongono simmetricamente rispetto alla Madonna.

Alla base del trono è possibile leggere, in latino, la seguente dedica dell’artista alla Vergine: MATER S(AN)CTA DEI / SIS CAUSA SENIS REQUIEI SIS DUCIO VITA TE QUIA / PINXIT ITA (Madre Santa di Dio, sii motivo di pace per Siena, sii Vita per Duccio perché ti ha dipinta così). Maestà del Duomo di Siena

In primo piano, inginocchiati, si riconoscono i quattro santi protettori di Siena (Ansano, Savino, Crescenzio e Vittore), mentre alle estremità, in piedi, sono raffigurate le due sante (Caterina a sinistra e Agnese a destra). Affiancano Maria gli altri quattro santi (Paolo, Giovanni Evangelista, Giovanni Battista e Pietro).

Il trono della Vergine è posto sotto una tribuna da cui si affacciano, a mezza figura, gli altri dieci apostoli. In origine, tutte le tavole erano racchiuse da una cornice monumentale, che ospitava una fascia alla base, o predella, dov’erano illustrate 7 scene dell’Infanzia di Cristo alternate a figure veterotestamentarie. La pala era coronata da sette cuspidi, in sei delle quali erano raccontati gli ultimi giorni della vita di Maria. La cuspide centrale, più grande (e purtroppo perduta), presentava, forse, le scene con l’Assunzione e l’Incoronazione della Vergine.

La parete opposta del polittico ospitava 14 pannelli con 26 scene della Passione di Cristo, che si svolgono, come un libro illustrato, dall’Ingresso di Cristo a Gerusalemme (in basso a sinistra) fino all’Apparizione di Cristo a Emmaus (in alto a destra). Da questa parte, la predella riportava alcune Scene della Vita di Cristo (prima della Passione) e, nelle cuspidi, le sue apparizioni dopo la Resurrezione. 

La Maestà del Duomo di Duccio è stata consacrata come uno dei vertici della pittura italiana su tavola. È, infatti, una mirabile celebrazione di bellezza, da intendersi come promessa di felicità. Pur immaginandola in Paradiso, Duccio umanizzò la Vergine in modo lirico e convincente a un tempo. La Santa Madre inclina soavemente il capo, come a indicare il Bambino che ha in braccio, e ha un’espressione tenera, confidenziale ma intensamente malinconica: ella è ben consapevole, infatti, del dolore che il Figlio ha dovuto patire per riscattare l’umanità.

Allo stesso tempo, però, essendo Madre della Chiesa, non può dimenticare tutti gli altri suoi figli, che ogni giorno della loro vita percorrono il proprio difficile cammino di salvezza. È a loro, infatti, che si rivolgono il suo sguardo e il suo pensiero. In questo capolavoro, Duccio è riuscito a coniugare tradizione e modernità, eleganza e grandiosità, vibrazioni cromatiche ed effetti spaziali.

Per ogni dipinto sacro e celebrativo posto in posizione privilegiata, la tradizione richiedeva venissero rispettate alcune convenzioni: una certa frontalità della Madonna, più grande delle altre figure, i tratti somatici dei personaggi sostanzialmente indifferenziati, la mancanza di sviluppo spaziale in profondità. Duccio rispettò le richieste. Eppure, non si accontentò di riproporre sterili schemi bizantini. Per esempio, se la sua ricerca fu di certo cromatica prima che volumetrica, egli usò i colori come gli accordi musicali di un inno sacro, rendendo in qualche modo percepibili le masse dei corpi.

Al carattere ufficiale della faccia anteriore, quella posteriore risponde, con un tono più delicato e commosso, entrando nel cuore del mistero cristiano. Il racconto della Passione si svolge con sensibile leggerezza e consente a Duccio di cimentarsi con una dimensione più narrativa della pittura, normalmente a lui non congeniale e nella quale era invece maestro Giotto. I suoi protagonisti si muovono con gesti pacati, silenziosamente, più spettatori, che attori, degli eventi che stanno vivendo.

Gli spazi, poco definiti (se non improbabili, prospetticamente), fanno più da contorno che da contesto. Si consideri, per intendersi, il suo Bacio di Giuda, che certo vien voglia di confrontare con quello giottesco degli Scrovegni. Stessi personaggi, medesimo evento, uguali dettagli. Ma qui manca l’irruenza della Storia, il racconto si svolge con tenera e commovente compostezza.

domenica 8 giugno 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è l'8 giugno. 

