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venerdì 12 settembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 12 settembre.

Il 12 settembre 1979 un uomo bianco, sghembo, ossuto, nervoso nel suo fascio di muscoli perennemente in tensione cominciò a correre nella corsia numero 4 della pista dello stadio Azteca di Città del Messico. Fu uno sparo nella notte, un urlo trattenuto; fu la corsa più straordinaria nella storia dell’atletica, perché la più improbabile, seminata ad ogni passo di un dolore che arrivava da un posto lontanissimo. Il 12 settembre 1979 Pietro Paolo Mennea stabiliva il record del mondo sui 200 metri. 1,8 metri di vento a favore. Primi cento metri in 10'34 “manuali”. Secondi cento metri in 9'38. Record del mondo: 19'72.

Il primato precedente apparteneva all’americano Tommie Smith - sì, quello che con John Carlos alzò il pugno guantato alle Olimpiadi del 1968 - che aveva fermato il cronometro a 19'83. Mennea lo migliorò di 11 centesimi, il tempo di un respiro. Alla fine della corsa un giornalista gli chiese: «C’è qualcuno più felice di lei?». Mennea rispose: «Mio padre».

In Messico era primo pomeriggio, le 15.15; in Italia le 23.15. Sulle gradinate dello stadio c’era poca gente, sperduta qua e là. Mennea aveva in mente una cosa sola: raggiungere il prima possibile la massima velocità e mantenerla, fin quando ne sarebbe stato capace. Quel giorno - con la pettorina numero 314 cucita sul petto - Mennea aveva 27 anni, l’anno dopo - alle Olimpiadi di Mosca - avrebbe vinto l’oro con un’altra gara da leggenda.

Era nato da una famiglia modesta a Barletta, figlio di un sarto che aveva trovato lavoro in ospedale; fu facile appiccicargli - in quegli anni di migrazioni dal Sud al Nord - l’etichetta di “Figlio del Sud”. Mennea la scansò, come rifiutò - nella sua vita da “hombre vertical” - i luoghi comuni dell’uomo che cerca il riscatto sociale nello sport e fugge la miseria.

La sua è stata una carriera lunghissima, diciassette anni in fuga dal 1971 al 1988: 3 volte campione italiano sui 100 metri, ben 11 volte sui 200 (la prima nel 1971, l’ultima nel 1984.) Mennea è morto nel 2013, il primo giorno di primavera. Nel dopo-carriera è stato molte cose. Ha conseguito quattro lauree (Scienze Politiche, Giurisprudenza, Diploma Isef e Scienze dell’educazione motoria, Lettere), ha esercitato la professione di avvocato e di commercialista, ha pubblicato numerosi libri, sempre finalizzati alla divulgazione della cultura sportiva e alla lotta al doping, ha insegnato all’Università, è stato eurodeputato a Bruxelles dal 1999 al 2004.

È stato un corridore eccezionale, resistente a tutto, precursore dei metodi moderni di allenamento (il suo allenatore era il professor Carlo Vittori), ma anche e soprattutto una macchina da corsa. È stato campione tra i campioni, simbolo di un’Italia sportiva che annoverava poster generazionali come Felice Gimondi, Sara Simeoni, Adriano Panatta, Gustav Thoeni. Uomini che portavano addosso gli impacci e pudori della generazione post guerra.

Se quest’uomo scarno e sempre controvento ha insegnato una cosa, ai tanti che dopo di lui, si sono infilati di corsa sulla sua scia; quel qualcosa è stato un principio elementare: la fatica non è mai sprecata. Il suo record del mondo sui 200 metri è stato migliorato prima un paio di volte da Michael Johnson nell’estate del 1996 e poi da Usain Bolt, che a Berlino - nel 2009 - ha spostato il limite umano a 19'19 (con 0,3 m/s di vento contrario).

Il record di Mennea ha resistito 17 anni, ma la sua corsa non si è ancora fermata. Nella memoria degli italiani Mennea è ancora un lampo, una folata di vento, un contorno storto che arriva al traguardo senza la consolazione di un sorriso. E quel 19'72 è ancora la miglior prestazione europea.

giovedì 11 settembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è l'11 settembre.

L'11 settembre 1926 il duce Benito Mussolini scampa a un attentato compiuto dall'anarchico Gino Lucetti.

Sputi, schiaffi e pugni.

Così finivano gli incontri per strada tra Lucetti e i fascisti.

Ex soldato nella Grande Guerra, il ventenne carrarese aveva scelto di aderire nel primo dopoguerra agli Arditi del Popolo, la formazione che univa sotto la stessa bandiera quella parte dell’arditismo ostile al nuovo corso mussoliniano. Gino, come molti suoi conterranei, era visceralmente anarchico e di spirito bollente, per questo i suoi incontri con gli uomini del duce precipitavano in vere e proprie risse.

Zuffe che gli costarono le attenzioni del nascente regime e che lo costrinsero a due fughe in Francia. La seconda, nel settembre del '25, dopo il ferimento a pistolettate di un fascista.

Insomma la rivoltella, così come le bombe a mano, non erano estranee a Lucetti, visto anche il suo passato nell’esercito. Per questo decise di utilizzarle per infliggere al fascismo un colpo che sarebbe risultato mortale. Uccidere Mussolini, questa divenne negli anni dell’esilio la missione che Gino si ripromise di portare a termine.

Rientrò in Italia nel settembre del '26 col preciso scopo di attentare alla vita del duce.

Attesolo lungo il percorso che il capo del governo era solito fare per recarsi a Palazzo Chigi lo scorse che viaggiava come previsto sulla sua Lancia Lambda coupé de ville. L’anarchico non esitò un attimo a lanciare una bomba a mano contro la vettura. Il destino volle che l’ordigno invece di entrare nell’abitacolo rimbalzasse sul bordo superiore del finestrino posteriore destro così da finire sugli ignari passanti che si trovavano nella piazza dell’attentato, ovvero quella di Porta Pia a Roma.

Otto feriti e il duce illeso.

Lucetti avrebbe probabilmente assalito a colpi di rivoltella l’auto se non fosse stato fermato prima da un civile e poi dalle forze di polizia. Lo disarmarono e ovviamente lo arrestarono.

Gino venne condannato a trent’anni di carcere, mentre la polizia fascista utilizzava l’attentato come pretesto per dare il via a varie rappresaglie contro gli antifascisti, in particolare verso gli anarchici carraresi.

Lucetti rimase in galera fino all’8 settembre del '43. Ucciso poco dopo da un bombardamento tedesco sull’isola di Ischia, divenne uno dei simboli della Resistenza.

A lui fu intitolato il battaglione partigiano che combatté nei pressi di Carrara.

Ancora oggi la storiografia dibatte sull’organizzazione dell’attentato a Mussolini operato da Lucetti. Per alcuni fu il gesto isolato di un individualista, per altri Gino era la punta dell’iceberg di un piano curato nei minimi dettagli.

Comunque sia andata, Lucetti lanciò quella bomba. Il duce disse che si era accorto dell’attentato e che se la bomba fosse penetrata nella vettura lui l’avrebbe rispedita al mittente. Come in altre occasioni fu piuttosto generoso nel parlare delle proprie capacità.

In realtà fu solo il destino a salvargli la pelle.

mercoledì 10 settembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 10 settembre.

Il 10 settembre 1943 le truppe tedesche iniziano l'occupazione di Roma durante la seconda guerra mondiale. A causa dell'assenza di un piano organico per la difesa della città e di una conduzione coordinata della resistenza militare all'occupazione tedesca, nonché della contemporanea fuga di Vittorio Emanuele III assieme alla corte, al capo del governo e ai vertici militari, la città fu velocemente conquistata dalle truppe della Germania nazista, cui si opposero vanamente e in modo disorganizzato le truppe del Regio Esercito e i civili, privi com'erano di ordini coerenti e di collegamenti, lasciando sul campo circa 1.000 caduti. Da più parti si incolparono del rapido crollo delle forze italiane i vertici militari e politici, accusati di aver volontariamente omesso di disporre quanto necessario perché la città fosse adeguatamente difesa.

Dai capisaldi della Laurentina la battaglia, sin dalle prime ore del mattino, si sposta verso la citta. I superstiti delle divisioni Granatieri e Ariete, sganciatisi dalla Magliana e dalla Montagnola, si ritirano sull’Ostiense convergendo a Porta San Paolo. L’aiuto della popolazione, ai granatieri che combattono fino all’ultima cartuccia, è continuo e coraggioso; se ne rendono conto anche i tedeschi, che una volta occupata Roma, il 25 settembre, torneranno in forze nella borgata e dopo un rastrellamento deporteranno tutti i nuclei familiari in un campo di prigionia a Valleranello. Fra trucidati a sangue freddo e uccisi in combattimento accanto ai soldati muoiono, in due giorni, 24 civili del Laurentino, uomini e donne.

Davanti alla piramide Cestia inizia, intorno alle 8 del mattino, l’ultimo combattimento per la difesa di Roma che si propagherà per le strade e le piazze della stessa città, alla stazione Termini e a piazza Vittorio, a San Giovanni e al piazzale Appio, lungo via Santa Croce in Gerusalemme e su via Labicana.

Da una finestra di via Zabaglia, a Testaccio, l’operaio Michele Rebecca, 44 anni, armato di un vecchio fucile, continua a sparare per ore. I tedeschi mandano su tre uomini a snidarlo, lui ne fulmina due prima di cadere sotto i colpi del terzo. Nello stesso rione l’operaio diciottenne Murizio Ceccati, ferito, cade svenuto tra i compagni e i soldati che gli stanno accanto. Riavutosi si accorge di aver perduto il fucile e si trascina allora con le ultime forze accanto al corpo di un caduto, poco distante, strappa dalle mani rigide l’arma e nuovamente riprende a sparare contro i nazisti: «Li ammazzo tutti!» lo sente gridare un sergente carrista, poi una lunga raffica di mitragliatrice lo uccide. Un fruttivendolo, Gaetano Ricciotti, che ha un banco ai mercati generali, capita nella zona della battaglia rientrando a casa, abita all’inizio dell’Ostiense. Un soldato gli mette in mano un fucile, lui si trasforma in un tiratore scelto, abbatte venti tedeschi poi finisce le munizioni e deve scappare.

