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martedì 30 settembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 30 settembre.

Il 30 settembre 1935 il celebre eroe del fumetto "Dick Tracy" diventa un giallo radiofonico.

Gli Stati Uniti del 1931 erano un paese difficile, sconvolto dalla criminalità organizzata che, preso l’avvio con l’entrata in vigore del 180 Emendamento alla Costituzione e con il Volstead Act (proibizionismo), aveva ormai abbracciato con i suoi lunghi tentacoli tutti i settori della vita economica e sociale, dovunque ci fossero possibilità speculative: vendita di alcolici, gioco d’azzardo, prostituzione, « protezione » di aziende commerciali e di negozi, droga ecc. La polizia, in gran parte prezzolata dai malviventi, era praticamente inefficace e lavorava nella più completa corruzione.

Rapine, estorsioni, scandali a ripetizione sconvolgevano la vita quotidiana: il governo non poteva che predicare il ritorno alla legalità, ma erano parole disperse al vento. Roosevelt stava preparando la sua scalata alla Casa Bianca con un programma di risanamento politico e sociale, ma l’opinione pubblica era talmente sconvolta e tanto poco ottimista nei riguardi di una soluzione legale, che la situazione pareva priva di una via d’uscita.

Eppure fu proprio intorno al 1931 che qualcosa cambiò: fu in quell’anno che il giudice Wilkinson riuscì a far condannare Al Capone per evasione fiscale: un anno prima lo scrittore Dashiell Hammett aveva pubblicato The Maltese Falcon creando l’emblematico personaggio di Sam Spade e denunciando gli intrallazzi che favorivano l’attività dei gangster. L’opinione pubblica incominciava a vedere dunque uno spiraglio, ma la fiducia nella polizia era pressoché nulla. Fu in questa atmosfera che il 4 ottobre 1931, sul Detroit Mirror, apparve una tavola domenicale di fumetti con un nuovo personaggio, un certo Dick Tracy, firmata dal disegnatore Chester Gould.

Era un brevissimo episodio di soli dodici quadretti. Nel primo si vedeva un signore distinto in vestaglia da camera con la cornetta del telefono all’orecchio, che diceva: « Yeah, this is Tracy! » (« Sì, qui è Tracy »). Stava parlando con il capo della polizia che chiedeva la sua testimonianza per riconoscere un malfattore che la sera prima aveva partecipato ad una rapina. Nel terzo quadretto Tracy era a bordo di un taxi e ragionava: « Da come ha schivato quel mio pugno, deve essere senz’altro un pugile professionista ».

Nel successivo confronto all’americana, Tracy non riconosceva il suo uomo ma, posti gli occhi su una donna rinchiusa in una cella, la faceva liberare e le sferrava un pugno alla mascella. La pronta schivata permetteva a Tracy di smascherare il farabutto travestito da donna, un certo Pinkie l’Accoltellatore (Pinkie the Stabber), il primo « campione » della lunga galleria di malfattori catturati da Dick Tracy.

Dopo l’esordio del 4 ottobre, il 12 ottobre Dick Tracy diventava protagonista di una prima lunga avventura sul Daily News apportando a Chester Gould in breve tempo un notevole successo.

Ma chi era Chester Gould e come era nato Dick Tracy? Figlio di Gilbert Gould, direttore del settimanale Advance Democrat di Stillwater, Chester era nato il 20 novembre 1900 a Pawnee, nell’Oklahoma. Cresciuto nell’ambiente giornalistico e con una naturale inclinazione al disegno, a sette anni faceva già i suoi piccoli lavori per il Courier Dispatch di Pawnee.

Per desiderio del padre, Chester Gould iniziò a studiare legge presso l’A & M College dell’Oklahoma trasferendosi ad Oklahoma City, dove collaborò come disegnatore sportivo al giornale The Tulsa. Nel 1921 si spostò quindi a Chicago dove si sposò una prima volta e dove portò a termine i suoi studi alla Northwestern University, laureandosi in economia e commercio.

Iniziò così la sua attività di disegnatore presso l’American Journal di William Randolph Hearst e dal 1923 presso il Daily News di Chicago, conoscendo il capitano Joseph Medill Patterson, direttore editoriale, scopritore di talenti e capo del New York News Syndicate. Fu a Patterson che Gould propose per otto lunghi anni non meno di sessanta nuovi personaggi da realizzare a fumetti, senza mai riuscire a sfondare, se si eccettua una striscia quotidiana intitolata Fillum Fables (satira sul mondo del cinema), che ebbe però breve vita.

Il colpo di fortuna giunse nell’agosto 1931, quando il capitano Patterson, sulla base di una proposta di Gould, suggerì al disegnatore di creare un nuovo personaggio, poliziotto privato, che ben si sarebbe inquadrato nella campagna di rivincita della legge contro la malavita imperante.

« Decisi » ha dichiarato una volta Chester Gould « che se la polizia non riusciva a fermare i gangster, avrei creato io chi lo avrebbe fatto! » Il 1 settembre Gould si presentò al capitano Patterson con un plico di disegni: il materiale per un mese e mezzo di strisce del nuovo personaggio Plainclothes Tracy.

Patterson tirò un tratto di matita sul nome Plainclothes (« in abiti borghesi ») e battezzò il personaggio Dick, diminutivo di Richard, che nel gergo stava ad indicare un poliziotto privato, e approvò incondizionatamente le caratteristiche che Gould aveva dato al suo character.

Dopo l’esordio con la tavola domenicale del 4 ottobre 1931 che abbiamo sopra descritto, Gould diede il via alla prima lunga avventura nella quale vennero poste le basi dell’attività di Dick Tracy. Il poliziotto fa visita al droghiere Mister Trueheart che sta chiudendo il suo negozio e viene invitato a cena; la figlia del droghiere, Tess Trueheart, è l’innamorata di Tracy.

« Ciao Tess… sei un incantol » la saluta, e lei risponde: « Lo sono per il mio migliore boyfriend! Su sbrigatevi, sarete affamati! ».

I due giovani e i signori Trueheart si fanno quindi una bella cenetta, al termine della quale Dick Tracy e Tess si appartano e decidono di annunciare la loro decisione di sposarsi.

Si apprestano a festeggiare l’evento, quando sulla porta di casa si presentano due uomini mascherati (sono Crutch e un altro tirapiedi, entrambi della banda di Big Boy) che chiedono la consegna dei soldi di casa. Il droghiere si ribella ed è colpito a morte: Dick Tracy viene atterrato e stordito; i due gangster prendono il malloppo e si portano via come ostaggio la tenera Tess.

Quando Tracy rinviene, pronuncia il suo giuramento: « Tess, sul corpo di tuo padre giuro che ti troverò e vendicherò tutto questo… lo giuro! » e, pochi minuti dopo, il capo della polizia gli chiede: « Tracy, che ne direbbe di entrare nella nostra squadra in borghese? Penso che sarebbe di grande aiuto per trovare Tess Trueheart e gli assassini di suo padre! » e Tracy risponde: « Mi ha tolto la parola di bocca, capo! ».

Così inizia la prima missione del poliziotto privato, che riuscirà naturalmente a salvare Tess e a mettere in gattabuia Big Boy e i suoi uomini.

In una storia del 1932 un altro importante personaggio si unisce alla coppia: è un ragazzo di dieci anni, sfruttato da un certo Steve, un incallito tagliaborse che lo incarica di piccoli furti per sbarcare il lunario.

Il monello viene catturato da Tracy e passa subito dalla sua parte aiutandolo a sgominare Steve e compari. Vorrà poi essere adottato dal detective ed essere chiamato Dick Tracy Junior, più brevemente Junior.

« Fino ad allora » ha scritto Chester Gould « non si era mai visto nei fumetti un detective che, come Dick Tracy, si battesse faccia a faccia con i criminali, imboccando, per decidere la contesa, la scorciatoia del piombo. Era anche la prima volta che il fumetto rappresentava nei particolari la turpitudine del crimine: omicidi, rapimenti, risse, sparatorie.

Ci vollero un paio di mesi perché Dick Tracy si affermasse, ma poi esplose come un fuoco d’artificio. »

Il successo, infatti, fu strepitoso: il poliziotto di Gould rappresentava la rivincita della legge, sia pure attraverso il contributo di un privato cittadino, contro la malavita imperante, e il fatto che Tracy fosse stato mosso dal desiderio di una vendetta personale passava in secondo piano, perché Tracy rappresentava comunque la giustizia impegnata a battere gangster d'ogni risma, intenti a compiere efferatezze di ogni genere e disposti ai rimedi più drastici pur di contrastare il passo al nostro personaggio.

Tra le macchiette, per certi versi simpatiche, anche se grottesche, che Chester Gould oppose per quarant’anni al suo poliziotto, vale la pena di ricordarne alcune: da Alec Penn (1931) al playboy Kennet Grebb (1932), all’indomito Big Boy (1933), che riuscirà a mettere nei guai Dick Tracy con la giustizia, a Larceny Lu, regina della malavita, all’avvocato Spaldoni (legale di Jimmy White, capo di una banda di minorenni) a Frank Redrum (l’uomo senza faccia del 1936), al mercante d’armi Karpse (1938), a Edward Nuremoh (un profittatore che insidiò a Tracy la fidanzata Tess).

Nel 1940 Tracy dovette lottare contro una straordinaria coppia: il nano Jerome che compiva le sue imprese fuggendo a cavallo di un San Bernardo e la mastodontica Mama, una specie di mezzana adiposa, maniaca dì gioielli e di cioccolatini, che quando venne arrestata fece dire allo sceriffo: « Vacca! Guarda che faccia! … ».

Nello stesso 1940 Tracy ebbe come antagonista un certo Krome, specializzato nel trasformare i giocattoli in trappole mortali, mentre nel 1941 fece furore il gangster Talpa che, per non smentire il suo soprannome, viveva ed agiva esclusivamente nei sotterranei.

Nel 1942, con l’assistenza del poliziotto Pat, che fin dalle prime avventure gli faceva da aiutante, Dick Tracy affrontò una coppia di tremendi lestofanti, Jacques (proprietario di un night club) e il fratello B. B. Eyes, borsaro nero di copertoni, che fece di tutto per eliminare Tracy, tra l’altro seppellendolo anche in un cilindro di paraffina fusa. Si scontrò poi con Clarke Van Dyke, sosia dell’attore Yollman, che tentava di sostituirsi a lui dopo averlo fatto ipnotizzare, e quindi con il discografico Amard e con il suo socio Tigre Lilly, dalla faccia butterata, che era a capo di una banda di criminali che organizzava colossali imbrogli.

La galleria degli straordinari avversari di Tracy si arricchì nel 1942 anche di Pruneface (Faccia di Prugna), un sabotatore al servizio di una potenza nemica, e così il nostro detective poté dare il suo contributo alla causa americana nella seconda guerra mondiale.

Nel 1943 Tracy si dedicò al ritrovamento di un piccolo bimbo biondo, chiamato Johnny, che si era perso cadendo dal camion sul quale viaggiava con i suoi genitori. Toccò poi a « 88 Tasti », un pianista che cercava di arrotondare il suo stipendio facendo il killer professionista, e alla ripugnante vedova di Faccia di Prugna che tentò invano di vendicare il marito e che andava in giro con il volto coperto da una maschera.

I successivi avversari di Tracy furono Laffy e l’assassino professionista Flattop, caratterizzato da una faccia trapezoidale e da una boccuccia a bocciolo di rosa. Ma uno dei più caratteristici nemici apparve nel 1944: un tic nervoso gli dava un continuo tremito e per questo veniva soprannominato Shaky, cioè Tremolio. Fu anche lui battuto in modo irrimediabile e morì congelato in una buca, dopo aver tentato in cento modi di eliminare Tracy.

La galleria si arricchì di mese in mese e di anno in anno: nel 1945 fu la volta di Itchy, un racketeer che tentò di far morire Tracy di fame; nel 1946 di Influence, un assassino che ipnotizzava le sue vittime grazie a speciali lenti a contatto; nel 1948 di Mister Volts che amava eliminare i suoi avversari con scariche elettriche; nel 1949 di Sketch Paree che soffocava tutte le sue vittime con una maschera. Fu proprio nel 1949, mentre stava affrontando il suo ennesimo avversario (un certo Wormy con il viso perpetuamente avvolto nel fumo della sua sigaretta), che nella vita di Dick Tracy si verificò un avvenimento fondamentale: lo sposalizio con la sua eterna fidanzata Tess Trueheart.

