Cerca nel web

lunedì 14 maggio 2012

#Lou Reed #Rock and Roll, testi commentati Paolo #Bassotti #Biografia #citazione





http://joparablog.blogspot.it/2012/03/dia-perfecto-cumpleanos-de-lou-reed.html
 


















                                                                  
Ci sono dischi che cambiano tutto. Classici come THE FREEWHEELINBOB DYLAN, PET SOUNDS, ARE YOU EXPERIENCED?, REVOLVER o NEVER MIND THE BOLLOCKS, album in grado di trasformare per sempre la musica popolare. Il debutto dei Velvet Underground appartiene a questa ristretta élite, malgrado all’epoca della pubblicazione sia stato ignorato dal pubblico. Nelle sue undici tracce risuonano le parole d’ordine di infinite rivoluzioni a venire, innovazioni troppo radicali per essere immediatamente comprese, ma allo stesso tempo troppo forti per essere cancellate dall’insuccesso commerciale. Le mille idee di THE VELVET UNDERGROUND AND NICO avrebbero trionfato negli anni seguenti, assumendo innumerevoli forme. Dal glam al punk, dalla new wave al dark, dal noise all’alternative, i Velvet Underground sono stati, e continuano a essere, un’irrinunciabile fonte di ispirazione per chiunque abbia mai visto il rock come una forma d’arte. Nell’aprile del 1966, Lou Reed aveva poco più di ventiquattro anni quando entrò col resto della band negli Scepter Studios di New York, per cominciare a registrare quel primo storico al bum. Malgrado la giovane età, non era né un principiante del mondo della musica né un ragazzino spaventato. La sua vita era stata molto intensa, contraddistinta da atteggiamenti di costante ribellione verso qualunque forma di controllo. A diciassette anni la sua esistenza venne sconvolta dalle devastanti sedute di elettroshock che i suoi perbenisti genitori gli avevano  imposto per provare a curare le sue tendenze omosessuali.

Nel periodo del college, a Syracuse, provò droghe di ogni tipo e fece di tutto per staccarsi dalla massa conformista degli altri studenti, che lo consideravano un tipo poco raccomandabile, un solitario coi capelli lunghi e i vestiti trasandati. Mentre studiava per laurearsi in arte, coltivò le sue due grandi passioni. La prima era la musica: fece il dj della radio del campus (facendosi cacciare per eccesso di free jazz) e suonò in molti gruppi surf e rock’n’roll di poco conto. La seconda era la letteratura, che approfondì grazie all’amicizia con uno degli insegnanti, Delmore Schwartz, scrittore dall’enorme talento e dalla mente fragile. Dopo l’università, trovò lavoro come autore e musicista alla Pickwick, un’etichetta che produceva album dozzinali con imitazioni degli hit del momento, accreditati a gruppi fittizi come i Roughnecks o i Beachnuts. Lou si abituò così a scrivere canzoni in modo rapido e intuitivo, e a mettere in musica qualunque cosa gli venisse richiesta o gli passasse per la mente. Il più folle dei brani realizzati per la Pickwick, un comico ballo chiamato The Ostrich, diventò anche un piccolo successo locale, al punto da richiedere un gruppo di musicisti in carne e ossa per promuoverlo: i Primitives. Grazie a questa band improvvisata, Lou entrò in contatto con John Cale, un carismatico e colto musicista gallese, che suonava la viola e frequentava i migliori compositori d’avanguardia. Reed si proponeva – e avrebbe continuato a farlo per tutta la vita – di scrivere musica rock profonda e intransigente come la migliore letteratura, capace di toccare e sconvolgere il pubblico. Non gli interessava assecondare i ragazzini distratti, voleva rivolgersi a un pubblico adulto, o ai giovani svegli come lui. Teach The Gifted Children, avrebbe detto qualche anno dopo. Cale, curioso, iconoclasta, e desideroso di portare nel pop le più ardite sperimentazioni delle accademie, si rivelò per Lou il complice perfetto. La formazione dei Velvet Underground venne completata dal valido chitarrista Sterling Morrison, un ex compagno di Reed a Syracuse, e dalla batterista Maureen Tucker, regina dei ritmi spartani e martellanti.