A San Paolo un ragazzo di 14 anni aiuta a lungo i serventi di una batteria a caricare il pezzo. Ferito al braccio destro, lo devono trascinare a forza via dalla linea del fuoco, i soldati non sanno neppure come si chiama. II diciottenne Salvatore Lo Rizzo, sul piazzale San Giovanni, sale su un’autoblinda e spara contro i tedeschi che salgono dalla via Appia fino a quando la cannonata di un Tigre non spazza via lui e il veicolo.

Colpito al cranio da una scheggia, all’angolo di viale Giotto con porta San Paolo, muore Raffaele Persichetti, professore di storia dell’arte al liceo «Visconti», sottotenente di complemento dei granatieri di Sardegna. Era arrivato di corsa al primo tuonar di cannone, con l’abito buono e una pistola, prendendo il suo posto fra i ragazzi del I battaglione. II professore «garibaldino» lo chiamavano i suoi alunni. Sarà una delle prime medaglie d’oro della Resistenza.

In piazza dei Cinquecento si combatte ancora per tutta la mattina, coi tedeschi asserragliati al Continentale. Intanto gli scontri si sono frazionati anche all’interno della città. In piazza dell’Esedra viene improvvisato una specie di ospedaletto da campo. A via delle Terme di Diocleziano è fermo un autocarro dell’esercito con una mitragliatrice piazzata sul tetto e manovrata da un civile, fa fuoco contro via del Viminale dove sono arrivate pattuglie di panzergranadieren; ma l’arma si inceppa, l’uomo si guarda disperatamente intorno. Ed ecco che sale sul tetto un giovane sergente dei granatieri, ripara la mitragliatrice e si mette lui a sparare. A metà di via Nazionale arriva un’autoblinda, col mitragliere morto chino sull’arma. L’autista si fa aiutare da alcuni civili a deporlo sul marciapiede, poi chiede «c’è qualcuno che viene al suo posto?». «Vengo io» dice un signore sulla quarantina. Sale su e comincia a sparare, cento metri avanti, verso la stazione, una raffica di colpi lo uccide.

Anche Carla Capponi, medaglia d’oro al valor militare della Resistenza, ex parlamentare, ricorda bene il suo 10 settembre:

«Io ancora non avevo contatti con nessuno. La mattina del 10 settembre siccome vedevo gruppi che traversavano piazza Venezia e andavano verso la via del Mare perché da quella parte sparavano, mi accodai a un gruppo di persone e arrivai a Porta San Paolo. Lì mi sono presa, dopo la rotta, un carrista ferito, me lo sono portato a casa sulle spalle, lo colpirono proprio mentre ripiegavano, si chiamava Carta, era un sardo piccolissimo. Era stato colpito il suo cingolato e il pilota era morto dentro, cominciava a bruciare e lui cercava di uscir fuori ma era come svenuto, si era fracassato il ginocchio. Io sono corsa, l’ho tirato fuori, volevo vedere l’altro ma c’era già tutto fuoco dentro, non si poteva… e poi sparavano…

Era la mattina del 10 settembre, a Porta San Paolo, un inferno. Era una giornata che stavo lì, dal 9, ero tutta sporca, mi ricordo chiaramente alcune suore che stavano sul viale che porta dalla basilica di San Paolo, sull’Ostiense, al di qua del ponte, al di là e sotto il ponte avevano sistemato dei feriti. Poi invece dovettero trascinarli via subito perché arrivavano i carri armati tedeschi e quelli ammazzavano tutti. Allora queste poverette, mi ricordo, si presero le gonne, se le legarono così, sopra la vita, e con quelle zampette con le calze nere, che si vedevano, correvano tirandosi dietro i feriti, mi fecero una grande tenerezza anche se io non avevo nessuna simpatia per le monache…

Sono morte 43 donne nella battaglia di Porta San Paolo, lo sai? Io ho fatto mettere una lapide. I morti sono stati tanti, oltre 400 civili, si combatteva anche a via Cavour, a via Nazionale se tu passi e vedi a villa Aldobrandini, l’angolo dove c’é il giornalaio ci sono ancora i colpi che hanno sparato perché lì c’era il carro armato di un giovane capitano che è stato ammazzato proprio in quel punto …».

Alle 14 arrivano nelle edicole – quelle aperte, nei quartieri dove non si combatte, soprattutto in Prati, ai Parioli, al quartiere Italia – il Messaggero e il Giornale d’Italia. Hanno ambedue in prima pagina un riquadrato in neretto che dice: «Circolano da ieri le più fantastiche voci sulla situazione militare in specie di Roma. Il momento critico e lo stato di tensione della cittadinanza agevolano la diffusione delle notizie allarmistiche e tendenziose la cui origine e i cui scopi sono facilmente identificabili. II pubblico ha già potuto constatare come gran parte di queste voci siano state via via smentite dai fatti. S’invita pertanto la popolazione a non prestare facile orecchio alle insinuazioni di elementi irresponsabili o sobillatori. Ricordiamo che in qualsiasi caso di effettivo pericolo il Comando di Corpo d’Armata ne darebbe tempestivo avviso».

Nell’interno della stazione Termini si svolge l’ultimo combattimento della battaglia di Roma, intorno a un treno di 22 vetture dello stato maggiore dell’esercito, che era stato trasferito lì dopo che Roatta e i suoi collaboratori avevano lasciato il comando di Monterotondo per insediarsi nel palazzo di via XX Settembre. Dei 214 militari addetti al convoglio ne sono rimasti tredici, compreso il comandante, maggiore Carlo Benedetti; ma ad essi si uniscono ferrovieri e cittadini riparatisi nella stazione dalle strade vicine. È un combattimento lungo e feroce, i tedeschi sparano contro il treno con un cannoncino da 20 mm e intorno alle 21 gli italiani devono cessare la resistenza. I corpi degli italiani restano allineati: sotto la pensilina del terzo binario sei militari e quarantuno civili. Di questi ultimi, otto rimarranno senza nome .

Nella tarda serata i tedeschi schiacciano le ultime resistenze e hanno il controllo totale della città. Il generale Calvi di Bergolo, genero del re, viene nominato governatore militare, il CLN entra in clandestinità. II saccheggio di Roma comincia alle 22,30 quando pattuglie tedesche armate e guidate da ufficiali si presentano alla porta di numerosi villini sull’Aventino e li perquisiscono entrandovi a forza. Portano via oro, denaro, gioielli. Sfugge qualche villa, ma all’alba – fra i tedeschi si è sparsa la voce – tornano altri gruppi di soldati e completano la razzia. Vengono depredate anche le case di due notissimi giornalisti fascisti, Buoninsegni e Di Tullio, che la mattina dopo vanno a protestare a un comando germanico: li cacciano via in malo modo.

martedì 9 settembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 9 settembre.

Il 9 settembre 1998 muore Stéphane Mallarmé.

Il Positivismo che pervade l'Europa nella seconda metà dell'Ottocento incontra presto correnti di pensiero ostili al suo razionalismo scientistico e tendenti, invece, allo spiritualismo ed al misticismo. L'insieme di tali movimenti di idee, sorti in seno alla letteratura francese, è detto "Decandentismo". Il termine è riferito all'atteggiamento apatico e languido assunto da poeti e scrittori che esprimono lo smarrimento delle coscienze rispetto alle disillusioni della cultura positivista.

Il nucleo originario dei decadentisti è rappresentato dal cosiddetti "poeti maledetti", definizione derivata dal titolo dell'opera omonima di Verlaine e che, a cominciare da Baudelaire, comprende lo stesso Paul Verlaine insieme ad Arthur Rimbaud ed a Stéphane Mallarmé, il cui parnassianesimo sfocerà più tardi nel simbolismo.

Nato a Parigi il 18 marzo 1842 da una famiglia di impiegati e funzionari dell'Ufficio del Registro, a soli cinque anni Stéphane Mallarmé diviene orfano di madre, evento che condizionerà pesantemente la sua vita e che giocherà un ruolo importante nello sviluppo della sua sensibilità. Viene quindi allevato e compie i suoi studi nel collegio d'Auteuil e, nel 1857, muore anche la sorellina Marie.

Impiegatosi senza nessuna soddisfazione presso il Registro, cerca nuovi orizzonti approfondendo la conoscenza dell'inglese in un soggiorno in Gran Bretagna, nel 1862, dove legge ed analizza le opere di John Keats, di A. C. Swinburne, di Edgar Allan Poe (del quale tradurrà otto composizioni) e il pensiero di G. Berkeley e di G. W. F. Hegel. Qui sposa Maria Gerhard, tedesca, di sette anni più grande, con la quale avrà due figli. Al rientro in Francia compone le sue prime poesie che vengono pubblicate, fra il 1862 ed il 1866, sulle riviste "Le Papillon" e, successivamente, "Parnasse contemporaine"; Mallarmé si abilita intanto all'insegnamento dell'inglese divenendo professore nel Liceo di Tournon; qui inizia la stesura del poema "Erodiade", considerato il capolavoro della scuola parnassiana per il tentativo di inventare una nuova ed esclusiva lingua per la poesia, capace di consentirle di dispiegare i misteri dell'universo. La sua stesura prosegue poi a Besancon e ad Avignone, nei cui Licei viene trasferito.

Nel 1867 avvia la stesura del racconto "Igitur, o la follia di Elbehnon". Nel 1871 approda a Parigi, dove finalmente può dare sfogo alla sua intima predisposizione alla riflessione ed all'approfondimento culturale. Pubblica, nel 1876, "Il meriggio di un fauno" che il compositore Claude Debussy musicherà nel 1894. Fonda e dirige la rivista "La derniere mode", che avrà però vita breve. Mallarmé diviene popolare grazie - oltre che alla già citata opera di Verlaine - a Joris Karl Huysmans (autore naturalista che, insieme a Émile Zola, Guy de Maupassant, Gustave Flaubert e Edmond de Goncourt, fa parte del noto "Gruppo dei Cinque"), il quale ne fa l'autore preferito del protagonista del suo romanzo "A ritroso", nel 1884.

