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lunedì 5 marzo 2012

#l'assessore ha le gambe lunghe #citazioni #Tullio Avoledo #Lo stato dell'unione

Tutti gli americani di una certa età dicono di ricordarsi dov'erano e cosa facevano quando Kennedy è stato assassinato a Dallas.
Immagino che lo stesso valga per l'11 settembre del 2001, o per il 10 ottobre del 2005.
Per conto mio, quando l'assessore regionale alla cultura Enrica Martinelli, e con lei i Celti, e con loro tutti i guai che ne seguirono, quando tutto questo mi capitò in casa un martedì sera verso la fine di aprile, io, nel mio piccolo, ricordo benissimo che la situazione era questa: Gaia e io stavamo cambiando l'acqua alla vasca del pesce rosso, mia moglie lavorava alla sua tesi al computer e la badante polacca era da qualche parte in giardino col piccolo Matteo.
Ricordo che erano le sette e un quarto. Si può dire le sette e un quarto in punto?
Ricordo che il campanello del portoncino d'ingresso suonò tre volte.
Già al primo squillo Gaia aveva mollato la presa sul pesce rosso Ignàtz, che ricadde nell'acqua sporca con uno scodinzolio indignato e un gran vibrare di pinnette.
«Vado io» gridò mia figlia, attraversando il salotto con l'effetto devastante tipico di una bambina di sei anni. Carte e pastelli, pezzi multicolori di Lego, gambe di bambola finirono macinati sotto i piedini veloci come al passaggio di un ciclone. Gaia si arrampicò sullo sgabello che teneva sempre vicino al citofono per emergenze del genere.
«E una signora, papi» disse, e nel momento in cui lo diceva mi sembrò di sentire le antenne di mia moglie puntare nella mia direzione, dallo studio. E un senso ancestrale, forse un residuo dei tempi in cui i suoi antenati, e immagino anche i miei, cacciavano per sopravvivere.
Mi avvicino al videocitofono, una delle tante innovazioni condominiali alle quali mi sono invano opposto nel corso degli anni.
L'immagine si distingue a malapena. La donna è troppo vicina alla lente: la faccia è distorta, sembra abbia un naso enorme. Gli occhi a palla ricordano quelli di Ignàtz, che in questo momento sta sicuramente meditando un'azione legale per abbandono di pesce rosso.
«Chi è?» domando a voce volutamente più alta del dovuto, per farmi sentire anche da mia moglie.
«Sono Enrica Martinelli. Si ricorda? Ci siamo parlati al telefono l'altro ieri».
Schiaccio l'interruttore del portone. «Settimo piano» dico.
Tolgo il grembiule plastificato e i guanti di gomma. Mi muovo a passi felpati verso la porta d'ingresso, ma mia moglie mi intercetta a metà strada.
«Chi è?».
«Roba di lavoro».
«Fra un quarto d'ora si cena».
«Lo so. Ho visto il microonde».
Riprendo a muovermi verso la porta.
«Devi proprio portarti il lavoro a casa?» mi grida dietro Marta.
«Se voglio mantenere il Circo Mendini è il minimo che possa fare».
Gaia è al mio fianco come una guardia d'onore, quando mi piazzo sulla soglia per accogliere Sua Maestà l'assessore regionale alla cultura Enrica Martinelli, vale a dire la donna che secondo le mie aspettative dovrebbe fornire a me e alla mia famiglia il pane e il companatico per i prossimi mesi, tenendo lontani gli spettri della miseria e degli ufficiali giudiziari.
L'assessore ha le gambe lunghe. È stata questa, immagino, la prima cosa che mia moglie ha notato.
Appena messo piede in casa mia, neanche il tempo di stringerci la mano, l'assessore si è chinata sulla mia bambina, sorridendo. La gonna corta le ha scoperto ancora un po' di gamba da ex atleta olimpica.
«Guarda che bella bimba. Ma proprio bella. Come ti chiami, piccola?».
«Gaia».
«Come la dea della terra. Bravi».
Gaia la guarda perplessa.
«Veramente il nome non viene da lì» preciso.
La Martinelli stringe gli occhi a fessura. «Ah no? E da cosa deriva?».
«È una lunga storia» taglia corto Marta, piazzandosi al mio fianco.
Le due donne si stringono la mano con una solennità da tavolo di pace, ma anche con tutta la circospezione di chi si chiede se riavrà indietro la mano, dopo. Marta è tutt'altro che piccola, fra parentesi è leggermente più alta di me, ma l'assessore la supera di tutta la testa. Entrambi i miei bambini sono, al momento, più bassi della media. Immagino che la colpa sia mia. A giudicare dai ritratti e dalle vecchie foto in bianco e nero, le donne nella famiglia di Marta hanno instaurato una lunga tradizione nello scegliersi mariti più piccoli.
Quando Gaia sente odore di tempesta, di solito si stringe a me e, anche stavolta, non fa eccezione. Si aggrappa alla mia gamba, e in quel gesto è come se abdicasse (anche se solo temporaneamente) a quel po' d'indipendenza e sicurezza faticosamente raggiunte in sei anni. Le appoggio la mano sulla spalla.
«Mi scuso per l'ora e perché non ho chiamato» fa la Martinelli, sorridendo al massimo di apertura possibile del diaframma. Peccato che con mia moglie questo genere di carinerie faccia semmai l'effetto contrario.
«Ma si figuri» dico, più o meno a nome di tutti. «Si accomodi».

(Tullio Avoledo, "Lo stato dell'unione", ed. Sironi, 2005)
 

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