La cosa fu ed è singolare perché raramente gli eroi dei fumetti sposano la loro fidanzata, ma evidentemente Dick Tracy non aveva paura di nulla, tant’è vero che due anni dopo Tess metteva al mondo la sua unica e adorabile figlioletta, Bonny Braids (in italiano Bonny Treccina) che, manco a dirlo, venne subito coinvolta in una avventura di cui fu protagonista la fotografa ladra Crewy Lou.

Scorrendo i successivi dossiers di Tracy troviamo, tra i « cattivi », tipi sempre più strambi: Tonsils, un cantante specializzato in un’unica canzone, Open Mind con la mania dei fiori, le sorelle Kitten acrobate criminali, Headache, un assassino tormentato dal continuo mal di capo, Rhodent, altro collezionista di reati con il complesso della sua testa a becco di uccello, Nah-Tay specializzato nel ridurre a proporzioni minime i crani dei suoi avversari.

E’ insomma una galleria lunga e inesauribile nella quale si sono allineati nuovi personaggi, tutti, come abbiamo visto finora, caratterizzati da qualche difetto fisico o mentale, quasi a sottolineare il fatto (in linea con le più moderne teorie scientifiche) che la criminalità non è altro che una malattia. Ma è certo che i « recuperati » di Tracy si contano sulle dita e che la medicina da lui preferita per quel genere di ammalati è sempre una pallottola in testa.

Nel 1964, Junior, il monello che si era unito a Tracy nel 1932, si è sposato con Moon Maid, una ragazza selenita, figlia del governatore della Luna, che periodicamente ha bisogno di raggi solari per rinvigorirsi e che ha introdotto nelle strisce di Gould l’ormai immancabile ingrediente fantascientifico.

La crociata di Dick Tracy contro la criminalità continuò con lo stesso accanimento dell’epoca del proibizionismo e di Scarface; in tutti quegli anni il nostro detective ha sempre adottato i più moderni ritrovati scientifici.

Nel 1946, per esempio, ha iniziato ad usare una ricetrasmittente da polso e pochi anni più tardi vi ha fatto anche inserire un televisore piccolo come il quadrante di un orologio; si vale normalmente di un impianto televisivo a circuito chiuso e degli apparecchi più raffinati per l’individuazione e l’identificazione delle impronte digitali; frequenta stabilmente il laboratorio della polizia scientifica, al punto che per molti anni nelle strisce quotidiane e nelle tavole domenicali era spesso presente una vignetta contrassegnata dal titolo « Crimestoppers », nella quale venivano forniti ai lettori i rudimenti scientifici delle procedure adottate dalla polizia e venivano presentati gli ultimi ritrovati tecnici.

Chester Gould si ritirò nel 1977, e Dick Tracy fu portato avanti da Rick Fletcher e Max Allan Collins. Il vignettista si spense a Woodstock l'11 maggio 1985.


lunedì 29 settembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 29 settembre.

Il 29 settembre 1941 ha luogo il massacro di Babij Jar.

Gli ucraini hanno pagato un prezzo di sangue altissimo negli anni, infernali, in cui furono stretti nella morsa russo-tedesca. I morti furono 11 milioni su una popolazione di 40 milioni. Prima Stalin con le sue Purghe, poi Hitler, finita la guerra fu di nuovo il turno di Stalin di calare una coltre asfittica sul Confine. Ucraina significa questo: confine. Un nome un destino.

Appena fuori Kiev si trova Babij Jar, una grande fossa naturale di morbida terra sabbiosa, di un bianco candido che risplende in un meraviglioso gioco di colori con il cielo blu. Qui l’uomo ha scritto una delle pagine peggiori della sua storia.

29 settembre 1941 – i tedeschi iniziano il loro lavoro di sterminio degli ebrei. Metodico e organizzato. Hanno pianificato tutto, due giorni sono sufficienti per eliminare 33.771 esseri umani, uomini, donne bambini, ebrei. E’ prevista anche la pausa pranzo per i soldati impegnati nella carneficina. Un’ora. Tanto basta per mangiare qualcosa, fumare una sigaretta, liberare la vescica, e riprendere a falciare vite. 

Per evitare che si diffondesse il panico le persone in attesa della morte era convinte di essere in attesa di un treno che li avrebbe portati chissà dove, ma vivi. Tenuti a debita distanza perché non vedessero né sentissero chiaramente il crepitio delle armi, venivano fatti passare, pochi per volta, da un baffuto ucraino lieto di aiutare i nuovi padroni.

Costretti a spogliarsi, dovevano passare in mezzo a due file di sadici aguzzini che li bastonavano senza pietà. Giunti sul limite della grande fossa bianca, arrivava il comando secco dell’ufficiale nazista, un colpo di pistola alla nuca e il corpo cadeva giù. Due ucraini muniti di pala gettavano un sottile strato di terra sui cadaveri. Un tedesco nella fossa camminava per sincerarsi che nessuno fosse in grado di muoversi e fuggire, per i moribondi non si sprecavano munizioni, un altro strato di cadaveri e terra li avrebbe sepolti vivi.

La sera del 30 settembre, puntuali come da programma, i telegrafi batterono l’informazione attesa a Berlino prima di andare a cena. Kiev judenfrei. Il massacro di Babij Jar è una macchia che l’uomo non potrà mai cancellare.

domenica 28 settembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 28 settembre.

Il 28 settembre 235 d. C. papa Ponziano, primo nella storia, abdica dal suo ufficio.

Una felice e fondata congettura di Emanuela Prinzivalli fa cominciare il pontificato del vescovo di Roma Ponziano nel 230. La fonte principale di questa e di altre notizie è il Catalogo Liberiano, che offre informazioni sull’episcopato di Ponziano, durato poco più di cinque anni, e della sua deportazione in Sardegna, condannato ad metalla cioè ai lavori forzati nelle miniere. Dopo l’imperatore Alessandro Severo (222-235), tollerante con i cristiani, salì al potere Massimino il Trace (235-238), che diversamente dal predecessore si volse contro i cristiani, mirando a colpire i capi delle cristianesimo. «La fine violenta di Alessandro Severo, assassinato durante una rivolta militare che espresse come nuovo imperatore Massimino il Trace, segnò un brusco mutamento nelle condizioni generali della politica romana che si tradusse sul piano religioso in una sistematica offensiva anticristiana mirata a colpire gli esponenti del clero», scrive Marcella Forlin Patrucco. Papa Ponziano ne fu una illustre vittima, ma non da solo: con lui fu condannato e deportato un altro capo dei cristiani, il sacerdote Ippolito, passato alla storia come antipapa; successivamente, entrambi sarebbero stati riconosciuti martiri e perciò degni di menzione nella storia della Chiesa. L’anno dell’esilio di Ponziano è il 235 e questo dovrebbe esserne anche l’anno della morte. Il citato Catalogo ricorda con precisione una data e un fatto: il 28 settembre 235 Ponziano abdica cioè volontariamente rinuncia al pontificato; è il primo caso nella storia della Chiesa ed è il primo elemento biografico nella storia dei papi di cui sia nota la data esatta.

Anche un’altra fonte, la Depositio martyrum, accosta Ponziano e Ippolito, dando la notizia della loro sepoltura avvenuta a Roma nello stesso giorno, il 13 agosto: Ponziano fu sepolto nel cimitero cosiddetto di Callisto, sulla via Appia, Ippolito nel cimitero sulla via Tiburtina. Il Martirologio Romano, alla data del 13 agosto, appunta: «Santi martiri Ponziano, papa, e Ippolito, sacerdote, che furono deportati insieme in Sardegna, dove entrambi scontarono una comune condanna e furono cinti, come pare, da un’unica corona. I loro corpi, infine, furono sepolti a Roma, il primo nel cimitero di Callisto, il secondo nel cimitero sulla via Tiburtina».

Come ricorda Emanuela Prinzivalli, l’epitaffio di Ponziano fu ritrovato nel 1909 sotto la pavimentazione del cubicolo di Santa Cecilia contiguo alla cripta papale del cimitero di Callisto; l’iscrizione è in greco: «Pontianos episk[opos] m[a]rt[ys]». Le spoglie di Ponziano, con quelle di altri cristiani importanti sepolti nel cimitero callistiano, furono traslate nella chiesa di Santa Prassede durante il pontificato di Pasquale I (817-824).

Secondo il Liber pontificalis, Ponziano fu romano, figlio di un tale Calpurnio, e morì a causa di molte sofferenze, probabilmente le sofferenze dovute alle crudeli fustigazioni riservate ai condannati alle miniere. Una notizia abbastanza sicura riguarda l’assenso di Ponziano alla decisione del vescovo di Alessandria Demetrio di condannare il teologo Origene – legato alla Chiesa di Alessandria e allo stesso Demetrio – che, a insaputa di Demetrio, era stato ordinato sacerdote dai vescovi Teoctisto di Cesarea e Alessandro di Gerusalemme.

Evidentemente il fatto più rilevante del pontificato di Ponziano – per quello che emerge dalle fonti – è la sua rinuncia all’ufficio di pontefice, rinuncia espressa con il termine tecnico «discinctus est»: si tratterebbe del primo caso nella storia del papato. Perché Ponziano rinuncia al pontificato? In primo luogo, potrebbe aver considerato realisticamente la sua situazione: non sarebbe uscito vivo dalla condanna e dalle sofferenze ad metalla, eppure la Chiesa aveva bisogno di un Pontefice che la guidasse; per questo, occorreva la propria personale e volontaria rinuncia. In secondo luogo, considerando che il sacerdote Ippolito condannato con lui era probabilmente il capo di una parte minoritaria e dissidente della comunità romana, il gesto di una abdicazione avrebbe significato una mano tesa verso l’unità e la riconciliazione.

sabato 27 settembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 27 settembre.

Il 27 settembre 1943 hanno inizio le quattro giornate di Napoli.

Ogni anno Napoli celebra in maniera potente e carica di ricordi, racconti, suggestioni, l'anniversario di quelle che sono passate alla storia come le Quattro Giornate di Napoli. Dal 27 al 30 settembre del 1943 i cittadini di Partenope insorsero e, con coraggio e determinazione, da soli cacciarono via le truppe naziste. Quando, il primo ottobre, gli Alleati fecero il loro ingresso in città, la trovarono sì devastata, ma già liberata: Napoli divenne così la prima città in tutta l'Europa occupata a cacciare via i soldati del Terzo Reich. L'intera città, inoltre, è stata insignita della medaglia d'oro al valore militare.

Quando i napoletani decidono di insorgere contro gli occupanti nazisti, il popolo è stremato da anni di guerra, da privazioni, dalla fame e dalla carestia: tra il 1940 e il 1943, inoltre, Napoli è oggetto di pesanti bombardamenti da parte degli Alleati. La scintilla che accende la rivolta, appunto, il 27 settembre del '43: nel corso di una retata tedesca vengono catturati migliaia di napoletani; centinaia di uomini, così, si armano e danno vita all'insurrezione. Uno dei primi scontri tra i napoletani e i tedeschi avvenne al Vomero, quartiere collinare della città, dove gli insorti arrestarono una vettura nazista, uccidendo il maresciallo alla guida. Sempre al Vomero, i napoletani assaltarono l'armeria di Castel Sant'Elmo e, al termine della prima giornata di scontri, anche gli arsenali delle caserme di via Foria e via Carbonara.

Fondamentale alla causa il contributo di Enzo Stimolo, tenente del Regio Esercito Italiano, considerato forse la vera e propria guida dell'insurrezione. Nei giorni successivi il popolo in rivolta – il numero dei cittadini armati cresceva sempre più – impedirono l'esecuzione di alcuni prigionieri sia al Bosco di Capodimonte che allo Stadio del Littorio (l'attuale Stadio Collana), mentre gli scontri proseguivano in tutta la città – causando ingenti vittime da una parte e dall'altra – che, nonostante l'insurrezione, i tedeschi continuavano a bombardare a colpi di cannone.