L'8 giugno 1887 Herman Hollerith brevetta il calcolatore a schede perforate.

I computer di qualche decennio fa, prima ancora dell’avvento del Personal Computer, si interfacciavano con l’utilizzatore tramite schede di cartoncino di dimensioni ben codificate, simili per dimensioni e consistenza ai biglietti ferroviari cartacei di qualche anno fa. Le schede, brevettate da Herman Hollerith nel 1887, furono utilizzate con le schedatrici meccaniche e impiegate per la prima volta nel 1890 per il censimento dei cittadini degli Stati Uniti. A loro volta le schede perforate di Hollerith (che più tardi fonderà la International Business Machines, ossia l’IBM) si ispiravano alle schede metalliche del 1801 inventate da Joseph Jacquard per automatizzare il funzionamento di telai per tessitura.

Il passaggio dalle schedatrici meccaniche ai primi computer elettronici e la creazione di linguaggi evoluti decretò il successo e la diffusione del calcolo computerizzato, ma sarà ancora lunga la strada da percorrere verso il boom del personal computer dotato di tastiera autonoma pronta a dialogare direttamente con l’utilizzatore.

Per fare un esempio, per scrivere una tesi di laurea agli inizi degli anni ’70 all'università di Padova, si doveva scrivere a mano il programma in linguaggio Fortran (da “Formula Translation”, privilegiato per i calcoli scientifici), passare il tabulato ad un ufficio in cui personale specializzato (in genere femminile) provvedeva a trasferire su schede perforate le linee del programma (una scheda per ogni riga). 

Una volta perforate, le schede venivano lette da una speciale macchina che trasformava le perforazioni in impulsi elettrici binari tramite contatti striscianti, che consentivano il passaggio di corrente in corrispondenza dei fori nelle schede o, successivamente, mediante lettori a fibre ottiche.

I segnali venivano quindi inviati via cavo all’Università di Bologna, dove si trovava fisicamente l’elaboratore elettronico (a Casalecchio di Reno, presso il CINECA), al quale l’Università di Padova aveva accesso ad orari prefissati. I risultati dell’elaborazione venivano poi ritrasmessi via telescrivente alla sede del servizio elaborazione dati dell’Università di Padova, dove i vari studenti o ricercatori attendevano con ansia il risultato delle loro fatiche. Spesso un banalissimo errore di trascrizione nel tabulato iniziale, come ad esempio scambiare un punto con una virgola o viceversa, causava l’interruzione del calcolo con la restituzione della scritta “Fatal Error” seguito dal “dump” della memoria del computer, costituito da una (apparentemente) caotica sequenza di numeri e lettere comprensibili solo (e non sempre) agli addetti. Tutto questo veniva seguito da una affannosa ricerca dell’errore (o di più errori…) tra le righe del programma e, con l’attesa di poter riproporre il tabulato corretto alle perforatrici, (come generalmente venivano chiamate le addette al trasferimento del tabulato alle schede perforate) se ne andavano intere giornate di lavoro.

Successivamente, furono adottati computer IBM dotati di dischi rigidi intercambiabili da ben 500kB (grandi come una pizza e spessi vari centimetri), ma essi richiedevano comunque, per essere utilizzati, il tramite delle perforatrici, la cui disponibilità doveva sempre venire diplomaticamente curata.

In sostanza, in quel tempo, indicativamente fino alla prima metà degli anni ’80, la scheda perforata, oltre che l’interfaccia uomo-computer, costituiva la ROM (le prime schede del “pacchetto” contenevano il sistema di “boot”), la RAM e il supporto per la memoria di massa (con il programma e, separatamente, i dati in input) del calcolatore (Per lungo tempo la scheda perforata sarà presente anche nell’immaginario collettivo come simbolo stesso della misteriosa potenza dei calcolatori elettronici) .

Il passaggio obbligato dei dati da inserire nel computer (allora era più in uso il nome un po’ roboante di “cervello elettronico”) attraverso le tastiere delle perforatrici rallentava molto i lavori più routinari, quali ad esempio in ambito sanitario gli esami di laboratorio o gli esami radiologici.