Ciò gli consente di crescere nella considerazione degli ambienti culturali parigini che iniziano a vedere in lui una sorta di caposcuola. Divengono celebri le "riunioni del martedì" che egli organizza nella sua abitazione ed alle quali convengono i più geniali scrittori dell'epoca, fra cui lo stesso Verlaine, oltre a Oscar Wilde, Paul Valéry, André Gide.

Nel 1887 pubblica le "Poesies", i cui toni ermetici sono i primi indizi del suo simbolismo. All'età di 51 anni riesce ad ottenere una pensione. La tranquillità della vita parigina alternata a quella della sua abitazione a Valvins crea i presupposti ideali per la sua poesia che si rivelerà innovativa e rivoluzionaria: si allontanerà definitivamente dal parnassianesimo dei "poeti maledetti" per sfociare nel simbolismo - del quale diviene uno fra i principali esponenti europei - che esplode nel 1897 con l'enigmatico poema "Un colpo di dadi non abolirà mai il caso", nel quale utilizza ormai il suo "linguaggio dell'anima". Dello stesso anno sono i "Poemi in prosa" e le "Divagazioni".

Un anno dopo, il 9 settembre 1898, in seguito ad un improvviso reflusso gastro-faringeo, Stéphane Mallarmé si spegne a Valvins, a soli 56 anni.

La "bella avventura", come Verlaine aveva definito la "missione" dei poeti maledetti, per Mallarmé ha uno scopo irraggiungibile: il "libro assoluto", l'opera che ha sempre sognato di scrivere, infatti, non vedrà mai la luce perché l'idea di perfezione che lo accompagna è di per sé un'idea impossibile.

Con il suo stile Mallarmè demolisce gli schemi entro cui si dibatte la poesia romantica inaugurando un modo più libero di esprimersi, bandendo rime e sonetti e conferendo alle parole un senso più profondo ed autentico. Il suo obiettivo è quello di "dipingere non la cosa, ma l'effetto che essa produce". Grande è l'influenza che egli esercita sui poeti del secolo seguente, e che si ritrova soprattutto in autori come Apollinaire, Rilke, Valéry, Geroge e, fra gli italiani, Ungaretti e Montale.

lunedì 8 settembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è l'8 settembre.

L'8 settembre 1944, colpito da un bombardamento inglese, il Transatlantico Rex affonda al largo di Capo d'Istria.

La vita del Transatlantico REX inizia il 27 Aprile del 1930 sullo scalo del cantiere navale Ansaldo di Sestri Ponente a Genova, con la cerimonia della prima lamiera dello scafo. Costruito in soli 15 mesi, è varato il 1 Agosto del 1931, presente il Re Vittorio Emanuele III e la Regina Elena del Montenegro come madrina, alla presenza di circa 200.000 persone.

Completato l’allestimento, partì da Genova per il primo viaggio il 27 Settembre 1932, alla presenza di 35.000 persone, per il servizio transatlantico tra Genova, Napoli, Villefranche-Cannes, Gibilterra, New York. Al primo approdo a New York fu accolto trionfalmente e venne visitato da oltre 50.000 persone.

Fu la più grande nave costruita in Italia prima della guerra, con 51.062 tonnellate di stazza, lunga 268,80 metri, larga 31 metri, alta 37 metri, con motori a turbina di 145.000 CV che azionavano 4 eliche di 4,70 metri di diametro. Accoglieva 2.258 passeggeri (604 in 1 Classe, 378 in 2 Classe, 410 in Classe Speciale, 866 in 3 Classe) e 756 persone di equipaggio con il massimo comfort, con cabine climatizzate e dotate di telefono.

Le sue dimensioni erano simili al Titanic, molto più avanzato tecnicamente, con una chiglia fluidodinamica studiata alla vasca navale di Vienna, un esempio di tecnologia unita allo stile, alla ricercatezza nei particolari, al lusso. Era potente, bello, elegante, confortevole, veloce ed innovativo. Una rara foto del 1933 del porto di New York riprende il REX accanto all’Olympic (gemella del Titanic) ed evidenzia le dimensioni simili. Le navi avevano 20 anni di differenza e l’Olympic sarà smantellato poco tempo dopo.

A bordo erano disponibili due piscine, palestre, cinema e teatri, biblioteca con 2.000 volumi, studio fotografico, la chiesa con dignità di parrocchia, studio per la fisioterapia, diversi negozi. Il Salone delle Feste di 500 metri quadrati in stile barocco aveva anche un tappeto kilim prodotto artigianalmente in Anatolia di 170 metri quadrati. La ristorazione era d’eccellenza e molto curata per tutte le classi di passeggeri ed ogni giorno serviva 8.700 pasti, con menù di 12 portate in prima classe.

Il REX fu la prima nave di linea italiana ad essere utilizzata nelle crociere. Degne di nota quelle nei Caraibi e nel Centro America (Panama, Cuba, Colon, La Guayra, Trinidad, Rio, Barbados) e nel Mediterraneo (Rodi, Cipro, Haifa, Porto Said ed Egitto). Si potevano anche fare delle mini-crociere tra Genova e Napoli e viceversa a prezzi popolari.

Il 16 Agosto 1933, percorrendo le 3.129 miglia da Tarifa Point (Gibilterra) alla nave faro di Ambrose (New York) in 4 giorni, 13 ore e 58 minuti a una velocità media di 28,92 nodi, conquistò il Nastro Azzurro, l’ambito trofeo per la più veloce attraversata dell’Atlantico dall’Europa all’America del Nord, strappando il record detenuto in precedenza dalla coppia di transatlantici tedeschi “Bremen – Europa” e provocando l’ira di Hitler. Fu l’unica nave italiana a conquistare questo primato, entrando nella storia della marineria mondiale e rilanciando l’eccellenza e la qualità della cantieristica italiana, ancora oggi molto considerata ed attuale.

Arrivò a New York con ben 28 ore d’anticipo facendo una rotta atlantica più a Nord del consueto, affrontando mare grosso ed un giorno di nebbia, senza mai rallentare. Come da ordini del Comandante Francesco Tarabotto, proseguì nella nebbia (non esisteva ancora il Radar) confermando al Direttore di Macchina Luigi Risso di mantenere la massima velocità e facendo funzionare le sirene della nave ad intermittenza e trasmettere via radio dal marconista Landini l’ordine di lasciare libera la sua rotta verso New York su cui procedeva a 30 nodi.

Il REX è entrato nella storia USAF per la leggendaria intercettazione dell’ 8 Maggio 1938 in pieno Atlantico a 700 miglia da New York effettuata da tre prototipi di bombardieri B17 (fortezze volanti), che localizzarono la nave e la sorvolarono, dimostrando la loro abilità di intercettazione, prima riservata solo alla US Navy. Il navigatore Kurtis LeMay divenne generale e consigliere del presidente USA per le operazioni aeree della seconda guerra mondiale. Un tributo a questo evento avvenne il 24 Agosto 2007 con la replica dell’intercettazione al largo delle Bermuda da parte di tre B52 USAF (operazione REX REPLAY) della nave appoggio John P. Bobo di stazza simile al REX.

Nel Maggio 1940, terminò il servizio transatlantico in quanto i passeggeri erano ormai ridotti, le traversate erano diventate pericolose perché la nave veniva fermata e perquisita più volte dalle navi militari francesi ed inglesi appena si avvicinava allo Stretto di Gibilterra, oltre ad essere intercettata e fermata dai convogli militari inglesi di passaggio in Atlantico.

Con l’entrata in guerra dell’Italia, per salvarlo dai bombardamenti di Genova fu trasferito nel porto di Trieste, facendo l’unico suo viaggio nell’Adriatico, preceduto dal caccia-sommergibili Albatros della Regia Marina, con luci ridotte e schermate e non scintillanti come ricostruito dal regista Fellini nel film Amarcord.

L’8 Settembre del 1944, il REX fu spostato dal porto di Trieste, per evitare i bombardamenti della città, e rimorchiato tra Isola e Capodistria, incagliandosi vicino alla riva. Su indicazione dei partigiani, venne localizzato da quattro Spitfire dell’USAF che sganciarono i loro serbatori ausiliari e subito attaccato in due ondate successive dalle squadriglie dei bombardieri Beaufighter della Royal Air Force con 123 razzi aria-terra e 4.000 colpi di cannone, che provocarono l’inclinazione sul fianco sinistro ed un violento incendio che durò quattro giorni.

Dopo la guerra, rimasto in zona iugoslava, fu smantellato per recuperare i metalli che lo componevano. Sono state conservate le lettere del nome e la campana. Una delle sue quattro eliche in bronzo è ancora nascosta nella sabbia del fondale, a circa 150 metri dalla costa ed a 20 metri di profondità e potrebbe essere recuperabile.

Il REX era nel porto di New York all’arrivo dei trasvolatori atlantici di Italo Balbo il 19 Luglio 1933 alle 19,30 con gli idrovolanti che lo sorvolarono prima di atterrare nello Huston, salutati dall’equipaggio che partecipò anche ai festeggiamenti americani. Era anche presente quando il dirigibile Hindermburg si incendiò durante l’atterraggio nel 1937, notizia tempestivamente annunciata dalle insegne scorrevoli in Times Square.

Il REX trasportò sui suoi ponti due littorine della Breda per esporle alla fiera mondiale di New York del 1939 con tema “The world of tomorrow": le auto elettriche trasportavano i visitatori, una enorme macchina da scrivere della Underwood pesava 14 tonnellate, il Futurama nella sfera centrale presentava un immaginario futuro, erano presenti moderne cucine con frigoriferi, lavatrici e lavapiatti, e funzionavano i robot umanoidi ELEKTRO ed il suo cane SPARKO della Westinghouse.

Il traffico automobilistico americano era già rilevante, con le auto che dal 1932 al 1940 diventavano più moderne ed aereodinamiche, il metrò, i bus ed i traghetti sempre affollati, oltre ai grandi grattacieli, tra cui l’Empire State Building che al tempo era il più alto del mondo e su cui venne installata la prima antenna di trasmissione televisiva della NBC per irradiare il segnale nella maggior area possibile, ed i primi apparecchi TV con lo schermo circolare accesi nelle vetrine.