Il 29 settembre, forse, quella che può essere definita la svolta: il tenente Stimolo si recò presso il quartier generale tedesco in corso Vittorio Emanuele per trattare con il colonnello Walter Scholl. In cambio della liberazione dei cittadini prigionieri nello Stadio Collana, Stimolo concedeva a Scholl e alle truppe naziste di lasciare Napoli senza pericolo di ritorsioni, imboscate o rappresaglie. Il 30 settembre, nonostante avessero iniziato lo sgombero della città, i tedeschi continuarono a bombardare Napoli, colpendo soprattutto Materdei e Port'Alba, mentre nelle altre zone della città continuavano i combattimenti. In ritirata, i tedeschi non si fermarono con uccisioni, stragi e incendi. Quando, nella mattinata del primo ottobre, i primi carri Alleati provenienti da Nocera Inferiore entrarono in città, trovarono i cittadini stremati, le case rase al suolo, ma nemmeno l'ombra delle truppe della Wehrmacht: Napoli divenne così la prima città Europea a liberarsi dall'occupazione nazista.


venerdì 26 settembre 2025

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 Buongiorno, oggi è il 26 settembre.

il 26 settembre 1687 l'esercito veneziano, durante un assedio contro i Turchi, distrugge parzialmente il Partenone di Atene durante un bombardamento.

Il Partenone di Atene è il simbolo della Grecia Classica, essenza della bellezza ellenica conosciuta in tutto il mondo. Ciriaco d’Ancona, considerato il padre dell’Archeologia stessa, nel XV Secolo descrisse il Partenone come: “il meraviglioso tempio della dea Atena, opera divina di Fidia“. La storia di questo capolavoro di ingegno e creatività umana è tanto antica quanto triste per gli amanti della bellezza dei templi greci.

Durante i suoi 25 secoli di vita è stato usato con diverse finalità d’uso, fra cui tempio di Atena, chiesa cattolica e moschea musulmana, ma anche come “cava” per materiali da fortificazione e deposito di munizioni. Bizantini, Veneziani, Ottomani ma anche (e con maggior colpa) Inglesi e Francesi, in epoca moderna, hanno distrutto e spogliato delle sue magnifiche opere quello che fu un faro di cultura e bellezza rimasto quasi intatto per secoli e secoli di storia.

Progettato dagli architetti Callicrate, Ictino, e Mnesicle, facenti capo al direttore dei lavori e leggendario scultore greco Fidia, fu realizzato a seguito della distruzione del preesistente tempio di Atena Pòlias da parte dei persiani guidati da Serse, respinti dall’alleanza greca durante la seconda guerra Persiana.

Il tempio subì i primi danni durante il III e IV Secolo dopo Cristo. Di quel periodo è la caduta del tetto e la distruzione del colonnato interno, forse ad opera degli Eruli, forse di Alarico o, ancora, per cause naturali quali un terremoto o incendi accidentali. Sia il colonnato sia il tetto furono ricostruiti, con ogni probabilità somiglianti all’antica struttura del Tempio.

Durante il periodo di dominio della Grecia e dell’Attica da parte dei Bizantini, il tempio fu convertito (590 d.C.) in una chiesa dedicata alla “Madre di Dio”, Theotokos, e durante il brevissimo periodo dell’Impero Latino (1204-1261) divenne una chiesa cattolica. La necessità di trasformare le geometrie perfette dell’edificio in una chiesa secondo gli stilemi cattolici portò alla rimozione di diverse colonne interne, alla creazione di un abside e alla distruzione di molteplici metope scolpite da Fidia e dai suoi collaboratori. Il danno fu enorme ma, dove non era stato necessario modificare elementi progettuali, la struttura fu lasciata intatta.

Nel 1456 Atene fu conquistata dall’Impero Ottomano che, contrariamente a quanto si è soliti pensare, non distrusse le opere d’arte della città. Il Partenone, a quell’epoca una chiesa dedicata a Maria, fu convertito in una Moschea, costruendo un minareto. L’edificio non venne però significativamente danneggiato.

Il 26 Settembre 1687 un colpo di bombarda veneziana distrusse gran parte del Partenone, trasformato nell’occasione in polveriera dagli ottomani. Il tetto e praticamente tutto l’interno vennero dilaniati, lasciando ai posteri soltanto le briciole di una storia millenaria. Il colpo fu esploso durante le campagne veneziane di ri-conquista dei territori greci, il breve lasso di tempo (1687/1718) in cui la Serenissima rientrò in possesso di alcuni territori che aveva perso. Con un singolo colpo di mortaio i Greci videro sbriciolarsi buona parte della propria eredità culturale, un patrimonio senza pari nella storia umana.

Gran parte dei particolari di pregio che restavano del Partenone, nel XIX Secolo, vennero letteralmente saccheggiati dagli Inglesi e dai Francesi che, grazie ad un accordo fra questi ultimi e l’Impero Ottomano padrone della Grecia, non esitarono a spogliare il Partenone di tutte le rimanenti Metope e sculture presenti, o almeno quelle che riuscirono a trafugare. Essi non si limitarono a rubare le opere, ma distrussero anche parti limitrofe alle sculture, con il solo scopo di rubare le parti più preziose.

Famosi sono i “Marmi di Elgin”, una serie di sculture trafugate dal Partenone e portate al British Museum. Fra queste si trovano le metope che costituivano la magnifica decorazione dell’architrave che rappresentavano la presa di Troia, la Gigantomachia, l’Amazzonomachia e la Centauromachia. Altre sculture rubate furono il racconto della Genesi di Atena, della battaglia fra la Dea e Poseidone, il Re del Mare, per il dominio sulla regione Attica, ma anche l’intero fregio continuo che decorava, ancora, l’interno della cella contenente la statua della Dea e le sculture che raffiguravano le festività Panatenaiche.

Il grande poeta Lord Byron, che fu paladino della liberazione del popolo Greco contro i Musulmani, descrisse Elgin come il “predone” che saccheggiò “le misere reliquie di una terra sanguinante“.

L’impero Ottomano, sull’orlo del declino, perse il proprio dominio sui popoli greci durante il periodo che andò dal 1821 al 1832. Nel 1827 l’alleanza greca riuscì a liberare Atene, ma i turchi riuscirono ad apportare altri danni (qualora ve ne fosse stato ancora bisogno) all’antico Tempio di Atena. Durante l’ultimo assedio alla città, infatti, i Turchi asserragliati sull’Acropoli iniziarono a smontare pezzo per pezzo le colonne del Partenone, con lo scopo di ricavarne pallottole e materiale di fortificazione. I poveri Greci, disperati sotto l’Acropoli, arrivarono ad offrire le pallottole per combattere ai Turchi, purché non distruggessero (ulteriormente) il Tempio.

Nel 1839 Joly de Lotbinière scattò la prima fotografia conosciuta del Partenone, ritraendone la completa distruzione e la Moschea interna.

Di quello che fu un edificio di magnifica bellezza, rimasto sostanzialmente integro sino al XVII Secolo, oggi rimane ben poco. Gli stupendi Marmi, gli altorilievi e le sculture che resero l’opera di Fidia leggendaria in tutto il mondo sono distrutti o dispersi in musei lontano dalla propria terra d’origine. Le guerre e l’avidità degli Inglesi (in parte anche dei Francesi) hanno reso l’opera Architettonica più famosa della Grecia e una delle più famose al mondo un cumulo di pietre e macerie. Nonostante il Governo Greco abbia finanziato diversi restauri, lo stato dell’edificio è completamente differente rispetto a quello che era anche solo 400 anni orsono, quando aveva già 2.000 anni di storia.

Per ammirare il Partenone somigliante a come doveva essere durante l’Antichità si deve andare dall’altra parte del globo, a Nashville, in Tennessee, e osservare la fedele ricostruzione realizzata durante il 1897 per l’Esposizione Centennale del Tennessee, e poi trasformata in un edificio di calcestruzzo durante gli anni ’20 e ’30.

La speranza è che, il prima possibile, almeno le opere trafugate da Inglesi e Francesi tornino a casa sotto il sole di Atene, ospitate nel magnifico museo dell’Acropoli che, oggi, è adorno soltanto di copie recenti.


giovedì 25 settembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 25 settembre.

Il 25 settembre 2003 muore, all'età di 85 anni, il grande economista, premio Nobel, Franco Modigliani.

Franco Modigliani nasce nel 1918 a Roma da una famiglia di origine ebraica. Studia presso l’Università di Roma e si laurea nel 1939. Nello stesso anno, in seguito alla promulgazione delle leggi razziali, lascia l’Italia e si reca prima in Francia e poi negli Stati Uniti. L’intera carriera accademica di Modigliani ha luogo in questo Paese, inizia con un incarico presso la Columbia University e, dopo una serie di trasferimenti, si conclude con una cattedra presso il MIT di Boston. Nel 1985 riceve il premio Nobel per l’Economia. Modigliani muore a Boston nel 2003.

I principali contributi di Franco Modigliani alla teoria economica sono due e sono entrambi citati nelle motivazioni per il conferimento del premio Nobel. Il primo contributo è rappresentato dall’analisi delle decisioni di consumo e di risparmio. Il secondo contributo è il cosiddetto teorema Modigliani-Miller, che segna l’inizio della moderna corporate finance. Nel prosieguo sarà trattato solo il primo contributo. Il secondo è oggettivamente troppo complicato per essere discusso in questa sede e qualsiasi esemplificazione risulterebbe fuorviante. D’altra parte, fu Modigliani stesso a scegliere di discutere solo di consumo e risparmio nella sua Nobel Lecture.

Prima degli studi di Modigliani sulle decisioni di consumo e di risparmio il punto di vista dominante era quello di Keynes. Keynes credeva che il consumo aggregato di un paese dipendesse esclusivamente dal reddito aggregato dello stesso. Inoltre, per Keynes il consumo non cresceva allo stesso ritmo del reddito generando un ulteriore meccanismo per cui la domanda sarebbe stata insufficiente ad acquistare i beni prodotti. Dopo la morte di Keynes, tuttavia, Simon Kuznets aveva puntato l’indice contro questa teoria del consumo dimostrando empiricamente che la ridotta crescita del consumo rispetto al reddito era un fenomeno solo di breve periodo mentre nel lungo periodo consumo e reddito crescevano allo stesso ritmo.

Le evidenze di Kuznets scatenarono un animato dibattito all’interno delle teoria economica e Modigliani, insieme al suo allievo Richard Brumberg, partecipò attivamente a questo dibattito producendo una serie di articoli scientifici nei quali proponeva una nuova teoria del consumo. Alla base di questa nuova teoria si collocava innanzitutto l’osservazione che il consumo aggregato non fosse altro che la somma del consumo di tanti individui e che, pertanto, occorreva studiare meglio come si formano le decisioni di consumo di questi ultimi.

L’idea centrale di Modigliani era che gli individui preferiscono mantenere uno standard di consumo stabile nell’arco della loro vita anche se i loro redditi non sono affatto stabili. In particolare, i redditi sono di solito elevati nel corso della vita lavorativa e sono bassi quando ci si ritira dal mercato del lavoro. Questo significa che, per mantenere un consumo stabile, gli individui devono risparmiare nel corso della loro vita lavorativa e devono consumare il risparmio accumulato nel corso della loro vita da pensionati. Insomma, da giovani si ha un risparmio positivo in quanto si consuma di meno rispetto al reddito mentre da anziani si ha un risparmio negativo in quanto si consuma di più rispetto al reddito. Il risparmio aggregato è dato dalla somma algebrica del risparmio positivo dei giovani e di quello negativo degli anziani.

Si trattava di una teoria semplice e di buon senso. Dopo l’esposizione di Modigliani, molti si chiesero per quale ragione nessuno ci avesse pensato prima. La teoria entrò quindi subito a far parte del (ristretto) numero di idee veramente condivise da tutti gli economisti. Ancora oggi, la cosiddetta teoria del ciclo vitale di Modigliani è parte del bagaglio di conoscenze di qualsiasi economista.

Quali erano le implicazioni di questa teoria che al tempo risultavano più rilevanti? In primo luogo, la teoria implicava che il consumo di ogni generazione, nell’arco dell’intera vita, fosse pari ai redditi di quella generazione. Quindi, se il reddito cresceva di generazione in generazione per effetto del progresso economico così pure doveva accadere per il consumo. Ovvero, nel lungo periodo, reddito e consumo crescevano insieme allo stesso ritmo proprio come risultava dagli studi empirici di Kuznets. In secondo luogo, se il reddito corrente fosse cresciuto per qualche anno al di sopra della norma – in seguito ad un boom economico transitorio, ad esempio – gli individui non avrebbero consumato per intero tale aumento di reddito ma solo una piccola parte. La loro preferenza per un consumo stabile li avrebbe indotti a risparmiare buona parte di questi redditi aggiuntivi al fine di poterli poi “spalmare” sul consumo degli anni a venire. Questo significava che, nel breve periodo, il consumo cresceva meno rispetto al reddito proprio come aveva indicato Keynes.

