Cerca nel web

mercoledì 9 maggio 2012

Silvia #Avallone #Acciaio #sabato sera #cocaina #droga #discoteca #fabbrica




Edo Cei, Macchina per misurare l’angoscia


L'altro si chetò. Conosceva il suo amico, sapeva che con quel tono di voce non era il caso di insistere. Estrasse dalla tasca una dose, staccò dal vetro lo specchietto retrovisore e cominciò le operazioni rituali del sabato sera in silenzio religioso.
Alessio non lo degnava di uno sguardo. Era affondato nel sedile e aveva preso a fissare il mare artificiale di luci e fuochi viola attraverso il parabrezza. Di notte, vista dall'alto, la fabbrica era un'altra cosa. E lui adesso ci precipitava dentro con lo sguardo, indifferente e muto. Era stanco, e anche incazzato.

Cristiano si chinò sullo specchio con una banconota da dieci arrotolata nel naso. Prima di tirare realizzò che aveva investito tutto il suo stipendio di maggio in cocaina, ma questa volta gli sarebbe andata bene: doveva andargli bene, per forza. Era stato un azzardo, è vero, un grosso azzardo. Ma era talmente buona che almeno seicentomila lire di cresta ce le avrebbe fatte.

Aveva un terribile bisogno di musica adesso, Cristiano, a palla nelle orecchie, nella testa. Ma non osò chiederlo ad Alessio. Quando sollevò la testa e tirò di nuovo su con il naso, vide con la coda dell'occhio il suo amico pietrificato, con gli occhi sbarrati e fissi su un punto astratto. Quel punto, in realtà, era la torre dell'altoforno.

Alessio non si era voltato, non era scattato, famelico, sulla sua striscia di coca. Se ne stava là, assente, senza muovere un muscolo. Di sicuro gli era successo qualcosa. Di sicuro era molto incazzato. Ma sarebbe stato assurdo chiedergli cosa c'è.

Non era il tipo da confidenze.

Cristiano gli passò lo specchietto, lui lo afferrò, ma non si mosse.

È pieno di gatti. A questo pensava Alessio.

Nessuno fuori lo sa, ma sotto, in certi capannoni, specialmente alle mense, ci sono comunità di gatti enormi, centinaia di gatti. Non hanno mai visto la luce del sole, non hanno idea di cosa sia un filo d'erba. Sono delle specie di mutanti, senza coda, con un occhio solo, tutti uguali. È assurdo.

Questa cosa dei gatti lo aveva sempre colpito. Gli sembrava incredibile che nel ferro, nella ghisa, potessero vivere i gatti. Che si ammalavano, poveracci. Ce n'erano certi tutti rognosi, senza il pelo, che facevano quasi spavento. A guardarli nel muso, parevano umani. E c'era qualcuno, Alessio compreso, che gli portava anche da mangiare.

A Cristiano invece non gliene fregava niente: né dei gatti né della Lucchini che vedeva ogni santo giorno. A lui, semplicemente, giravano le palle. La droga cominciava a fare effetto e aveva un solo pensiero in testa: la bionda in perizoma sul cartellone pubblicitario all'entrata di Piombino.

Voleva andare al Gilda stasera. Aveva voglia di concludere subito, all'istante, con la bionda mozzafiato a pagamento, e non sbattersi dietro a una ragazzina viziata sulla pista del Tartana. Non te la danno, quelle stronze. Se la stratirano, non si lasciano neanche baciare. Aveva voglia di toccare un paio di tette enormi. Pagando di più, nel privé, sarebbe andato fino in fondo. E quest'altro qua, 'sto pazzo, chissà a cosa cazzo pensa.

In realtà Alessio stava lottando per non pensare. Ma quella scena maledetta gli ritornava nella testa come un messaggio registrato, riavviato all'infinito.

Quel pomeriggio, verso le quattro, uno di quei gatti del cazzo, uno piccolo, gli era finito sotto il treno siluro, e lui non aveva potuto farci niente. Lo aveva spiaccicato in un grumo di sangue e pelo. Era sceso e aveva cominciato a prendere tutto a calci. Sono scemo, pensava adesso, sono un deficiente. Perché poi, giustamente, il caporeparto lo aveva ripreso. Era corso verso di lui, urlandogli: «Che cazzo fai? Testa di cazzo!». E lui, d'istinto, al caporeparto gli aveva ficcato un pugno in piena faccia.
Sono un cretino, continuava a dirsi. Ho perso la testa per un gatto. Ma quel gatto gli ricordava troppo un suo amico, schiacciato sotto un rullo due anni prima. Lui, l'amico sfracellato sotto i suoi occhi, non se lo voleva ricordare. Non voleva ricordare la faccia dell'uomo che era sul treno e non aveva potuto fermarlo.

Adesso il gattino, il suo amico, la faccia sconvolta dell'uomo sul vagone, erano una cosa sola dentro la sua testa.