Ecco dunque una semplice soluzione: schede di cartoncino pre-fustellate con stampati in chiaro i dati necessari per la prenotazione, effettuabile dall’impiegato addetto direttamente nelle segreterie di reparto o agli sportelli, semplicemente forando manualmente la scheda nei punti prestabiliti mediante la semplice pressione di un apposito punzone. Le schede venivano poi raccolte ed inviate al Servizio Elaborazione Dati, per la preparazione dei tabulati con le prenotazioni e delle etichette da applicare ai vari flaconi o alle buste per la conservazione delle pellicole radiografiche.

E’ difficile ai nostri giorni rendersi conto del progresso compiuto (anche per chi ha vissuto le travolgenti tappe di questa evoluzione); al giorno d’oggi si possono trovare nelle tasche di qualsiasi ragazzino quei minuscoli oggetti , noti con il nome di “smartphone”, con sistemi di calcolo dotati di tastiere virtuali, di memorie decine di migliaia di volte più capienti, di velocità di calcolo infinitamente superiori, di schermi ad alta risoluzione a milioni di colori, completi di interfacce vocali, di fotocamera e di capacità di comunicazioni istantanee senza fili a distanza planetaria, in grado di fornirti sui due piedi una infinità di informazioni, tramite internet. E’ difficile, ma ricordare può aiutarci ad apprezzare più consapevolmente l’impressionante percorso dell’ingegno umano.

sabato 7 giugno 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 7 giugno.

Il 7 giugno 1640 un gruppo di contadini catalani entrano a Barcellona armati di forconi e uccidono i funzionari del re, rivendicando l'indipendenza della Catalogna nella cosiddetta guerra dei mietitori.

Nell'invocare il diritto all'indipendenza, la regione spagnola della Catalogna ha stabilito una specifica data a cui far risalire il proprio spirito nazionalista: l'11 settembre 1714, momento finale della Guerra di successione spagnola. Quel giorno avrebbe segnato la fine della secolare indipendenza catalana e l'inizio della sottomissione al potere spagnolo, tanto che ogni anno in tale data si celebra la Diada Nacional de Catalunya. Tuttavia, a dispetto della narrazione che più piace ai catalani, l'unica loro esperienza di indipendenza durò sette giorni, quasi quattro secoli fa, e fu dichiarata conclusa dai catalani stessi.

La condanna emessa il 14 ottobre 2019 dal Tribunal Supremo nei confronti dei leader dell'indipendentismo catalano ha scatenato una guerriglia che ha messo a ferro e fuoco la città di Barcellona. L'antefatto è il controverso referendum promosso nell'autunno 2017 dalla Generalitat de Catalunya: "Volete che la Catalogna diventi uno Stato indipendente in forma di repubblica?", recitava la scheda elettorale, e il "sì" ottenne uno schiacciante 90%. Il governo centrale di Madrid dichiarò però la votazione illegale e molti funzionari catalani furono arrestati.

Quanto alle ragioni addotte dai catalani per la loro battaglia, sono sia economico-politiche sia storiche. Nello specifico, si fa risalire l'indipendenza catalana al VII secolo d.C., quando sotto Carlo Magno furono create le cosiddette "contee catalane" della Marca di Spagna, "zona cuscinetto" tra l'Impero Franco e il sud della Penisola Iberica, all'epoca in mano agli arabi. Tali aree godevano sì di buoni margini di autogoverno, ma la loro "sovranità" non fu mai ufficialmente riconosciuta.

La più florida ed egemone tra tutte le contee era quella di Barcellona, destinata a confluire nel 1137 in un'entità regia più vasta: la Corona d'Aragona. Motivo di tale cambiamento dell'assetto geopolitico fu l'unione dinastica tra il conte Raimondo Berengario IV e l'erede al trono del Regno aragonese. La Contea di Barcellona da allora andò incontro a ulteriori sviluppi economici e politici, specie tra i secoli XIII e XIV. Fu allora che divenne "Principato di Catalogna" e che presero forma le sue più importanti istituzioni governative, tra cui la Generalitat, nel 1359. La Catalogna continuò quindi a godere di ampie autonomie, ma sulla carta apparteneva ancora alla Corona d'Aragona.