La teoria di Modigliani riusciva dunque a mettere d’accordo Keynes e Kuznets e questo la rese immediatamente popolare all’interno della professione economica fin dai primi mesi della sua pubblicazione.

Ma la teoria del ciclo vitale consente di derivare anche altre implicazioni fondamentali per comprendere i fattori da cui dipende il risparmio di un paese. In primo luogo, il risparmio di un paese dipende dal suo tasso di crescita economica. Se la crescita economica è sostenuta allora il risparmio totale è positivo. Questo è vero perché i giovani di oggi, che hanno un risparmio positivo, percepiscono redditi più elevati rispetto ai giovani di ieri, che oggi sono anziani ed hanno un risparmio negativo. In secondo luogo, il risparmio complessivo dipende dalla dinamica demografica del paese. Se la dinamica demografica è vivace allora il risparmio totale è positivo. Infatti, se la dinamica è vivace il numero di giovani è superiore a quello degli anziani, ovvero il numero di coloro che hanno un risparmio positivo è superiore al numero di coloro che hanno un risparmio negativo. Infine, per ovvie ragioni, il livello di risparmio dipende dall’età media di pensionamento. Se il pensionamento avviene tardi nel ciclo di vita delle persone allora non sarà necessario risparmiare tanto ed il risparmio complessivo sarà inferiore.

Fino a questo punto è stato trattato il contributo di Modigliani alla scienza economica. L’economista, tuttavia, non era solo uno scienziato di grande valore ma anche un appassionato critico e, a volte, un influente ispiratore delle decisioni di politica economica che sono state adottate nel nostro Paese nel corso del trentennio che va dai primi anni settanta ai primi anni del duemila. Probabilmente, la questione su cui l’influenza di Modigliani e del suo allievo Ezio Tarantelli è stata più determinate è quella relativa all’abolizione della scala mobile.

La scala mobile era un meccanismo di indicizzazione automatica dei salari all’inflazione (il cosiddetto “costo della vita”) introdotto in Italia agli inizi degli anni ‘70. In linea di principio il meccanismo aveva un’ottima giustificazione in quanto consentiva di proteggere il potere di acquisto delle classi lavoratrici. Nella pratica, tuttavia, esso produceva un effetto collaterale perverso in quanto era parzialmente responsabile del circolo vizioso di rincorsa prezzi-salari alla base della elevata inflazione di quegli anni. I prezzi aumentavano perché le imprese dovevano pagare salari più elevati e i salari aumentavano perché la scala mobile li adeguava automaticamente ai prezzi (spirale prezzi-salari).

Il suggerimento di Modigliani e di Tarantelli al Governo tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ‘80 è quello di abolire la scala mobile e, allo stesso tempo, di annunciare un obiettivo di inflazione per il prossimo anno sulla base del quale sarebbero stati poi aggiornati i contratti salariali. Per Modigliani e Tarantelli, l’inflazione-obiettivo avrebbe anche svolto in automatico un secondo ruolo, quello di fare da riferimento per le imprese quando queste dovevano decidere l’adeguamento dei loro prezzi. Il ruolo di riferimento non è un semplice dettaglio. Infatti, se l’inflazione-obiettivo avesse svolto questo ruolo allora l’inflazione effettiva sarebbe stata proprio uguale a quella obiettivo e questo avrebbe comportato una salvaguardia del potere di acquisto delle classi lavoratrici senza ricorrere agli automatismi della scala mobile. In definitiva, abolire la scala mobile ed introdurre il meccanismo di adeguamento basato sull’inflazione-obiettivo avrebbe attenuato la spirale prezzi-salati senza pregiudicare il potere d’acquisto delle classi più deboli.

Lo smantellamento della scala mobile avverrà per tappe successive nel corso degli anni ’80 e la sua abolizione definitiva avrà luogo solo nel 1993. Al tempo in cui Modigliani e Tarantelli iniziarono a denunciarne gli effetti negativi il clima non era certo favorevole a questo tipo di denunce. Ezio Tarantelli, il più esposto dei due nel dibattito politico-sindacale sulla scala mobile, verrà assassinato dalle Brigate Rosse nel 1985.

mercoledì 24 settembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 24 settembre.

Il 24 settembre 1876 nasce Giuseppe Musolino, il celebre brigante.

Giuseppe Musolino, conosciuto come il “Brigante Musolino” o “U re i l’Asprumunti” nasce a Santo Stefano un paesino di 2500 anime alle pendici dell’Aspromonte in provincia di Reggio Calabria, il 24 settembre 1876, terzo di cinque figli.

Anche il giovane Giuseppe, come il padre, si dedica all’attività di taglialegna nella foresta aspromontana. La sua notorietà inizia il 28 ottobre del 1897 passando poi alla storia sotto il nome di “il brigante Peppe Musolino il giustiziere d’Aspromonte“.

E’ sera, all’osteria del paese si beve vino, si chiacchiera, si gioca a carte in un’atmosfera festosa. Ad un lato della locanda si sta disputando una partita di nocciole, da una parte Giuseppe Musolino e Antonio Filastò dall’altra i fratelli Vincenzo e Stefano Zoccali. Scoppia una zuffa tra di loro, calci, pugni e spunta anche un coltello. Una rissa come tante altre ma il giorno seguente qualcuno, forse per un torto arretrato o forse per uno stratagemma architettato ad arte, spara alcuni colpi di fucile a Vincenzo Zoccali che rimane ferito. Intervengono i carabinieri che trovano sul luogo dell’agguato il berretto di Giuseppe Musolino e quindi, inevitabilmente, lo accusano del vile gesto. Vengono arrestati Antonio Filastò e Nicola Travia. Musolino non viene trovato in casa. Brucia l’ingiusta accusa di tentato omicidio e scappa via deciso a dimostrare la sua innocenza. Passa i successivi sei mesi nascondendosi da parenti ed amici fin quando la guardia municipale di Sant’Alessio (borgo limitrofo a Santo Stefano) Alessio Chirico non confida ai carabinieri che Musolino è ancora in paese. Il giovane Peppe viene rintracciato ed arrestato. Condotto a Reggio viene processato per il tentato omicidio di Vincenzo Zoccali il 24 settembre del 1898. Nonostante le tante prove portate a sua discolpa, le false testimonianze di Vincenzo Zoccali e Stefano Crea che affermarono di averlo visto adirato per il bersaglio fallito, non vengono smentite. Quattro giorni dopo la Corte d’Assise emette la sentenza: 21 anni di carcere.

La famiglia Musolino aveva cercato il meglio nel foro reggino per la difesa di Giuseppe, in città si distinguevano per notorietà Domenico Tripepi, impegnato anche politicamente nel settore liberale-democratico e Biagio Camagna, massone-radicale.

La prima scelta cadde su Domenico Tripepi, che però pretendeva una parcella esosa di 500 lire, cifra impossibile per una famiglia modesta quindi, si ripiegò su Biagio Camagna, che accetta l’incarico per un compenso  abbordabile di 100 lire. Camagna, però è deludente nella difesa, tanto che lo stesso Musolino si lamentò che l’avvocato lo abbia volutamente trascurato per proteggere il cugino Giuseppe Travia, il vero autore degli spari.

Giuseppe Musolino, pur continuando a proclamarsi innocente, viene condotto nelle carceri di Riace Marina. Giura vendetta cantando la canzone del brigante Nino Martino: “Nd’ebbiru alligrizza chiddu jornu quandu i giurati cundannatu m’hannu… ma si per casu a lu paisi tornu chidd’occhi chi arridiru ciangirannu”  (N’ebbero allegrezza quel giorno quando i giurati condannato m’hanno ma se per caso al paese torno quegli occhi che risero piangeranno).

Passarono i primi mesi di prigionia e la rabbia per il torto subito fa aumentare la voglia di farsi giustizia.

Alle ore 3:30 del 9 gennaio 1899,  insieme ai suoi compagni di cella: Giuseppe Surace, Antonio Filastò e Antonio Saraceno riesce a fuggire. Si racconta che in sogno San Giuseppe gli avrebbe indicato il punto della cella dove scavare per aprire una  facile via di fuga.

A piedi risale le pendici dell’Aspromonte fino al suo paese Santo Stefano con in testa un solo obiettivo: farsi giustizia.

Nei primi 8 mesi dalla fuga, nascondendosi tra le montagne, nei boschi, nelle caverne, nei cimiteri, godendo dell’appoggio dei parenti, degli amici, della gente comune che lo vede come un simbolo dell’ingiustizia in cui la Calabria allora versava, commette 5 omicidi e 4 tentati omicidi contro coloro che l’hanno accusato e tradito; inoltre tenta di distruggere la casa di Zoccali con la dinamite.

Sulla testa di Giuseppe Musolino viene posta una taglia di 5.000 lire e i tentativi di acciuffarlo si moltiplicano, ma lui riesce sempre a sfuggire. Ci ha tentato Antonio Princi versando dell’oppio in un piatto di maccheroni per farlo addormentare, ma il tentativo fallisce, Musolino ferisce il traditore e uccide il carabiniere nascosto in attesa di poterlo arrestare. Si tenta di fargli credere che potesse emigrare con una nave attraccata a Capo Bruzzano, ma lui non si presenta all’appuntamento scoprendo poi che nessuna nave era lì attraccata ed era solo una trappola per acciuffarlo. La gente si schiera dalla parte del “brigante”, l’eroe gentile e spietato, simbolo dei torti subiti che vuole farsi giustizia da solo sfidando apertamente lo stato. La sua notorietà si sparge, grazie alla stampa, in tutta Italia. Anche rinomati giornali stranieri parlano di lui.  La figura di Giuseppe Musolino diventa una sorta di leggenda che ispira alla composizioni di  canzoni popolari.

Pur avendo appoggi in Calabria, i continui agguati, i pedinamenti, le fughe, diventano una situazione difficile per Giuseppe che decide di lasciare la sua terra per andare a chiedere la grazia al nuovo re Vittorio Emanuele III. Si mette in cammino ma la sorte, giunto in provincia di Urbino, decide di abbandonarlo. Viene per caso catturato da due carabinieri ignari della sua identità, l’appuntato Amerigo Feliziani di Baschi e il carabiniere Antonio La Serra di San Ferdinando di Puglia comandati dal brigadiere Enrico Mattei. I due militi erano in perlustrazione alla ricerca di malavitosi locali, in località Farneta nei pressi di Acqualagna, Giuseppe Musolino vedendoli e credendo che stessero cercando lui, incomincia a correre ma inciampa in un fil di ferro che legava le viti di un vigneto e viene fermato. Per questo evento divenne famosa la frase “Chiddu chi non potti n’esercitu, potti nu filu” (“quello che non poté un esercito, poté un filo”).

I quotidiani del 17 ottobre del 1901 rendono noto l’evento: “Il giustiziere d’Aspromonte Giuseppe Musolino è stato arrestato, lo Stato ha vinto”.

Giuseppe Musolino viene interrogato il 22 di ottobre del 1901 e immediatamente dopo, con la scorta dell’Ispettore Generale delle carceri Italiani, Alessandro Doria, viene trasferito con un treno speciale nelle carceri di Catanzaro.

Per la cattura del Brigante d’Aspromonte si stima che lo stato abbia speso circa un milione come riportato su ‘La Tribuna Illustrata’ del 27 ottobre 1901: “Si presume che le spese complessive, per la dislocazione delle truppe negli Abruzzi – che come è noto nell’inverno scorso raggiungevano quasi due reggimenti – abbiano toccato le 500.000 lire, e a queste aggiungendo le altre spese ingenti per lo spionaggio, per gli arresti numerosi e per tutte le misure di P.S., si verrebbe a raggiungere e forse a sorpassare la somma tonda di un milione. Nessun galantuomo ha mai costato tanto al Governo! “

Il processo presso la Corte d’Assise di Lucca inizia il 14 aprile del 1902, evento questo di interesse nazionale che la stampa segue nei minimi dettagli. L’imputato chiede di essere difeso dai due migliori avvocati d’Italia di quel tempo e, per non dare una cattiva impressione di se all’opinione pubblica, chiede di non vestire gli abiti da carcerato ma avrebbe detto alla stampa: “ho un abito da sedici lire il metro, e lo voglio indossare! Io sono un uomo storico e non un delinquente qualunque bisogna perciò usarmi riguardo!”. Al tribunale di Lucca giungono molti calabresi di ogni svariato ceto sociale a testimoniare, molti di loro con difficoltà ad esprimersi in italiano tanto da rendersi necessaria la presenza di Francesco Limarzi famoso esperto di traduzioni in dialetto calabrese di quel tempo. Durante il processo Musolino a sua discolpa pronuncia la sua autodifesa con parole che diverranno celebri ma non sufficienti ad evitargli una severa condanna: “Se mi assolveste, il popolo sarà contento della mia libertà. Se mi condannaste, fareste una seconda ingiustizia come pigliare un altro Cristo e metterlo nel tempio. Eppoi, vedete, io non sono calabrese, ma di sangue nobile di un principe di Francia. Chi condannate? Un cadavere, perché io posso avere cinque o sei mesi di vita al più!”