Cristiano era sceso a pisciare tra i rovi. E lui ancora non si decideva a tirare. Fissava il cuore: la torre illuminata dove fondono la ghisa e l'acciaio, sperava che non lo licenziassero mai, che non gli capitasse mai, guidando un treno, di radere al suolo una persona.

Quello che realmente, da fuori, uno non potrà mai immaginare è l'interno. Uno lo sa, lo dà per scontato, che dentro la Lucchini, nelle viscere, si muove la carne di gambe, braccia, teste umane. Lo sa, eppure non riuscirà mai a misurare questa mastodontica fatica. Uno da fuori non può capire cosa significa trasformare tonnellate e tonnellate di materia. La materia più dura che esiste. E non potrà immaginare nemmeno la quantità spropositata di calendari sexy e poster di donne nude appesi da tutte le parti.

Avevano appiccicato una tettona anche sulla motopala.

Di colpo si chinò sulla striscia di coca e l'aspirò a piene narici. Cristiano rientrò in macchina e lo guardò come dire: allora, che te ne pare?

«Cri» fece Alessio, «tu l'hai mai vista la volpe in cokeria?»

Cristiano inarcò le sopracciglia. Lui lavorava per una ditta esterna, ai margini, con l'escavatore. Portava via l'inerte da riciclare.

«No. Perché? C'è pure una volpe?» Rise.

«Renditi conto...» Rise anche Alessio. «Una volpe nella fossa! L'ho vista spesso, ma esce solo alle sei del mattino.»

L'hanno sempre chiamata così la cokeria: la fossa. Rende parecchio l'idea. E questo nome è una delle poche cose che si è tramandata di generazione in generazione.

«Ti sei ripreso?» azzardò Cristiano.

«Oggi ho fatto a botte col capo.»

«Ah, però!»

C'era anche un tabellone con una lavagna e un grafico degli infortuni, ma non era mai aggiornato. La gente ci scarabocchiava sopra, ci faceva le scritte a scazzo: tipo che qualcuno era morto, e invece non lo era. Ci scrivevano: sono morto, i rulli mi hanno triturato le palle. E ci ridevano un sacco tutti.

«Vista da qui è quasi bella.»

«Cosa?»

Alessio indicò l'oceano di luci.

«Un bijou!» fece Cristiano.

Alle cinque sarebbe uscito dalla discoteca, e alle sei sarebbe rientrato direttamente in Lucchini.

«Allora Tartana? Niente Gilda, sei sicuro?»

«Che palle, Cri, ti ho detto di no!»

Una luce rossastra invase il cielo nero per qualche minuto, come un'apocalisse. Era la colata.

«Secondo te ha senso?»

«Cosa?» Cristiano smise di giocherellare con il display del cellulare e guardò l'amico.

«Lavorare tutta la vita là dentro.»

«Se ci pagassero cinque, sei milioni al mese, sì. Ne avrebbe un sacco di senso!»

Cristiano ormai era su di giri. Scalpitava, voleva muoversi, andare incontro al suo sabato sera, al suo momento di gloria.

Alessio se ne accorse e mise in moto. Cominciava a fare effetto anche a lui la coca. Accese lo stereo. Ricacciò l'immagine del grumo di sangue, di pelo, l'immagine del suo amico spiaccicato, e il viso incredulo dell'uomo che lo aveva ucciso e che era suo zio.

Si scaraventò giù dalla Tolla. No, non lo avrebbero licenziato mai. Giù verso l'Aurelia, insieme a migliaia di altre auto in corsa nel sabato sera, verso il Tartana preso d'assalto dalle tedesche, verso il seno caldo e bianco di una ragazza, di una ragazza qualsiasi, dove appoggiarsi e terminare la corsa.

Alessio guidava come un pazzo, e Cristiano muoveva la testa a ritmo di tunz.

Sorpassava le auto, pensava alle ragazze. Quelle che venivano a trovare i mariti al lavoro, con i bambini piccoli in braccio. Restavano al di là della rete, indicavano ai figli i loro papà sporchi neri di ghisa. Quei bambini andavano pazzi per gli escavatori e le motopale. Battevano le mani come al circo.

Anche lui avrebbe applaudito, se avesse avuto un padre su quelle motopale, ne sarebbe stato orgoglioso. E le ragazze con i bambini in braccio, magari non erano belle come quelle in discoteca, però avevano un sorriso, un viso struccato, pallido, un qualcosa che era come un incantesimo. Elena, se non lo avesse lasciato, se non fosse andata all'università, sarebbe andata anche lei a trovarlo, di là dalla rete, e lui avrebbe fatto vedere al loro bambino com'è cattivo un escavatore.

Stringeva forte nel pugno il volante. Quel pugno che gli veniva più facile di qualsiasi parola.

Un seno bianco dove appoggiare la testa. Questo sì, aveva un senso.



(Silvia Avallone, Acciaio, Milano, Rizzoli, 2010, p. 84 ss.)

Nessun commento:

Posta un commento

Cerca nel blog

Archivio blog