Le serate di gala ed i programmi di intrattenimento serale a bordo iniziavano e terminavano sempre con “L’inno del REX” che ne era la sigla. Spesso I passeggeri famosi (attori, cantanti, musicisti) partecipavano con entusiasmo. Il direttore d’orchestra Arturo Toscanini invece rifiutò sempre qualsiasi esibizione a bordo. L’orchestra del REX veniva ospitata per esibizioni al Radio City ed al Metropolitan Opera a New York. A bordo furono create l’ Orchestra Tipica Argentina e l’ Orchestra Mandolinistica.

Come su tutte le navi, si ebbero episodi di clandestini a bordo e di diserzione del personale, per lo più piccoli di camera e camerieri che si imbarcavano in Italia ed abbandonavano la nave appena giunti in America, viaggiando gratis nella loro emigrazione.

I viaggi transatlantici erano spesso turbati da burrasche ed uragani, più frequenti nella zona caraibica. La nave, anche se grande e stabile, iniziava il beccheggio e/o il rollio e grandi ondate invadevano il ponte a prua, oppure riuscivano anche a rompere vetrate o danneggiare qualche scialuppa. Interi servizi di stoviglie distrutte, passeggeri caduti od infortunati. Ma accadevano anche situazioni dolorose, come l’incidente alla vigilia di Natale 1937 che costò la vita al nostromo Roberto Sbolgi e ferì due marinai durante l’approdo in rada a Villefranche, ove l’ancora precipitò in un basso fondale non segnalato, trascinando tutte le maglie della catena. Venne poi recuperata il 6 Aprile 1938 dalla famosa nave Artiglio con i suoi palombari. Ma anche consulenze mediche via radio richieste da altre navi, interventi chirurgici nell’ attrezzato ospedale di bordo o funerali in mare.

Nel periodo del suo servizio atlantico, dal Settembre 1932 al Maggio 1940, il REX fece oltre 100 viaggi Italia-USA e ritorno, ed una dozzina di crociere trasportando oltre 300.000 passeggeri di ogni tipo e nazionalità.

Nei decenni tra la prima e la seconda guerra mondiale, il maggior numero degli ebrei europei risiedeva in Russia e nei paesi dell’Europa orientale, la Polonia, la Cecoslovacchia, l’Ungheria, la Romania, la Bulgaria, la Germania e l’Austria. Gli ebrei italiani erano circa 45.000 oltre ad altri 10.000 residenti di nazionalità estera.

Il 1933, con l’avvento al potere di Hitler, segna l’inizio dell’esodo dalla Germania dei cinquecentomila ebrei tedeschi che vi risiedevano. Prima del 1938, circa duecentocinquantamila ebrei lasciarono la Germania, molti dei quali per la Palestina (nel solo 1933, circa 35.000). Nel 1938, l’annessione dell’Austria alla Germania obbligava gli ebrei che lo potevano a lasciare anche quel paese.

Nel Maggio del 1938 Hitler visitò Roma per ricambiare la visita di Mussolini ed il mese dopo esperti tedeschi di razzismo vennero in Italia per istruire i funzionari italiani su questa pseudo-scienza. Due mesi dopo, il 14 luglio del 1938, venne pubblicato il “Manifesto della razza”, con la teoria della razza ariana italiana ed il 1° settembre 1938 venne emanata la legge: tutti gli ebrei italiani furono banditi dalla vita pubblica e le scuole furono precluse ai bambini ebrei. All’interno del partito fascista, tra i pochi ad opporsi fu Italo Balbo.

Dopo pochi giorni venne emanato il decreto che a bordo delle navi italiane le leggi razziali erano sospese. Nel 1939, Dante Almansi, presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, è autorizzato a creare un’organizzazione per assistere i rifugiati ebrei giunti in Italia da altre parti d’Europa, conosciuta come DelAsEm, (Delegazione Assistenza Emigranti Ebrei) con l’ importante sede di Genova che tra il 1939 e il 1943 aiuterà oltre 5.000 rifugiati ebrei a lasciare l’Italia e raggiungere paesi neutrali. A Vienna invece operava la HIAS (Hebrew Immigration Assistance Society) specializzata ad ottenere nuovi documenti o visti di espatrio.

I passeggeri ebrei sul REX, distribuiti in tutte le classi con imbarco a Genova od a Cannes, iniziarono ad essere notati già nel 1934, con un graduale incremento sino a raggiungere numeri elevati negli anni successivi, sino al 20 Maggio 1940 con l’ultimo viaggio del REX. Nei viaggi verso gli USA la nave era completa, mentre in direzione Europa trasportava solo qualche centinaio di passeggeri.

Dal 18 Marzo 1936, a cura dell’ Union of Orthodox Jewish Congregations of America, per far fronte al grande numero di passeggeri ebrei in fuga dall’Europa, sul REX furono imbarcati il rabbino americano Max Green ed il cuoco Philip Klein. A bordo fu allestita una cucina Kosher con menù personalizzati e piatti con scritte in caratteri ebraici.

Nello United States Holocaust Memorial Museum di Washington sono raccolte parecchie testimonianze fotografiche, scritte e registrate degli ebrei europei fuggiti a bordo del REX. Tutti confermano la grande cura con cui furono accolti dall’equipaggio ed il perfetto trattamento ricevuto durante la traversata, che compensava le pene subite e li aiutava a dimenticarle.

Le vie di fuga più usate erano il passaggio dall’Austria a Trieste in Italia, per proseguire in treno sino a Genova ove si attendeva l’imbarco sul REX. In alternativa si passava in Francia per raggiungere la nave allo scalo di Cannes.

Dal numero di viaggi transatlantici della nave, considerando una media ridotta di passeggeri a bordo, circa 30.000 ebrei viaggiarono sul REX verso gli Stati Uniti.

Quella che molti consideravano la nave dell’orgoglio fascista, divenne invece la “nave della salvezza” grazie all’equipaggio del transatlantico italiano REX che meriterebbe a pieno titolo di essere ricordato nel “Giardino dei Giusti tra le Nazioni”. 

domenica 7 settembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 7 settembre.

Il 7 settembre 1893 viene fondato il Genoa cricket & football club, la più antica squadra di calcio d'Italia.

La sera di giovedì 7 settembre 1893, il portone del civico numero 10 di via Palestro, nel nuovo cuore della città di Genova, vide sfilare uno dietro l'altro un gruppo di signori che di lì a poco avrebbero scritto un pezzo importantissimo della storia calcistica del nostro paese.

Già l'aspetto tradiva la loro provenienza, del resto confermata dai cognomi che sarebbero andati a corredare l'atto di nascita del primo club calcistico italiano: Charles De Grave Sells, S.Green, G.Blake, W.Riley, D.G.Fawcus, Sandys, E.De Thierry, Jonathan Summerhill Senior e Junior, e soprattutto Charles Alfred Payton. Questi, futuro baronetto dell'Impero Britannico, era il Console generale di S.M. la Regina Vittoria a Genova. E l'appartamento (all'interno 4) che accolse l'allegra compagnia d'Albione era proprio la sede del Consolato inglese nella Superba. La cerimonia che stava per andare in scena era l'ufficializzazione di quel circolo sportivo che già da oltre un anno svolgeva una attività senza sosta, della quale erano protagonisti proprio i residenti britannici nel capoluogo ligure: il Genoa Cricket and Athletic Club.

La comunità inglese di Genova, come del resto quella svizzera e quella tedesca, era allora molto numerosa in conseguenza dello straordinario sviluppo che avevano avuto i traffici portuali del capoluogo ligure dopo l'apertura del Canale di Suez. Per fare in modo da dare una continuità alla passione sportiva che animava quella comunità, si dovette dunque cercare un campo di gioco ove effettuare le esercitazioni atletiche e le partite di cricket. Il gioco del calcio, almeno in quel primo momento, arrivava buon ultimo anche perché, tale sport era considerato in Inghilterra un gioco proletario e i soci del circolo appartenevano tutti alla Upper Class. A praticarlo erano soprattutto i soci più giovani del Club che contava, oltre ai quadri dirigenziali, altri trenta soci effettivi. Il terreno di gioco fu messo a disposizione da Wilson e McLaren, due industriali scozzesi che possedevano una fabbrica situata nell'attuale delegazione di Sampierdarena, nella Piazza d'Armi del Campasso (nelle adiacenze dell'attuale via Walter Fillak). Le partite venivano giocate al sabato e la sede operativa era la locale trattoria Gina, ove i praticanti usavano rifugiarsi dopo le partite. 

Un uomo fuori dal comune, James Richardson Spensley, diventa la chiave per la diffusione del football in Italia. Il 10 aprile 1897, una data storica: l'assemblea del Genoa accoglie una mozione per l'accoglimento di soci italiani nel club. Sampierdarena si rivela insufficiente ai bisogni di una società in grande espansione, si passa a Ponte Carrega.

Erano passati tre anni dalla fondazione quando a Genova arrivò colui che può essere considerato la figura chiave per la diffusione del calcio in Italia. Era un medico trasferito dall'Inghilterra a Genova per curare i marinai inglesi delle navi carboniere. Persona molto colta, appassionato di religioni orientali, conosceva perfettamente tra le altre lingue il sanscrito ed il greco, viaggiatore instancabile, corrispondente per il Daily Mail, appassionato di pugilato, filantropo (nel 1910 avrebbe fondato la sezione italiana dei boy-scout) e svariate altre cose: questo uomo era James Richardson Spensley. Ma Spensley era soprattutto un grande appassionato di football, sport che lo aveva attratto immediatamente e che praticava regolarmente. La sua passione si spinse sino ad allestire una vera e propria squadra di calcio sul modello di quelle britanniche che ormai da anni si stavano dotando di una organizzazione capace di superare la fase embrionale e di promuovere una diffusione capillare del nuovo gioco che sin dagli esordi aveva dimostrato una straordinaria capacità di attrazione su giovani di tutte le classi e ceti sociali. Proprio Spensley, al fine di promuovere la diffusione dello sport che amava, si occupava di arruolare per le partite del sabato gli equipaggi delle navi inglesi alla fonda nel porto nonché gli operai, sempre di nazionalità anglosassone, delle ferriere Bruzzo, che del resto non chiedevano di meglio per poter trascorrere le ore successive a quelle lavorative.