La sentenza viene emanata tre mesi dopo l’11 luglio pochi minuti prima delle ore 21:00. Ergastolo! Carcere a vita e 8 anni di isolamento nonostante il ventiseienne stefanito non sia più in grado di intendere e di volere. La lunga latitanza, le fughe, gli agguati, i tranelli, i sospetti lo hanno portato alla psicosi. Il primo agosto viene tradotto nel carcere di di Portolongone all’isola d’Elba, nel mese di settembre del 1912 viene trasferito a Santo Stefano di Ventotene, isolotto nel Mar Tirreno tra Ponza e Ischia, il 22 gennaio 1916 internato nell’ospedale criminale di Reggio Emilia. Nel 1946 gli viene riconosciuta l’infermità mentale e il 12 agosto di quell’anno viene trasferito al manicomio di Reggio Calabria dove morirà alle 10:30 del 22 gennaio del 1956.

Il mito e i racconti del brigante Musolino non tramontarono con la sua morte. La storia di quell’uomo, ritenuto al servizio dei deboli contro la prepotenza dei più forti, continuerà a tramandarsi da generazioni in generazioni.

 

martedì 23 settembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 23 settembre.

Il 23 settembre 1985 muore, sotto i colpi della camorra, il giornalista Giancarlo Siani. Aveva solo 26 anni.

Una carriera costruita con fatica, sottoponendosi ad anni di lunga gavetta, sul campo. Giancarlo Siani aveva cominciato a fare il giornalista con il periodico "Osservatorio sulla Camorra", poi passò a "Il Mattino" come corrispondente da Torre Annunziata. Quindi il passaggio alla sede centrale per sostituire i colleghi durante le ferie.

Dopo due mesi di lavoro stava per ottenere il contratto d'assunzione come redattore, ma i killer erano già in agguato contro il giornalista che faceva troppe domande. Il cronista sino a qualche minuto prima di morire era seduto alla scrivania, a fare il suo lavoro con dedizione.

In contemporanea, per ore, sotto il suo appartamento, i due killer erano pronti per ucciderlo. Era la sera del 23 settembre 1985. Giancarlo Siani era un giovane cronista, aveva solo 26 anni quando è stato ucciso, compiuti pochi giorni prima, il 19 settembre.

Il suo corpo è stato massacrato con numerosi colpi di pistola, poi trovato dalla Polizia dentro la sua auto, in piazza Leonardo, al Vomero (Napoli). Giancarlo si era occupato del sistema di collusioni, di affari di boss e colletti bianchi circa gli appalti pubblici, raccogliendo materiale importante che sarebbe dovuto finire raccolto in un libro.

E' il 22 settembre del 1985 quando Siani scrive l'articolo dal titolo "Nonna manda il nipote a vendere l'eroina". Ecco la prima parte:

"Mini-corriere" della droga per conto della nonna: dodici anni, già coinvolto nel "giro" dell'eroina. Ancora una storia di "muschilli", i ragazzi utilizzati per consegnare le bustine. Questa volta ad organizzare il traffico di eroina era una "nonna-spacciatrice". Era lei a tenere le fila della vendita con altre due persone ed il nipote. La casa-basso nel centro storico di Torre Annunziata era diventata il punto di riferimento per i tossicodipendenti della zona. Al ragazzo il compito di portare le dosi ed incassare i soldi. A scoprire il traffico di droga sono stati i carabinieri della Compagnia di Torre Annunziata che hanno arrestato la donna, Maria Cappone, sessant'anni e Luigi Cirillo, di 34 anni, anche lui coinvolto nel "giro".

Giancarlo Siani nacque il 19 settembre 1959 a Napoli, in una famiglia della borghesia medio-alta napoletana. Dopo aver frequentato il liceo classico "Giovanbattista Vico", si iscrisse all'Università e contemporaneamente iniziò a scrivere, collaborando con alcuni periodici napoletani. Si occupò da subito del fenomeno sociale della criminalità. 

La sua morte fu decisa il giorno dopo la pubblicazione di un suo articolo su "Il Mattino" datato 10 giugno 1985. Esso riguardava l'arresto di Valentino Gionta, boss di Torre Annunziata, che si trovava in carcere condannato all'ergastolo. In questo articolo Giancarlo Siani spiegò come Gionta era diventato alleato del boss Lorenzo Nuvoletta (deceduto), amico nonché referente di Totò Riina. Da qui servirono tre mesi per organizzare il delitto di Giancarlo Siani.

Di seguito l'incipit dell'articolo che segnò la sua condanna a morte:

10 giugno 1985 - "Potrebbe cambiare la geografia della camorra dopo l'arresto del super latitante Valentino Gionta. Già da tempo, negli ambienti della mala organizzata e nello stesso clan dei Valentini di Torre Annunziata si temeva che il boss venisse «scaricato», ucciso o arrestato. Il boss della Nuova famiglia che era riuscito a creare un vero e proprio impero della camorra nell'area vesuviana, è stato trasferito al carcere di Poggioreale subito dopo la cattura a Marano l'altro pomeriggio. Verrà interrogato da più magistrati in relazione ai diversi ordini e mandati di cattura che ha accumulato in questi anni. I maggiori interrogativi dovranno essere chiariti, però, dal giudice Guglielmo Palmeri, che si sta occupando dei retroscena della strage di Sant'Alessandro.

Dopo il 26 agosto dell'anno scorso il boss di Torre Annunziata era diventato un personaggio scomodo. La sua cattura potrebbe essere il prezzo pagato dagli stessi Nuvoletta per mettere fine alla guerra con l'altro clan di «Nuova famiglia», i Bardellino. I carabinieri erano da tempo sulle tracce del super latitante che proprio nella zona di Marano, area d'influenza dei Nuvoletta, aveva creduto di trovare rifugio. Ma il boss di Torre Annunziata, negli ultimi anni, aveva voluto «strafare»."

Dopo il delitto di Giancarlo ebbe luogo una tormentata vicenda giudiziaria, che portò a niente. Inchieste fallite, bugie, al punto che si affermò addirittura che il cronista era stato eliminato per questioni di carattere personale. Tutto sarebbe finito nel nulla se non fosse stato per l'intervento del pm Armando D'Alterio. Sulla base delle dichiarazioni del pentito Salvatore Migliorino, cassiere del clan Gionta di Torre Annunziata, il magistrati decise di riaprire il fascicolo.

Ed è così che si arrivò a stabilire che il delitto fu compiuto dalle cosche dei Gionta e dei Nuvoletta. Insomma per catturare gli assassini del giornalista martire, per la verità ci sono voluti 12 anni e 3 pentiti.

Erano circa le 21 e Giancarlo Siani era appena arrivato sotto casa sua, a bordo di una Citroën Méhari. Proprio lì, all'interno della sua auto, venne ucciso con dei colpi di pistola. Fu colpito in testa circa dieci volte da due pistole Beretta di 7.65 mm. Poi la fuga degli assassini in moto.

Uno dei killer è Ciro Cappuccio, rinchiuso nel carcere di Poggioreale e condannato all'ergastolo il 15 aprile del 1997. Fu poi arrestato vicino Civitavecchia (Roma), Armando Del Core, secondo esecutore, anch'egli condannato all'ergastolo per l'omicidio del giovane cronista.

lunedì 22 settembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 22 settembre.

Il 22 settembre 1980 ha inizio la guerra tra Iran e Iraq.

Il 20 agosto del 1988 entrò in vigore il cessate il fuoco che mise fine al conflitto tra l’Iran dell’ayatollah Khomeini e l’Iraq di Saddam Hussein. La guerra era scoppiata otto anni prima, quando l’esercito iracheno aveva invaso a sorpresa il sud dell’Iran. Fu una delle guerre più sanguinose, lunghe e inutili della storia del Medio Oriente.

Saddam Hussein aveva lanciato l’attacco nell’estate del 1980 sperando di ottenere una rapida vittoria. Nei suoi piani, la guerra gli avrebbe consentito di impadronirsi di nuovi territori ricchi di petrolio e di destabilizzare la teocrazia iraniana. La religione fu uno dei fattori determinanti della guerra anche se già nel corso degli anni Sessanta e Settanta c’erano stati scontri minori per ragioni di confine.

In Iran nel 1979 il governo filo-occidentale dello scià Mohammad Reza Pahlavi era stato rovesciato da una rivoluzione che aveva instaurato una teocrazia sciita. L’Iraq si reggeva all’epoca su un delicato equilibrio tra la minoranza sunnita, di cui faceva parte lo stesso Saddam Hussein, e la maggioranza sciita. Per Saddam Hussein la situazione era diventata insomma delicata e pericolosa: un Iran governato dal clero sciita poteva rappresentare un richiamo per gli sciiti dell’Iraq e spingerli a compiere una rivoluzione simile a quella che aveva rovesciato lo scià. Con un attacco preventivo Saddam Hussein sperava di destabilizzare il nuovo regime iraniano, rendere più sicuri i suoi confini e trasformare l’Iraq nella potenza egemone del Medio Oriente.

Il 1980 sembrava il momento migliore per attaccare. Sotto lo scià l’esercito iraniano era diventato il più potente di tutta la regione. Era molto più numeroso di quello iracheno – all’epoca l’Iraq aveva circa 17 milioni di abitanti, mentre l’Iran ne aveva più di 50 – ed era dotato di moderni mezzi militari forniti dagli Stati Uniti. Tra il 1979 e il 1980, però, subito dopo la rivoluzione, decine di generali e migliaia di ufficiali, di piloti dell’aviazione e di tecnici erano stati processati, giustiziati, degradati o erano fuggiti all’estero per via della loro vicinanza al vecchio regime. Inoltre i rapporti con gli Stati Uniti si erano interrotti ed era impossibile ottenere dalle industrie statunitensi i pezzi di ricambio per i moderni aerei da combattimento e per gli altri mezzi acquistati negli anni precedenti.

Il 22 settembre del 1980 l’esercito iracheno attraversò il confine tra i due paesi senza incontrare resistenza. Ci furono avanzate nel nord e al centro ma la spinta principale venne compiuta a sud, nella regione del Khouzestan. Si trattava di un’area ricca di petrolio, con una forte presenza di arabi (la maggioranza degli iraniani sono invece persiani) e vicina al mare. Uno degli obiettivi di Saddam Hussein era proprio allargare l’accesso al mare del suo paese, che all’epoca era costituito da uno stretto corridoio largo poche decine di chilometri, a sud della grande città di Bassora.

L’esercito iracheno avanzò per circa un anno e mezzo. Non ci furono grandi battaglie perché l’esercito iracheno non aveva un nemico da combattere: l’Iran stava lentamente mobilitando il suo gigantesco esercito al sicuro, molto lontano dal fronte.

Nel marzo del 1982 il comando dell’esercito iraniano venne trasferito dai militari di professione al clero. La mobilitazione era oramai pronta: l’Iran aveva meno carri armati, elicotteri e cannoni – la gran parte erano bloccati nei depositi perché non c’erano i tecnici per farli funzionare. Ma gli iraniani avevano almeno un vantaggio: potevano schierare più di 350 mila soldati – sarebbero diventati 900 mila alla fine della guerra – cioè due uomini per ognuno dei soldati che poteva schierare l’Iraq. Da quel momento fino alla fine della guerra l’Iraq fu costretto a restare sulla difensiva, subendo le gigantesche ondate degli assalti della fanteria iraniana e ritirandosi lentamente.