I dissidi tra catalani e monarchia spagnola esplosero con forza durante la Guerra dei Trent'anni (1618-1648). Per finanziarsi, la Spagna impose pesanti tributi ai propri sudditi, e a farne le spese fu soprattutto la prospera Catalogna, che rispose nel 1640 scatenando la cosiddetta guerra dei mietitori. Alla sollevazione catalana seguì il sostegno militare concesso alla Francia, nemica della Spagna. Forte di tale alleanza anti-spagnola, il 16 gennaio 1641 il Principato catalano si proclamò Repubblica indipendente: un'esperienza fulminea, perché appena sette giorni dopo la stessa Catalogna si dichiarò vassalla della Francia, la cui autorità perdurerà per i successivi nove anni.

Nel 1700, alla morte del re spagnolo Carlo II, il trono iberico fu conteso tra il francese Filippo V di Borbone e l'arciduca d'Austria Carlo d'Asburgo. In tale contesto, il Principato di Catalogna sviluppò un nuovo sentimento anti-francese, schierandosi con l'Asburgo. Dopo 13 anni di conflitti ebbero però la meglio le forze francesi, e una delle ultime operazioni militari ebbe luogo proprio a Barcellona, posta sotto assedio dal settembre 1713 fino al fatidico 11 settembre 1714. La vittoria borbonica mise fine alle tradizionali istituzioni catalane, a partire dalla Generalitat, ripristinata e abolita più volte negli anni Trenta del Novecento fino alla ricostituzione, nel 1977.

Oggi gli storici interpretano la lunga sequela di tali intricati eventi in modi disparati, e la controversia sulla reale esistenza delle "ragioni storiche" dell'indipendentismo è così tuttora irrisolta. Formalmente, è certo che la Catalogna non sia mai stata una nazione indipendente, anche se ciò non toglie che nei secoli abbia forgiato una propria, solida identità culturale e sociale.

venerdì 6 giugno 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 6 giugno.

Il 6 giugno 1453, secondo la tradizione cattolica, ha luogo il Miracolo Eucaristico di Torino.

Questa storia inizia a metà del 1400 a Exilles, un paese della Val di Susa in cui è sita una poderosa fortificazione. Allora non era territorio sabaudo, bensì francese: era uno di quei paesi di confine che le vicende storiche portano a fortificarsi per respingere gli assalti ora di una ora dell'altra fazione.

Perciò spesso truppe piemontesi e savoiarde saccheggiavano la cittadina. E’ in questo incerto contesto che la notte del 3 giugno 1453 alcuni ladri entrarono nella chiesa del paese di San Pietro Apostolo e tra le altre cose sottrassero l’ostensorio custodito nel tabernacolo e nel cui interno era contenuta l’ostia consacrata. Dopo aver nascosto la refurtiva in un sacco di granaglie posto su di un mulo si diressero verso Torino dove intendevano venderla. E’ difficile capire se i ladri fossero professionisti che avevano approfittato della confusione o occasionali furfanti facenti parte di truppe mercenarie e irregolari. Attraversato l’incerto confine giunsero in Piemonte dove quei giorni vi era scarsa attività di polizia poiché l’epidemia di peste del 1451 (endemica in quegli anni ) serpeggiava e le guardie daziarie guardavano con riluttanza le merci in transito per la paura di contagiarsi con oggetti infetti. Cosi superarono facilmente il posto di controllo di Susa per poi nascondersi in un bosco nei pressi di Bussoleno per far riposare e pascolare l’animale.

Per sicurezza  transitarono per disagevoli viottoli campestri per evitare incontri con le guardie a cavallo. Sul loro mulo vi era una refurtiva che se scoperta li avrebbe condotti a morte certa con l’accusa di convivenza con il diavolo avendo recato offesa al corpo di Gesù. Evitarono la stazione di posta delle diligenze di Rivoli luogo di compravendite, poiché ritennero pericoloso trattare con i  ricettatori del luogo. Torino allora era una città rurale di circa 5000 abitanti dove maiali e galline giravano per le strade insieme a mandrie mucche e greggi di pecore. Ancora circondata dalle mura di origine romana conservava vie tortuose e selciate. Quattro erano le porte principali: Porta Castello già Decumana o Pretoria  (conglobata ora nel Palazzo Madama), Porta Segusina, posta all’incrocio fra via Garibaldi e Corso Siccardi, Porta Marmorea, situata all’incrocio fra via Santa Teresa e Arsenale e la Porta Palatina detta anche Doranea perché guardava verso la Dora, l’unica ancora esistente. Era un caldo pomeriggio quando entrarono in città da Porta Segusina. Percorsero un tratto di via Dora Grossa (l’attuale via Garibaldi),  e raggiunsero piazza San Silvestro o piazza del grano (oggi Piazza Corpus Domini).