Una data storica, nella storia piena di fascino che stiamo narrando, fu quella del 10 aprile 1897: quel giorno, lo stesso Spensley riuscì a far passare nell'Assemblea del Genoa una mozione rivoluzionaria che sanciva l'ingresso nel Club di soci italiani (fino a 50 all'inizio, senza limite dopo alcuni anni) e portava perciò ad un ulteriore allargamento delle basi su cui si poteva lavorare per la diffusione del football.

Il primo storico campo da gioco fu quello di Sampierdarena, che però ben presto si rivelò insufficiente alle esigenze della squadra. Fu ancora una volta Spensley ad intervenire trovandone uno nuovo in un'altra zona della città, a Ponte Carrega, lungo le rive del torrente Bisagno, all'interno dello spazio utilizzato dalla Società Ginnastica Colombo come pista velocipedistica…

Nel 1898 si forma la Federazione Italiana Gioco Calcio. Il calcio italiano sta per entrare nella fase che porterà alla disputa del primo torneo della sua storia. L'8 maggio 1898, il Genoa vince il primo scudetto assegnato in Italia. Anche il secondo e il terzo titolo finiscono a Genova. Il Milan spezza il monopolio, che però riprende negli anni successivi.

Quando nel 1898, a Torino, si formò la Federazione Italiana Gioco Calcio, ente preposto a governare una attività che si andava facendo sempre più vivace, il calcio italiano entrò nella fase che avrebbe portato alla disputa del primo torneo nella storia del nostro sport più popolare. Nella seconda seduta della Federazione, tenuta il 26 marzo dello stesso anno, fu decisa la disputa del del primo campionato italiano. La data fissata, perché il torneo sarebbe stato disputato in un solo giorno, fu l'8 maggio, nell'ambito dei festeggiamenti in occasione dell'Esposizione Internazionale per i cinquant'anni dello Statuto Albertino, con teatro il Velodromo Umberto I di Torino, nei pressi dell'ospedale Mauriziano. Nell'eliminatoria della mattina il successo arrise ai bianconeri dell'International che avevano superato per 1 a 0 il Football Club Torinese del marchese Ferrero di Ventimiglia. E il Genoa (in camicia bianca) batté per 2 a 1 la sezione calcio della Società Ginnastica del Cavalier Bertoni. Al pomeriggio la finale venne disputata davanti a oltre un centinaio di spettatori per un incasso di 197 lire. Dopo i tempi regolamentari Genoa ed International di Torino erano ancora sull'uno a uno. Nei supplementari il "golden goal" fu messo a segno dall'ala sinistra genoana Leaver, permettendo ai Grifoni di aggiudicarsi il primo campionato italiano di calcio. La Società si portò a casa una coppa generosamente offerta dal Duca degli Abruzzi, mentre a ciascun giocatore andò una medaglia d'oro stile rococò. Iniziò così il primo ciclo della prima grande squadra di football italiana. Nella stagione seguente fu infatti ancora il Genoa (che aveva adottato le nuove camicie a strisce verticali biancoblù) ad aggiudicarsi il titolo: battuto il FBC Liguria il 26 marzo 1899 nelle eliminatorie liguri, superò per 3 a 1 nella finale di Ponte Carrega del 16 aprile la vincente delle solite tre società torinesi in lizza: l'International FBC. Anche nel 1900, il risultato non cambiò, con l'ennesimo trionfo del Genoa. Le eliminatorie regionali videro vincitrici il FBC Torinese (sulla Società Ginnastica e - per la prima volta - sulla Juventus) per il Piemonte; il Milan (sulla Mediolanum) per la Lombardia; il Genoa (7 a 0 contro la Sampierdarenese) per la Liguria. Nell'eliminatoria interregionale il FBC Torinese ebbe ragione del Milan potendo così sfidare il Genoa nella finale di Torino del 22 aprile 1900, che terminò 3-1 per la Società genovese. Il 1901, vide invece il Milan di Herbert Kilpin spezzare il monopolio del Genoa, andando a vincere il 5 maggio a Ponte Carrega. Il 1901 va ricordato anche per un fatto importante, il mutamento nei colori sociali che diventarono granata e blù scuro disposti a quarti sulla camicia: era il primo passo verso la tonalità definitiva che sarà fissata nel 1904 con l'irrevocabile scelta del rossoblù. Nel 1902 il Genoa riprese il suo cammino vittorioso, su un lotto di pretendenti più corposo. Il FBC Torinese ebbe la meglio nel girone eliminatorio piemontese, un vero e proprio mini torneo a quattro squadre, dopo lo spareggio con la Juventus, mentre nella eliminatoria ligure-lombarda il Genoa Club ebbe vita più facile anche se dovette incontrare per la prima volta in campionato l'Andrea Doria, Società Ginnastica genovese la cui sezione del football era stata rafforzata da alcuni fuoriusciti genoani, tra i quali quel Franco Calì, che sarebbe stato il primo capitano della Nazionale. Dopo il derby vittorioso per 3 a 1 i genoani eliminano anche la Mediolanum. La combattuta semifinale a Torino contro il FBC Torinese (superato per 4 a 3 dopo i supplementari) spalancò le porte della finale agli uomini di Spensley che, il 13 aprile, superando per 2 a 0 il Milan a Ponte Carrega, si riappropriarono del titolo che cederanno solo nel 1905 alla Juventus (finalista anche nei due anni precedenti). Proprio le tre vittorie consecutive, permisero al Genoa di aggiudicarsi la coppa Fawcus messa in palio nel 1902 dal suo presidente e destinata alla squadra capace di simile impresa. Nell'ottobre del 1902 per la prima volta in Italia fu fondato dai rossoblù il "vivaio" per ragazzi di età inferiore a sedici anni, che si distinsero immediatamente andando a vincere il primo campionato riserve. Veniva così definito in realtà il torneo disputato dalle squadre giovanili delle varie società. Quella del Genoa, allenata dall'infaticabile dottor Spensley, era composta da validi elementi molti dei quali avrebbero sostituito i "fondatori" al termine della loro carriera. Nel 1903 il Genoa fu la prima compagine italiana ad incontrare una società straniera all'estero, il Football VeloClub Nizza che il 27 aprile fu battuto per 3 a 0 nel suo stadio (anche la partita d'andata a Ponte Carrega aveva visto soccombere la squadra francese per 6-0). Sempre in quell'anno (a dicembre) il socio-giocatore Henry Dapples mette in palio una coppa particolare: è la cosiddetta Palla Dapples, una sfera d'argento delle stesse dimensioni e delle stesse caratteristiche (con cuciture in rilievo) di un pallone da football. La Palla Dapples, che prevedeva degli scontri diretti al termine dei quali ogni volta il vincitore si portava a casa il trofeo per poi cederlo alla squadra sfidante che lo avesse battuto, andò avanti per ben sei anni e attraverso 47 incontri. Il 20 dicembre 1909 se lo aggiudicò definitivamente il Genoa dopo che la Palla Dapples aveva decorato le sedi di Milan, Juventus, Torino, Pro Vercelli, Andrea Doria, Unione Sportiva Milanese. Nel 1906 mentre volgeva ormai al crepuscolo la stagione dei cosiddetti "fondatori", il Genoa non riuscì ad arrivare in finale riuscendo però ad inanellare due primati. Il 18 marzo la partita con la Juventus (a Torino) fu sospesa a causa della prima invasione di campo della storia del calcio italiano, dopo tre rigori sbagliati dai rossoblù. La partita fu ripetuta il 1 aprile - a Milano in campo neutro - e da Torino e da Genova furono organizzati i primi due treni speciali di tifosi.

sabato 6 settembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi




 Buongiorno, oggi è il 6 settembre.

Il 6 settembre 1955 ebbe inizio a Istambul il cosiddetto "Pogrom dei greci".

Con il termine Septemvriana – gli “eventi di settembre” – i greci ricordano i pogrom di Istanbul del 6-7 settembre del 1955, giornate di inaudita violenza durante le quali i più colpiti furono i romei, la comunità grecofona e ortodossa del paese.

Questa, già pesantemente sotto attacco dalla politica xenofoba e nazionalista di Ankara intrapresa sin dalla fondazione della repubblica, si ritrovò negli anni ’50 intrappolata nella crisi greco-turca sul futuro di Cipro.

Fu una campagna mediatica nazionale a scatenare il 6 settembre 1955 l’odio razziale contro la minoranza romea nelle principali città turche. Alle ore 13 la radio statale trasmise la mendace notizia di un attentato dinamitardo di matrice nazionalista greca contro la casa natale di Atatürk e sede del consolato di Ankara a Salonicco.

Un’edizione pomeridiana del quotidiano locale Istanbul Express, stampato per l’occasione in più di 200mila copie, amplificò la menzogna e diede il via alla violenza che a partire dalle 17 iniziò ad invadere Istanbul.

Decine di camion e autobus raggiunsero il centro città, allora abitato prevalentemente dalle comunità cristiane, per riversare nelle sue vie migliaia di uomini armati di bastoni e di rabbia. Fino alla mezzanotte, senza che la polizia intervenisse, una folla inferocita attaccò indisturbata negozi, chiese, immobili di cristiani, ebrei e tutti quei turchi invisi al governo. Uomini e donne furono violentati e subirono torture. Decine persero la vita. Solo la proclamazione dello stato d’emergenza e l’intervento nella notte dell’esercito pose fine alle violenze.

Allora, il governo del Paese era affidato al Demokrat Parti dello smirniota Adnan Menderes. Un’amministrazione di destra segnata dal liberismo economico, l’anticomunismo e il conservatorismo religioso. Un’esperienza politica che si concluse con il primo colpo di Stato della storia turca nel 1960 e la successiva condanna a morte del suo leader.

Fu proprio il processo contro i vertici del governo Menderes nel 1961 a rivelare le responsabilità sui pogrom d’Istanbul. Lo storico turco Dilek Guven ha rivelato nei suoi studi il ruolo attivo dell’Organizzazione Turca d’Intelligence nella regia delle violenze del 1955.