All’inizio della guerra i leader iraniani decisero di non schierare al fronte le unità dell’esercito regolare. I religiosi non si fidavano della lealtà dell’esercito e preferirono impegnare le unità della Guardia Rivoluzionaria: volontari che spesso avevano ricevuto un addestramento sommario. Le loro unità non erano guidate da ufficiali di professione ma dai mullah e da altri religiosi che tenevano preghiere e canti rituali prima di mandare le truppe all’attacco.

In queste condizioni non era possibile elaborare strategie molto complicate – manovre di mezzi corazzati, attacchi sui fianchi, sbarchi aerei. I comandanti iraniani si limitavano a lanciare all’assalto frontale ondate su ondate di Guardie Rivoluzionarie, a volte precedute da lunghi bombardamenti di artiglieria. L’esercito iraniano subì perdite enormi ma dopo pochi mesi riuscì a respingere gli iracheni dal territorio iraniano e a mettere sotto assedio la città di Bassora.

Gli iracheni avevano un esercito più moderno e professionale di quello iraniano e ricevevano aiuti – sempre più consistenti mano a mano che la guerra procedeva – da molti paesi arabi, europei e dagli Stati Uniti. Ma anche la loro conduzione della guerra non era particolarmente professionale. Si racconta che i piloti dei carri armati di fabbricazione sovietica T62 spesso non erano in grado di utilizzare il complicato sistema computerizzato che aiutava a puntare il cannone. Erano costretti a prendere la mira senza aiuti elettronici, come si faceva quarant’anni prima durante la Seconda guerra mondiale.

In parte per rimediare a queste mancanze e per sopperire alla loro inferiorità numerica, gli iracheni utilizzarono spesso armi chimiche – fabbricate utilizzando componenti comprati da aziende europee o americane. Si calcola che probabilmente tra i 50 mila e i 100 mila iraniani, tra militari e civili, furono uccisi dalle armi chimiche irachene.

Gli iracheni utilizzarono gas nervini, che anche in piccola quantità erano in grado di uccidere velocemente. Ma ben peggiori erano i gas vescicanti, in grado di produrre ustioni chimiche al contatto con la pelle. Raramente gli agenti vescicanti erano in grado di uccidere, ma producevano ferite terribili. I soldati avversari venivano resi inoffensivi e l’esercito iraniano era costretto a impiegare risorse per prendersi cura dei feriti.

Anche gli iraniani utilizzarono metodi di guerra particolarmente cruenti. L’esercito iraniano aveva difficoltà a utilizzare i mezzi meccanici e moderni, quindi per svolgere qualsiasi compito erano necessari moltissimi soldati – impiegati anche come costruttori e operai. Per sopperire a questa necessità di personale vennero arruolati decine di migliaia di bambini: fino a dieci anni, secondo alcune testimonianze.

Alcuni giornalisti raccontarono i ruoli atroci a cui erano spesso destinati i bambini soldato. Troppo piccoli e deboli per essere utilizzati in combattimento, venivano inviati a ripulire i campi minati. Un giornalista dell’Europa dell’est raccontò di aver visto bambini legati a gruppi di dieci – per evitare che qualcuno di loro potesse tirarsi indietro – mandati a correre sui campi minati per aprire una strada alle ondate degli assalti.

Nessuno dei due contendenti mostrò particolare rispetto nei confronti dei civili. A partire dal 1984 le città iraniane e irachene subirono bombardamenti sempre più pesanti. Nessuno dei due eserciti aveva le risorse tecniche, e nemmeno la volontà, per colpire soltanto gli obiettivi militari. Le campagne di bombardamento vennero portate avanti con missili balistici molto imprecisi o con bombardamenti a tappeto. L’unico scopo di questi attacchi era uccidere civili e di piegare il morale della popolazione.

Molti storici e analisti sono concordi nel sostenere che l’Iraq riuscì a resistere così a lungo all’esercito iraniano grazie agli ingenti aiuti economici che ricevette durante la guerra. I principali finanziatori dell’Iraq furono l’Arabia Saudita, il Kuwait e gli Emirati Arabi Uniti. Ma anche gli Stati Uniti e vari paesi europei finanziarono l’Iraq tra il 1980 e il 1988. Poco meno di metà di tutti i finanziamenti all’Iraq durante la guerra proveniva da paesi occidentali. Nello stesso periodo si calcola che Francia, Cina e Russia furono responsabili del 90 per cento delle esportazioni di armi in Iraq.

Gli Stati Uniti favorirono questo flusso di armi rimuovendo alcune sanzioni che avevano colpito l’Iraq negli anni precedenti, anche se spesso le consegne di armi violavano le leggi internazionali. Inoltre fornirono informazioni e altri dati di intelligence all’esercito iracheno.

Nel 1984 la guerra tra i due paesi si estese al Golfo Persico, il braccio di mare su cui si affacciano entrambi i paesi. L’aviazione irachena attaccò più volte le petroliere che partivano dai porti iraniani, una volta colpendo per errore una fregata americana. Gli iraniani minarono le acque del Golfo Persico e lanciarono attacchi con la loro flotta contro le petroliere che partivano dall’Iraq. Gli Stati Uniti stabilirono che il comportamento iraniano violava gli accordi internazionali di libera navigazione e schierarono numerose navi nel golfo, arrivando più volte a scontrarsi direttamente con la flotta iraniana.

L’Iran ricevette pochi aiuti internazionali, principalmente dalla Libia e dalla Corea del Nord. Nel 1986 si scoprì che anche gli Stati Uniti avevano fornito all’Iran alcune armi all’interno di un complesso scambio di armi in cambio di denaro e ostaggi: il denaro ottenuto finiva poi a finanziarie alcuni movimenti di guerriglia in Nicaragua. È il cosiddetto “scandalo Iran-Contras”, dal nome dei guerriglieri che vennero finanziati.

Nel 1988 l’esercito iracheno riuscì a organizzare alcuni attacchi con criteri moderni ed efficienti e l’esercito iraniano subì pesanti sconfitte. Queste vittorie accelerarono la fine della guerra, ma da tempo Saddam Hussein sapeva che non avrebbe più potuto vincere: subito dopo essere stato respinto, nel 1982, tentò di negoziare una pace, ma gli iraniani posero come condizione le sue dimissioni e ingenti riparazioni di guerra. Saddam Hussein non accettò.

Dopo le vittorie irachene del 1988, però, anche la teocrazia iraniana comprese che non sarebbe riuscita a ottenere la vittoria definitiva che sperava. L’esercito iracheno era tecnicamente più potente e riceva aiuti e armi moderne dai suoi alleati. Inoltre, per quanto la propaganda iraniana celebrasse il coraggio dei suoi martiri-bambini e lo spirito di sacrificio dei suoi soldati, la realtà era molto diversa: spesso le truppe iraniane si erano arrese in massa o si erano rifiutate di compiere assalti suicidi.

Nell’agosto del 1988 l’Iran accettò la risoluzione 598 dell’ONU e il 20 agosto i due paesi firmarono il cessate il fuoco. L’ONU inviò 350 osservatori a sorvegliare tutta la linea del fronte, per evitare che nuovi scontri facessero riesplodere il conflitto. La guerra era durata otto anni e aveva causato enormi danni economici a entrambi i paesi. Non si è mai saputo quanti furono i morti. Le stime oscillano tra i 500 mila e un milione, con almeno un altro milione di mutilati, in gran parte iraniani.

Con la pace l’Iraq ottenne alcuni piccolissimi incrementi territoriali nel sud dell’Iran, insignificanti rispetto agli obiettivi della guerra. Pochi mesi dopo il conflitto Saddam Hussein rinunciò anche a questa piccola conquista, che cedette all’Iran in cambio della sua neutralità nella nuova guerra che stava preparando: l’invasione del Kuwait che tre anni dopo avrebbe portato alla Prima guerra del Golfo.

domenica 21 settembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 21 settembre.

Il 21 settembre 2003 la sonda Galileo si tuffa nell'atmosfera di Giove.

Era il 18 Ottobre 1989 quando la partenza dello Space Shuttle da Cape Canaveral dava inizio a una delle più grandi avventure nella storia dell’ esplorazione spaziale.

Dopo un lungo viaggio nel corso del quale s’è avvicinata a Venere e poi, per due volte, alla Terra, è entrata in orbita intorno a Giove il 7 dicembre 1995. 

Dal modulo orbitante si è distaccata una navicella, che è discesa nell’atmosfera gioviana effettuando misurazioni per 58 minuti prima di disintegrarsi. Fra i risultati più importanti ottenuti dalla capsula, ricordiamo le misure delle velocità dei venti orizzontali e quelle di abbondanza di alcuni gas nobili (elio, neon). Le prime hanno indicato che la circolazione atmosferica deve essere prodotta soprattutto da sorgenti di energia interne al pianeta; per quanto riguarda l’abbondanza atmosferica dell’elio in relazione all’idrogeno (i due elementi di cui Giove è più ricco), è stato confermato che essa è significativamente minore di quella del Sole. 

Galileo è stata la prima sonda a osservare in modo ravvicinato un asteroide (951 Gaspra) e a scoprire la luna di un asteroide. Ha permesso di scoprire l’origine del sistema di anelli e di conoscere con buona approssimazione la struttura interna dei satelliti principali di Giove: ha rilevato la presenza di sali d’acqua su Europa, Ganimede e Callisto e di un’intensa attività vulcanica su Io. 

Nel luglio 1994 Galileo ha ripreso l’impatto della cometa Shoemaker-Levy con Giove: il pianeta è stato investito da una ventina di frammenti del nucleo cometario, oltre che da una miriade di particelle di polvere; il fenomeno è stato osservato anche dalla Terra e dal telescopio spaziale Hubble. Prevista della durata di due anni, la missione si è prolungata oltre sei, con una prima estensione tra il 1997 e il 1999 e una seconda, la Galileo Millennium Mission, che si è conclusa con il fly-by di Amaltea (una piccola luna interna di Giove) e con un distruttivo impatto con Giove il 21 settembre 2003, disposto per evitare di contaminare le lune di Giove, in particolare Europa.

sabato 20 settembre 2025

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 Buongiorno, oggi è il 20 settembre.

Il 20 settembre 1946 ha luogo la prima edizione del festival del cinema di Cannes.

Inaugurato ufficialmente nel 1946, il Festival di Cannes è uno dei festival cinematografici più antichi del mondo, ed è probabilmente in assoluto il più prestigioso. Fu alla fine degli anni '30 che il Ministero dell'Educazione francese, turbato dall'influenza dei regimi nazi-fascisti nella selezione dei film destinati alla Mostra del cinema di Venezia, mise in cantiere l'idea di una nuova rassegna. Tra le varie città candidate, fu scelta la luminosa ed elegante Cannes, ma i lavori della prima edizione, nel 1939, furono subito interrotti a causa dell'inizio del secondo conflitto mondiale.

Rilanciato con la fine delle ostilità, il festival transalpino tenne la sua prima vera edizione nel '46, nel Casinò di Cannes, e fu un enorme successo. Quando venne alla luce un accordo stipulato sottobanco con Venezia, che impegnava i due festival a tenersi ad anni alterni, la cosa fu aspramente criticata e considerata una "capitolazione" della Francia. Nel 1947, tuttavia, il festival ebbe luogo nuovamente nel nuovo, ma ancora provvisorio, Palais des Festivals.

Saltato qualche anno a causa di problemi di budget, il Festival di Cannes riprese nel 1951 attenuando la rivalità con la Mostra del cinema con lo spostamento della data da settembre a maggio. La celebre Palma d'Oro fu creata nel '55, a rimpiazzare il più anonimo Grand Prix du Festival, e nel 1959 fu fondato il Marché du Film (il mercato dei film), che oggi rappresenta la maggiore piattaforma commerciale per il cinema in tutto il mondo.

Nel '68 il festival fu coinvolto nelle proteste studentesche. Prima alcuni registi, tra cui Carlos Saura e Milos Forman, ritirarono le proprie opere, poi Louis Malle e altri colleghi occuparono il Palais interrompendo le proiezioni per solidarietà con i movimenti sindacali e studenteschi.

Gli anni '70 furono un periodo denso di cambiamenti per il festival, con il passaggio di testimone nel ruolo di delegato generale a Maurice Bessy e poi a Gilles Jacob. Il primo creò due comitati separati per selezionare film francesi e stranieri, il secondo introdusse la Caméra d'Or (premio per registi esordienti) e la gloriosa sezione Un Certain Regard. Inoltre la durata della kermesse fu ridotta a tredici giorni, con un conseguente ridimensionamento della selezione, e Jacob inizio a introdurre celebrità e personaggi dell'industry al fianco degli accademici che fino ad allora avevano costituito le giurie.