La proposta anticonvenzionale dei quattro conquistò Andy Warhol, che si propose come loro manager e li inserì nell’Exploding Plastic Inevitable, lo spettacolo della comunità di artisti che ruotava attorno alla sua Factory. Quell’ambiente era l’ideale per alimentare ulteriormente la creatività di Reed: un mondo frenetico dominato da sesso e droga, dove sogni e follia si trasformavano in arte e cultura pop. Warhol coinvolse il gruppo – nel bene e nel male – nelle imprese visionarie e sconclusionate della Factory, concedendogli sempre la totale libertà creativa, a parte le pressioni per fare cantare la sua superstar favorita del momento, la tedesca Nico. Disegnò per loro anche l’iconica copertina con la banana (“sbuccia piano e vedrai”) di THE VELVET UNDERGROUND AND NICO. Quel che contava di più erano però le canzoni custodite da quell’inconfondibile immagine. La musica dell’album stupisce senza sosta, in un’alternanza inaudita di melodie dolcissime e assalti sonori a testa bassa, tra bordoni di viola e sfuriate di chitarra. Ogni traccia suggerisce nuovi mondi di possibilità. E insieme alla musica, le parole. Lou Reed racconta di tossici e spacciatori, di paranoia e sadomasochismo, di sesso da poco e amore spietato. All’uscita del disco – marzo 1967, un minuto prima dell’Estate dell’Amore – dev’essere sembrato un pazzo nichilista proveniente da un altro pianeta. Vuole raccontare ciò che lo circonda davvero, le cose che vive e che prova, la realtà in bianco e nero nascosta dal coloratissimo trip degli anni Sessanta. In un’intervista del 1989 rilasciata a David Fricke di «Rolling Stone», ha dichiarato a tale proposito: “Tossicodipendenza e deviazioni sessuali erano tabù solo nella musica, tienilo bene presente. Nel cinema, nel teatro, nei libri c’era già tutto. Quando leggi Ginsberg, leggi Burroughs, leggi Hubert Selby Jr, decidi di elevare la tua roba a un livello degno di considerazione, non puoi più paragonarti agli altri dischi. Incominci a osservare Brecht e Weill”.

Reed innesta le sue ambizioni letterarie sulle proprie passioni musicali. Con lo sguardo si rivolge alla grande narrativa, da Poe a Chandler, passando per Genet e T.S. Eliot, ma col cuore rimane comunque legato al doo-wop, al rhythm and blues, e soprattutto al potere primordiale del rock’n’roll, eternamente devoto all’imbattibile combinazione di due chitarre, basso e batteria. L’esempio più estremo di questa duplice natura è The Gift, dal secondo album dei Velvet, dove in uno dei due canali stereo si sente la lettura di un racconto scritto all’università, mentre nell’altro imperversa il grandioso rumore della band. Se Reed si fosse limitato a tenere separate le due cose, incidendo dei dischi di spoken word con un accompagnamento rock, non avrebbe di certo avuto un simile impatto. Negli anni il suo ego sconfinato l’ha portato a provare un po’ di tutto, senza mai preoccuparsi del responso del pubblico. Ha esposto le proprie foto, ha recitato, è stato testimonial pubblicitario, e si è persino messo nei panni della figura che più odia al mondo: l’intervistatore.

Non ha però mai pubblicato un romanzo o una raccolta di racconti, e non è un caso. Si è sempre visto come un grande scrittore, ma solo a patto che ci fosse una chitarra elettrica nei paraggi. L’ha chiarito lui stesso ai tempi di THE BLUE MASK: “I miei versi sono piacevoli da leggere, se proprio mi devo sbilanciare. Ma di certo non sono poesia. Le mie parole funzionano molto meglio quando vengono cantate con un accompagnamento musicale”. Grazie al suo modo assolutamente unico di combinare letteratura e musica, l’approccio di Lou Reed alla scrittura dei testi ha segnato la storia del rock. Di fatto si è rivolto a chiunque sarebbe venuto dopo, dicendo: “Vediamo che sai fare?”. Bella sfida, visto che album dopo album ha dimostrato che con una canzone si può parlare veramente di tutto.