Fu fin troppo semplice far riversare la disperazione economica di migliaia di turchi, traditi dalle politiche liberiste del governo Menderes, contro i benestanti romei, rei di appartenere a una cultura ostile al progetto di “turchizzazione” del paese.

Le tristi immagini della devastazione di quelle giornate furono immortalate da un giovane Ara Guler, il celebre fotografo turco-armeno, considerato uno dei padri della fotografia del Novecento. Il regista greco Tassos Boulmetis nella pellicola “Un tocco di zenzero” del 2003, attraverso le spezie ed i sapori levantini, racconta il triste declino dei romei, culminato in quel 1955 e proseguito nei decenni a seguire fino a una difficile sopravvivenza nei giorni nostri.

L’insicurezza e la paura generate dalla Septemvriana spinsero migliaia di individui appartenenti alle minoranze dalla Turchia – tra cui tanti italo-levantini – ad abbandonare per sempre il Paese. Solo negli ultimi anni è iniziata una ricostruzione storica attraverso la memoria di chi allora era poco più di un bambino.

Ignorata in Italia, osteggiata in Turchia e celata in Grecia per motivi d’orgoglio nazionale, questa tragedia fu la raffigurazione di una cultura politica violenta e illiberale rappresentata dal governo di destra di quegli anni.

Menderes e il partito da lui fondato inaugurarono la stagione democratica in Turchia attraverso un percorso politico che portò il paese alle prime elezioni libere ma contribuirono enormemente alla polarizzazione della società fino a macchiarsi di gravissimi episodi come quello consumato in quel settembre 1955.

Oggi, nella Turchia di Erdogan, dove l’abusata parola democrazia assume una connotazione del tutto originale, quello stesso Menderes è celebrato come un martire della libertà e padre ideologico dell’establishment al potere.

venerdì 5 settembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 5 settembre.

Il 5 settembre 1918 inizia in Russia il periodo del "Terrore rosso".

Il Terrore Rosso fu una campagna di arresti di massa, deportazioni ed esecuzioni indirizzata ai controrivoluzionari durante la Guerra civile russa. Dichiarata ufficialmente il 5 settembre 1918 in una risoluzione speciale adottata dalla leadership dei bolscevichi, questa campagna affermava che “tutti coloro che avessero a che fare con organizzazioni Bianche, cospirazioni e rivolte sarebbero stati uccisi”.

La campagna venne ufficialmente abolita nell’arco di due mesi, ma il termine Terrore Rosso viene utilizzato per indicare tutte le repressioni politiche del governo sovietico nel corso della guerra civile in Russia: dall’ottobre del 1917, quando i bolscevichi rovesciarono il governo provvisorio, fino al 1922, quando l’intera opposizione venne eliminata.

Subito dopo essere saliti al potere, i bolscevichi non rivelarono una particolare crudeltà. I loro avversari venivano spesso rilasciati, salvo poi essere inseriti in cima alla lista dei loro peggiori nemici. Quando la lotta si fece più intensa, però, questo scenario cambiò radicalmente.

Il Terrore Rosso venne annunciato dai Bolscevichi subito dopo un attentato al proprio leader, Vladimir Lenin, il 30 agosto. Al termine di un discorso davanti agli operai di una fabbrica di Mosca, Lenin venne raggiunto da tre volpi di pistola.

Questo episodio fu seguito da una serie di omicidi e tentativi di colpire gli alti funzionari. Nel complesso, solamente nel luglio del 1918, mentre la Guerra Civile stava prendendo piede, furono assassinati nel paese 4.110 funzionari sovietici. I bolscevichi consideravano il Terrore Rosso la risposta legittima agli attacchi dei loro nemici.

Subito dopo il tentato omicidio di Lenin e l’uccisione del dirigente della Cheka Uritskij, 512 rappresentati della borghesia e delle classi alte fino a quel momento tenuti in ostaggio dai bolscevichi (una pratica ampiamente utilizzata all’epoca) furono uccisi a Pietrogrado. Nella seconda metà di settembre altre 300 persone vennero eliminate.

Il 5 settembre a Mosca quasi 80 persone vennero giustiziate pubblicamente. Fra coloro che finirono fucilati, c’erano anche due ministri degli Interni e l’ultimo presidente della camera alta del parlamento imperiale, Ivan Shcheglovitov.

Secondo gli storici, quell’autunno in tutto il paese vennero uccise tra le 1.600 e le 8.000 persone.

Non tutta la leadership bolscevica era allineata con la politica del terrore. Già in ottobre, molti funzionari del partito, fra cui un ministro degli Interni, chiedevano di fermare la repressione. Il 6 novembre questa campagna venne ufficialmente conclusa.

Ma più si avvicinava lo scoppio della guerra civile, più l’ondata di violenza sembrava rafforzarsi. E molti leader bolscevichi ricominciarono a sostenere la pratica del Terrore Rosso. “Bisogna sterminare le classi inutili. Non serve cercare le prove che una persona abbia agito contro i sovietici per mezzo di un atto o delle parole. La prima domanda da porsi è: a quale classe appartiene? Quali sono le sue origini? Quale la sua educazione, l’istruzione, la sua professione? Queste domande potranno definire il destino dell’imputato. È questo il senso del Terrore Rosso”, disse uno dei più influenti funzionari della Cheka, Martin Latsis.

Lenin rispose alle parole di Latsis definendole “delle assurdità”. E aggiunse che il compito non era quello di sterminare fisicamente tutta la borghesia, ma di eliminare le condizioni sociali che portarono alla formazione di questa classe sociale.

Le cifre variano molto. Secondo lo storico Sergej Volkov, tra il 1917 e il 1922 i bolscevichi fecero fuori almeno due milioni di persone. Dall’altro lato, gli storici che fanno riferimento ai materiali d’archivio degli organi responsabili delle politiche repressive, affermano che le vittime furono circa 50.000. Alcuni tendono a moltiplicare questa cifra per due, includendo le vittime delle rivolte contro il regime sovietico avvenute nelle campagne.

100.000 morti è un numero impressionante. Ma si tratta di una cifra incompleta, che non tiene conto di tutte le vittime della guerra civile, che si stima siano pari a 10 o 12 milioni di persone.

Ufficialmente, tra i motivi principali che causarono l’inizio della repressione bolscevica ci fu l’esistenza del Terrore Bianco. Quando la lotta ai bolscevichi si fece più intensa, nella metà del 1918, giunse anche la risposta dei comunisti.

Il numero di vittime della repressione dei bianchi non ha cifre precise. Risulta molto più difficile avanzare delle ipotesi, giacché, a differenza dei rossi, i bianchi non avevano una struttura statale organizzata, ma erano solo delle forze in lotta contro i bolscevichi.

Non venne proclamata nessuna campagna ufficiale di terrore e per questo i crimini commessi dai Bianchi attirarono meno l’attenzione. Secondo molti storici, la repressione fu però pari a quella dei loro nemici comunisti.

Così come afferma l’autore di un recente studio, per mano dei Bianchi vennero uccise almeno 500.000 persone, anche se le stime degli storici indicano cifre minori.

giovedì 4 settembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 4 settembre.

Il 4 settembre 1260 fu combattuta la celebre Battaglia di Montaperti.

Il colle di Montaperti, pochi chilometri a sud est di Siena, rimane famoso per la cruenta battaglia che si svolse nella piana antistante fra Guelfi fiorentini e Ghibellini senesi il 4 settembre 1260.

Le truppe fiorentine giunsero da nord attraverso le Colline del Chianti il 2 settembre e si accamparono sulle alture cretacee di Monselvoli e del Paradiso, nei dintorni di Pievasciana. La marcia del loro esercito, composto da circa 35.000 uomini e dalle necessarie salmerie, aveva seguito il corso del torrente Arbia la cui valle garantiva un tragitto più pianeggiante e assicurava un facile approvvigionamento idrico.

L’esercito di Siena, al comando di Provenzano Salvani, composto da 20.000 uomini fra cui 800 cavalieri inviati dall’imperatore Manfredi e i fuoriusciti ghibellini scacciati da Firenze come Farinata degli Uberti, si accampò di rimpetto al nemico sulle colline di Ropole e di Mociano.

All’alba del 4 settembre i due eserciti si scontrarono; la battaglia procedette a fasi alterne fino al pomeriggio quando si racconta che ne causarono la rotta il tradimento di Bocca degli Abati, uno dei capi fiorentini, che avvicinatosi a Jacopo de’Pazzi, portastendardo fiorentino, gli tagliò di netto la mano con un colpo di spada facendo precipitare a terra l’insegna e causando scompiglio nell’esercito, insieme alla contemporanea carica della cavalleria imperiale contro il fianco dello schieramento guelfo.

Da questo momento iniziò il massacro che fece l’Arbia colorato in rosso, i senesi si scagliarono sui fiorentini in fuga con l’intenzione di non fare prigionieri. La strage continuò fino al calar del sole quando gli ultimi superstiti rifugiatisi sul colle di Montaperti furono fatti prigionieri e successivamente incarcerati a Siena e liberati molti mesi dopo dietro compenso di pesanti riscatti. Il campo guelfo fu messo al sacco: furono catturati 9000 cavalli e 9000 tra buoi ed animali da soma; furono prese bandiere e stendardi, tra le quali il gonfalone di Firenze che fu attaccato alla coda di un asino e trascinato nella polvere. Le perdite dei guelfi furono di circa 10.000 morti e circa 15.000 i prigionieri di cui rispettivamente 2500 e 1500 fiorentini. I ghibellini persero 600 uomini con 400 feriti. In città i festeggiamenti durarono per giorni e furono fatti sfilare tutti i prigionieri catturati nel corso della battaglia.

L’epico scontro dette origine a varie leggende. In una si esaltava l’astuzia dei senesi che, essendo le truppe ghibelline numericamente assai inferiori a quelle guelfe, escogitarono un trucco per abbattere il morale dei nemici: giunti in prossimità del luogo dove erano accampati i fiorentini fecero sfilare il proprio esercito per tre volte davanti all’esercito guelfo, cambiando ogni volta i vestiti con i colori dei terzi di Siena cercando di far credere agli avversari che le proprie forze fossero tre volte più numerose di quello che erano in realtà.