Nel 1983 fu inaugurato l'attuale e più ampio Palais des Festivals et des Congrès, inizialmente avversato e definito "il Bunker". Nel 1995 Gilles Jacob creò una nuova sezione della kermesse, la Cinéfondation, a sostegno del cinema nel mondo e in particolare della figura dello sceneggiatore. Nel 2000 Jacob è stato eletto presidente del festival, carica che ha ricoperto fino al 2014. Nel 2002 la manifestazione ha assunto il semplice, incisivo e riconoscibile nome di Festival de Cannes.

Secondo una stima approssimativa, circa 200.000 tra addetti ai lavori, critici, appassionati e filmaker arrivano a Cannes durante i dodici giorni del festival.

Fino al 1954, il premio consegnato dalla giuria del Festival di Cannes era il Grand Prix, assegnato al miglior regista della selezione competitiva. Il vincitore riceveva una scultura realizzata dall'artista del momento.

Alla fine del '54, il delegato generale del festival indisse un concorso per la realizzazione di un trofeo ispirato allo stemma cittadino di Cannes, e che rappresentasse quindi la Palma. Il disegno prescelto fu quello del designer di gioielli Lucienne Lazon, che divenne il modello della prima Palma d'oro; questa fu consegnata nel '55 a Derlbert Mann per il suo film Marty, ma poi, per dieci anni, il Festival tornò al Grand Prix.

Nel 1975 fu reintrodotta definitivamente la Palma d'oro, destinata a diventare il simbolo del Festival. Il design dell'attuale Palma d'oro è il risultato di una rimodernizzazione operata nel 1997 da Caroline Cheufele, presidente della Chopard, che produce il trofeo ogni anno. La Palma è realizzata in oro 24 carati e montata su un signolo blocco di cristallo.

Soltanto tre donne registe, fino ad oggi, hanno vinto una Palma d'oro: si tratta di Jane Campion, per il suo capolavoro del 1993, Lezioni di piano; Julia Ducournau per Tinane nel 2021 e Justine Triet per Anatomy of a fall del 2023.

Sono nove (o meglio dieci) i registi che possono vantare di aver ricevuto due volte il massimo premio del Festival di Cannes: Francis Ford Coppola, Shohei Imamura, Bille August, Emir Kusturica, i fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne, Michael Haneke, Ken Loach, Alf Sjoberg e Ruben Ostlund. 

Una conta per paese d'origine vede la Francia primeggiare decisamente per numero di vincitori, con quindici Palme d'oro. Seguono gli Stati Uniti con 9, l'Italia e il Giappone con 5 e il Regno Unito con 4.

Nel 2011 viene introdotta un'importante novità, la Palma d'oro alla carriera, e il primo destinatario di questo onore è un regista italiano molto caro alla Francia: Bernardo Bertolucci.

In occasione del cinquantenario del Festival, nel 1997, una speciale "Palma delle Palme" fu riservata per uno dei più grandi cineasti di tutti i tempi, Ingmar Bergman. A ritirarla per lui fu la figlia Linn Ulmann, alla presenza di ventotto vincitori della Palma d'oro.

venerdì 19 settembre 2025

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 Buongiorno, oggi è il 19 settembre.

Il 19 settembre 1979 si disputa il Gran Premio Dino Ferrari, un GP di Formula 1 non valido per il Campionato Mondiale disputatosi in un’unica edizione all’omonimo Autodromo di Imola.

La gara venne vinta dall’austriaco Niki Lauda su Brabham-Alfa Romeo; per il vincitore si trattò del secondo, e ultimo, successo in una gara non titolata. Precedette sul traguardo l’argentino Carlos Reutemann su Lotus-Ford Cosworth e il sudafricano Jody Scheckter su Ferrari. Fu l’ultima gara a cui partecipò Lauda prima del suo primo ritiro dalle competizioni ed è, a tutt’oggi, l’ultima vittoria per una vettura motorizzata Alfa Romeo in F1. È stato anche l’ultimo gran premio di Formula 1, non valido quale prova iridata, disputato in Italia.

Esso fu, a tutti gli effetti, la prova generale per il nuovo tracciato permanente di Imola, omologato pochi mesi prima e destinato ad alternarsi ogni due anni a Monza, dal 1980, nell’organizzazione del Gran Premio d’Italia. Ma già dal 1981 Monza ridivenne la sede del gran premio italiano e Imola fu destinata a sede di gara del Gran Premio di San Marino.

La gara si disputò sul tracciato di Imola, denominato in onore di Dino Ferrari, e sito in una zona oltre al Fiume Santerno, a sud della cittadina. La pista lunga poco più di 5 kilometri, sarebbe stata affrontata per 40 giri, per un totale poco superiore ai 200 km. Il circuito, ancora temporaneo, venne trasformato nell’inverno precedente in permanente e inaugurato il 2 dicembre 1978, pur in presenza di un gruppo di cittadini imolesi che aveva proposto un esposto alla Procura della Repubblica di Bologna contro la trasformazione del tracciato in un circuito permanente.

La Brabham presentò per l’ultima volta il modello BT48, e per l’ultima volta la scuderia di Bernie Ecclestone si rifornì con motori dell’Alfa Romeo.

La gara venne dedicata alla memoria di Dino Ferrari, figlio di Enzo, deceduto nel 1956, a soli 24 anni, per distrofia muscolare.

Il tracciato ospitava per la seconda volta nella sua storia una gara di F1, dopo il Gran Premio d’Imola 1964, vinto da Jim Clark su Lotus-Climax. L’idea di riportare la massima formula sul tracciato romagnolo era stata lanciata, già nel 1977, da Enzo Ferrari che aveva proposto la creazione di un Torneo europeo di F1, basato su dieci gare e riservato a piloti non iscritti nel mondiale, che avrebbe dovuto comprendere la Coppa Europa F.1 Dino Ferrari, gara da tenersi sul Circuito di Imola il 25 settembre di quell’anno. A seguito della defezione di molte scuderie britanniche e dell’abbandono del progetto del Torneo d’Europa da parte della CSI, l’Automobile Club di Bologna annunciò il 20 settembre la cancellazione della corsa a Imola.

Il 26 ottobre 1978 l’Automobile Club di Bologna annunciò l’accordo con Bernie Ecclestone, capo della FOCA, per la disputa di un Gran Premio sul Circuito di Imola, per tre stagioni. Ciò provocò la reazione dell’ACI, che si considerava l’unico soggetto intitolato per chiudere un tale accordo, così come dalla Commissione Sportiva Internazionale, unico ente predisposto per l’omologazione dei circuiti. La CSI inoltre comunicò che la scelta definitiva della sede sarebbe spettata all’ACI.

Solo successivamente fu ipotizzata la possibilità che in uno dei due autodromi potesse essere organizzata una gara non valida per il campionato.

Il 13 aprile 1979 vi fu un accordo per tenere il Gran Premio d’Italia a Monza e svolgere una gara fuori campionato a Imola, che a sua volta, avrebbe ospitato il Gran Premio nazionale nel 1980, anche se tale accordo venne criticato dall’AC Firenze, che avrebbe voluto l’inserimento anche dell’Autodromo del Mugello nell’alternanza fra circuiti e dalla Commissione Sportiva Automobilistica Italiana, che si considerava l’unico ente intitolato per la scelta e che appoggiò la proposta dell’AC Firenze. Questa possibile alternanza a tre circuiti venne bocciata dalla FOCA.

Il 28 giugno Bernie Ecclestone visitò l’Autodromo Nazionale di Monza e dette il benestare alle modifiche proposte dagli organizzatori al fine di rendere più sicura la pista. Ciò permise di confermare la disputa del Gran Premio d’Italia sulla pista brianzola. In agosto venne raggiunto l’accordo definitivo tra la FOCA e gli organizzatori di Imola per lo svolgimento del Gran Premio non valido per il campionato, da tenersi la settimana successiva a quello d’Italia. In quel gran premio la Scuderia Ferrari si era aggiudicata poi matematicamente la Coppa Costruttori, e il suo pilota, Jody Scheckter, aveva ottenuto il titolo piloti.

Fu la prima gara di F1, non valida per il campionato mondiale, che si disputò in Italia dal 1972, col Gran Premio Repubblica Italiana.

Nelle prove libere dei giorni precedenti alla gara il miglior tempo venne fatto segnare da Gilles Villeneuve su Ferrari in 1’35″1, due secondi meno del record ufficioso detenuto da Carlos Reutemann in 1’37″3. Anche al venerdì prima della gara la pista venne utilizzata per dei test. Il più rapido risultò Vittorio Brambilla dell’Alfa Romeo in 1’38″04.

Diciannove furono i piloti iscritti all’evento. La Scuderia Ferrari e l’Alfa Romeo furono gli unici due team del mondiale a iscrivere i due piloti titolari. Iscrissero due piloti anche il Team Agostini, che non partecipava al mondiale, per Giacomo Agostini e Gimax, e la Shadow, che sostituì Jan Lammers con Beppe Gabbiani. Anche la Copersucar-Fittipaldi non portò Emerson Fittipaldi ma l’altro brasiliano Alex-Dias Ribeiro.

Tra gli iscritti poi non parteciparono Hans-Joachim Stuck, dell’ATS, Jean-Pierre Jabouille della Renault e Jacques Laffite della Ligier. Laffite, come altri piloti del mondiale, era impegnato in alcuni test sul Circuito di Watkins Glen, in vista del GP degli USA-Est.

Beppe Gabbiani, che prese parte all’evento con una Shadow, inizialmente era stato indicato all’Arrows, così come si prospettarono gli esordi in F1 per gli argentini Ricardo Zunino alla Brabham e Miguel Ángel Guerra alla Copersucar-Fittipaldi, che poi non avvennero.

giovedì 18 settembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 18 settembre.

Il 18 settembre 1931 ebbe luogo l'incidente di Mukden, pretesto per l'occupazione giapponese della Manciuria.

La seconda guerra mondiale in Asia iniziò non a Pearl Harbor, ma dieci anni e tre mesi prima, in Manciuria, a Mukden (oggi Shenyang), nella notte del 18 settembre 1931. Evento decisivo nella storia del 20° secolo, oggi dimenticato. Eppure impressionò il contemporaneo Hergé, che ne fece il centro dell’intrigo dell’albo di Tintin "Il Loto Blu".

Il piccolo corpo d’armata giapponese, l’armata del Kwantung, deve il suo nome al territorio del Kwantung, o Guandong in cinese moderno, Kanto in giapponese, nella penisola di Lioadong, dove si trova Dalian e un nome noto nei primi anni del 20° secolo: Port Arthur, la base navale russa conquistata dai giapponesi dopo un assedio estenuante nella guerra russo-giapponese (1904-1905). E’ la lontananza dell’arcipelago motivo per cui l’armata del Kwantung, nonostante il piccolo stato maggiore, divenne vivaio di cospiratori e sostenitori del fascismo giapponese.

