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lunedì 13 gennaio 2025

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 13 gennaio.

Il 13 gennaio 1953 il maresciallo Josip Tito diventa presidente della Jugoslavia.

Il mattino del 12 gennaio 1980, dopo aver presieduto una riunione dei suoi collaboratori, il maresciallo Tito entrava nella migliore clinica di Lubiana, per un intervento chirurgico alla gamba sinistra, colpita da una infiammazione. L' operazione ebbe luogo il giorno successivo, ma a parere dei medici era ormai troppo tardi: per evitare la cancrena fu deciso un ulteriore e più drastico intervento con l' amputazione della gamba. Il maresciallo sembrò riprendersi ma a partire da metà febbraio le sue condizioni cominciarono a peggiorare. Le cure intensive cui fu sottoposto ritardarono solo la fine che sopravvenne alle ore 15 del 4 maggio (tre giorni dopo avrebbe compiuto 88 anni). Con la morte di Josip Broz (il vero nome di Tito) la Jugoslavia, una delle tante invenzioni della conferenza di pace di Versailles, perse il suo dispotico padrone che l'aveva tenuta unita, grazie al carisma di cui godeva e all'occhiuta e asfissiante vigilanza della polizia politica. Del resto lo stesso Tito sapeva che con la sua scomparsa quella effimera costruzione statale non gli sarebbe sopravvissuta. Già nel 1978 ad uno dei suoi più fedeli collaboratori che gli chiedeva "Cosa c' è che non va in Jugoslavia?" aveva risposto "La Jugoslavia non esiste". Facile previsione: nemmeno due mesi dopo la sua morte la signora Jovanka, ultima moglie, che per 25 anni gli era stata a fianco come first lady, fu sfrattata dalla residenza privata del maresciallo, in quanto proprietà dello Stato, e le venne sottratto persino il brillante che portava al dito. Una conferma che non solo Tito ma lo stesso "titismo" era per sempre finito. Eppure la figura di questo straordinario croato, oggi più che mai dopo i quattro anni di sconvolgenti carneficine nelle terre ex jugoslave, appare per certi versi unica nel panorama dei grandi personaggi emersi dal cataclisma della seconda guerra mondiale. Hitler, Mussolini, Stalin, Churchill, Roosevelt, per non parlare che dei maggiori protagonisti, preesistevano a quegli anni tremendi: Tito invece emerse dal nulla, un fantasma dai molti nomi e contornato dalle più incredibili leggende, che si materializzò nella primavera del 1942 quando i tedeschi, già duramente impegnati dalla guerriglia partigiana, svelarono che il capo delle formazioni combattenti comuniste altri non era che Josip Broz, nato in Croazia, a Kumrovec, nel maggio 1892, soldato austriaco nella prima guerra mondiale, che soggiornò in Russia negli anni della rivoluzione e della guerra civile, poi detenuto dal 1928 al 1934 nelle prigioni croate per le sue attività sovversive. Insomma, pareva allora, uno dei tanti oscuri militanti costretti a un' esistenza clandestina e randagia dalla messa fuori legge dei vari partiti comunisti. In realtà quel signor nessuno -come ci ricorda Jasper Ridley in una accattivante biografia edita da Mondadori (Tito, sottotitolo "Genio e fallimento di un dittatore", pagg. 442), nella quale rifugge, secondo i canoni dello storicismo anglosassone, da ogni visione demonizzante e aprioristica - aveva già a quell' epoca un burrascoso e ricco passato. Come molti comunisti costretti all' emigrazione in Urss era sopravvissuto alle tremende purghe staliniane, diventando segretario del partito jugoslavo nel 1937. Riuscì a salvarsi grazie alla spiccata avversione per le dispute ideologiche, da lui profondamente disprezzate, e ad un carattere gioviale che gli consentiva di stabilire buoni rapporti con i freddi e spietati esponenti del Comintern. E nella primavera del 1940 fu rispedito da Mosca in Jugoslavia a dirigere il lavoro illegale del partito, sostenendo sempre disciplinatamente il punto di vista sovietico, in quel periodo contraddistinto dall'alleanza fra Stalin e Hitler: la guerra scatenata dal dittatore tedesco contro gli anglo-francesi doveva ritenersi difatti come uno scontro fra opposti imperialismi. Ma il 6 aprile 1941 il ciclone nazista colpì anche la Jugoslavia: la fragile costruzione dello Stato crollò miseramente di fronte alla fulminea invasione della Wehrmacht. Quando i tedeschi entrarono il 10 aprile a Zagabria vennero accolti dall' entusiasmo della popolazione croata che vedeva in loro i "liberatori" dall' oppressivo dominio del centralismo serbo. L' ala oltranzista del nazionalismo, sotto la guida di Ante Pavelic, non tardò nemmeno un giorno nel mettere in atto una spaventosa pulizia etnica: in pochi mesi circa 250mila tra serbi, ebrei e zingari vennero massacrati in un gigantesco genocidio, benedetto dai nazisti e dalle autorità cattoliche croate. Le esitazioni e i contorcimenti ideologici che sino allora avevano spinto i comunisti a giustificare l' accordo tra Stalin e Hitler vennero definitivamente spazzati dall' aggressione nazista all' Urss il 22 giugno di quello stesso anno. Senza attendere gli ordini di Mosca già il 27 giugno Tito veniva nominato dal politburo del partito comunista comandante in capo delle forze di liberazione nazionale. Cominciava così quella straordinaria pagina del secondo conflitto mondiale costituita dalla guerra partigiana jugoslava, l' unica che in tutta Europa riuscì ad impegnare severamente in termini militari l' esercito d'occupazione tedesco. Il tutto in un caotico quadro di contrasti politici e