In un’altra veniva esaltata la pietà di Usilla, una vivandiera senese, che mossa a compassione salvò 36 fiorentini scampandoli da morte sicura. La storia è legata all’esistenza di un tunnel sotterraneo sulla sommità della collina sotto il cippo piramidale eretto alla fine dell’Ottocento in ricordo della battaglia:  alla base di quest’ultimo si apre un tunnel che anticamente pare sbucasse oltre i torrenti Malena e Biena. La donna avrebbe condotto i 36 soldati ghibellini attraverso il tunnel senza farli passare dal campo di battaglia e poi si dice che si fosse diretta verso Siena fingendo che fossero servi al suo servizio, per poi liberarli prima dell’ingresso in città.

La leggenda della Martinella, la campana che si trovava in uno dei tanti carrocci fiorentini, narra che  un’umile treccola, ovvero una cenciaiola al seguito delle truppe senesi, dopo la battaglia si recò sul campo a raccogliere vestiti, armature e quanto altro che riusciva a trovare. Finita la battaglia, la donna, fra i tanti oggetti abbandonati trovò la Martinella, la caricò sul suo asino e la portò via con sé insieme a venti soldati delle truppe fiorentine che, pur di non essere catturati ed uccisi dai senesi, si fecero passare per servi che, legati dietro all’asino della donna, sfuggirono la mala sorte.

La treccola entrata a Siena donò la Martinella alla Compagnia di San Giovanni in Pantaneto e ancora oggi essa si trova esposta nel museo della Contrada del Leocorno.

E ancora.

Di fronte al Colle di Montaperti si trova un altro piccolo colle dal nome singolare: Costa dei Berci.

Nella fantasia popolare il nome racchiude due possibili interpretazioni che non si escludono a vicenda. Secondo la prima il termine Berci sarebbe una contrazione di Astimbergh, riferibile al comandante della cavalleria imperiale, il cavaliere tedesco Gualtieri di Astimbergh appunto, che da quel luogo fece partire la carica della cavalleria contro il fianco dell’esercito guelfo decidendo le sorti della battaglia.

L’altra possibile interpretazione è legata al massacro che ne seguì durante il quale si udirono urla strazianti e terribili delle vittime, i “berci” appunto.

Dall’altra parte del campo di battaglia si racconta che l’allora comandante delle milizie fiorentine avesse ricevuto una profezia secondo la quale sarebbe morto tra il bene e il male. Arrivato al luogo dell’ accampamento, situato tra la Biena e la Malena, associò immediatamente il nome dei due fiumi, probabilmente per assonanza con bene e male, alla sorte che gli era stata predetta. In effetti morì in quella battaglia privo della giusta motivazione e tremendamente impaurito e incapace di controllare il suo esercito. La tradizione popolare vuole che l’anima di questo capitano sia ancora impegnata a scampare alla morte e c’è chi racconta di aver udito, nelle notti di plenilunio, il rumore degli zoccoli di un cavallo e di aver scorto tra i cipressi la sagoma bianca di un cavaliere.

Nella "Divina Commedia", Dante non descrive direttamente la battaglia di Montaperti, ma la menziona in due punti cruciali, utilizzando perifrasi per indicare la sanguinosa sconfitta dei guelfi fiorentini ad opera dei ghibellini senesi. In particolare, nel X canto dell'Inferno, durante l'incontro con Farinata degli Uberti, Dante fa riferimento allo "strazio e 'l grande scempio" che fece l'Arbia colorata in rosso, metafora del sangue versato durante la battaglia. 

Ecco come Dante utilizza la battaglia di Montaperti nella sua opera: 

Canto X dell'Inferno:

Dante incontra Farinata degli Uberti, un capo ghibellino fiorentino, e lo colloca nel sesto cerchio dell'Inferno, tra gli eresiarchi. Qui, Farinata fa riferimento alla battaglia, ricordando la vittoria ghibellina e il tradimento di Bocca degli Abati, che tagliò la mano del vessillifero guelfo, causando la rotta dei fiorentini.

Canto XXXII dell'Inferno:

In questo canto, Dante colloca Bocca degli Abati, il traditore di Montaperti, nel nono cerchio dell'Inferno, tra i traditori della patria, a testimonianza della gravità del tradimento e del suo impatto sulla sconfitta fiorentina.

La battaglia di Montaperti, quindi, non è narrata in dettaglio da Dante, ma è presente come sfondo storico e come simbolo della corruzione politica e del tradimento, che sono temi ricorrenti nella sua opera. 

mercoledì 3 settembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 3 settembre.

Il 3 settembre 1967 è ricordato in Svezia come “Dagen H”, cioè “Giorno H”, dalla parola Högertrafik, che significa “circolazione a destra”. In quel giorno in tutto il paese si passò dalla circolazione stradale a sinistra a quella a destra, un’operazione molto impopolare ma ritenuta necessaria per ragioni di praticità – in Finlandia e in Norvegia, i due paesi confinanti con la Svezia si guidava tenendo la destra – e perché il 90 per cento degli svedesi già guidava automobili con il volante a sinistra (quindi adatte a una guida a destra), cosa che peraltro spesso causava incidenti per problemi di visibilità sulle strade più strette.

Nel 1955 c’era stato un referendum sul cambiamento del senso di marcia e i cittadini svedesi si erano espressi in gran maggioranza (l’83 per cento) contro il passaggio alla guida a destra. Ciononostante il Riksdag, il Parlamento svedese, decise di procedere ugualmente con il cambio, anche per ragioni economiche: negli anni Sessanta la maggior parte delle automobili presenti in Svezia avevano ancora i vecchi fanali tondi, mentre nel resto dell’Europa stavano diventando comuni quelli più specifici, pensati per auto con volante a sinistra che viaggiavano tenendo la destra: per evitare che gli automobilisti svedesi dovessero sostenere un costo maggiore con future sostituzioni di fanali, si decise di effettuare il cambio del senso di circolazione.

Il 3 settembre 1967 era una domenica, e tutto il traffico non indispensabile fu bloccato su tutte le strade dall’una di notte alle 6 del mattino; in questo intervallo i veicoli autorizzati alla circolazione dovevano seguire regole speciali. Tutti i veicoli avevano l’ordine di fermarsi alle 4.50, fare attentamente cambio di corsia, e poi fermarsi di nuovo: ufficialmente il cambiamento del senso di marcia avvenne alle 5.00, quando i veicoli in giro poterono riprendere la circolazione. A Stoccolma e Malmö, le più grandi città della Svezia, il blocco del traffico durò di più, dalle 10 del 2 settembre alle 15 del 3, per consentire agli addetti ai lavori di modificare i segnali stradali in corrispondenza degli incroci.

Già nel periodo precedente al Dagen H erano stati installati nuovi cartelli stradali, ma erano stati coperti con della plastica nera per evitare di confondere le persone: il 3 settembre 1967 furono tutti scoperti, mentre le vecchie strisce sull’asfalto furono coperte con del nastro nero. Cambiò anche il colore delle strisce sulla strada: ai tempi della circolazione a sinistra erano gialle, mentre da allora sono bianche.

La parte più complessa del Dagen H fu quella che riguardava il trasporto pubblico. I tram di Stoccolma, Helsingborg e Malmö furono sostituiti con degli autobus con le porte per i passeggeri che si aprivano a destra: ne furono acquistati più di mille. Ottomila vecchi autobus furono modificati per avere porte anche a destra, oltre che a sinistra, altri – in particolare quelli di Göteborg e Malmö – furono venduti al Pakistan e al Kenya, due paesi in cui si guida a sinistra. Le modifiche agli autobus e alle rispettive fermate furono il costo principale per lo stato. La città di Göteborg decise di mantenere attivo il servizio di trasporto su tram e per questo dovette investire nel loro rifacimento; a Stoccolma si decise invece di eliminare quasi del tutto il servizio dei tram, sostituendoli con autobus e metropolitana. Per i treni e per le metropolitane non ci furono cambiamenti: tuttora hanno la circolazione a sinistra, sui binari.

Dal punto di vista della sicurezza stradale il Dagen H fu un relativo successo: il 3 settembre ci furono soltanto 157 piccoli incidenti, e di questi solo 32 provocarono feriti, alcuni gravi. Il 4 settembre ci furono 125 incidenti stradali (nessuno dei quali mortale), un numero inferiore alla media dei lunedì. Si pensa che la maggiore attenzione degli automobilisti dovuta alla preoccupazione per il cambiamento della circolazione sia stata una delle ragioni per il minor numero di incidenti. Il cambiamento migliorò inoltre la visibilità di chi guidava, cosa che ebbe un effetto positivo nella riduzione immediata degli incidenti. Nel 1969, però, il numero di incidenti stradali tornò ai livelli precedenti al Dagen H.

Per il Dagen H la televisione svedese indisse un concorso musicale per trovare una canzone “ufficiale” per la giornata: vinse “Håll dig till höger, Svensson” (che significa “Tieni la destra, Svensson”) dei Telstars. 

Nel 1968, per la precisione il 26 maggio, l’Islanda seguì l’esempio della Svezia nella giornata chiamata “H-dagurinn”. Il Dagen H italiano invece – sì, in un certo senso ce ne fu uno – avvenne molto tempo prima degli anni Sessanta: il 31 dicembre del 1923 il re firmò un decreto che stabiliva che ovunque si dovesse guidare tenendo la destra, mentre prima c’erano regole diverse da città a città e tra campagne e centri urbani.

martedì 2 settembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 2 settembre.

Il 2 settembre 1963 viene fondata da Bruce McLaren la omonima scuderia automobilistica.

La McLaren nasce ufficialmente nel 1963 come scuderia grazie al giovane pilota (26 anni) neozelandese Bruce McLaren. Il team debutta in F1 nel 1966 – con una monoposto guidata da Bruce – con un ritiro a Monte Carlo e conquista i primi punti grazie a un sesto posto in Gran Bretagna.

La McLaren inizia a farsi notare nelle corse grazie ai cinque successi consecutivi nel campionato Can-Am tra il 1967 e il 1971 (due con Bruce, due con il neozelandese Denny Hulme e uno con lo statunitense Peter Revson) mentre le prime soddisfazioni in F1 arrivano nel 1968: primo podio (Bruce secondo in Spagna), prima vittoria (sempre con Bruce in Belgio) e altri due successi con Hulme in Italia e in Canada.