Per quanto sia riuscito da subito a essere all’altezza delle proprie ambizioni, nel corso degli anni non ha mai smesso di essere interessante e di sorprendere, in una carriera la cui unica costante è stata il cambiamento. Ha presentato alla stampa praticamente ogni suo nuovo lavoro dicendo: “Questo è il mio disco migliore. Stavolta sono io al cento per cento”. E ogni volta in cuor suo era sincero, ogni volta era davvero se stesso al cento per cento, tanto nei trionfi – imprevisti, cercati, rifiutati – quanto nelle rovinose cadute. Incurante delle aspettative di chiunque, è riuscito nell’impresa di pubblicare il disco più controverso dell’anno sia nel 1973, con BERLIN, sia nel 1975, con METAL MACHINE MUSIC. E nel 2011, quando tutti se lo immaginavano tranquillo a casa a godersi la pensione, l’ha fatto ancora, con LULU. Ha lasciato che i successi commerciali, come Walk On The Wild Side, NEW YORK o Perfect Day, gli scivolassero addosso, curiosi effetti collaterali del suo mestiere di osservatore.

Raccontare i testi più importanti di Lou Reed significa ricostruir la storia di uno sguardo. I suoi occhi hanno catturato la fantasmagoria della Factory e il fascino pericoloso dei bassifondi, hanno osato guardare la faccia più spaventosa dell’amore e del desiderio, hanno smascherato la violenza della famiglia e dell’America benpensante, per arrivare poi, ormai carichi di esperienza, a contemplare le ingiustizie sociali e gli impenetrabili misteri della morte. Nelle sue canzoni ha saputo essere tanto crudele quanto compassionevole, scegliendo sempre il registro ideale per esporre le proprie emozioni o per ricorrere al suo inconfondibile umorismo nero.

Instancabile narratore, Reed ha raccontato le vite di tantissimi personaggi, reali o verosimili: Teenage Mary, Waldo Jeffers, Miss Rayon, Lady Godiva, Pearly Mae, Lorraine, Waltzing Matilda, Andy Warhol... Entrando nel suo universo incontrerete Candy Darling e Holly Woodlawn, che vi invitano a fare un giro nel lato selvaggio, Harry, che si è fatto a pezzi la faccia per non assomigliare ai suoi genitori, o il piccolo Pedro, che sfogliando un libro di magia sogna di scappare dalla povertà. Avete mai sentito parlare di Caroline, quella ragazza che tutti chiamano Alaska? Naturalmente farete anche la conoscenza dei due protagonisti sempre presenti in queste canzoni. Si tratta della città di New York – maestosa, inesauribile, impossibile da non amare anche mentre sprofonda nell’orrore – e dell’autore stesso, che inserisce in ogni quadro il proprio ritratto, anche a costo di “crescere in pubblico coi pantaloni calati”. Reed ha definito la sequenza dei suoi album a volte come un tentativo di scrivere il Grande Romanzo Americano, e in altre occasioni come una sorta di autobiografia. Sono vere entrambe le affermazioni. Nel suo songbook ritroviamo la vita di un artista unico, insieme a un’indagine acuta e profonda dell’animo umano e della società americana. Ma c’è di più. Che si tratti di fiction o di memorie personali, il segreto di una grande opera è sapere raccontare anche la storia dei suoi lettori. Queste canzoni sono una continua rivelazione perché dentro ci sono anche le nostre stesse facce, incessantemente smascherate e poste davanti al più spietato degli specchi.


(Paolo Bassotti, Lou Reed. Rock and Roll. Testi commentati, Introduzione, Roma, Lit Edizioni, 2012, pp. 12-16






1 commento:

Cerca nel blog

Archivio blog