Il problema che affrontò il Giappone dopo la vittoria sulla Russia nel 1905 fu che la sua presenza nel continente rimase fragile. In virtù del trattato di Portsmouth, il Giappone recuperò solo i diritti acquisiti dalla Russia in Manciuria. Una volta che tali diritti decaddero, nel 1923, il Giappone doveva abbandonare ciò per cui aveva combattuto e vinto al prezzo di 130.000 morti. Posando da protettori della Cina, bloccando ogni tentativo di smembramento coloniale del Regno di Mezzo come fecero gli europei in Africa, gli Stati Uniti furono gli intermediari che a Portsmouth chiesero ed ottennero che il Giappone rinunciasse alle ambizioni in Manciuria. I semi della Guerra del Pacifico vennero gettati. Le tensioni non smisero di crescere tra Giappone e Stati Uniti. La sfida era in Cina. La conclusione del lento cumularsi di risentimenti, sospetti, incomprensioni e rivalità esplose a Pearl Harbour nel dicembre 1941. Ma nel tardo 19° secolo, conquistare il nord della Cina era considerato prioritario dagli strateghi giapponesi. Vedendo nelle province del nord-est della Cina il baluardo necessario per controllate la Corea, il cui possesso bloccava lo stretto di Tsushima e metteva l’arcipelago al riparo dalle invasioni. Nel 1895 questo fu il motivo della prima guerra cino-giapponese. Il Giappone poi conquistò la penisola del Lioadong. Col Trattato di Shimonoseki la Cina cedette territori al Giappone. Ma l’intervento vigoroso della Russia, sostenuta da Germania e Francia, costrinse l’esercito imperiale ad evacuare Port Arthur. Nel 1898, in cambio del sostegno di Mosca, Pechino cedette alla flotta russa la base navale di Port Arthur. Il Giappone ritenne l’alleanza russo-cinese volta a indebolirlo e privarlo dello status di grande potenza per, infine, ridurlo in schiavitù. Come si vide, gli eventi accelerarono di molto. Con ciascuna di tale manovre, come nel gioco del Go, l’Occidente cessò di essere il modello di modernità e divenne l’usurpatore delle vittorie del Giappone. Il timore di vedere l’arcipelago schiacciato arrivò a suscitare una mentalità da assedio. Il primo nemico fu la Russia, da cui la guerra russo-giapponese. E dal 1905 gli Stati Uniti. L’idea di conquistare la Manciuria divenne urgente presso certi ambienti per allentare la pressione. Nel 1915, approfittando degli europei impantanati nella guerra in Europa e dello status di alleato di Francia e Gran Bretagna, il governo conservatore tentò la fortuna con le famose “Ventuno domande” che posero la Cina sotto il protettorato giapponese di fatto. Anche in questo caso gli Stati Uniti s’interposero. Il tentativo di mettere sotto protettorato la Cina fallì. Ma il Giappone non rimase a mani vuote: il contratto di affitto del Kwantung fu esteso fino al 1997. Parziale vittoria per il Giappone? O disastrosa sconfitta come sostennero le fazioni più radicali.

Nei primi anni ’20 l’armata del Kwantung era una piccola forza. Se la flotta giapponese aveva il diritto di ancorare le navi a Port Arthur, i trattati internazionali limitavano la presenza dei soldati giapponesi a 10.000 uomini. D’altra parte, gli stessi trattati internazionali proibivano le armi offensive: artiglieria pesante, aviazione, blindati… La missione era pattugliare un corridoio di 1 km lungo la ferrovia, la cui concessione fu strappata alla Russia nel 1905, da Port Arthur, a Dalian dopo 40 chilometri per unirsi ad Harbin al ramo manciuriano della Transiberiana. L’armata del Kwantung era quindi una forza di polizia per vigilare sulla sicurezza della rete ferroviaria minacciata dalle bande di saccheggiatori, che sciamavano nell’immensa Manciuria attaccando i convogli. La Manciuria era quindi una sorta di “Wild West” asiatico popolato da nomadi, pastori, banditi, trafficanti di oppio mongoli, manciù e cinesi. Le sue forze erano composte da una divisione di fanteria sostituita ogni quattro anni. Gli ufficiali godevano di condizioni di vita lussuose a Dalian e Port Arthur, in cui aveva sede il quartier generale dell’armata del Kwantung, edificio che esiste ancora. I bilanci erano arrotondati con confortevoli diarie, le più alte dell’esercito imperiale. E soprattutto gli ufficiali avevano una libertà di manovra sconosciuta nelle caserme dell’arcipelago, dove la gerarchia era greve. Nel Kwantung militari e amministratori erano liberi di agire a piacimento. Il cambio del personale permanente ebbe effetti perversi, creando nell’esercito imperiale lo “spirito della Manciuria” che si fuse con la convinzione che la Manciuria andasse conquistata con la forza, bypassando l’accordo di Tokyo.

Due eventi accelerarono la rottura dell’armata del Kwangtung con le autorità del governo civile. Il primo fu la rapida democratizzazione vissuta dal Giappone alla morte dell’imperatore Meiji nel 1912, denominata “democrazia Taisho” dal nome del figlio di Meiji, e padre del futuro imperatore Hirohito. Il riconoscimento dei sindacati, la legalizzazione del Partito Socialista, l’estensione del diritto di voto universale agli uomini, al fine di concedere il diritto di voto alle donne… il Giappone seguiva l’ondata di liberalizzazione nel mondo che usciva dalla Prima Guerra Mondiale. Ma i liberali erano anche i sostenitori del disarmo. Il Giappone era uno dei cinque fondatori della Società delle Nazioni, precursore delle Nazioni Unite, creata dopo la prima guerra mondiale. E per i liberali, la sicurezza del Giappone non passava più attraverso la costituzione di un forte esercito, ossessione di Meiji, ma con la firma di accordi con le maggiori potenze. Già indignato dall’occidentalizzazione dei costumi (in cui vide la rinuncia allo spirito guerriero dei samurai), l’esercito imperiale veniva colpito al cuore con la riduzione degli effettivi. Per motivi di bilancio (la difesa copriva il 30% del bilancio dello Stato) e politico, si avviò l’allineamento politico con Paesi importanti come Stati Uniti, Francia e Regno Unito che smobilitavano. Ad aggravare il senso di tradimento dell’élite giapponese: la resa dei beni giapponesi in Manciuria fu presa in considerazione a Tokyo per rilassare le relazioni con la Cina, che non riconobbe né il trattato di Portsmouth, né l’accordo Giappone-USA sulle “Ventuno domande”. L’altro evento decisivo fu la scomparsa degli uomini di Meiji a capo delle Forze armate. Obbedienti e spesso giunti ai vertici grazie più alla lealtà che alla competenza, conobbero la guerra civile e le battaglie per la restaurazione Meiji nel 1860-70; ora morivano uno dopo l’altro. L’ultimo a scomparire fu il maresciallo Aritomo Yamagata, il padre dell’esercito Meiji, nel 1922. Questo passaggio di generazioni mutò la presa dei clan vincitori della restaurazione Meiji, i clan di Satsuma e Choshu, e fece avanzare i giovani dei clan sconfitti originari delle provincia a nord di Tokyo, Tohoku. Assai meno rispettosi dell’ordine stabilito, se non addirittura in rivolta verso di esso, da cui si sentivano esclusi poiché il mondo economico gli era precluso, entrarono nell’esercito come cadetti all’età di dodici anni, sul modello dell’esercito di Bismark (riferimento nella costruzione dell’esercito imperiale giapponese). Per Ishiwara e Itagaki, e probabilmente per gli altri ufficiali giapponesi, tale tuffo brutale nell’universo rigidamente disciplinato delle scuole militari segnò la fine dell’infanzia, rimanendo un trauma che non riuscirono a superare completamente, come mostrano i testi che lasciarono. Soprannominati “giovani ufficiali”, perché al massimo erano colonnelli, ebbero dal 1920 responsabilità gerarchiche sempre più importanti. Un primo tentativo di conquistare con le armi la Manciuria si ebbe nel 1928, quando una bomba fu posta sotto il treno di Chang Tso-lin (Zhang Zuolin), il signore della guerra della Manciuria ancora “cliente” del Giappone. Il cervello dell’attentato fu il colonnello Daisaku Komoto. Komoto sperava che per vendicare il padre ucciso dall’esplosione, il figlio di Chang Tso-lin, Chang Hsue-liang (Zhang Xueliang) lanciasse le sue truppe all’assalto del Kwantung, fornendo il pretesto per invasione della Manciuria. Ma quest’ultimo, consapevole della trappola tesa e dell’impreparazione dell’esercito cinese, si limitò alle denunce verbali. Komoto fu sollevato dell’incarico senza essere processato per tale atto di terrorismo. Per paura della reazione ostile dell’esercito imperiale, fu costretto a lasciare l’esercito in sordina.

Una nuova cospirazione fu avviata, più forte. Il cervello del nuovo complotto era il colonnello Tetsuzan Nagata, che raccolse intorno a sé nomi che resteranno nella storia, perché saranno tutti processati e giustiziati dagli Alleati dopo il 1945, Hideki Tojo, Tomoyuki Yamashita che s’illustrerà conquistando Malesia e Singapore nei primi mesi del 1942, Kenji Doihara, uomo dei servizi segreti giapponesi, Seishiro Itagaki e Kanji Ishiwara il cui ruolo fu cruciale per il successo dell’invasione. Tali incontri furono clandestini. Nell’organizzazione politica istituita da Meiji era infatti vietato agli ufficiali incontrarsi per discutere di questioni politiche o militari. Solo i consulenti diretti dell’imperatore avevano tale privilegio. Ma alla fine degli anni ’20, le regole imposte da Meiji furono spazzate via dalla rivolta degli ufficiali, infuriati dal mutare della società giapponese e dalla politica del disarmo. Ishiwara e Itagaki furono inviati da Nagata a sostituire Komoto a Port Arthur. Questo tandem provocò la guerra. Ishiwara fu responsabile della pianificazione dell’invasione. La funzione di Itagaki, teoricamente superiore di Ishiwara, era “politica”: avere contatti nell’esercito imperiale affinché il complotto fosse supportato e si preparasse l’amministrazione della Manciuria, una volta conquistata. Si sa dagli scritti di Ishiwara quali fossero le motivazioni di questi due ufficiali. Avviare la guerra in Manciuria non solo puntava a conquistare lo spazio considerato vitale per la difesa del Giappone, ma anche a fermare il programma del disarmo del Giappone, rovesciare il governo per sostituirlo con uno militare (o almeno influenzato dai militari), e militarizzare la società giapponese per l’obiettivo finale: affrontare con le armi gli Stati Uniti. Quindi fu una vera rivoluzione quella preparata dalla congiura, una rivoluzione paragonabile alla Restaurazione Meiji secondo i suoi fautori.

L’operazione scattò nella notte del 18 e 19 settembre 1931, quando una piccola bomba fu collocata dai soldati del Kwantung sotto la ferrovia, appena fuori Mukden. Nelle ore seguenti Mukden fu occupata assieme alle stazioni principali fino al confine settentrionale della concessione ferroviaria giapponese. Rinforzi di stanza in Corea, cinquemila uomini comandati da ufficiali guadagnati alle idee degli ammutinati, violarono l’ordine di non intervenire entrando in Manciuria. L’8 ottobre Ishiwara suscitò un’altra provocazione. Diresse il bombardamento aereo di Jinzhou. L’obiettivo questa volta era la linea ferroviaria gestita dagli inglesi; voleva estendere il conflitto per paralizzare il governo che cedeva alle richieste della SdN di por fine alle ostilità. La provocazione ebbe successo, incapace di trattenere l’armata del Kwantung (temendo che sanzionando i cospiratori avrebbe causato un colpo di Stato militare in Giappone), il governo giapponese non poté che osservare la situazione in Manciuria sfuggirgli completamente. Mentre continuavano gli scontri, una massiccia campagna di disinformazione fu attuata. Tutti i media supportarono l’armata del Kwantung. Ci vorrà la sconfitta del 1945 affinché il pubblico giapponese sapesse che il Giappone non fu vittima di un’aggressione cinese a Mukden, ma che fu una provocazione ordita con freddezza da ufficiali giapponesi. Inebriato dalle vittorie, Ishiwara volle di slancio attaccare i sovietici sempre presenti a nord della Manciuria. Le sue truppe risalirono in treno fino a Tsitsihar. E presso questa città vi fu l’unica battaglia della campagna, nota alla storia come “Incidente Manciuriano”, Manchu Jiken. Ai primi di novembre 1931, a 30 gradi sottozero, le forze giapponesi schiacciarono quelle del generale cinese Ma Chan-shan (Ma Zhanshan), perdendo circa quattrocento uomini, due terzi per il freddo (più di cinquecento feriti per congelamento). I giapponesi presero Tsitsihar (Qiqihar) ma questa volta il più attento Itagaki trattenne l’impetuoso Ishiwara. Quando gli interessi ferroviari (il ramo manciuriano della Transiberiana) furono rispettati, i sovietici osservarono da spettatori i combattimenti. Il 31 dicembre 1931, l’armata del Kwantung entrò a Jinshou. Con 15.000 uomini strapparono a 250.000 soldati cinesi (male addestrati e mal curati, è vero) un territorio grande quattro volte la Francia. Incapace di farli rientrare in caserma, il governo del Giappone fu rovesciato e l’esercito imperiale impose alla guida dello Stato personalità ad esso fedeli. Internazionalmente il Giappone fu isolato. I trattati sul disarmo abrogati e la militarizzazione avviata. Fu aperta la via all’alleanza con Germania nazista e Italia fascista. Nel settembre 1931 il Giappone avviò una guerra lunga quattordici anni, fino all’apocalisse finale di Hiroshima e Nagasaki, nell’agosto 1945.