Nel 1969 Hulme conquista il GP del Messico e la McLaren realizza la sua prima auto stradale: la M6GT, derivata dalla M6A dominatrice due anni prima del campionato Can-Am e dotata di un motore 5.7 V8 Chevrolet.

La vettura viene realizzata in un solo esemplare e il progetto di costruirne 250 si interrompe in seguito alla morte di Bruce McLaren, scomparso il 2 giugno 1970 sul circuito di Goodwood (Regno Unito) durante un test.

La McLaren torna a vincere in F1 nel 1972 grazie a Hulme (primo in Sudafrica) e nello stesso anno lo statunitense Mark Donohue si aggiudica la 500 Miglia di Indianapolis. Altre tre vittorie nel Circus arrivano nel 1973 grazie a Revson (Gran Bretagna e Canada) e a Hulme (Svezia).

Il 1974 è l’anno in cui la McLaren si aggiudica per la prima volta il Mondiale F1: il brasiliano Emerson Fittipaldi si laurea campione del mondo tra i piloti con tre successi (Brasile, Belgio e Canada) e Hulme contribuisce al primo titolo Costruttori vincendo in Argentina. Nello stesso anno arriva anche il secondo trionfo a Indianapolis grazie allo statunitense Johnny Rutherford (che bissa il successo nel 1976).

Il britannico James Hunt conquista il Mondiale F1 1976 (una stagione raccontata nel film “Rush”) grazie a sei vittorie: Spagna, Francia, Germania, Olanda, Canada e USA Est.

La svolta per la McLaren arriva nel 1981 con l’ingresso di Ron Dennis come team principal: nasce la MP4/1 – la prima monoposto di F1 di sempre con telaio in fibra di carbonio – e la scuderia torna a vincere dopo quattro anni di digiuno grazie al britannico John Watson primo in Gran Bretagna.

Nel 1982 viene ingaggiato l’austriaco Niki Lauda (due GP vinti – USA Ovest e Gran Bretagna – che si aggiungono ai due conquistati da Watson: Belgio e USA Est). Watson sale sul gradino più alto del podio anche nel GP degli USA Est nel 1983.

Lauda diventa campione del mondo F1 nel 1984 con cinque vittorie (Sudafrica, Francia, Gran Bretagna, Austria e Italia) con mezzo punto di vantaggio sul compagno francese Alain Prost (sette volte primo: Brasile, San Marino, Monte Carlo, Germania, Olanda, Europa e Portogallo). I due regalano alla McLaren, dopo dieci anni, il titolo Costruttori.

Nel 1985 arriva un’altra doppietta iridata, questa volta con Prost che si laurea campione del mondo con cinque successi (Brasile, Monte Carlo, Gran Bretagna, Austria e Italia) e con Lauda vincitore in Olanda mentre l’anno seguente Prost è ancora una volta campione iridato con quattro trionfi (San Marino, Monte Carlo, Austria e Australia).

Tra il 1988 e il 1991 la McLaren domina il Mondiale F1 con otto Mondiali (quattro Piloti e quattro Costruttori). Nel 1988 la scuderia inglese ottiene 15 successi in 16 gare – otto con il campione del mondo, il brasiliano Ayrton Senna (San Marino, Canada, USA, Gran Bretagna, Germania, Ungheria, Belgio e Giappone) e sette con Prost (Brasile, Monte Carlo, Messico, Francia, Portogallo, Spagna e Australia) – mentre l’anno successivo si deve “accontentare” di dieci vittorie: quattro con l’iridato Prost (USA, Francia, Gran Bretagna e Italia) e sei con Senna (San Marino, Monte Carlo, Messico, Germania, Belgio e Spagna).

Nel 1990 Senna bissa il titolo iridato (vincitore di sei Gran Premi: USA, Monte Carlo, Canada, Germania, Belgio e Italia) e si ripete nel 1991 con sette successi (USA, Brasile, San Marino, Monte Carlo, Ungheria, Belgio e Australia, più il trionfo dell’austriaco Gerhard Berger in Giappone).

Nel 1992 nasce la McLaren F1, la vettura stradale più famosa di sempre della Casa britannica ma soprattutto una delle auto più evolute del XX secolo. Sviluppata da Gordon Murray (13 Mondiali Formula 1 come progettista per Brabham e Williams) e prodotta in 106 esemplari (di cui 72 destinati a uso stradale), è la prima automobile di sempre con scocca in fibra di carbonio.

Motore 6.1 V12 aspirato di origine BMW da 627 CV (680 per le versioni LM), abitacolo con tre sedili (e quello centrale destinato al guidatore) e tre bagagliai (uno anteriore e due laterali ricavati nella zona davanti alle ruote posteriori): queste le caratteristiche principali della supercar inglese, capace di aggiudicarsi nel 1995 (con la variante GTR guidata dal francese Yannick Dalmas, dal finlandese JJ Lehto e dal giapponese Masanori Sekiya) nientepopodimeno che la 24 Ore di Le Mans.

La McLaren torna a vincere dei GP nel 1997 dopo quattro anni di digiuno grazie al britannico David Coulthard (primo in Australia e in Italia) e al finlandese Mika Häkkinen (Europa). Il driver scandinavo si laurea campione del mondo l’anno seguente con otto successi (Australia, Brasile, Spagna, Monte Carlo, Austria, Germania, Lussemburgo e Giappone) e regala alla scuderia britannica l’ultimo titolo Costruttori della sua storia grazie anche alla prima piazza rimediata da Coulthard a San Marino.

Häkkinen porta a casa anche il Mondiale 1999 salendo sul gradino più alto del podio in cinque occasioni: Brasile, Spagna, Canada, Ungheria e Giappone.

Il terzo millennio della McLaren si apre con lo sviluppo della supercar Mercedes SLR, lanciata nel 2003. Nel 2008 il Mondiale F1 viene conquistato dal team britannico: merito dell’inglese Lewis Hamilton, campione del mondo Piloti con cinque vittorie (Australia, Monte Carlo, Gran Bretagna, Germania e Cina). L’anno seguente Ron Dennis lascia il Circus per concentrarsi sulle auto di serie.

Gli anni ’10 del XX secolo vedono la McLaren impegnata più nella produzione di serie che in F1 (l’ultimo GP vinto risale al 2012 con il britannico Jenson Button in Brasile). Ma dal 2024 la vettura di Formula Uno torna alla ribalta conquistando il titolo costruttori, e al momento domina senza rivali il Mondiale 2025 con Piastri e Norris.

Nel 2011 vede la luce la MP4-12C (la prima McLaren stradale di sempre progettata, disegnata e costruita in casa) dotata di un motore 3.8 V8 biturbo da 600 CV mentre risale al 2013 il lancio della P1, una supercar ibrida con tecnologia derivata dalla Formula 1 prodotta in 375 esemplari e in grado di generare una potenza totale di 916 CV.

L’ultima sportiva di rilievo realizzata dal brand inglese è la Senna del 2018: destinata agli amanti del piacere di guida e prodotta in 500 esemplari, monta un motore 4.0 V8 biturbo da 800 CV.

lunedì 1 settembre 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il primo settembre.

Il primo settembre 100 d. C. Gaius Caecilius Secundus (noto oggi come Plinio il Giovane) – nato a Como nel 61 o 62 e adottato formalmente, per via testamentaria, da Gaio Plinio Secondo – pronuncia in Senato, alla presenza dell’imperatore, l’orazione di ringraziamento per l’assunzione della carica di console. Era una pratica consolidata, probabilmente, fin dall’età repubblicana: gratiarum actio solevano chiamarla i Romani. L’atto di ringraziamento dei consoli, appunto, all’entrata in carica: rivolto precedentemente agli dei, durante l’impero esso si trasforma in un vero e proprio omaggio all’imperatore.

L’idea preziosa di Plinio il Giovane è quella di riprendere in mano l’orazione, un po’ di tempo dopo, rielaborarla, limarla e ampliarla in vista di una pubblicazione.

Nasce così il Panegirico nei confronti dell’imperatore Traiano, che mantiene inalterato uno straordinario interesse sia storico che letterario: da una parte, infatti, è l’unico esempio rimasto dell’oratoria latina nei due secoli successivi alla morte di Cicerone; dall’altra è una fonte sui primi anni del principato di Traiano (anche se in questo caso, è giusto e bene ricordarlo, non possiamo giurare sulla completa attendibilità di un’opera che vuole essere soprattutto encomio e lode).

Il tema centrale del discorso, successivamente divenuto opera scritta, è il rapporto tra imperatore e senatori. È questo ciò che sembra stare particolarmente a cuore al neo-console, che esalta il principato di un sovrano illuminato che, prima di tutto, rispetta l’istituzione Senato e le tradizioni senatorie. E questo non può che essere garanzia di quel valore repubblicano sempre rimpianto a Roma dopo l’instaurazione dell’Impero: la libertas. Plinio esalta la generosità e l’affabilità dell’imperatore, e si compiace del ritrovato clima di “benessere libertino” che si respira a Roma. Oltre a tessere le lodi del regnante, l’autore dell’orazione lo esorta a perseverare in uno stile di vita virtuoso:

Persta, Caesar, in ista ratione propositi: “Persevera, Cesare, in questo tuo metodo di vita”. 

È stato notato che era la prima volta che in un panegirico l’oggetto dell’elogio venisse invitato, persuaso più che lodato.

Leitmotiv dell’opera è poi il confronto tra il regno di Traiano e di Domiziano, suo predecessore, tiranno crudele e inviso al popolo. Costante è il richiamo al precedente imperatore, accusato di aver troncato il rapporto con i senatori e di aver fondato il regno della paura e del pericolo.

Per colpire uditorio e lettori, Plinio si affida soprattutto alla figura retorica dell’antitesi (celebre è il passo Non hai vinto per celebrare il trionfo, ma lo celebri perché hai vinto) all’interno di una struttura generale che per alcuni critici rappresenta un esempio di oratoria “asiana”, mentre altri mettono in luce una sostanziale coerenza con l’insegnamento del grande Quintiliano.