Era il 6 giugno del 1453, qualche minuto prima delle cinque pomeridiane. A quel punto il mulo si bloccò sul posto ed a nulla valsero i tentativi di far rialzare l’ animale da parte dei ladri. Mentre la bestia subiva una bella dose di bastonate senza batter ciglio dal sacco di granaglie uscirono diversi oggetti preziosi  fra i quali l’ostensorio che miracolosamente cominciò a sollevarsi da terra fino all’ altezza del secondo piano delle case che circondavano la piazza.  

L’ostia sembrava un piccolo sole ed emanava raggi abbaglianti. Mentre si verificava questo singolare fenomeno, un ragazzo che si appurò fosse un chierichetto in duomo corse ad avvertire il vescovo Monsignor Ludovico dei marchesi di Romagnano che, dopo aver prelevato  un calice dalla cattedrale di San Giovanni, si diresse velocemente presso Piazza del Grano. Intanto l’ostia che era uscita dall’ostensorio ancora sospeso in aria lentamente scese verso il basso entrando nel calice che Monsignor Romagnano stringeva fra le mani. Grida e canti di gioia  segnarono la fine dello straordinario avvenimento. Approfittando della calca i ladri riuscirono a dileguarsi, prima di essere scoperti. Al miracolo assistettero molte persone che senza indugi confermarono il fatto. Si hanno i nomi di numerosi testimoni del miracolo registrati in un documento autenticato da un notaio e nell’archivio della confraternita dello Spirito Santo si conserva una relazione del fatto. Per ricordare lo straordinario evento fu posto sul sito un pilone commemorativo. Negli anni a seguire sul posto si registrarono numerosi miracoli. Nel 1510 il pilone venne demolito e fu costruita una chiesa, opera affidata all’architetto Michele Sanmicheli (1484-1559). L'oratorio del Sanmicheli, di piccole dimensioni (tre arcate di lunghezza totale inferiore a 11 metri, 6 metri e mezzo di altezza e 3,30 di profondità, con un altare centrale) venne completato nel 1529, per essere poi distrutto nel 1609 per far posto a una chiesa più grande.

Infatti per sciogliere un voto fatto dalla città di Torino in occasione dell’ epidemia di peste del 1598, nel 1603 si diede inizio alla costruzione dell’attuale basilica. Il cantiere fu affidato ad Ascanio Vitozzi che già stava ridisegnando Torino per volontà del duca Carlo Emanuele I di Savoia. L’interno ad unica navata termina con il maestoso altare maggiore realizzato nel 1664 da Francesco Lanfranchi.

 Suggestivo è l’utilizzo di marmi rossi e neri con inserti di bronzo dorato e colonne tortili. Alla facciata in marmo scandita da tre ordini e decorate con statue di Bernardo Falconi lavorò anche Amedeo di Castellamonte.  Quasi al centro della chiesa, circondata da una cancellata di ferro battuto, si trova la lapide scritta in latino dettata da Emanuele Thesauro (1592-1675) e che ricorda il miracolo dell’ ostia:

Qui cadde il giumento che trasportava

Il corpo divino

Qui la sacra ostia scioltasi dai lacci

Si librò nell'aria

Qui nelle mani supplichevoli dei torinesi

Discese clemente

Qui dunque il luogo sacro al prodigio

Memore supplice chino

Venera e temi

Il 6 di giugno dell'anno del Signore 1453

Il futuro Santo Giuseppe Benedetto Cottolengo il 2 settembre del 1827 in questa chiesa ebbe l’intuizione dalla quale scaturì l’istituzione indissolubilmente legata al suo nome, cioè la Piccola Casa della Divina Provvidenza; egli iniziò la sua opera davanti alla chiesa in una casa detta della Volta Rossa.  A questa storia se ne è aggiunta un altra più recente: il calice in argento del suddetto miracolo che aveva raccolto l’ostia, dalla forma semplice, dotato di un’elegante bolla sullo stelo e un piede a base esagonale era conservato fino agli anni quaranta del novecento nella chiesa del Corpus Domini; fu nascosto da un premuroso sacerdote (il prevosto del capitolo del duomo, il canonico Don Luigi Benna),  che ritenne di metterlo al sicuro. Individuò pare un punto sicuro del Duomo di Torino, fece scavare in una parete una piccola nicchia sufficiente a contenere la reliquia, poi fece murare il nascondiglio. Nel dicembre del 1944 il sacerdote venne colto da morte improvvisa per polmonite senza aver rivelato a nessuno, almeno fra quanti oggi potessero ricordarlo, il punto in cui il calice era stato occultato e cosi da allora non si ha più notizia di dove sia finito o dove sia stato nascosto. Questo è Il "Graal" torinese, che aspetta ancora di essere ritrovato. Speriamo un giorno di poterlo ritrovare.

giovedì 5 giugno 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 5 giugno.