di odi razziali che videro sanguinosamente contrapposti gli "ustascia" fascisti di Pavelic, i "cetnici" ultranazionalisti serbi di Draza Mihailovic, spesso alleati degli occupanti tedeschi e italiani, e i "comunisti" di Tito. Fu in questo drammatico clima che s'impose l' abilità politica del "maresciallo", il tener fede cioè, malgrado gli obiettivi "comunisti" fissati ai suoi partigiani, all'identità jugoslava, contro le visioni particolaristiche. Che Tito avesse conquistato sul campo il diritto alla guida del movimento di liberazione venne dapprima confermato dagli stessi tedeschi: fu contro le sue brigate partigiane che essi lanciarono una serie di offensive, costringendole a combattere ininterrottamente, ma senza mai riuscire a scompaginarle in modo risolutivo. E successivamente dagli stessi anglo-americani, che dopo aver puntato sui "cetnici" di Mihailovich si resero conto che solo aiutando Tito avrebbero avuto un efficace concorso nella lotta armata contro i nazisti. Il pragmatismo, l'astuzia, il realistico senso dei rapporti di forza da lui messi in mostra avrebbero finito per catturare persino la benevolenza di Churchill, il quale grazie al suo sottile intuito aveva subito compreso come Tito fosse, tutto sommato, un comunista "diverso". La Jugoslavia, grazie ai partigiani del maresciallo, riuscì difatti a liberarsi da sola e l' arrivo dell' Armata Rossa nei suoi territori non fece che sancirne il successo. Dal l944 al 1948, anno della rottura clamorosa con Stalin, i rapporti fra Belgrado e Mosca conobbero momenti di grandi intese e di sotterranee contrapposizioni, ma sempre in ogni circostanza Tito seppe mantenere una posizione di parità e di sostanziale indipendenza. Che il dittatore sovietico non potesse a lungo tollerare posizioni così lontane dall' acquiescente subordinazione accettata da tutti gli altri Stati satelliti del suo impero era nel fatale ordine delle cose. Fu uno scontro, quello con Stalin, che si protrasse sino alla morte di questi e proseguì anche dopo sia con Krusciov che con Breznev. La Jugoslavia non venne mai meno al suo ruolo di equidistanza fra i due blocchi che si contrapposero per decenni nel corso della guerra fredda e che fecero di Tito il leader indiscusso dei paesi del cosiddetto Terzo Mondo. Ai grandi successi internazionali il maresciallo non seppe aggiungerne di analoghi sul piano interno. La Jugoslavia rimase una federazione di serbi, croati,sloveni, bosniaci, montenegrini e macedoni, come nei tempi prebellici ma senza riuscire a fondersi in una vera nazione. Il fuoco nazionalistico continuava a covare sotto la cenere e la dittatura comunista a malapena celava il ricostituirsi di un predominio serbo. Sul piano economico le pur coraggiose varianti al tradizionale "socialismo" di matrice sovietica - quali l'autogestione e un moderato collettivismo agrario - non seppero appianare le contraddizioni fra un nord industriale e più strettamente collegato all' Europa ed un sud arretrato e balcanico. E la Jugoslavia poté evitare il crollo del proprio sistema solo grazie ai massicci aiuti dell' Occidente. In quei lunghi anni di dominio Tito visse come un re del passato. Ininterrotti viaggi all' estero per trovare continue legittimazioni, interminabili partite di caccia, periodi di riposo nelle sue lussuose ville alternati alle poche decisioni di governo nelle quali intendeva impegnarsi (per non venir meno al ruolo di grande "moderatore" dei contrasti), mentre la polizia segreta teneva i cittadini in riga. Insomma un dittatore "morbido", certo non paragonabile al modello staliniano, che riteneva la democrazia un lusso non confacente al suo paese. Un satrapo che viaggiava su un "treno blu", fumando oltre cento sigarette al giorno e dotato di un appetito formidabile (il proprietario di un albergo del sud della Francia che l' aveva ospitato era rimasto allibito "nel vedere che Tito, a colazione, alle sei del mattino, mangiava zuppa di cavoli, salsicce, carne bollita e pollo arrosto"). Nel 1971 un sinistro scricchiolio nell' edificio jugoslavo denotò come la costruzione di Versailles riattata da Tito non avrebbe avuto vita lunga. In Croazia il movimento indipendentista e nazionalista riemerse alla luce con tutta la sua forza, e solo le energiche misure di polizia e l' autorità di cui ancora godeva il leader riuscirono a bloccarlo. Ma era la riprova che lo spaventoso bagno di sangue patito tra il 1941 e il 1945, quando croati, serbi, bosniaci si erano fra loro massacrati, non avrebbe impedito ulteriori drammatiche lacerazioni. Ciò che è puntualmente avvenuto sotto gli occhi di un mondo distratto, e tutto sommato indifferente per meschini calcoli politici, in questi ultimi anni. Il regime di Tito, questa la lezione della storia, non poteva dunque sopravvivergli. Ma oggi - conclude Jasper Ridley - "la popolazione di quella che era un tempo la Jugoslavia pensa a Tito con maggior simpatia di qualche anno fa. A Sarajevo e Mostar, molti dicono che era preferibile vivere in un sistema in cui i leader politici potevano venire arrestati arbitrariamente piuttosto che in un paese dove in due anni sono state trucidate trecentomila persone... Oggi, la gente apprezza più di un tempo i giorni in cui era governata da Belgrado da Josip Broz Tito, e si diceva che la Jugoslavia aveva sei repubbliche, cinque etnie, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti e un partito".

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