Il 5 giugno 1945 viene fucilato a Roma il criminale fascista Pietro Koch.

Pietro Koch nasce a Benevento il 18 agosto 1918.

Nella primavera del 1943 fu chiamato alle armi nel 2º reggimento Granatieri, ma dopo lo sbandamento nazionale si spostò a Firenze e si iscrisse al Partito Fascista Repubblicano ed entrò nel “Reparto Speciale di Sicurezza” di Mario Carità.

Si mise subito in evidenza con la cattura del colonnello Marino, già aiutante del generale di corpo d’armata Mario Caracciolo di Feroleto, l’ex comandante della V Armata che aveva tentato la difesa di Firenze. Caracciolo, uno dei pochi generali che si erano opposti ai tedeschi, si era rifugiato a Roma presso il convento vaticano di San Sebastiano, sotto tutela di Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo. Il capitano delle SS di via Tasso, autorizzò Koch a violare il territorio Vaticano, così la sua banda, attraverso uno stratagemma e l’appoggio esterno delle SS, riuscì ad arrestare il generale.

Le SS, dopo averlo schedato lo lasciarono a Koch che lo trasferì a Firenze presso la sede della cosiddetta Banda Carità.

Il risultato di questa azione gli permise di avere le autorizzazioni dal capo della Polizia della RSI di Salò, Tullio Tamburini, per costituirsi un suo reparto speciale. Una volta costituita la squadra speciale, che prese la denominazione ufficiale di “Reparto Speciale di Polizia Repubblicana”, si aggregarono anche diversi elementi della Banda Carità fino ad arrivare a circa una settantina di unità tra i quali anche dei sacerdoti. La formazione ottenne alcuni rapidi e clamorosi successi con irruzioni e perquisizioni nelle sedi della Chiesa. La sede del reparto si attestò nella palazzina di via Principe Amedeo 2, presso la pensione Oltremare, a Roma.

Tra gennaio e maggio 1944 la banda decimò le file degli antifascisti di Roma, tra i quali ben 23 esponenti del Partito d’Azione, che subì la pressione maggiore, di cui 21 furono fucilati alle Fosse Ardeatine

Quando, nel giugno del 1944, Roma fu liberata dagli Alleati Koch si unì al convoglio di Eugen Dollmann diretto a nord mentre la sua banda fuggì a Milano. Il Reparto Speciale, inquadrato nelle SS italiane, si insediò presso Villa Fossati (tra le vie Paolo Uccello e Masaccio), che in città sarà nominata come “Villa Triste”, attrezzandola con filo spinato, riflettori e sirene. Alcuni locali furono adibiti a stanze di tortura. Quasi tutti i componenti di Roma raggiunsero Milano, solamente alcuni furono arrestati e condannati a morte durante la loro fuga, come il questore Pietro Caruso. A Milano si inserirono anche nuovi elementi, come l’attore Osvaldo Valenti (l’uomo di collegamento fra Koch e il principe Borghese della Xª MAS), il conte-industriale Guido Stampa e altre donne (Lina Zini e Camilla Giorgiatti). (Dalla deposizione testimoniale di Luchino Visconti agli atti del processo Koch)

Koch, attraverso numerosi arresti e interrogatori brutali, ottenne in breve tempo il nome di Franco Calamandrei, Luigi Pintor, Lisa Giua Foa e nel 1944 la banda arrestò anche Luchino Visconti. Tutti loro sono stati ferocemente torturati, tranne Lisa Giua perché incinta. I metodi di tortura e le tecniche d’interrogatorio della banda divennero tristemente famosi e, vista la generalità di testimonianze concordi, quasi codificati:« Quando venni arrestato il Koch diede ordine che venissi fucilato nella notte. Per otto giorni, rinchiuso nel cosiddetto “buco” della pensione Jaccarino, attesi che la sentenza, continuamente confermata dall’aguzzino, fosse eseguita. Una sera Caruso  venne in visita alla pensione e Koch, per divertirsi un poco, gli mostrò due patrioti che avevano appena finito di subire la tortura. Successivamente venni trasferito a quello che nel gergo della Jaccarino veniva definito “l’ammasso”: uno stanzone fetido, con un po’ di paglia in terra. ».

(Dalla deposizione testimoniale di Luchino Visconti agli atti del processo Koch)

L'interrogatorio avveniva nella stanza di rappresentanza di Koch alla presenza di numerosi poliziotti; se un arrestato non parlava, cioè non rivelava chi fosse e quale fosse la propria attività politica, le percosse erano immediate con: lo schiaffo scientifico, la capriola (lancio della vittima contro il muro), la corsa (un percorso da denudato dalla doccia alle celle tra due file di poliziotti che colpivano). Perché la violenza mantenesse vigore e forza gli agenti si davano il cambio; le percosse avvenivano con fruste di cuoio, con nervi di bue, con i caricatori (carichi delle cartucce); l’isolamento avveniva nel cosiddetto buco, cioè in locali angusti e soffocanti; la sospensione dei torturati: venivano legati con corde e issati in modo che il corpo non toccasse terra e lasciati così per ore; la doccia bollente: le vittime venivano denudate e spinte con manici di scopa sotto un getto d’acqua bollente; qualche testimonianza ha riferito anche dell’uso del manico di scopa come variante per violenze e abusi sessuali; la messinscena dell’esecuzione per terrorizzare le vittime: una vera esecuzione fermata all’ultimo momento. 

Tra gli indagati fascisti del Reparto speciale ci furono sia fascisti intransigenti come Roberto Farinacci, che fascisti moderati come il direttore de La Stampa Concetto Pettinato. Furono svolte dagli uomini di Koch anche indagini interne nei confronti dei membri della "Muti" che esercitavano una certa rivalità nei confronti della squadra speciale. Il gruppo dirigente fascista si sentì minacciato dall'autonomia di Koch e riuscì così ad avere l'avallo di Mussolini per smantellare la banda con un'azione di forza, condotta il 25 settembre 1944 proprio da parte della Legione Autonoma Mobile Ettore Muti, al comando del Questore Alberto Bettini. Secondo alcune fonti il reparto era implicato anche in un traffico di cocaina. Villa Fossati fu circondata, circa cinquanta componenti della banda vennero arrestati e fu sequestrato tutto il bottino accumulato nei mesi di attività. Il 17 dicembre 1944 Koch fu arrestato e rinchiuso al carcere di San Vittore a Milano. Successivamente, nonostante le proteste di Kappler, il Reparto fu smantellato. 

Con l’aiuto dei tedeschi, Koch riuscì ad evadere il 25 aprile 1945 e da Milano si spostò a Firenze, allo scopo di ricongiungersi con Tamara Cerri, che, dopo l’arresto a Villa Fossati, era stata liberata e aveva raggiunto la sua famiglia a Firenze, per essere nuovamente catturata dagli alleati. Avuta notizia dell’arresto, il 1º giugno si presentò alla questura del capoluogo toscano dichiarando: “Se avete arrestato Tamara Cerri perché vi dica dov’è Koch, potete liberarla. Koch sono io, arrestatemi”. Subito tradotto a Roma, fu processato dopo una rapida istruttoria di due giorni, con procedura d’urgenza.

Il processo si aprì il 4 giugno nell’aula magna della Sapienza, l’interrogatorio dell’imputato e le deposizioni dei testimoni dell’accusa (l’ex-questore Morazzini e il commissario di polizia Marittoli) e a discarico (Luchino Visconti, la cui deposizione finì invece per prodursi in un ulteriore capo d’accusa) occuparono due ore; la requisitoria del PM e l’arringa difensiva di Federico Comandini, nominato avvocato d’ufficio quale Presidente dell’Ordine degli avvocati di Roma, presero circa mezz’ora. Alle 11:55 l’imputato fu condotto in camera di sicurezza e alle 12:17 rientrò in aula, dando la corte lettura del dispositivo della sentenza. Condannato alla pena capitale, fu giustiziato presso il Forte Bravetta alle ore 14:21 del 5 giugno 1945. 

La sua esecuzione fu filmata da Luchino Visconti.